La metafisica come ricerca di Dio nella fenomenologia di Husserl

1. Dio come «agente metafisico»

Seguendo l’analisi rigorosa sulla fattualità della «scienza diretta all’essere fattuale»,1 secondo Husserl è possibile pervenire alla scoperta di un telos che si esprime nella storia. Il motore di tutto il processo scaturisce da quell’innato tendere-a, dirigersi-verso, che spinge l’interesse umano alla costituzione di una precisa rete di rapporti e di un determinato orizzonte di accadimenti. Dal canto suo la hule, «viva materia fungente», proietta su di sé questa continua produzione di orizzonti esprimendo inoltre, in questo, la sua originarietà, vale a dire ciò che Husserl chiama entelechia.2

Messi a fuoco questi presupposti, dalla questione teleologica si sviluppa subito una problematica «teologica» cioè relativa all’origine della teleologia medesima. Qual è infatti la fonte della teleologia che l’indagine metafisica riscontra nello sviluppo monadologico della storia; direttamente l’essere assoluto come «Dio essente», oppure l’idea di Dio «come autosviluppo dell’idea divina nel Dasein»?3 In altri termini se la metafisica rintraccia sia nell’essere reale (Materie) che nell’essere fattuale (Wirklichkeit) l’inequivocabile presenza del telos universale, referente assoluto di perfezione, come «forza motivante di tutto lo sviluppo storico»,4 è questa un’implicita dimostrazione dell’esistenza di Dio come causa causarum, oppure si tratta di ammettere platonicamente una sorta di idealismo «ateistico»?5

La più grande difficoltà, spiega Husserl, è la comprensione della teleologia originaria, che appartiene alla coscienza assoluta. La causalità è una forma della realtà da costruire all’interno dell’essere costituito, dunque appartiene al contempo, sotto l’aspetto della costituzione coscienziale alla teleologia.6

Ma allora, sorge spontaneo chiedersi, l’essere costituito che rende possibile («causa») lo sviluppo teleologico della storia, coinvolgendo in questo vortice anche la coappartenente forza costitutiva della coscienza, è mosso da un’idea o dalla certezza di un’esistenza suprema?

Proprio perché tale ricerca, arguisce Edith Stein, «relativizza Dio stesso — è in contrapposizione con il credere. Questo è il più acuto contrasto tra la fenomenologia trascendentale e la filosofia cattolica: l’orientamento “teocentrico” dell’una e quello “egocentrico” dell’altra».7 In effetti questo rilievo di Stein mette subito a fuoco, colpendolo irreparabilmente, l’impianto teoretico della teologia fenomenologica, ove lo spazio per la ricerca personale di Dio (della fede individuale) è ridotto ai minimi termini, se non escluso.

Eppure, se è vero che solo l’Io trascendentale, l’Ego monade, ha la garanzia in sé di una visione assoluta del mondo e della teleologia in esso contenuta, è anche vero che proprio in quest’ultima sono presenti le ragioni della fede che, appunto razionalmente e intellettualmente, coimplicano il soggetto e l’intenzionalità dell’entelechia divina. Con ciò, rendendo ragione all’osservazione steiniana che denuncia il poco spazio riservato dalla fenomenologia alla fede, bisogna pur tuttavia riconoscere che il «problema di Dio» è senza dubbio uno sbocco naturale dell’indagine teleologica cui approda la metafisica fenomenologica, anche se non certo nei termini «ordinari» che la fede riconoscerebbe. È altresì vero che, sebbene tale problema non è affrontato dal punto di vista della fede bensì da quello razionale della scienza fenomenologica, esso per Husserl ha certamente un’importanza di primo ordine. Conferma infatti Ales Bello: «egli afferma che la sua ricerca è essenzialmente ateologica, ma con questo non intende dichiarare di non interessarsi a Dio, vuole solo sottolineare che il suo punto di partenza è quello di una filosofia che prescinde da ogni contesto religioso come preliminare».8

È dunque valido, anche in questa sede, il proposito fenomenologico di radicalità che equivale a non accettare alcun supporto e nessun presupposto che non sia stato rivalutato, epurato e riletto secondo l’ottica trascendentale. E questa premessa investe naturalmente anche il piano puramente religioso, per cui la questione di Dio diventa per la fenomenologia un argomento filosofico cui ci si avvicina razionalmente, privi di pre-giudizi ed eseguendo rigorose analisi razionalmente evidenti. Quindi l’apparente «mancanza di fede» nella fenomenologia, l’ateismo, osserva ancora Ales Bello, «non è la negazione dell’esistenza di Dio, ma la sostituzione della via filosofica a quella religiosa».9

Ora, tenendo conto di queste premesse che rendono possibile l’esclusione della visione tradizionale della questione teologica, cerchiamo di rispondere fenomenologicamente agli interrogativi poco sopra sollevati, i quali concernono, in sostanza, la definizione del «problema di Dio» nei termini di un’idea che «causa lo sviluppo della storia» o, altrimenti, di un principio causante implicito nell’entelechia iletica. A tale fine va anche precisato che, come sottolinea Strasser, «Contrariamente alla dottrina tradizionale Dio non è, seguendo Husserl, la “causa” del mondo».10 Ciò implica che è il concetto stesso di causa a subire ad opera della fenomenologia husserliana un rilevabile mutamento rispetto al suo significato usuale. Infatti la causa della teleologia sembra essere parte integrante della teleologia stessa, poiché è ad essa relativa.

Dio, spiega Husserl, non è di per sé la totalità monadica (Monadenall), ma l’entelechia che è immanente ad essa, come idea di un telos di un’evoluzione infinita, proprio di un’“umanità” regolata da una Ragione assoluta che governa necessariamente l’essere monadico, e lo governa secondo la propria libera decisione.11

Da questo punto di vista sembrerebbero accettabili entrambe le ipotesi sopra avanzate, poiché se Dio è l’entelechia come «idea che regola», tale entelechia si insinua nel processo storico causando la storia dell’essere monadico (immanentemente). Ma, d’altra parte, sembra anche plausibile che la «propria decisione» di Dio nelle vesti di «principio della teleologia» che non coincide affatto con l’universo monadico, si possa intendere come concetto di causa immanente, in quanto entelechia, ma trascendente rispetto l’universo monadico. Infatti per Husserl Dio è «l’entelechia del mondo», ma non immediatamente la comunità delle monadi e «neppure, aggiunge Strasser, egli è — come per Leibniz — l’inventore e il costruttore del sistema armonioso delle monadi».12 Egli è entelechia immanente all’universo e, contemporaneamente, trascendente rispetto l’universo; ovvero, da un lato, animando dall’interno l’universo monadico al perseguimento della perfezione, è esso stesso parte del mondo; dall’altro lato, però, non coincidendo con l’universo monadico, essendo cioè altro da questo, il Dio della fenomenologia sembrerebbe raffigurarsi come un Dio che è principio «agente» e causante l’idea di perfezione, dalla sua infinita alterità.

Dunque, una volta esclusa l’ipotesi di una teologia tradizionale, il problema fenomenologico di Dio sembra congelato nella equivoca polarità di trascendenza ed immanenza ove, malgrado gli sforzi che Husserl stesso compie per una chiarificazione in un senso o nell’altro, la ricerca fenomenologica di Dio sembra inesorabilmente impigliata. Infatti sia prediligendo l’uno che l’altro corno della questione, ci troveremmo in una visione incompleta e, per di più, in una mistificazione dell’intera problematica. La trascendenza richiama immediatamente la coscienza che a sua volta, come richiesta di un senso assoluto di trascendenza, si rivolge all’idea come sua fonte garante. Ma, dal canto suo, l’idea presenta un’ambiguità perché non può essere soggettiva ed oggettiva insieme, e pertanto se si sceglie la sua oggettività si riproduce la trascendenza, mentre se si sceglie la sua soggettività non si fa che ricreare il problema. Sembrerebbe quindi che le due caratterizzazioni di immanenza e trascendenza della definizione teologica non possano essere separate, ma anzi debbano in qualche maniera convivere incontraddittoriamente.

Eppure, nonostante queste evidenti aporie, cercando nelle specifiche trattazioni del problema un’ipotesi risolutiva, non è del tutto esclusa una sua soluzione nei termini fenomenologici husserliani, soprattutto tenendo conto dell’intrinseco significato di trascendenza, che assume in questo contesto a contorni nuovi e ben precisi, una trascendenza scrive Husserl, «in un senso totalmente diverso dalla trascendenza nel senso del mondo».13 A tale fine, cerchiamo di seguire una pista che miri a trovare una caratterizzazione coerente della concezione teologica, considerando dapprima il concetto di trascendenza assoluta dell’entelechia divina, per affrontare in un secondo momento la sua attività causativa nell’effettività e nel reale, in relazione cioè alla sua immanenza.

2. Il concetto di trascendenza assoluta dell’«entelechia divina»

Esaminiamo il primo punto ed osserviamo che, dopo aver descritto la trascendenza oggettuale in relazione al percepire un «solo lato» della cosa, Husserl inserisce un’interessante problematica, «parallela» alla questione della trascendenza divina. Si tratta della «seconda trascendenza, la trascendenza vera e propria», che è quella dell’intersoggettività monadologica delle coscienze, la quale attraverso l’Einfühlung cioè la penetrazione intuitiva nell’intenzionalità implicita,14 si costituisce, da una parte, come «trascendente rispetto il proprio io», dall’altra, in virtù di questa sua trascendenza, come correlato di una probabile coscienza assoluta che «comprende» tutte le altre.15

Il rapporto monadologico raggiunto dall’analisi trascendentale infatti predispone la mondanità come luogo in cui la comunicazione intersoggettiva diviene richiesta16 di un principio coordinante, di una Monade Somma.

Il rapporto fra gli io, gli altri e Dio, semplifica Ales Bello, può essere interpretato come un rapporto intermonadico, non nel senso strettamente metafisico proposto da Leibniz, ma nel senso che la monade serve bene ad indicare da un lato la limitatezza di ogni singola soggettività, dall’altro la possibilità di una comunicazione che si potrebbe definire “spirituale”… Ciò apre la via alla possibilità di una Monade Somma che coordini tutte le altre e che, pur rispettando i confini di ognuna, possa penetrare in esse empaticamente.17

L’analisi della seconda trascendenza in pratica dovrebbe fornire i mezzi per dimostrare la presenza trascendente di Dio da un’altra angolazione, ossia da quella della comunicazione empatica fra le monadi. «Se ascriviamo a Dio (come coscienza che tutto comprende, Allbewußtsein) la “capacità” di penetrare nella coscienza degli altri, precisa Husserl, ciò è pensabile soltanto a condizione che l’Essere di Dio comprenda in sé ogni altro essere assoluto» e quindi che «contenga» la mia coscienza, insieme a quella dell’altro da me.18

A questa immagine di Dio Husserl perviene solo dopo aver isolato il concetto monadologico di empatia, individuando in esso la fonte originaria dell’intenzionalità divina, poiché proprio in questa forma di comunicazione «intuitivamente penetrante» che vede coinvolta la mia monade come l’altra che io appercepisco empaticamente, risiede la proiezione della esplicazione teleologica della divinità. L’essenza dell’intenzionalità divina infatti non è altro che la realizzazione delle monadi nel loro mondo al fine di instaurare una certa armonia, come una sorta di Coscienza Assoluta in cui tutti gli sguardi e tutte le intenzionalità monadologiche, in breve l’intersoggettività sia riunita sotto un’unica individualità.

Ma, si chiede Husserl, è concepibile un Io che comprende tutti gli io, che racchiude in una vita tutto ciò che è costituito temporalmente, dunque anche tutte le formazioni di ogni io e tutti gli io stessi, in quanto essi sono costituiti per se stessi? Un Io che esperisce la natura e il mondo, costituiti in comune tutti gli io finiti, con gli occhi di questi io, che ha in sé tutti i loro pensieri in quanto loro pensieri, che agisce dall’interno (hineinwirkt) della sfera degli io — un Io che “crea” la natura e il mondo nel senso dell’«idea del bene»…?!.19

In altri termini, l’interrogativo riguarda la possibilità o meno di concepire come possibile una Coscienza che, analogicamente alla modalità di apprensione empatica delle monadi, sia in grado di trascendere le singole appresentazioni (appercezioni) in un’unica onnicomprendente visione della globale comunicazione intermonadica. Questa Coscienza, l’Io come la chiama Husserl, dovrebbe erigersi trascendentemente al di sopra delle monadi, forte della Einfühlung assoluta, cosciente di ogni singola prospettiva.

