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Dal silenzio del trágos alla Zeit-Wort della narrazione

Vorremmo innanzitutto constatare la ripresa di una tematica fondamentale nel confronto tra cultura filosofica Occidentale e "saggezza" ebraica, che ci sembra il perno attorno al quale l'Autore dell'articolo riesce a far muovere categorie e figure della filosofia "narrante" di Rosenzweig. Le due figure -- quella dell'"oltre" e quella del "mythos" -- ben descrivono l'orizzonte "errante" del Nuovo Pensiero. Ora, ci sembra di capire che, per l'Autore dell'articolo, la prospettiva escatologica di Rosenzweig si fondi a partire da una sorta di unitarietà dell'immaginario mitico pre-filosofico che ne rafforza e dirige l'azione. Lo sbocco dell'opera "sulla vita", infatti, richiama in cause esperienze fenomenologiche anziché logiche, esperienziali, anziché tematiche, esistenziali anzicché ontologiche. Eppure ci è parso di capire che, in questo orizzonte, il tema del "silenzio" come tessuto e fondamento (forse un Grund? o un Undgrund?) della stessa parola filosofica, conferisca alla "tentazione" mistica di cui Bonagiuso parla nei paragrafi finali del suo lungo saggio, una peculiarità. Il mistico, infatti, solitamente sceglie di ritirarsi dal mondo e dal tempo delle parole del mondo: mentre la Stella, approdando "ins Leben" (sulla vita) non può che eludere ogni mistica astrattiva. Ma la provocazione della lettura di Bonagiuso ci ha stimolati a discutere il tema. A intravvedere questa "tentazione" come termine di confronto, come fusione di orizzonti. Allora, ci è parso di capire che la filosofia può e deve aggiungere domande al domandare che le è tipico. "Domande ulteriori" come vengono definite nel saggio. Ulteriori, crediamo, rispetto al loro preteso senso ultimo! Allora, potrebbe dirsi che grazie al silenzio, la parola può evadere dal suo stesso canone (logico, semantico, predicativo, strutturale) per farsi piena sfida? Chiariamo: può darsi nella parole -- e attraverso le parole -- un modo filosofico per intenderle al di là delle barriere della convenzionalità? E a questo può esser utile il "silenzio" di cui Bonagiuso parla? Questa "temporalità della parola" non è forse la "verbalità" iniziale di Giovanni? Non è forse l'actio germinale dei Romantici (Goethe)? Come dispiegare la coscienza della conoscenza (non come gioco di parole, ma come aver coscienza della propria storia spirituale, esperienziale e conoscitiva) avendo di fronte a noi un "nobile" silenzio a cui -- cito quasi testualmente -- lasciar misurare la propria possibilità di dire?

Giuseppe Lanfranchi, 23 febbraio 2001

La «metafisica civile» di Augusto Del Noce: ontologismo e liberalismo

Vorrei semplicemente ringraziare l'autore per questo saggio su un isolatissimo della filosofia italiana. In particolare, ringraziarlo per non aver escluso l'incontro con Comunione e Liberazione dal percorso esistenziale del pensatore. Vorrei poi osservare che la questione dell'intuizione che è al centro del pensiero delnociano non è teoreticamente irrilevante -- purtroppo la lettura di questo autore è sempre stata condizionata da motivi di «correttezza» politico-culturale. Come vecchio lettore di Del Noce, ho sempre cercato di pensare ad una sua continuazione piuttosto che ripetizione. E non ho potuto evitare di essere colpito dal fatto che il pensiero di Ch.S. Peirce comincia da una critica esplicita, formale e anticartesiana dell'intuizione. Così mi veniva in mente: l'«aggiornamento» di Del Noce consisterebbe in un «Ch. S. Peirce» dopo il postumo «Giovanni Gentile»?

Rodolfo Granafei, 12 novembre 2000.

Prospettive sulla paternità

È naturale che il simbolismo paterno per dire Dio sia universalmente diffuso (almeno nelle società patriarcali); è molto dubbia invece la rilevanza dell'esperienza religiosa della paternità di Dio. Il «Dio del cielo» o il «padre di tutti gli dei» mostra una spiccata tendenza (sempre secondo Eliade) a diventare «Deus otiosus», cioè ben poco importante per la vita dei singoli e delle comunità. Per ciò che riguarda l'Antico Testamento non solo sono pochi i testi che parlano di Dio come padre, ma hanno l'unica funzione di dire che Dio corregge, ama, perdona «come» un padre. La religione ebraica mostra una notevole diffidenza verso le affermazioni sulla paternità di Dio: secondo il vangelo di Giovanni Gesù è condannato a morte perché dice Dio suo padre, perché si fa figlio di Dio. La «paternità» di Dio è dunque una novità del Nuovo Testamento. Ma:

  • Dio è anzitutto «Padre del Signore nostro Gesù Cristo»: solo in lui possiamo accedere ad una figliolanza nei confronti di Dio (in questo senso, figliolanza solo «adottiva», come ben sottolinea Paolo).
  • Secondo la dottrina trinitaria antica, dire che Dio è «Padre» significa dire che è «origine» (arché) unica del Logos-Figlio e in lui di tutte le cose.

È proprio questo spessore di profondità e di mistero del titolo «Padre» dato a Dio che pare del tutto scomparso dalle riflessioni che si sono moltiplicate in questo «anno del Padre». Fino a trasformare talvolta, nelle varie letture della parabola del «figlio prodigo», la vita intratrinitaria in psicodramma familiare.

Francesca Moscatelli, 13 luglio 1999

Dai diritti umani ai diritti dei popoli

... Credo sia arrivato il momento di spendere qualche parola contro i popoli.

Una delle feroci lezioni di questa fine secolo è che niente danneggia maggiormente una persona del fatto di convincerla della sua appartenenza a un popolo. Non c'è bisogno di aggiungere «oppresso», perché tutti i popoli lo sono per definizione. Quelli che non sono oppressi sono «minacciati». Chi opprime o minaccia i popoli? La loro coscienza, vale a dire i leader che hanno deciso di persuadere la gente comune di appartenere a un popolo, a questa entità antropofaga e trascendentale. Per ottenere una tale affiliazione forzosa, i leader accentuano gli ambigui carattere etnici esistenti e mutilano la mescolanza che è peculiare in ogni individuo. Impongono sempre la beatificazione della propria mitologica identità e operano una demonizzazione, non meno fantasiosa, di qualsiasi altra. Invece di rivendicare i diritti civili di pacifica convivenza, denunciano l'infida propensione alla convivenza con coloro che si differenziano per quattro o cinque aspetti pur assomigliandosi in altri diecimila.

Molto tempo fa ho sentito un albanese-kosovaro sostenere l'impossibilità di convivere con i serbi poiché non sono slavi, e ora molti rifugiati affermano che non ritorneranno in Kosovo fino a che l'ultimo serbo non sarà scomparso da lì. La parola magica è «autodeterminazione», intesa però, nell'accezione ironica data da Enzensberger, come il diritto reclamato da una parte degli abitanti di un territorio di poter determinare chi e in che modo potrà vivere nella totalità di quel territorio. Sapere di far parte di un popolo significa conquistare la superba dignità che deriva dal fatto di non potersi mescolare con gli altri e di essere incompatibile con due o tre nemici ben determinati, che si rivelano sempre essere i popoli confinanti. Così un uomo viene trasformato in una preziosa varietà ecologica, un'orchidea umana o, più frequentemente, in pianta carnivora. Tutto rientra nelle stesse leggi botaniche e fra tanta mala erba a stento c'è posto per i veri cittadini del ventesimo o ventunesimo secolo, come Nabokov: «Sono uno scrittore nordamericano nato in Russia e educato in Inghilterra, dove ho studiato letteratura francese prima di trasferirmi in Germania ...».