Ma qual è allora per Husserl la vera trascendenza che, nella sfera dell’intersoggettività monadologica, «raccoglie» una Einfühlung assoluta come Coscienza di ogni singola comunicazione empatica?

In molti luoghi Husserl sembra propendere per una definizione del problema alla luce della prospettiva «empatica» da cui si sviluppa il significato di trascendenza, a sua volta derivato dalla constatazione che deve necessariamente darsi un principio assoluto che sovrintenda alla realtà delle singole intenzionalità volitive. Una Überrealität, dice spesso Husserl, verso la cui «posizione» tutte le monadi si esprimono relativamente ed in cui convergono le volontà individuali.

La volontà assoluta universale che vive in tutti i soggetti trascendentali e che rende possibile l’essere individuale-concreto della soggettività totale trascendentale, è la volontà divina, la quale presuppone (voraussetzt) però tutta l’intersoggettività, non nel senso che quest’ultima precede la prima e sia possibile senza di essa (e neppure come l’anima presuppone il corpo) ma come strati strutturali, senza i quali questa volontà non può essere concreta.20

La volontà di Dio quindi si rispecchia nelle singole volontà di ogni monade, ognuna delle quali, agognando al raggiungimento individuale della perfezione assoluta, richiede la presenza di una volontà assoluta e, contemporaneamente, inscrive assieme alle altre monadi, un orizzonte volitivo generale, determinabile come volontà intersoggettiva. Per questa ragione, possiamo definire l’intersoggettività come una comunicazione di valori e fini che ha come scopo il raggiungimento della perfezione assoluta e, di conseguenza, possiamo definire la volontà divina, come idealizzazione di tale perfezione e, soprattutto come presenza — «come di “rendere-compresente” (Mit-gegenwärtig-machens)», secondo la terminologia husserliana21 — alle monadi del proprio essere la «soggettività totale».

In questo senso ci sembra interpretabile l’affermazione heldiana per cui «Dio agisce dunque nell’interiorità della mia libertà»;22 ammettendo cioè che se, da un lato, l’intersoggettività è mondana, essa è, da un altro lato, richiesta precisa di un significato ultimo, onnicomprensivo della mondanità stessa. D’altro canto, l’esigenza di assolutezza che le monadi portano in sé, trova garanzia e fonte diretta nell’essere individuale della monade la quale, interagendo empaticamente, conferma la presenza di un’essenza unificante trascendente che abbraccia complessivamente l’insieme globale degli orizzonti, anch’essi trascendenti. E tutto ciò, guidato dall’intenzionalità fungente (l’entelechia iletica, come si è chiamata), avviene in seno alla più autentica libertà.

Scrive a questo proposito Husserl:

Ciascun singolo io è ego per tutti gli altri membri dell’universo come suoi alteri, così che ognuno di tali universi implica, a partire da ogni membro, l’universo, una totalità di soggetti possibili, ciascuno dei quali implica tutti gli altri e implica la totalità come totalità.23

Per tale ragione è possibile descrivere la totalità come orizzonte trascendente la singola individualità monadologica, e considerare quest’ultima, sulla scia della proposta husserliana, come effettività in cui la teleologia esprime la necessità del suo fondamento in Dio.24 La vera trascendenza che si esprime attraverso l’intersoggettività è infatti proprio questa apertura che la singola monade lascia intravedere; è «il tu della chiamata divina», sottolinea incisivamente Landgrabe, dove si fonda l’autentica correlazione tra la sfera monadica e quella propriamente divina, sotto le sembianze di dialogo perenne.25

Altrove, precisamente nelle Cartesianischen Meditationen, Husserl esamina questa seconda trascendenza da un’angolazione che sembra contenere la compresenza delle monadi come unione di immanenza e trascendenza. Ora tale paradosso, che potremmo chiamare paradosso dell’intersoggettività cioè dell’appresentazione empatica dell’altro immanentemente-trascendentemente fondata, ben si potrebbe prestare ad un’esposizione emblematica dell’assolutamente Altro.26 Nella Quinta Meditazione infatti Husserl ricorre spesso alla formulazione di questa seconda trascendenza, intesa in senso forte a cui il nostro vivere corporeo (leiblich) rimanda come ad una sorta di intenzionalità indiretta o implicita. Questa intenzionalità implicita, sottesa ad ogni interagire monadologico, si rende esplicita in me ed è già parte di «me esperente». Inoltre, tale mio implicare impone un richiamo, l’urgenza che ho in me di riconoscere questa corporeità (Körper) che si estende a me intensionalmente, come trascendenza (perché da me sentita come una parte, tuttavia altra da me). Ora è possibile, ci si chiede, rintracciare in questo richiamo, la ulteriore «compresenza» di una Monade Somma trascendente, che «raccoglie» tutte le intensioni del vivere corporeo intersoggettivo?27

Husserl purtroppo non si spinge oltre questo interrogativo, lasciando intematizzata la definizione di Übermonade, sebbene i suoi rimandi ad un’intenzionalità indiretta, empaticamente avvertita, ne confermerebbero la legittima espressione. Neppure la esplicita ammissione della comunità intermonadica (§§ 55-56) riesce ad intersecarsi con l’idea di una Coscienza univoca di questa comunità, cosa che invece fin dagli scritti del 1908, sembrava verificarsi per il tramite dell’empatia della coscienza estranea.28 Il limite «mondano» entro cui la trascendenza intermonadica della Quinta Meditatione evidentemente deve restare, impedisce l’eventuale estensione della «compresenza monadica» ad una «compresenza sovra-manadica», quando invece, questo aspetto si sarebbe spontaneamente sviluppato dal concetto «comunitario» (assemblativo di tutte le monadi) di intenzionalità implicita.

Questa «carenza», se così si può chiamare, di Meditationen, tuttavia non deve far pensare ad un’inversione di tendenza rispetto al problema che stiamo considerando, da parte dell’Husserl degli Anni ’30, poiché, anzi, è forse l’ultima speculazione husserliana a rivelare il concetto teleologico di totalità nella sua più autentica espressione. Questo «silenzio», come ci sembra opportuno definirlo, invece è sicuramente imputabile al clima cartesiano dell’opera, dove il tema metafisico della teleologia potrebbe altresì riproporre dei problemi gnoseologici costitutivi, qui probabilmente ritenuti pericolosamente interpretabili, come aporetici. Pertanto, sebbene in quest’ultima descrizione della seconda trascendenza non ve ne sia una definita analisi, è senz’altro ammissibile ricondurre il tema dell’intersoggettività husserliana comunque alla «compresenza» della Monade Somma, soprattutto se ci si riferisce al tema dell’intenzionalità indiretta e implicita appena trattato, a cui l’ultima delle Meditationen continuamente rimanda.

Per questo motivo il senso della trascendenza «in sé prima» (§48), così come le conclusioni agostiniane delle Meditationen possono essere a ragione interpretate come l’implicita ammissione della presenza ulteriore di un «essere primo». «L’essere in sé primo, conferma Husserl, che precede ogni oggettività mondana e la comprende in sé, è l’intersoggettività trascendentale, la totalità delle monadi che si articola in diverse forme di comunità».29

Vediamo ora gli esiti cui conduce quest’ultima ammissione, ove il «comprendere», cui fa riferimento in questo passo Husserl, sembra richiamarsi alla trascendenza intersoggettiva, tuttavia in maniera non sempre esplicita e priva di contraddizioni.

3. L’«Übermonade»: teismo e panteismo

Nell’intersoggettività monadica si realizza un «destino», scrive spesso Husserl, una finalità universale che, come abbiamo visto, nasce dalla realizzazione individuale di ogni monade. «Questo sovratemporale e transtorico telos, osserva Strasser, è dunque una nozione metafisica»,30 intendendo per metafisico il riferimento alla trascendenza di questa forza e, quindi, all’essenza profondamente concreta (immanente, incontraddittoriamente) del telos. Per questo motivo, prosegue Strasser, «Husserl non esita ad identificarlo (il telos) con l’idea di Dio».31 E, a conferma di una simile equivalenza, Strasser si richiama espressamente al Manoscritto E III 14, al cui riguardo Husserl scrive: «Qui occorre che l’idea di Dio e l’idea della teleologia del mondo (Weltteleologie) come principio di una possibile totalità dell’essere, pervengano ad una problematizzazione».32

Quindi Dio è la «Coscienza globale» (Allbewußtsein, dice spesso Husserl), l’idea di un «polo assoluto» attraverso cui il flusso della costituzione del mondo riceve una direzione oppure, come si legge ancora in E III 14, è «l’assoluto Logos, la verità assoluta in senso pieno e totale, come l’unum verum, bonum, verso cui ogni essere finito, nell’unità di ogni essere finito, accomunato dallo stesso tendere-a, è diretto».33 Per questa ragione la sua assolutezza è anche conferma decisa della sua trascendenza, soprattutto rispetto i contesti storici in cui si manifesta. È infatti pur vero che l’idea, il Logos, è manifesto nella storia; ma è anche a maggior ragione certo che, proprio in questo suo manifestarsi, esclude la sua completa aderenza al corso evolutivo della storia, come storia esso stesso.

«Il logos assoluto, sottolinea Strasser, è sovratemporale sebbene esso è manifesto nel vivere degli atti coscienziali che si rivelano (unfold) nel tempo. In breve, è grazie all’idea di Dio che la tarda filosofia di Husserl è distinta da una panstorica e relativistica dottrina à la Dilthey».34 Ora, prima di prendere in considerazione questa conclusione strasseriana che, per i motivi che vedremo, sembra a noi la più vicina all’autentica concezione husserliana del problema teologico, cerchiamo di fare chiarezza sulle possibili implicazioni che l’ammissione della trascendenza del Logos divino arreca, nei confronti di una soluzione ultimativa del problema di Dio.

Iniziamo con l’affrontare il problema considerando entrambe le eventualità di cui si parlava precedentemente; ovvero delle sue due probabili interpretazioni in relazione ad un’immanenza, o in relazione alla trascendenza. È interpretabile questo Logos, ci si chiede con Strasser, come «un finalismo immanente all’evoluzione cosmica, oppure è un polo trascendente ed esteriore in relazione a questa evoluzione? È Dio stesso la ragione che sviluppa, o è egli il finis ultimus dello sviluppo? In altre parole: la filosofia religiosa di Husserl è panteistica o teistica?» Ed inoltre, «se il Dio di Husserl sia un polo verso cui l’evoluzione cosmica tende, ma che non evolve di per se stesso: quanto può essere messa in accordo una tale concezione con l’idealismo trascendentale?».35

Per l’appunto, poiché un Dio trascendentale verrebbe ad avere un’esistenza obiettiva assoluta, indipendente dall’intenzionalità soggettiva, una tale supposizione in un contesto fenomenologico parrebbe ovviamente assurda, come sembra ammettere l’interpretazione di Dupré, convergente in quest’impossibilità fenomenologica. «La difficoltà dell’approccio teleologico al problema di Dio, scrive egli a proposito, è che esso rende del tutto naturalmente il telos una parte immanente dello stesso movimento teleologico. Un’altra difficoltà si trova nello stesso metodo fenomenologico che riconosce solo l’essente costituito (il fenomeno) e quello costituente (la soggettività trascendentale) e nessuno dei due può accordarsi con l’idea di un Dio trascendente».36 Dello stesso avviso sembra essere Mall per il quale «è veramente ingenuo pensare che può esistere un’ontologia o metafisica di Dio senza essere al contempo unità costituita di significato».37 Ciò inoltre implica necessariamente che nell’ambito fenomenologico, dove la soggettività trascendentale è principio ultimo e costituente, è possibile «concepire soltanto un Dio immanente come costituito».38 Per tali motivi, data la contraddizione in termini conseguente all’ammissione di un qualsiasi esubero rispetto alla soggettività costituente, Mall propende per una concezione immanentistica, dove il problema teologico verrebbe ad essere risolto da una riduzione del divino all’idea interna dello sviluppo storico delle monadi ed, inoltre, come da queste immediatamente certificabile, in quanto loro prodotto.

Eppure, se ciò è in prefetto accordo con l’idealismo trascendentale di Husserl, non sembra affatto rendere conto da un altro lato, di quel concetto husserliano di trascendenza che i singoli orizzonti monadici descrivono nella globalità di un orizzonte totale, referente teleologico di un’entelechia, che le monadi esprimono, non creando.