Il populismo nazionalista è apparso con forza in Europa in seguito al collasso dei vecchi Stati dittatoriali e serve da alibi per scongiurare la formazione di nazioni veramente democratiche, nonché a rendere la vita impossibile a quelle che, più o meno bene, hanno potuto formarsi. Michael Ignatieff ha espresso molto bene questo concetto: «Il nazionalismo della gente comune è una conseguenza secondaria della disintegrazione politica, una risposta alla distruzione dell'ordine e della convivenza tra i popoli che il nazionalismo stesso ha reso possibile. Il nazionalismo crea delle "comunità della paura", dei gruppi convinti che solo l'unità darà loro sicurezza, poiché l'uomo diventa "nazionalista" quando ha paura di qualcosa, quando alla domanda "E adesso chi mi proteggerà?" sa rispondere solo "i miei compatrioti"». E questo è il terreno fertile in cui nascono i Milosevic. E pensare che ci sono ancora dei folli che desiderano un'Europa dei popoli al posto di un'Europa delle nazioni!

Volere un'Europa dei popoli significa dare via libera all'Europa dei crimini.

Fernando Savater, Corriere della sera, 30 aprile 1999

L'intervento tratto da Savater, rispetto all'articolo di Ardesi, nasce da un contesto profondamente diverso: non dalle lotte dei popoli autoctoni del Terzo Mondo, un tempo schiavizzati ed oggi marginalizzati, ma dall'esperienza europea. Pone perciò problemi differenti, e invita a porsi domande abbastanza radicali: che cosa caratterizza un popolo, che cosa fa sì che un gruppo di persone possa essere individuato come popolo particolare, o etnia? E ancora: esistono ancora dei popoli nel mondo occidentale capitalistico? Cosa ha significato per le culture popolari europee (e non) l'impatto con il mondo moderno, con il capitalismo o il socialismo reale? Come le culture popolari, e la loro autocoscienza, ne è stata modificata? E passando dall'antropologia culturale alla psicologia sociale, cos'è questo bisogno di ritrovare un'identità di «popolo» (cfr. le varie leghe in Italia)? È provocato soltanto dalla demagogia dei «leader» o pesca in un bisogno reale?

Io credo che in Europa le peculiarità culturali, sia di cultura materiale che religiosa o ideologica, siano state distrutte, e ne rimangano solo delle sopravvivenze più o meno folkloriche, dei residui cui ci si attacca disperatamente per poter avere un'eredità, collettiva e non solitaria, per poter ridare unità alla propria esperienza, sempre più parcellizzata. Credo che questo valga, a gradi più o meno differenti, sia per i lombardi che per gli albanesi o i serbi. Ma il bisogno di appartenenza ad un «popolo» non è facilmente eliminabile, tant'è vero che anche i cristiani, dopo il Vaticano II, hanno riscoperto l'antica nozione di «popolo di Dio». Il fatto però che l'appartenenza ad un «popolo» sia più un bisogno che un'esperienza reale, fa sì che il rapporto con l'«altro», il «diverso», che è interno ad ogni identità venga reso impossibile. Non è forse vero che l'ospitalità nei confronti dello straniero è sempre stata un valore per ogni cultura popolare?

Francesca Moscatelli, 3 giugno 1999

D'accordo con la risposta equilibrata, moderata e serena di Francesca Moscatelli, sento di voler esprimere un'ulteriore critica all'intervento di Fernando Savater, più aspra e forse per questo meno ragionata...

Ho sempre una particolare antipatia verso quelle idee -- che ritengo utopiche -- di «cosmopolitismo» e di «internazionalismo», tanto care al comunismo e al cristianesimo: a questa specie di idee appartiene la globalizzazione... Un paradosso? Non mi pare: il carro trainato dagli Stati Uniti corre sempre di più e noi -- italiani, tedeschi, francesi... Europei! -- fatichiamo a stargli dietro. Ma io -- italiano, romano! -- non ho voglia di essere attaccato a quel carro: per questo penso che la distinzione dei popoli, sebbene abbia molte volte creato «grossi guai» (leggi genocidi, guerre etniche...), sia una fonte inesauribile di ricchezza antropologica, base dello scambio culturale e presupposto per l'evoluzione umana.

Inoltre, a proposito delle considerazioni fatte sui Milosevic in potenza, sull'«Europa delle Nazioni» contrapposta a quella dei «Crimini» (mamma mia, che pomposità retorica!) credo che sfugga all'autore un particolare: la grandezza culturale del nostro continente è data proprio dalla sua meravigliosa policromia -- chiamiamola così, altrimenti «multietnico» risulterebbe immorale! -- e la dimenticanza di questa nostra peculiarità tutta europea ha fatto sì che l'America Capitalista abbia preso il sopravvento economico, culturale -- peggio ancora! -- morale sul [Caro] Vecchio Continente...

Vorrei che si rivedesse il significato di certe frasi [fatte]: non più «nazionalismo xenofobo», ma «federalismo delle idee»; non «Europa dei Crimini», ma «Europa Unita, nel bene e nel male»...

Stefano Ventucci, 14 dicembre 2001

La New Age tra eredità e decadenza

Mi sembra una semplificazione attribuire al pensiero «greco» una concezione puramente analitica del linguaggio e una esaltazione della razionalità a svantaggio dell'intuizione. Per lo meno, ciò non è vero in tutta la filosofia platonica e neoplatonica, che ha sviluppato una fortissima dimensione mistica, in cui anche la conoscenza «razionale» viene ad identificarsi con il «ricordo» di quell'armonia originaria simboleggiata dal mondo delle idee. Ciò ovviamente non significa affermare che in Platone «già c'è tutto». Ma potrebbe significare che la crisi della modernità può indurre a riscoprire tutta la propria tradizione, cominciando a ripercorrere anche le strade che, per un motivo o l'altro, sono state abbandonate o meno valorizzate.

D'altra parte, anche esaltare la razionalità non implica di per sé promuovere un atteggiamente culturale autosufficiente e potenzialmente violento. Forse anche Auschwitz è un prodotto della «ragione». Ma sicuramente lo è la capacità di dialogare, di incontrare e studiare culture diverse, di mediare senza fanatismo idee distanti. Probabilmente troppo poco si sottolinea come questa capacità non sia un punto di partenza, ma piuttosto una meta della quale la nostra cultura «greca» è responsabile nei confronti dell'intero pianeta.

Giovanni Salmeri, 16 marzo 1999.

Indubbiamente la filosofia platonica nella sua accezione originaria ed originale mirava a mettere in proporzione razionalità ed intuizione nella visione o memoria dell'Idea. E senza dubbio la riscoperta di quella profondità dello spirito sarebbe per l'uomo dell'Occidente l'inizio di un cammino volto a riconoscere l'alterità come fonte inesauribile e sorgente di meravigliosa e, soprattutto oggi, meravigliante pienezza. È anche vero purtroppo che troppo facilmente si misconosce quella pienezza e quella profondità e la si confonde con la altrettanto affascinante fantasia di una realtà sopra e oltre la concretezza del reale. L'idealismo soggettivo è ciò che ha prodotto la violenza, la conseguente assolutizzazione della facoltà razionale ha reso possibile Auschwitz come simbolo estremo della spietatezza di un uomo che ha inteso possedere l'Idea anziché contemplarla.