L’apriori soggettivo, spiega Husserl, è ciò che antecede (vorausgeht) l’essere di Dio e del mondo ed ogni e ciascun essere-per-me, cioè me che penso. Anche Dio è per me ciò che è, a partire dall’operazione di coscienza che mi è propria; e anche qui io non posso distogliere il mio sguardo per paura di riuscire blasfemo, ma devo bensì vedere il problema. Anche qui operazione di coscienza — come nel caso dell’alter-ego — non significherà naturalmente che io inventi e crei questa trascendenza suprema.39

«Avremmo quindi da scegliere, propone Strasser, tra due possibilità. Questo Dio potrebbe essere considerato un oggetto ideale, prodotto di un’attività trascendentale soggettiva o intersoggettiva. Egli sarebbe allora un fenomeno “mondano” (nel senso fenomenologico del termine). In questo caso sarebbe assurdo parlare di un essere divino trascendentale»,40 poiché l’aggettivo divino perderebbe tutto il suo valore, visto che l’inferenza di un simile fenomeno avverrebbe in maniera totalmente analoga a quella degli altri fenomeni. Si giungerebbe dunque ad una sorta di «mondanizzazione» del «fenomeno Dio», cui Strasser contrappone come alternativa quella che «consisterebbe nell’identificazione di Dio con la vita soggettiva trascendentale. Per cui la divinità sarebbe identica a quella ragione stessa che sta indagando (seeking). Avremmo perciò a che fare con un Dio che aspira alla luce ed alla sua piena realizzazione. In breve, sarebbe allora una questione di una concezione panteistica, che comporterebbe gravi obiezioni».41

È pur vero che una simile conclusione non è del tutto estranea all’indagine husserliana se, come mostrano le Lezioni su Fichte, Husserl stesso giunge ad affermare che «l’Io è assolutamente autonomo, porta in sé il suo Dio come idea teleologica che anima e dirige tutte le sue pure azioni».42 Così pure per Landgrabe, che segue questo filone interpretativo, la stessa descrizione della trascendenza del celebre cinquantottesimo paragrafo del primo volume di Ideen, va inserita in un contesto panteistico, ove l’elaborazione ideale di una volontà divina è leggibile come esteriore manifestazione, nell’interiorità intermonadica.43

Per contro, fa notare Strasser, esistono luoghi bel precisi in cui Husserl caratterizza la trascendenza come tale, anche rispetto gli atti coscienziali assoluti. È questo il caso del Manoscritto E III 4 in cui Husserl scrive che «alla soggettività assoluta corrisponde come una via infinita che permette di arrivare nel suo sviluppo al suo vero essere… un’idea assoluta, suprema», un «polo ideale», il cui carattere di autonomia (assolutezza) rispetto alla soggettività trascendentale impone ipso facto la non coincidenza dei due poli e, di conseguenza, la non immanenza del «polo ideale assoluto».44 Oppure è il caso del passo del primo volume di Ideen in cui Husserl precisa che

Il principio ordinativo dell’assoluto deve essere trovato, per mezzo di una considerazione puramente assoluta, nell’assoluto stesso. Con altre parole, poiché un Dio mondano è evidentemente impossibile, e poiché dall’altra parte l’immanenza di Dio nella coscienza assoluta non può essere concepita come immanenza nel senso dell’Erlebnis (il che non sarebbe meno assurdo), ci devono essere nella corrente della coscienza e nelle sue serie infinite altri modi di annunciarsi delle trascendenze, oltre quello che dà luogo alla costituzione di realtà fisiche come unità di apparizioni concordanti; e ci devono pure essere notizie intuitive, in base alle quali il pensiero teoretico potrebbe razionalmente rendere intelleggibile la potenza unitaria del supposto principio teologico.45

Ora, ci si chiede, è legittimo, stando alle intenzioni della fenomenologia, un simile esito indubbiamente «ateistico»? Altrimenti, sarebbe ammissibile l’alternativa, avanzata da Strasser, di un essere divino inteso come fenomeno immanente, costituito dalla soggettività trascendentale o, ancora, come identificantesi tout court con la soggettività trascendentale stessa?

Le soluzioni sembrano a questo punto moltiplicarsi. Si tratta di un essere divino da intendere come «fenomeno», come soggettività trascendentale, come divinità trascendentale o, ancora, come trascendente unità fondata nell’immanenza oppure autofondantesi?

Abbiamo appena visto che Husserl deve scartare l’ipotesi di una trascendente unità del divino come autofondantesi, poiché del tutto estranea all’idealismo trascendentale. Per un ragione analoga e cioè perché perderebbe il suo significato di assolutezza, l’idealismo trascendentale deve escludere anche la descrizione dell’ente divino come entità trascendentale, mentre, per il motivo opposto, tramonta anche l’eventualità di descrivere il divino come mero «fenomeno» che si manifesta tra gli altri. Allora, resta da stabilire, è l’essere divino la stessa soggettività trascendentale o il trascendente immanentemente fondato?

Stando alle ultime opere ed ai Manoscritti relativi a questa epoca, a nostro avviso è possibile rintracciare un’eventuale soluzione al «problema husserliano di Dio», allorquando Husserl, nella Krisis, rileverà che

dev’essere messa in atto una considerazione razionale del mondo, libera dai vincoli del mito e della tradizione in generale, una conoscenza universale del mondo e dell’uomo che proceda in un’assoluta indipendenza dai pregiudizi — che giunga infine a conoscere nel mondo stesso la ragione e la teleologia che vi si nascondono e il loro più alto principio: dio».46 Inoltre, nel momento in cui ammette che «il problema di dio contiene evidentemente il problema della “ragione assoluta” in quanto fonte teleologica di qualsiasi ragione del mondo, del “senso” del mondo.47

In questi passi, a parte il significato di «ragione assoluta» che resta ancora da determinare, si avverte come l’ultima parola della fenomenologia husserliana, nelle opere edite così come in quelle intedite, sia inclinata ad un’interpretazione del «problema di Dio» nei termini di assolutezza e, soprattutto, in relazione ad una visione metafisica (nei termini di concretezza fin qui ribaditi) e teleologica di Dio. Ciò significa che gli ultimi sforzi husserliani sono rivolti all’affermazione di un concetto di assolutezza e di verità assoluta, nel senso di una probabile, sebbene implicita, ammissione della trascendenza divina. Ed infatti, come si è già ricordato, in Formale und transzendentale Logik la trascendenza divina è costituita in analogia all’appresentazione dell’altro. «Anche qui operazione di coscienza — come nel caso dell’alter-ego — non significherà naturalmente che io inventi e crei questa trascendenza suprema».48

Allo stesso modo ma, più tardi, in Krisis, sempre nell’impossibilità di creare la trascendenza suprema, si ribadisce la preponderanza della struttura trascendente dell’essere divino nei termini teleologici, come si è ricordato sopra, di un’entelechia razionale cui l’uomo è chiamato storicamente ad aderire. Ora, è in questa azione intenzionale come autorischiaramento della ragione, che l’entelechia divina sotto forma di idea della «verità in sé» anima e promuove lo sviluppo teleologico (razionale, si potrebbe dire, restando fedeli alla Krisis) dell’umanità.

Spiega Husserl nel Manoscritto F I 14:

Dio, come idea, come idea dell’essere più perfetto, come idea della vita più perfetta, che costituisce di sé un “mondo” perfetto, di una vita che creativamente si sviluppa da sé in un universo di esseri spirituali perfetti in relazione alla natura perfetta nella più alta forma. La filosofia come idea, come correlato dell’idea di Dio, come scienza assoluta dell’essere assoluto come scienza della pura idea della divinità e come scienza dell’essere assoluto esistente.49

L’idea, che per Husserl è l’assolutamente concreto, è dunque il motore dello sviluppo storico dell’umanità, poiché «il dispiegamento dell’idea di una conoscenza più perfetta, egli spiega, ci conduce all’idea della coscienza più perfetta, del mondo più perfetto, e all’ideale teleologico della divinità».50

Ed allora, in accordo con le conclusioni risolutive tratte dall’analisi di Strasser, ci sembra possibile interpretare l’idea di Dio in Husserl come realtà assoluta e ultimativa, telos che è Dio stesso, che non può appartenere «né alla soggettività trascendentale, né all’orizzonte mondano»,51 ma proprio per la sua attività teleologica si costituisce come «trascendenza» in un particolarissimo senso propriamente filosofico. «Dio nella filosofia di Husserl, arguisce Strasser, è teoreticamente un’idea e praticamente un telos ideale»,52 ossia, è il «“Dio dei filosofi” derivato da Abramo, Isacco e Giacobbe (per parlare come Pascal)».53 Quel Dio cioè razionalmente visibile a cui la filosofia greca, nel suo massimo splendore, era giunta. «Una filosofia autonoma come lo era quella aristotelica e così come essa resta eterna richiesta (Forderung), analogizza il Manoscritto E III 10, perviene necessariamente ad una teleologia e ad una teologia filosofica, — quale via non confessionale a Dio».54

A questo punto, prima di sviluppare il significato di quest’ultima affermazione, che ci porta a parlare del valore e del rapporto tra ragione e fede in Husserl, soffermiamoci sulle implicazioni conseguenti alla trascendenza della Gottesidee, cui conclusivamente siamo approdati.

4. La contingenza assoluta: la «Gottesidee»

Nel corso di questa analisi si è ampiamente comprovato che la peculiarità, per non dire l’assoluta originalità, della metafisica husserliana nei riguardi dello studio sulla realtà e sul vero essere, consiste soprattutto nell’indicare la presenza di una teleologia in essi insita. Da questa scoperta metafisica di un’entelechia che abbiamo descritto come intenzionalità iletica, si è pervenuti alla concretizzazione di un principio divino la cui assolutezza, differente dall’essere assoluto della coscienza, si riscontra nel suo rendere attivo lo sviluppo teleologico stesso. Ricordiamo che in alcuni Manoscritti Husserl si riferisce alla scoperta metafisica della teleologia, richiamandosi all’armonia monadica. È il caso del Manoscritto B II 2 dove si dice che la metafisica, in primo luogo, deve rivolgersi «al primo assoluto, quello della fenomenologia e delle scienze fenomenologicamente ridotte: la coscienza e le sue ripartizioni (Verteilungen) in piccole unità (Henaden)»; ma, in seconda istanza, essa deve anche considerare «la somma delle molteplici unità (Henaden) o monadi, attraverso la teleologia, per mezzo dell’armonia».55 Tale unità, che poco oltre Husserl chiama Energie, è l’entelechia divina che si risolve nel vivere monadico.

Ora, la connessione tra la realtà materiale ed il principio divino del telos in essa esprimentesi che ultimativamente abbiamo concepito essere trascendente, è per forza di cose basata su un’imprenscindibile interdipendenza. Ossia, la realtà materiale necessita del telos divino trascendente che sia la sua fonte originaria di intenzionalità; ma, al contempo, il telos divino trascendente necessita delle facoltà espressive della materia ove «immettere», per così dire, i semi intenzionali dell’entelechia in esso contenuti.

Ma allora, ci chiediamo, quale spazio ha la contingenza materiale (in senso metafisico, ovvero monadica che, cioè, coinvolge coscienza e Umwelt), se la materia stessa è strutturalmente foriera di entelechia e intenzionalità nella forma implicita di intenzionalità indiretta? E, per converso, quale valore avrebbe una trascendenza che si esprimesse contingentemente nella sfera materiale?

Sappiamo che l’idea di un essere perfetto, cioè l’idea della divinità, così come quella generale di essere,

non è pensabile al di fuori della correlazione di essere e coscienza e che dunque il più perfetto essere apriori deve essere compreso come l’idea della coscienza assolutamente perfetta, che forse necessariamente esige una cernita nella molteplicità delle coscienze singolo-individuali, nelle quali si costituisce un “mondo” più perfetto… Sarebbe poi da distinguere tra l’assoluta idea che guida lo sviluppo e lo sviluppo stesso infinitamente immanente della coscienza e del mondo.56

Il problema quindi si riduce alla difficoltà ed alla contemporanea necessità di postulare un principio (l’assoluta idea che guida lo sviluppo) che presieda alla contingenza della «presenza primaria correlante» (ossia, come vedremo, alla libertà della ragione pratica) e che, inoltre, sia assoluto in un senso che non vada ad inficiare la veridicità dell’assoluto della coscienza.

In altri termini,

se noi postuliamo un principio divino trascendente rispetto la soggettività trascendentale, osserva Hart, e se lo poniamo oltre la “sostanza assoluta” della presenza primale, noi oltrepassiamo ipso facto l’insormontabile ultimatività trascendentale fenomenologica. Ma d’altra parte, se non trascendiamo la razionalità contingente della presenza primale come “sostanza assoluta”, non otteniamo alcuna giustificazione per un principio (divino) esplicativo distinto, ma piuttosto ci resta un principio ultimo contingente che, perciò, non è ultimo del tutto e che lascia la razionalità contingente a questo riguardo inesplicata.57

Per tali ragioni, anche da questo punto di vista, sembra urgente il richiamo ad un’ultimatività trascendente che «sappia» contenere l’assolutezza della coscienza nella sua struttura monadologica che la collega al mondo-ambiente (Umwelt) e, quindi, all’eventualità fattuale. Per di più, come nota Hart, l’eventualità insopprimibile della fattualità si manifesta non solo in questa forma, per così dire, accidentale, cioè relativa soltanto agli eventi monadici nel mondo-ambiente, bensì soprattutto nella forma di una raziocinante contingenza che, se non trascendiamo, «quando perveniamo (reach) al “principio divino”, in effetti, non abbiamo ragione di concepire questo principio come divino, poiché abbiamo un potere esplicativo tale che ci deriva dalla razionalità contingente della presenza primale».58 Ma, di conseguenza all’esclusione tematica della trascendenza di un essere perfetto, verrebbero a cadere tanto la trascendenza dell’essere divino quanto la significatività teleologica dell’idea guida che la coscienza costitutivamente richiede.

E allora, quale significato avrebbe l’idea di perfezione che anima la storia e che ne consente lo sviluppo, se quest’idea non include una rappresentazione ideale dell’essere perfetto che la coscienza ritiene in sé? D’altro canto, l’idea di questa trascendenza suprema come esistente non implicherebbe alcuna ammissione «antifenomenologica» di inammissibili pregiudizi. Con ciò si intende precisare che sarebbe del tutto incontraddittoria, in tal caso, la neutralizzazione della trascendenza divina che Husserl impone in campo eidetico; mentre, per contro, la medesima «messa in parentesi» e l’esclusione della trascendenza divina, sono assolutamente improponibili nel campo metafisico, dove appunto si richiede una precisa «giustificazione» del fatto-che-accade teleologicamente in una contingenza, in cui si esprimono l’entelechia e l’intenzionalità. Per tale ragione, se la fenomenologia consegna alla metafisica l’indagine scientifica sul vero essere e sulla sua autentica effettività, deve anche considerare quali siano le conseguenze di una simile indagine che va a sfociare in una «teleologia empirica» ed in una «teologia», le quali attendono urgentemente una «rifondazione» fenomenologica.59

E, dunque, conveniamo con Hart:

dobbiamo trascendere la contingenza perché il Faktum als Quelle, la fatticità come sorgente, è tale solo se essa è più che un mero fatto contingente; ma, d’altro lato, la Quelle, sorgente, come essenzialmente trascendente la fatticità, come più che un mero Faktum e come pura necessità, è ingiustificato dalla sostanza assoluta ultima della riflessione trascendentale. La soluzione che stiamo proponendo come la più vicina al pensiero husserliano, è quella in cui la contingenza è condotta al principio ultimo in maniera tale da preservare la contingenza, il Faktum, e da assicurare un principio, Quelle, che è fondamento (ground) e necessità. La “Sostanza Assoluta” deve contenere entro sé un principio “divino” che, da un lato, spiega la razionalità contingente della presenza primale ma che non è esso stesso contingente nella maniera in cui è contingente la presenza primale.60

In breve, potremmo dire interpretando il pensiero di Hart, occorre valutare l’eventualità che la soggettività trascendentale «ospiti» l’idea divina come idea di un principio trascendente assoluto e non contingente e, inoltre, quella di una contingenza che un principio teleologicamente esprime nella volontà di accadere dell’intenzionalità, la quale a sua volta si piega nel mondo degli accadimenti, nelle eventuali forme che la razionalità sceglie. In questo senso «il principio ultimo (“sostanza assoluta”), intende Hart, coimplica entro se stesso la contingenza in una maniera tale che la contingenza del divino in nessun modo rende la divinità contingente o il principio ultimo della razionalità contingente».61

In nessun caso cioè il principio divino può essere considerato contingente anche se, in un certo senso, è il motore teleologico da cui ha luogo l’intero processo della razionalità contingente. «“La contingenza del divino” quindi sta per l’essenziale correlato dell’agire divino (divinity’s agency); ma entrambe le cose, divinità e contingenza, sono momenti della “sostanza assoluta”».62 Ovvero si tratterebbe di una natura naturans, natura naturata per cui il divino, secondo la definizione presente in un Manoscritto, «non crea il mondo come una magia, bensì come un’idea esistente che come tale presuppone un sostrato non-esistente, la più o meno oscura consapevolezza»63 che, per Hart, è la prote-hule.

L’essere del divino dunque sembra delinearsi come quell’idea esistente che «forma» ogni cosa, agendo nella non-ancora piena consapevolezza del sostrato iletico come se la totale consapevolezza spetti all’unità delle coscienze da cui ha origine l’intero sviluppo coscienziale. E così, la questione della contingenza nella relazione tra la trascendenza divina e l’assolutezza trascendentale può essere conclusa, tenendo presente che sia la trascendenza come la contingenza o, insomma, la «divinità» ed il «sostrato iletico» «sono gli astratti momenti della “sostanza assoluta”»64 e che, in fondo, rientrano nella «staticità-fluente» (standing-streaming) del polo egologico della soggettività assoluta (come unità delle coscienze).

In tale maniera l’accadere apparentemente contingente che si riscontra nella sfera iletica, è coordinato da un principio razionale, l’idea, il quale opera da e nella materia e pervade intenzionalmente ogni fatto. Tuttavia, bisogna notare, ciò non implica affatto ed in alcun modo un determinismo, poiché l’attività individuale è consegnata al singolo intenzionare che, proprio per la sua imprevedibilità, si dice contingente. E, d’altro lato, la volontà egologica individuale è spinta alla tensione intenzionale dall’idea di perfezione e quindi dal principio trascendente che Husserl chiama l’idea di Dio. I due poli dunque sembrano coimplicarsi a vicenda e costituire un’unità o, almeno, un luogo di incontro nella correlazione di coscienza ed essere, ossia in quella che Hart ha chiamato «sostanza assoluta».

Eppure, ci chiediamo, come è davvero possibile accettare la soluzione hartiana del «problema di Dio» in Husserl, quando la «trascendenza divina» viene descritta come uno dei due momenti astratti, insieme al «sostrato iletico» della medesima «sostanza assoluta»? Ed inoltre, in quale maniera possiamo ancora parlare di trascendenza suprema non inventatacreata dalle operazioni coscienziali?

La soluzione che proponiamo e che, rispetto alla fondazione strasseriana della trascendenza di Dio fin qui seguita, ci sembra aggiungere un nuovo ed interessante tassello al «problema di Dio» in Husserl, è quella che conserva dell’entelechia divina un’assolutezza fondante, rispetto a quell’assolutezza che la soggettività trascendentale intenzionalmente esprime nel mondo-ambiente. Quest’ultimo, a sua volta, è, a nostro avviso, il ponte di collegamento tra le due forme di assolutezza e quindi rappresenta ciò che ne permette la più autentica e veridica espressione.

Ma, il cammino a cui tale affermazione condurrebbe e che sembra intendere la trascendenza divina come l’oltrepassamento fondativo, per così dire, dell’assolutezza della soggettività trascendentale, è fenomenologicamente inammissibile. Pertanto con il supporto che l’indagine metafisica (da intendere qui ultra-fenomenologica) ci fornisce, possiamo osservare con gli «occhi della ragione» le due differenti e necessarie assolutezze come incontraddittoriamente interdipendenti, di cui l’una assolutamente trascendente (o «momento astratto» della soggettività, come l’ha chiamata Hart), l’altra invece come costitutivamente esplicativa dell’entelechia contenuta nella storia (o «richiesta» di un’idea assolutamente trascendente, come guida del significativo agire intenzionale).

Stando così le cose il «problema di Dio» in Husserl non può essere svincolato dall’attività coscienziale della soggettività trascendentale egologica, come pure proprio in virtù di una simile attività spirituale, non può esservi incluso immanentemente come suo mero correlato. Occorre cioè valutare di questa trascendenza i significativi legami che dalla soggettività si muovono verso di essa, ma valutare anche i momenti espressivi che, di essa, la teleologia manifesta. In tale senso una metafisica fenomenologica dovrebbe proseguire il cammino intentato dalla metafisica husserliana, per ravvisare nella fattualità l’intenzionalità che l’entelechia rende manifesta e quindi ripercorrere a ritroso quella via «non confessionale a Dio», che conduce dall’intenzionalità iletica a Dio.

Tuttavia proprio perché Husserl ha accennato solamente alcuni passi in questa direzione, non è possibile spingersi oltre le sue conclusioni, senza rischiare di misconoscere o, peggio, di interdire le autentiche intenzioni dell’Autore.

5. La ragione pratica e assoluta

Proviamo ora a considerare dell’intenzionalità iletica (sempre in riferimento al mondo-ambiente monadico) i momenti salienti in cui da essa prende forma l’armonia teleologica. Riferiamoci cioè all’azione volitiva, intenzionata, che kantianamente Husserl definisce molto spesso come «ragione pratica»,65 cercando di osservare le conseguenti implicazioni a cui l’azione stessa conduce. «Tutto il bello di ogni volontà diretta al Bene, afferma Husserl, è un raggio della volontà divina».66 E dunque nell’espressione della ragione pratica della volontà singola si rende manifesta la volontà divina, l’entelechia, e la realizzazione di ogni fine diretto alla perfezione, che ogni volontà finita esprime. «In ogni anima umana si trova — questa è la fede — una vocazione al bene, un germe (Keim) da coltivare (entfalten) individualmente. In ognuno si trova un io ideale, il vero “io” della persona che si realizza solamente nel comportamento “retto” (volto al Bene)».67

Questa verità, secondo Husserl, è comprovata dallo studio della storia che fin dalle origini (dall’originario thaumazein) ha mostrato correlativamente al suo sviluppo quello di una volontà, razionalmente fungente nella storia, e volta al Bene. Per questo motivo, osserva M. Biemel nella sua introduzione-presentazione al Manoscritto E III 7, l’analisi storica degli uomini primitivi che Husserl propone un questo contesto è essenziale, in quanto fa luce sulla sua concezione «dello sviluppo teleologico come vittoria della ratio sulla tradizione» ed il suo «quasi razionalistico ideale» come Entwicklungsziel.68 La «meta di sviluppo», ossia l’idea di perfezione che ogni coscienza «ritiene in sé», rappresenta la più esplicita espressione di una eventuale crescita razionale dell’uomo. «La ragione teoretica, scrive Husserl, è la teoria della ragione pratica ed è di per sé la componente della ragione pratica attuale».69

Il concetto di ratio dunque è connesso evidentemente a quello di entelechia, dato che se l’uno ne è espressione, l’altra ha le possibilità esplicative solo in virtù della Zweckidee (meta ideale) che anima l’agognare cosciente dell’uomo. Ed anzi molti critici, come Duméry e Tilliette e, in un certo senso, anche Boehm, hanno addirittura argomentato a favore della tesi di un’identificazione della ratio stessa con il divino o con l’assoluto che immanentemente guida la storia.70

Ma, a nostro avviso, le cose non stanno esattamente in questi termini o, almeno, non soltanto in maniera così unidirezionale. Basti pensare alla riflessione husserliana del Manoscritto K III 2 in cui si dice che «Dio parla in noi, Dio parla nell’evidenza della decisione che da tutta la mondanità finita conduce alle modalità infinite».71 Ognuno ha dentro di sé una meta protesa verso l’infinitamente buono e perfetto, che egli deve perseguire cercando, in vista della sua realizzazione, i mezzi che la ragione pratica può fornire. Questa «tendenza» innata che dobbiamo individualmente coltivare, è il richiamo (Ruf) all’idealità, che ci vede fautori di una volontaria aderenza ai principi che la ratio presenta ai nostri occhi. È questo un ritorno all’evidenza dell’autodatità, da cui il cammino illuminato dalla ratio ci conduce al Dio sovrumano.