Ma prima di un uomo tanto potente e spietato, che è la più evidente delle conseguenze, c'è un altro tipo di uomo che è stato prodotto da una tale confusione dell'originale messaggio platonico. E questo è l'uomo borghese, altrettanto pericoloso perché i suoi effetti e le sue manifestazioni sembrano innocue o ingenue. È colui che gode e si nutre del surrogato dell'Idea. È colui che «non ha alcuno scopo nella vita, e per questo è uno che soprattutto guadagna denaro. Crede di potersi impadronire grazie al denaro della vera realtà della vita, e non si accorge di vivere in uno dei mondi più irreali. Inoltre, nulla gli sta tanto a cuore quanto godere di molta considerazione nella società. ... L'essere interiormente privo di scopo lo consegna al "soggettivismo" -- ciò che ha trovato espressione anche nell'idealismo soggettivo della filosofia moderna, che Platone certamente non avrebbe compreso [corsivo mio]. ... Contribuisce al "tramonto dell'Occidente". È, in una parola, l'uomo che va assolutamente "superato", se l'umanità vuole continuare nel suo cammino di far sorgere degli uomini» (F. Ebner, Schriften I: Fragmente, Aufsätze, Aphorismen. Zu einer Pneumatologie des Wortes, Kösel-Verlag, München 1963, p. 977).

Sabrina Patriarca, 18 marzo 1999.

Poiché studio appassionatamente il platonismo e il neoplatonismo da un po' di tempo (troppo poco, per la verità) non posso fare a meno di scrivere alcune riflessioni. La contemplazione dell'Idea non è mai in Platone «pura contemplazione», al contrario il politico è l'altra faccia della medaglia di una dimensione mistica pur presente nel pensiero platonico. La contemplazione dell'Idea comporta sì la liberazione dalle catene, la fuoriuscita dalla caverna, l'accecamento alla luce intensa della verità; ma allo stesso tempo essa impone il ritorno nel mondo. E di che ritorno si tratta? Del ritorno del politico, appunto. Non vorrei tagliare le questioni con l'accetta, ma io credo che una dose di «violenza» sia intimamente connessa al pensiero platonico e non sia frutto di «confusione» del suo messaggio; perché 1) la contemplazione del mondo paradigmatico è esclusiva prerogativa di una élite; 2) questa élite non è avulsa dalla sua contemporaneità, al contrario si propone quale élite intellettuale di una determinata società, e dunque come governante; 3) il dualismo platonico è origine di una dimensione gerarchica che sarà ampiamente approfondita nel pensiero neoplatonico. Questa dimensione gerarchica è una dimensione anche, non solo, politica e sociale. Infine: l'identificazione tra diversità e diseguaglianza, all'interno di tale ordine gerarchico, è caratteristica di tutta una tradizione neoplatonica e soprattutto di un certo neoplatonismo cristiano (Dionigi, Massimo, Eriugena...). Non parlerei dunque di fraintendimento del pensiero platonico o di confusione del suo messaggio originario, ma forse di mancato riconoscimento della carica di violenza in esso contenuto.

Cinzia Arruzza, 14 febbraio 2000.

Se per violenza si intende prevaricazione, allora il pensiero di Platone non può essere definito violento. Il momento contemplativo permette all'uomo di fondarsi in trasparenza rispetto all'essere, quasi ad esso aderendo e quindi di intervenire praticamente sul divenire della realtà secondo questa sorta di intimità ontologica.

La società platonica è gerarchica perchè l'essere è costituito gerarchicamente. Ciò non significa che esistano individui superiori o inferiori per dignità, tutti infatti concorrono all'armonia dell'essere stesso. Ci sono semplicemente diversità di ruoli, di capacità e di responsabilità (come c'è diversità tra Cristo che è il capo e la sua Chiesa che è il suo corpo. Ma cosa sarebbe Cristo senza il suo corpo? Mi si perdoni il paragone).

Se Platone è un violento, tutta la metafisica occidentale è violenta. Ma metafisica vuol dire comprensione razionale del mondo, manifestazione della verità. Rinunciare ad essa significa rinunciare alla verità e abbandonarsi al «bricolage» culturale del nostro tempo. Non è l'essere nella sua purezza ad essere violento, ma lo è il vuoto lasciato dalla mancanza di dialogo con la tradizione, con Dio e con la storia, un vuoto che è lo stesso di un Io autistico incapace di pensare un Tu e dialogare con lui.

Per concludere. Si è partiti dalla New Age e si è arrivati a Platone. Che sia un percorso valido per l'uomo d'oggi?

Gianluca Verrucci, 28 settembre 2000.