Tutti i percorsi retti in me, ma che sono in me attraverso i miei Io-compresenti (mit-Ich), dai quali io sono inseparabilmente, questo Io, precisa Husserl, conducono a Dio, che nient’altro è che il polo — verso cui da ogni Io (che dal mio Io è un Io altro, così come io grazie a lui mi determino per lui come l’altro Io) si diparte la via che conduce come sua individuale via, anche se tutte le vie vi conducono, allo stesso Polo che è Dio ultramondano e sovrumano, ma non come punto separato delle vie che parallelamente concorrono, bensì in una indescrivibile compenetrazione.72

Per questo motivo, ci sembra possibile diversificare la strumentalità della ragione pratica dall’Assolutezza dell’essere divino, il quale, a sua volta, non può identificarsi con la somma delle singole volontà umane per il solo fatto che Dio è la meta di tutti i percorsi ma non il percorso tout court. È se mai vero che la natura dell’essere divino è raggiunta idealmente dall’attività razionale, nel senso che, come sostiene Vancourt, è «proponibile una dimostrazione razionale dell’esistenza di Dio ed un “approccio filosofico” alle verità religiose», qualora si tenti di arginare i limiti di un’interpretazione immantentistica, che porterebbe l’essere divino ad identificarsi con la ratio.73

Ma d’altra parte è legittima anche un’affermazione che ritiene che la concezione teologica contenuta nelle opere di Husserl può dare adito ad un’interpretazione panteistica. E ciò avviene soprattutto nei casi in cui Husserl usa la metafora che descrive la vita divina come la vita che «vive in tutte le vite»,74 la quale, a nostro avviso, potrebbe essere letta come una volontà da parte della fenomenologia husserliana di puntualizzare il legame ed il richiamo a quell’interiore presenza del divino in noi, di reminiscenza agostiniana, a cui Husserl fa spesso riferimento e con cui conclude i suoi Discorsi parigini: «noli foras ire, dice Agostino, in te redi, in interiore homine habitat veritas».75

In tale senso, le affermazioni husserliane di questo tipo andrebbero interpretate cercando di intendere Dio come l’idea di perfezione in noi impressa in quanto «orma di in finitezza», che riproduciamo nel «tendere» infinitamente alla perfezione assoluta, da parte del telos divino. E questa ammissione ci permette di avanzare l’ipotesi di un’eventuale raffigurazione fenomenologica della presenza divina, come una sorta di richiamo interiore ad una riflessione che ci coinvolge spiritualmente e che non è o, almeno, non è esclusivamente connettibile alla fondazione della soggettività trascendentale.

Con ciò di certo non si pretende di dissipare le evidenti contraddizioni che innegabilmente emergono da una lettura approfondita dell’opera husserliana sul «problema di Dio», contraddizioni che, presumiamo, siano sembrate tali perfino all’Autore, il quale, a partire dagli anni Venti, muta completamente la tradizionale prospettiva della trascendenza, affrontando il problema dalla diversa angolazione dell’intersoggettività e, conseguentemente, coniando un nuovo senso di trascendenza. In questa ottica il concetto di teologia che negli anni della fenomenologia «premonadica» era connesso a quello dell’esperienza percettiva e, dunque, a quello immanente di ragione, si distacca completamente da questa, formando con essa un nucleo interdipendente costituito da due differenti unità: da una parte, quindi, la ratio che ha il compito di favorire lo sviluppo razionale o filosofico del telos che l’uomo porta in sé (non a caso il telos è definito in Krisis come la volontà umana «di essere un’umanità fondata sulla ragione filosofica»76); dall’altra parte il telos come esperienza della presenza dell’idea di un essere perfetto sovramondano e sovrumano, in cui la ratio trova verità e perfezione. Nell’ultimo Husserl, sembrano confermare le analisi strasseriane, «Dio è caratterizzato come trascendente non solo in relazione al mondo, ma anche in relazione alla “coscienza assoluta”»77 e quindi all’azione intenzionale della sua razionalità che rende effettivo ed effettuale il telos.78

Ora il problema che Husserl affronta, in conseguenza all’apertura di questo nuovo spazio, è quello che concerne una certa «volontà metafisica» di essere, nel senso che l’ideale che la volontà (ragione pratica) persegue deve essere fondato nell’assolutezza,79 ossia deve costituire la «volontà di vita», la «capacità decisionale della volontà, come volontà rivolta all’infinità, all’eternità. Per cui ogni volontà finita è data o tolta una volta per tutte nella sua pura funzionalità nell’infinità».80

A proposito, è opportuno notare, anche Fichte aveva connesso la volontà al divino sostenendo, nelle sue ultime riflessioni, che il divino si rispecchia nella coscienza, soprattutto nel dover-essere e nella volontà morale. A tutto ciò Husserl si riferisce quando afferma che «le prospettive della religione che la fenomenologica mi ha dischiuso, mostrano un sorprendente ravvicinamento alla tarda dottrina fichtiana di Dio»,81 quella che cioè fa coincidere la volontà morale con il divino medesimo.

Ma, sebbene questa posizione sia in generale valida nel contesto teologico husserliano, bisogna notare che per Husserl, in maniera sempre più decisa, nel progredire degli anni, la volontà di realizzazione del Bene diviene un dispiegamento della ragione assoluta individualmente attiva e, soprattutto, il divino non è volontà come per Fichte, bensì entelechia.82 E tale entelechia inoltre non coincide, come si è osservato più volte, in nessun senso con le volontà intersoggettive, bensì le precede poiché non c’è identità tra la Volontà divina e la volontà individuale del singolo. In questo senso possiamo dire che la realizzazione individuale di ogni singola volontà che è mossa dall’ideale dell’assoluta perfezione, partecipa alla realizzazione ed allo sviluppo del telos divino, ma l’essere divino non è immediatamente o, per lo meno, non solamente telos.

L’essere divino, come volontà divina, «presuppone l’intersoggettività», nel senso che ogni volontà presuppone l’essere che è per essa presupposto. «Questo non significa che esso non possa darsi senza le volontà universali “che muovono il mondo” e che forgiano il mondo secondo verità, bensì soltanto che il mondo appartiene alla concretezza dell’essere assoluto…».83 Quindi la singola volontà (ragione pratica) si accorda alla volontà divina nel suo essere guidata dalla ragione teoretica (assoluta) che sola può fornire l’autentico spiraglio di verità a cui deve dirigersi il proprio agire. Ciò è certamente evidente nelle Trattazioni relative alla problematica del rinnovamento che Husserl aveva destinato alla rivista giapponese «The Kaizo». Qui egli infatti ribadisce la propria convinzione che ogni essere umano conserva in sé la facoltà astrattiva di immaginare un tale potenziamento della volontà e della ragione teoretica, da poter creare l’immagine (la visione) di un probabile essere perfetto infinito a cui tutto l’umano «tendere» è diretto. Husserl spiega così il nesso tra volontà e divinità, ricorrendo proprio al fatto che nella volontà è insita la richiesta e l’esigenza di un ideale assoluto di perfezione.

Di contro a questo ideale di perfezione assoluta, sta quello di perfezione relativa, l’ideale dell’uomo umano perfetto, dell’uomo in possesso delle migliori potenzialità, di una vita che egli può condurre secondo una consapevolezza di volta in volta sempre “possibilmente migliore” — un ideale insomma, che porta ancora in sé la stampa dell’infinitezza.84

Ecco perché la volontà umana non è e non potrà mai dirsi infinita o assoluta, neppure nel caso «collettivo» in cui la direzione intersoggettiva delle volontà si esprime unitariamente in un telos. L’idea del telos, intesa come l’Energie (dynamis) che lo attivizza generandolo, bisogna ricordarlo ancora, è la volontà divina «che tuttavia presuppone tutta l’intersoggettività, non nel senso che quest’ultima precede la prima e sia possibile senza di essa… piuttosto come strati strutturali, senza cui questa volontà non può essere concreta».85

Così possiamo comprendere il valore teleologico e teologico che la ragione riveste nella riflessione metafisica della fenomenologia husserliana, allorquando Husserl inserisce la tematica del Vernunftmensch o della Weltweisheit, oppure quella di una Willengemeintschaft intenzionata verso un’umanità autentica in un Überstaat umanamente retto e guidato dalla ragione pratica assoluta. Ed in fondo è più chiaro il senso che assume il filosofo come «educatore» della ratio in un ambito etico o, ancora più, nella sfera teleologica o teologica: «i filosofi, ritiene Husserl, sono chiamati ad essere i rappresentati dello spirito della ragione, l’organo spirituale in cui la comunità perviene originariamente e progressivamente alla coscienza della sua autentica determinazione (della sua vera inseità)…».86

La «forza» che l’uomo ha dentro di sé (il Logos che l’uomo ha sviluppato, traendone l’origine dalla sua insita natura di uomo) e che lo volge instancabilmente alla realizzazione del Bene, deve essere da parte dell’umanità, coltivata ed assecondata. Solo così infatti è possibile svelare l’autentico telos che l’umanità testimonia attraverso la storia, e solo così è possibile pensare ad una metafisica fenomenologica per la quale tale telos diviene baluardo proprio di quella fatticità, in cui si esprimono intenzionalità ed entelechia.

«Non il fatto in generale, spiega Husserl, ma il fatto come sorgente di valori possibili e reali, crescenti all’infinito, impone la questione del suo “fondamento” — che non ha naturalmente il senso di una causa fisica».87 Per questo motivo dunque il problema del «fondamento» derivato dalla fatticità, ovvero la celebre questione della «domanda regressiva» (Rückfrage) si riallaccia a quello etico-razionale di una volontà che scopre la propria «direzionalità», nel «principio regolatore» della Gottesidee.

Il richiamo palese ai principi kantiani o fichtiani come si è già rilevato, se non certamente a Leibniz, pone la riflessione etica husserliana su un piano di continuità rispetto alle visioni più propriamente classiche, ma ciò non va affatto ad inficiare l’originalità degli spunti filosofici che questa sottende. Ne è riprova l’eventuale immediato sviluppo di alcuni temi, come quello dell’intenzionalità iletica nel suo rapporto metafisico (ossia concreto, nell’essere) con il telos che si sviluppa nelle volontà intersoggettive, cui abbiamo fatto riferimento in queste pagine, o come quello di grande suggestione del rapporto che la ratio «volente-intenzionante» instaura con l’infinitezza del «fondamento». «La coscienza infinita di Dio, si legge nelle Lezioni sulla coscienza interna del tempo, abbraccia tutto il tempo “in una volta”. Questa coscienza infinita di Dio è atemporale».88 È infatti questa la direzione in cui si sono mosse le autorevoli ricerche della Stein o quelle sul sacro di Scheler.89 O ancora ci si potrebbe interrogare sull’origine di quel «fondamento», l’innominabile punto-della-sorgente-originaria,90 che «ha in sé la sua fondazione e nel suo essere infondato la sua assoluta necessità, come quella di una “sostanza assoluta”»91 da cui, come sostiene Melchiorre,92 si è sviluppata la critica heideggeriana all’onto-teologia.

Eppure, nonostante la catena di ulteriori riflessioni di grande valore filosofico che potrebbero conseguire alle stimolazioni offerte dalle conclusioni husserliane, non bisogna mai dimenticare che, come sottolinea opportunamente Melchiorre, «i testi editi e soprattutto quelli inediti testimoniano l’itinerario di una ricerca non ancora conclusa e, come tali, vanno rispettati».93 Per tale ragione, nonostante l’interpretazione che in questa ricerca abbiamo proposto di una teleologia che conduce alla trascendente concezione (teistica, come si è osservato) dell’essere divino, non possiamo spingerci oltre le testimonianze edite ed inedite che Husserl ci ha lasciato, del suo pensiero.

Alla luce di tali motivazioni ci sembra doveroso ricordare che qualora si cerchi, da parte di Husserl, una costituzione sistematica definitiva di quella via metafisica che fenomenologicamente percorsa ci ha condotti alla teologia, si resterà sicuramente delusi. Ed è altrettanto evidente che proprio perché la ricerca husserliana è rimasta in fieri inconclusa, è interpretativo ogni tentativo che cerchi di racchiudere in asserzioni definitive la lezione metafisica riportata nelle pagine husserliane. Ne è conferma il fatto che sopravvivono interpretazioni diametralmente opposte della questione, che non possono essere cestinate come non valide in quanto nascono da un’insita ambiguità o, meglio, da una mancanza di una tematizzazione sistematica precisa, se così si può dire, del problema e delle finalità proprie della metafisica, da parte di Husserl medesimo.

Sappiamo con certezza che la metafisica ci conduce alla teologia, perché Husserl ci dice che la filosofia autentica, ovvero quella fenomenologica che si rivolge alle cose e dunque alla scienza della realtà (la metafisica) «è eo ipso teologia».94 Sappiamo inoltre con altrettanta certezza che un’interpretazione trascendente (la «nozione relativa di trascendenza»,95 come la chiama Melchiorre, con le cui conclusioni conveniamo) dell’entelechia divina non è affatto esclusa da Husserl, ma che, anzi soprattutto nelle ultime opere come si è tenuto a sottolineare, è forse quella veramente più vicina al pensiero husserliano.

Ma forse ciò non può dissipare del tutto le differenti letture panteistiche del «problema di Dio» in Husserl. Lecite infatti sono le interpretazioni della metafisica o della teologia husserliana offerte da Dupré o da Funke per il quale «una fenomenologia come metafisica non è possibile», se non intendendo la fenomenologia stessa soltanto «come controllo della metafisica», nel suo senso ingenuo di scienza dell’essere «in sé».96 O quella di Tilliette che nel definire l’egoità «origine e fine, orizzonte teleologico e senso di tutti i sensi»,97 finisce per scolorire il senso autentico del «sostrato di tutti i sostrati» di cui parla la Krisis,98 in un inutile riflesso di sé a sé della soggettività trascendentale.

Ma tant’è; e dato che, come sostiene Ales Bello, il Dio verso cui ci dirigono le «indicazioni» husserliane è una «divinità oggetto di un approccio intellettuale»,99 è allora possibile scoprire, attraverso l’indagine fenomenologico-metafisica che ci ha condotti al cospetto di un simile concetto di divinità, il senso razionale-filosofico contenuto nel fondamentale impegno di un «ritorno alle cose». Quel senso cioè che solo una ratio nel costante movimento dell’autorischiaramento, può portare alla luce: «che l’essere-uomo implica un essere-teleologico e un dover-essere, e che questa teleologia domina ogni azione e ogni progetto egologico…».100

6. La fede in Husserl

Prima di giungere alle conclusioni di questa ricerca, ci sembra opportuno riflettere sull’eventualità che riguardo al «problema di Dio» nella filosofia di Husserl, vi sia posto, oltre che per il fenomenologo, per il cosiddetto Vernunftmensch capace di rinvenire in sé il telos e l’imperativo categorico del dover-essere una coscienza che nutre la sua insita tensione alla Gottesidee, anche per l’uomo che semplicemente si affida alla luce del divino e che esperisce concetto di tutto ciò spiritualmente. Se, insomma, come sostiene Mall, veramente convivano in Husserl «due anime», quella di un «instancabile fenomenologo» e quella del «cristiano credente».101

Con ciò si vuole in altri termini provare a rintracciare, a fianco del percorso fenomenologico che ci ha condotti alla teleologia e, dunque, alla teologia, un percorso per così dire alternativo a questo, che tuttavia non parta da presupposti (il che sarebbe antifenomenologico), bensì che muova dalla «ragione naturale», come ragione «spirituale» in grado di esperire in sé, sentendo, l’idea di Dio. Queste due strade di cui l’una è quella più propriamente filosofica che Husserl in più occasioni ripete essere «la mia a-religiosa via alla religione, la mia, per così dire, via a Dio»,102 mentre l’altra è quella storica della Rivelazione, si distanziano nettamente l’una dall’altra. Infatti, laddove la prima può essere raggiunta da un’indagine fenomenologica attraverso l’entelechia iletica, la seconda, basandosi su un episodio storico (l’avvento di Cristo nella storia, la «norma vivente», secondo il Quinto dei Kaizo-Artikel), attende a spiegazioni «ultrafenomenologiche», che riposano nel sentire proprio della fede.

Scrive a questo proposito Husserl:

La via attraverso la filosofia, è la via non storica, ossia quella che proviene dall’insorgere della conoscenza autonoma e, attraverso questa, di un’unificazione, in un nuovo senso, universale dell’agire pratico. Si tratta quindi di una via che si dirige ad una concezione, propria di ogni uomo e del mondo, di un Dio generato, secondo ciò che la rivelazione storica ha tramandato per tutti gli uomini che sono parte integrante di questa tradizione, senza aver condiviso altro di più ovvio — e ciò vale naturalmente anche per l’ateo. In realtà tuttavia, un sapere che non premette la rivelazione, ossia una forma di sapere universale tale, che non conosce alcuna rivelazione o non la riconosce come fatto precedentemente dato (anche da trasformare in senso gnoseologico, in seguito), è atea. Perciò dunque se un tale sapere conducesse a Dio, la sua via a Dio sarebbe una via atea a Dio, come una via atea verso l’autentica necessaria comunità umana compresa come substrato per una ultrarazionale, ultrastorica unificazione di ciò che di ultratemporale, ultraempirico, un’autentica umanità per lo più produce.103

L’ateismo equivale in un certo senso alla visione privilegiata della ragione che può raggiungere, per vie che le sono proprie, gli stessi risultati della fede. Dal canto suo però la fede s’innesta nell’animo umano indipendentemente dalla riflessione razionale che ne rivela la presenza. Per questo motivo le due differenti «vie» potrebbero avere un punto d’incontro.

La ragione naturale in un certo qual modo, spiega Husserl, è la verità teoretica data, che precede la Rivelazione pur restandole accanto. Tuttavia Cristo entra nel mondo, che è il mondo esperito… E questo mondo è un dato di fatto, che si rende riconoscibile indipendentemente dalla “fede”. C’è stato anche un tentativo della filosofia di creare dimostrazioni scientifiche sul senso del mondo, della vita dell’uomo, della giustizia e dell’ingiustizia, sulle mete umane volte all’utile ed all’inutile (gut, törich), ecc.; e così di dimostrare teleologicamente l’esistenza di Dio, l’immortalità dell’anima, ecc. Questo sapere naturale deve essere conciliato con la fede, mentre i contenuti stessi della fede devono divenire tema dei giudizi teoretici che conseguono alla fede, ma che non la fondano.104

La fede dunque è l’infondabile che deve restare tale o, altrimenti, affiancato dalle verità fondate; come se nonostante la possibilità di capire e raggiungere il medesimo risultato, la fede fosse la coscienza una «forza» particolare diretta alla sua medesima verità. «La fede, conferma Husserl, è l’assoluta e più elevata esigenza derivata dall’Io (aus-Ich)».105 Essa è verità illuminata da una luce «innaturale» (übervernünfig), quella che proviene dalla Rivelazione, ben differente dalla luce che emana della ragione «la quale si mette in azione individualmente nella comunità (betätigenden in Vergemeinschaftung)».106 Alla scoperta della verità fondata su un principio che ha il suo punto di partenza nel sentire intuitivo, quindi si contrappone questa forma «sovrarazionale» di un’esigenza fortemente sentita di assoluta validità.

In questo senso la fede può divenire «naturale esperienza teoretica» rientrando così nella sfera fenomenologica come «la questione ultima e più impellente nel sistema costitutivo del metodo fenomenologico»107, oppure può restare «richiesta», «urgenza» di una verità che l’uomo «avverte in sé».

Ciò che attribuisce alla fede religiosa, almeno quando è ancora fede vivente, la sicurezza di dio e della verità divinamente rivelata, è un che di metafisicamente trascendente, che travalica quel mondo che costituisce il tema della conoscenza scientifica e ne costituisce il fondamento d’essere ultimo, il quale include, quale fondamento ultimo, le norme assolute, sotto le quali noi poniamo la nostra esistenza umana nel mondo.108

Si tratta ancora dunque del problema del fondamento a cui la fede, così come la ragione filosofica, incessantemente si richiamano.

La distinzione tra ragione e fede in Husserl non è dunque così netta come abitualmente la critica sostiene, giungendo in alcuni casi ad affermare una sorta di inibizione husserliana nei confronti della trattazione fenomenologica del «problema di Dio».109 L’idea di Dio e, contemporaneamente, la fede in Dio possono coesistere nella radicalità della fenomenologia husserliana, a patto che non si cerchi nella seconda il «riempimento intuitivo» che soltanto un corrispettivo correlato oggettuale dell’idea di Dio può fornire. Ma questa «impossibilità costitutiva» è oltremodo ovvia e lo stesso Husserl non avanza mai una simile pretesa nelle sue riflessioni fenomenologiche. In questo ambito infatti c’è posto soltanto per l’immagine di un Assoluto che la ratio teleologicamente scopre nella realtà, come Gottesidee ma non certo come Gotteserscheinung. Per contro, occorre sottolineare, tale particolarissima forma di idea non esclude affatto la fede nell’esistenza di una simile totalità assolutamente perfetta e, soprattutto, non può dirsi «atto noematico incompleto», come sostiene Mall, bollata come inverificato presupposto della teologia husserliana.110

L’incompletezza, ovvero la mancanza di un diretto correlato dell’idea di Dio, mostrano invece un’incommensurabile diversità tra quello che Mall chiama il «fenomeno dio» e gli altri fenomeni. E, proprio per questo motivo, la tematizzazione di una simile idea richiede un’ulteriore e più approfondita indagine che tenga presente, da un lato, il fatto che la fenomenologia non può uscire dall’assolutezza della soggettività assoluta fondandosi oltre se stessa (il che richiederebbe una fondazione ultrafenomenologica che Husserl non potrebbe che respingere) e che da un altro lato, riconosca altresì al fondamento trascendentale (la soggettività assoluta) una tensione ideale, fenomenologicamente accettabile e razionalmente accessibile, a cui la Gottesidee si riferisce.

D’altra parte questo ci sembra voler dire l’affermazione husserliana sul «fondamento» della teleologia (differente dal fondamento trascendentale), per cui «il principio teologico, che si può ragionevolmente supporre, non può essere assunto come una trascendenza nel senso del mondo: poiché ciò costituirebbe, come si può prevedere in base ai nostri risultati, un circolo assurdo. Il principio ordinativo dell’assoluto deve essere trovato, per mezzo di una considerazione puramente assoluta, nell’assoluto stesso».111

In questo senso ci sembra di poter proporre un eventuale prosieguo del cammino che la metafisica fenomenologica husserliana ha lasciato intentato, nella direzione tracciata dalla proposta teleologica di Husserl la quale, come sostiene Ales Bello, «non esclude né la trascendenza, né il teismo. Dio è ritenuto come il fine verso il quale tendono le cose, ciò che giustifica il loro valore e non si identifica con esse».112

Ora, se questo «fine» sia fenomenologicamente ritenuto da «Husserl fenomenologo», per riprendere ancora una volta la metafora di Mall, come il «principio regolatore» a cui l’uomo «funzionario dell’umanità» è chiamato a riferirsi o, altrimenti, al Dio trascendente della fede cristiana che Husserl professava o se addirittura, come sembra forse più opportuno credere, a tutte le due cose insieme, la soluzione di questo enigma è forse secondaria rispetto al senso che comunque è implicito nell’idea fenomenologica di Dio, come riscoperta della tensione alla verità assoluta ed alla perfezione assoluta che ogni uomo porta interiormente in sé. Quella verità di un’intenzionalità fungente nell’avvicendarsi materiale della storia, in cui è possibile vedere proiettata individualmente, nella propria interiorità, la presenza da sempre fungente di un Assoluto, che nell’idea ci richiama alla realizzazione umana, dell’entelechia divina.113

Per riconoscere l’operato di Dio, scrive Husserl riferendosi alla teleologia del mondo, devo già credere e così riesco a vedere il percorso che individualmente Dio mi ha assegnato.114


  1. E. Husserl, Vorlesungen über die Ethik und Wertlehre (1908-1914), in «Husserliana» XXVIII, cit., p. 182. Husserl definisce altrove questa analisi come Rückfrage zur hyle (C 3 IV). ↩︎

  2. K. Hartmann, Metaphysics in Husserlian Phenomenology, in «Journal of the British Society for Phenomenology», vol. 16, n. 3 (1985), p. 291. ↩︎

  3. Ib., p. 226. ↩︎

  4. S. Strasser, History, Teleology, and God in the Philosophy of Husserl, cit., p. 324. ↩︎

  5. Inseriamo, a chiarificazione di questo ultimo punto, un’affermazione che nel Manoscritto E III 4 Husserl fa a proposito di Platone, per il quale «… è pensabile solo un logos della verità, solo un Dio, che è un’idea… un’essenza nella assoluta verità» (cfr. A. Ales Bello, Husserl. Sul problema di Dio, cit., p. 47). ↩︎

  6. E. Husserl, Vorlesungen über die Ethik und Wertlehre (190-1914), in «Husserliana» XXVIII, cit., p. 226. ↩︎

  7. E. Stein, La fenomenologia di Husserl e la filosofia di S. Tommaso d’Aquino, cit., p. 290. In queste pagine Stein rileva l’affinità di base tra la filosofia religiosa di Tommaso e quella fenomenologica di Husserl relativamente al valore assunto dal Logos nella filosofia stessa. Per contro, le due posizioni divergerebbero, fra l’altro, nel modo di intendere la verità a cui il Logos perviene: per Husserl, in un processo filosofico infinito, per Tommaso nella scoperta che la verità è Persona. La Stein conclude propendendo per una sorta di conciliazione tra le due parti in una filosofia cristiana ché le verità di fede, considerate dal credente «tesi», possano divenire, per il non credente, «ipotesi». ↩︎

  8. A. Ales Bello, Husserl. Sul problema di Dio, cit., p. 12. ↩︎

  9. Ib., p. 13. ↩︎

  10. S. Strasser, History, Teleolog, y and God in the Philosophy of Husserl, cit., p. 318. ↩︎

  11. E. Husserl, Zur Phänomenologie der Intersubjektivität. Texte aus dem Nachlaß. Dritter Teil (1929-1935), in «Husserliana» XV, cit., «Beilage XLVI», p. 610. ↩︎

  12. S. Strasser, History, Teleology, and God in the Philosophy of Husserl, cit., p. 320. ↩︎

  13. E. Husserl, Ideen zu einer reinen Phänomenologie und phänomenologischen Philosophie. Erstes Buch: Allgemeine Einführung in die reine Phänomenologie, in «Husserliana» III, cit., p. 140; ed. it.: E. Husserl, Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica. Libro primo: Introduzione generale alla fenomenologia pura, cit., p. 128. ↩︎

  14. A tale riguardo, c’è un passo della Quinta Meditazione che sembra offrire un interessante spunto riflessivo: «noi dobbiamo renderci conto dell’intenzionalità esplicita e di quella implicita in cui l’alter ego si annunzia e si verifica sul piano del nostro ego trascendentale…» (E. Husserl, Cartesianische Meditationen und Pariser Vorträge, in «Husserliana» vol. I, cit., § 42, p. 122; ed. it.: E. Husserl, Meditazioni Cartesiane, cit., p. 114). Può questa intenzionalità implicita rappresentare emblematicamente un analogo della nostra entelechia iletica? Ossia, così come esiste un’intenzionalità implicita che l’altro manifesta in me, potrebbe altrettanto darsi un’intenzionalità implicita globale, per così dire, che assommi tutte le intenzionalità implicite↩︎

  15. E. Husserl, Zur Phänomenologie der Intersubjektivität. Texte aus dem Nachlaß. Zweiter Teil (1921-1928), in «Husserliana» XIV, cit., «Beilage LIII», pp. 439-442. ↩︎

  16. L. Langrabe, Phänomenologie und Metaphysik, Marion von Schröder Verlag, Hamburg, 1949, p. 194. Dice espressamente Landgrabe: l’Assoluto «è esperito dal singolo uomo (Dasein) come richiesta». Questa interpretazione, per altro molto affascinante seppure non propriamente husserliana, s’incentra sulla relazionabilità della chiamata di Dio in cui il Dasein, esperendo la chiamata, è vicendevolmente coinvolto in un reciproco fondarsi trascendente. Tuttavia questa ammissione, secondo la Ales Bello, conduce Langrabe «ad un’interpretazione panteistica»; poiché egli «identifica la soggettività trascendentale con l’Assoluto». (A. Ales Bello, Husserl. Sul problema di Dio, cit., p 113). ↩︎

  17. A. Ales Bello, Husserl. Sul problema di Dio, cit., pp. 39-40. ↩︎

  18. E. Husserl, Zur Phänomenologie der Intersubjektivität. Texte aus dem Nachlaß. Erster Teil (1905-1920), in «Husserliana» XIII, cit., «Beilage IV», p. 9. ↩︎

  19. E. Husserl, Zur Phänomenologie der Intersubjektivität. Texte aus dem Nachlaß. Zweiter Teil (1921-1928), in «Husserliana» XIV, cit., «Beilage XLI», pp. 302. ↩︎

  20. E. Husserl, Zur Phänomenologie der Intersubjektivität. Texte aus dem Nachlaß. Dritter Teil (1929-1935), in «Husserliana» XV, cit., p. 381. ↩︎

  21. E. Husserl, Cartesianische Meditationen und Pariser Vorträge, in «Husserliana» I, cit., p. 139; ed. it.: E. Husserl, Meditazioni Cartesiane, cit., p. 129. ↩︎

  22. K. Held, Lebendige Gegenwart, cit., pp. 182-183. Relativamente a questo concetto teologico di interiorità, ci sembra doveroso il riferimento ad un’opera di Yung-Han Kim che prende in esame proprio il rapporto teleologico con l’interiorità raffrontandolo con la dottrina agostiniana. (Yung-Han Kim Phanomenologie und Theologie. Studien sur Fruchtbarmachung des transendental-phänomenologischen Denkens für das christlich-dogmatische Denken, Peter Lang, Frankfurt a/M., 1985, pp. 31-36). ↩︎

  23. E. Husserl, Zur Phänomenologie der Intersubjektivität. Texte aus dem Nachlaß (1929-1935), in «Husserliana» XV, cit., p. 383. ↩︎

  24. Ib., p. 386. ↩︎

  25. L. Langrabe, Phänomenologie und Metaphysik, cit., pp. 194-195. A tale riguardo, si pensi alle conseguenti numerose analisi sull’importanza del dialogo e del linguaggio, compiute dal celebre assistente di Husserl, Martin Heidegger (M. Heidegger, In cammino verso il linguaggio, tr. it. A. Caracciolo e M. Caracciolo Perotti, Murzia Editore, Milano 1991, pp. 189-212). ↩︎

  26. Sarebbe interessante notare che uno degli obiettivi fenomenologici di Levinas è stato proprio quello di sviluppare il concetto di Altro a partire dalle sue radici husserliane. (E. Levinas, Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, tr. it. S. Petrosino, Jaca Book, Milano 1991, pp. 5-26). ↩︎

  27. Il rapporto estensione-intensione, affrontato fra gli altri anche da von Wright, potrebbe suggerire interessanti soluzioni «causali» ed «esplicative» ad un simile interrogativo, anche se naturalmente lontane dall’opera husserliana che stiamo esaminando (cfr. G.H. von Wright, Spiegazione e comprensione, tr. it. G. di Bernardo, Il Mulino, Bologna 1971, pp. 63-sgg.). ↩︎

  28. E. Husserl, Zur Phänomenologie der Intersubjektivität. Texte aus dem Nachlaß. Erster Teil (1905-1920), in «Husserliana» vol. XIII, cit., «Beilage IV», p. 9; dove si dice testualmente che «Dio vede la cosa da un lato (con la m i a coscienza) e «contemporaneamente» dall’altro lato (con la coscienza dell’a l t r o)». ↩︎

  29. E. Husserl, Cartesianische Meditationen und Pariser Vorträge, in «Husserliana» I, cit., p. 182; ed. it.: E. Husserl, Meditazioni Cartesiane, cit., p. 171. ↩︎

  30. S. Strasser, History, Teleology, and God in the Philosophy of Husserl, cit., p. 324. ↩︎

  31. Ibidem. ↩︎

  32. E. Husserl, Manoscritto E III 14, p. 31 (citato da Strasser, ivi, p, 324). ↩︎

  33. Ib., p. 36b. ↩︎

  34. S. Strasser, History, Teleology, and God in the Philosophy of Husserl, cit., pp. 324-325. ↩︎

  35. Ib., p. 325. ↩︎

  36. L. Dupré, A Dubious Heritage, Paulist Press, New York, 1977, p. 87. ↩︎

  37. R.A. Mall, The God of phenomenology in comparative contrast to that of philosophy and theology, cit., p. 6. ↩︎

  38. Ib., p. 4. ↩︎

  39. E. Husserl, Formale und transzendentale Logik, in «Husserliana» XVII, cit., p. 258; ed. it.: E. Husserl, Logica formale e trascendentale. Saggio di critica della ragione logica, cit., p. 309. ↩︎

  40. S. Strasser, History, Teleology, and God in the Philosophy of Husserl, cit., p. 325. ↩︎

  41. Ibidem. ↩︎

  42. E. Husserl, Manoscritto F I 22, pp. 25-26 (cit. da Strasser, ivi, pp. 325-326). ↩︎

  43. L. Langrabe, Phänomenologie und Metaphysik, cit., p. 190. ↩︎

  44. E. Husserl, Manoscritto E III 4, p. 36a (cit. da Strasser, ivi, p. 333). ↩︎

  45. E. Husserl, Ideen zu einer reinen Phänomenologie und phänomenologischen Philosophie. Erstes Buch: Allgemeine Einführung in die reine Phänomenologie, «Husserliana» III, cit., p. 121; ed. it.: E. Husserl, Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica. Libro primo: introduzione generale alla fenomenologia pura, cit., p. 112. ↩︎

  46. E. Husserl, Die Krisis der europäische Wissenschaften und die transzendentale Phänomenologie, in «Husserliana» VI, hrsg. von. W. Biemel, M Nijhoff, Den Haag, 1962, p. 5; ed. it. E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, tr. it. E. Filippini, Il Saggiatore Milano, 1987, p. 37. ↩︎

  47. Ib., p. 7; ed. it., p. 38. ↩︎

  48. E. Husserl, Formale und transzendentale Logik, in «Husserliana» XVII, cit., p. 258; ed. it.: E. Husserl, Logica formale e trascendentale. Saggio di critica della ragione logica, cit., p. 309. ↩︎

  49. E. Husserl, Vorlesungen über die Ethik und Wertlehre (1908-1914), in «Husserliana» XXVIII, cit., pp. 225-226. ↩︎

  50. Ib., p. 176 (del Manoscritto originale, p. 12; della trascrizione, p. 46). ↩︎

  51. S. Strasser, History, Teleology, and God in the Philosophy of Husserl, cit., p. 328. ↩︎

  52. S. Strasser, Das Gottesproblem in der Spätphilosophie Edmund Husserls, in «Philosophisches Jahrbuch» LXVII (1958), p. 142. ↩︎

  53. S. Strasser, History, Teleology and God in the Philosophy of Husserl, cit., 330. ↩︎

  54. E. Husserl, Manoscritto E III 10, p. 18. ↩︎

  55. E. Husserl, Manoscritto B II 2, Horizont (1909 o 1910), p. 25a (ancora inedito). ↩︎

  56. E. Husserl, Vorlesungen über die Ethik und Wertlehre (1908-1914), in «Husserliana» XXVIII, cit., p. 176. ↩︎

  57. J.G. Hart, A prècis of an Husserlian Philosophical Theology, cit., p. 132. ↩︎

  58. Ibidem. ↩︎

  59. E. Husserl, Vorlesungen über die Ethik und Wertlehre (1908-1914), in «Husserliana» XXVIII, cit., p. 230. ↩︎

  60. J.G. Hart, A prècis of an Husserlian Philosophical Theology, cit., p. 132. ↩︎

  61. Ibidem. ↩︎

  62. Ib., p. 133. ↩︎

  63. E. Husserl, Manoscritto B IV 6, pp. 106-107 (ibidem). ↩︎

  64. J.G. Hart, A prècis of an Husserlian Philosophical Theology, cit., p. 133. Qui Hart fa riferimento alla terza delle Untersuchungen↩︎

  65. La differenza tra la ragione pratica kantiana e quella husserliana consiste soprattutto nel fatto che l’una ha di mira il comportamento individualmente retto al fine di edificare i precetti della ragione che ne sono a sostegno; l’altra, invece, è intenta al rinnovamento della ragione stessa e quindi della società che ha utilizzato quella ragione ingenuamente, confondendone cioè la sua autentica finalità nelle scienze (tra cui naturalmente si annovera l’etica). ↩︎

  66. E. Husserl, Manoscritto B II 2, Horizont, cit., p. 27b. ↩︎

  67. E. Husserl, Zur Phänomenologie der Intersubjektivität. Texte aus dem Nachlaß. Zweiter Teil (1921-1928), in «Husserliana» XIV, cit., p. 174. ↩︎

  68. E. Husserl, Manoscritto E III 7 (1934), Introduzione alla trascrizione. ↩︎

  69. Ib., p. 9. ↩︎

  70. X. Tilliette, come avremo modo di indicare più oltre, propende per una identificazione dell’egoità trascendentale con l’essere divino stesso così come Dumery che afferma la trascendenza di Dio in relazione al suo essere «noema» e «noesi» e, quindi, come «transordinal» (cfr. Le probléme de Dieu en philosophie de la religion, Desclée de Brouwer, Bruges 1957, p. 88). Infine Boehm, come si è già notato, parla di un Assoluto come identificabile, in fondo, con l’attività soggettiva dell’ego. ↩︎

  71. E. Husserl, Manoscritto K III 2 (1934-36), p. 54a. ↩︎

  72. Ib., p. 106. ↩︎

  73. R. Vancourt, La Phénomenologie et la foi, Descleé, Tournai, 1953, p. 85. ↩︎

  74. E. Husserl, Manoscritto B II 2, p. 27a. ↩︎

  75. E. Husserl, Cartesianische Meditationen und Pariser Vorträge, in «Husserliana» I, cit., p. 39; ed. it. E. Husserl, Meditazioni Cartesiane, cit., p. 33. ↩︎

  76. E. Husserl, Die Krisis der europäische Wissenschaften und die transzendentale Phänomenologie, in «Husserliana» VI, cit., «Beilgage XVIII», p. 508; ed. it.: E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, cit., p. 44. ↩︎

  77. S. Strasser, History, Teleology, and God in the Philosophy of Husserl, cit., p. 326. ↩︎

  78. A questo proposito è possibile inserire brevemente la difficile questione dell’ingenerabilità della coscienza, da cui potrebbero altresì svilupparsi nuove interpretazioni panteistiche dell’immanenza trascendentale. L’ingenerabilità del coscienziale va intesa come la contemporaneità di questo stato con l’espressione teleologica del telos. L’uomo cioè è nato implicando il suo sviluppo e quello della storia futura, come sviluppo razioncinante di una sovracoscienza, umanamente immanente. Ora, tuttavia, questa sovracoscienza e la sua assolutezza non hanno nulla a che fare con l’Assolutezza di un essere sovrumano, che la fenomenologia rileva come idea di Dio e la metafisica come telos nella storia. ↩︎

  79. Cfr. E. Husserl, Manoscritto E III 1 (1930-1934), pp. 1-8. ↩︎

  80. E. Husserl, Zur Phänomenologie der Intersubjektivität. Texte aus dem Nachlaß. Dritter Teil (1929-1935), in «Husserliana» XV, cit., p. 379. ↩︎

  81. E. Husserl, Manoscritto B III, p. 83. Il «ravvicinamento» ci sembra riscontrabile soprattutto in opere tarde di Fichte, come Introduzione alla vita beata del 1806 (»… in queste azioni non è l’uomo che agisce: ma è Dio stesso, nel suo essere intimo e originario nella sua essenza, che agisce nell’uomo e compie la sua opera mediante lui»). ↩︎

  82. La differenza con l’Idealismo assoluto di Hegel a questo punto è evidente. Mentre per quest’ultimo la realtà non è altro che esperienza della coscienza e quindi è «prodotta» dal pensiero, per Husserl il ritorno alle cose implica proprio il riconoscimento del darsi della realtà «estraneamente» al processo gnoseologico che ne certifica il darsi. Per questo la ragione che, secondo La fenomenologia dello Spirito, è la sostanza etica, «l’essenza dell’autocoscienza: ma questa è l’effettualità e l’esistenza della sostanza etica, è il suo Sé e la sua volontà», rappresenta l’inveramento della realtà e la scoperta della sua più autentica verità (G.W. Hegel, Fenomenologia dello spirito, tr. it. E. De Negri, La Nuova Italia, Firenze, 1973, vol. I, p. 361). Per Husserl ciò è inaccettabile perché la ragione ha fra i suoi primi compiti quello di «vedere» il concreto nel suo darsi a noi, al di là di tutte le presupposizioni a priori che l’Idealismo insistentemente impone. L’idealismo trascendentale, scrive infatti Husserl, non è «formato da un gioco di argomentazioni che debba vincerla nella lotta dialettica contro il realismo. È l’esposizione di senso realmente condotta sulla trascendenza (data all’io dall’esperienza) della natura, della cultura, del mondo in generale…» (E. Husserl, Cartesianische Meditationen und Pariser Vorträge, in «Husserliana» I, cit., p. 34; ed. it.: E. Husserl, Discorsi parigini, cit., p. 29). ↩︎

  83. E. Husserl, Zur Phänomenologie der Intersubjektivität. Texte aus dem Nachlaß. Dritter Teil (1929-1935), in «Husserliana» XV, cit., p. 381. ↩︎

  84. E. Husserl, «Erneuerung als individualethisches Problem» (1924), in Aufsätze und Vorträge, in «Husserliana» XXVII, cit., p. 34. ↩︎

  85. E. Husserl, Zur Phänomenologie der Intersubjektivität. Texte aus dem Nachlaß. Zweiter Teil (1928-1935), in «Husserliana» XIV, cit., p. 381. ↩︎

  86. E. Husserl, «Erneuerung und Wissenschaft» (1922/23), in Aufsätze und Vorträge, in «Husserliana» XXVII, cit., p. 54. ↩︎

  87. E. Husserl, Ideen zu einer reinen Phänomenologie und phänomenologischen Philosophie. Erstes Buch: Allgemeine Einführung in die reine Phänomenologie, in «Husserliana» III, cit., p. 139; ed. it.: E. Husserl, Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica. Libro primo: introduzione generale alla fenomenologia pura, cit., p. 128. ↩︎

  88. E. Husserl, Zur Phänomenologie des inneren Zeitbewußtseins (1893- 1917), in «Husserliana» X, cit., p. 175; ed. it.: E. Husserl, Per la fenomenologia della coscienza interna del tempo, cit., p. 196. ↩︎

  89. È interessante a questo punto osservare che mentre Edith Stein, come si è già accennato, si è volta ad osservare nella problematica dell’istante fenomenologico l’incontro di fenomenologia e cristianesimo, Scheler invece ha sviluppato la temporalità umana della fenomenologia come «autorealizzazione» di Dio attuabile solo nella e grazie alla storia umana (M. Scheler, Die Idee des Friedens und der Pazifismus, M.S. Frings, München, 1974, p. 21). ↩︎

  90. E . Husserl, Zur Phänomenologie des inneren Zeitbewußtseins (1893- 1917), in «Husserliana» X, cit., p. 75; ed. it. E. Husserl, Per la fenomenologia della coscienza interna del tempo (1893-1917), cit., p. 102. Precisamente Husserl parla di «un punto che è fonte originaria» e afferma: «per tutto questo ci mancano i nomi». ↩︎

  91. E. Husserl, Zur Phänomenologie der Intersubjektivität. Texte aus dem Nachlaß. Dritter Teil (1929-1935), in «Husserliana» XV, cit., p. 386. ↩︎

  92. V. Melchiorre, Prospettive teologiche nella filosofia di Husserl, cit., p. 217. ↩︎

  93. Ib., p. 212. ↩︎

  94. E. Husserl, Manoscritto B VII, p. 88. ↩︎

  95. V. Melchiorre, Prospettive teologiche nella filosofia di Husserl, cit., p. 215. ↩︎

  96. G. Funke, Phänomenologie. Metaphysik oder Methode?, cit., p. 57. Questo ci sembra il senso della definizione funkiana di un’eventuale metafisica fenomenologica. ↩︎

  97. X. Tilliette, Breve introduzione alla fenomenologia husserliana, a cura di E. Garulli, Lanciano, 1983, p. 124. ↩︎

  98. E. Husserl, Die Krisis der europäische Wissenschaften und die transzendentale Phänomenologie, in «Husserliana» vol. VI, cit, p. 497; ed. it. E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, cit., p. 523. ↩︎

  99. A. Ales Bello, Husserl. Sul problema di Dio, cit., p. 119. ↩︎

  100. E. Husserl, Die Krisis der europäische Wissenschaften und die transzendentale Phänomenologie, in «Husserliana» vol. VI, cit., pp. 275-276; ed. it.: E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, cit., p. 290. ↩︎

  101. R. A Mall., The God of phenomenology in comparative contrast to that of philosophy and theology, cit., p. 6. Riguardo il Vernunftmensch che dall’idea di Dio in sé, si costruisce un comportamento, sarebbe interessante notare, come propone in queste pagine Mall, un certo avvicinamento da parte di Husserl «allo spirito del Buddismo e del taoismo» proprio nel connettere «l’idea di religione con quella di comportamento etico»; cfr. E. Husserl, Aufsätze und Vorträge (1922-1937), in «Husserliana» XXVII, cit., pp. 125-126. ↩︎

  102. E. Husserl, Manoscritto B IX, p. 124. Ci sembra molto interessante, a proposito, la lettura «religiosa» che Vattimo propone di uno dei più importanti aspetti della fenomenologia husserliana, vale a dire, dell’epoché, assimilandola ad una sorta di conversione spirituale. («Quella che, riprendendo un termine del pensiero tardo antico, Husserl ha chiamato l’epoché, cioè il metter tra parentesi convinzioni e certezze scientifiche, per cogliere il loro fondamento ultimo nella evidenza della coscienza. Proprio questo esige un mutamento di atteggiamento così radicale che si può chiamare conversione»; G. Vattimo, Ritrovare se stessi sulla via di Damasco, in «Liberal» n. 1, 5. III. 1998, p. 163). ↩︎

  103. E. Husserl, Manoscritto, A VII 9, p. 20. La difficilissima resa in italiano di questo passo ha richiesto, soprattutto in alcuni punti, una traduzione decisamente libera. ↩︎

  104. E. Husserl, Aufsätze und Vorträge (1922-1937), in «Husserliana» XXVII, cit., p. 103. ↩︎

  105. E. Husserl, Manoscritto, A V 21, Ethisches Leben. Theologie-Wissenschaft (1924-27), p. 15b. ↩︎

  106. Ib., p. 2a. ↩︎

  107. E. Husserl, Manoscritto, B VII, p. 87. ↩︎

  108. E. Husserl, Die Krisis der europäische Wissenschaften und die transzendentale Phänomenologie, in «Husserliana» VI, cit., «Beilage XVIII», p. 508; ed. it.: E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, cit., p. 535. ↩︎

  109. È ciò che sostiene Liverziani allorquando scrive che «Husserl si trova inibito a far entrare Dio in fenomenologia» (F. Liverziani, Il «paradosso della soggettività umana» e le sue implicazioni metafisiche, cit., p. 306). A questa affermazione seguono interessanti citazioni dall’opera husserliana che però, a nostro avviso, non danno alcun conforto, né conferma di una simile inibizione da parte di Husserl. ↩︎

  110. R. A Mall, The God of phenomenology in comparative contrast to that of philosophy and theology, cit., p. 10. ↩︎

  111. E. Husserl, Ideen zu einer reinen Phänomenologie und phänomenologischen Philosophie. Erstes Buch: Allgemeine Einführung in die reine Phänomenologie, «Husserliana» III, cit., p. 121; ed. it.: E. Husserl, Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica. Libro primo: Introduzione generale alla fenomenologia pura, cit., p. 112. L’assoluto non va inteso, come avveniva nell’Idealismo assoluto, come inveramento del reale nel Sapere assoluto, bensì, come si è sostenuto, come visione dell’assolutezza (il reale non è l’ideale, ma ciò che si dà, nel legame intenzionale alla coscienza). ↩︎

  112. A. Ales Bello, Husserl. Sul problema di Dio, cit., p. 119. ↩︎

  113. Sarebbe interessante un parallelo tra l’idea di Dio in Husserl ed il concetto dell’assente presenza di un Dio trascendente, in Levinas. ↩︎

  114. E. Husserl, Manoscritto A V 21, p. 24a. ↩︎