Il ruolo della Gaia scienza nello sviluppo del pensiero nietzscheano e il concetto di onestà intellettuale

Nell’interpretazione dell’opera di Friedrich Nietzsche si è purtroppo fino ad ora dedicata poca attenzione alla struttura interna dei suoi scritti. Spesso non si è attribuita alcuna logica alla sequenza degli aforismi e ai criteri del loro ordinamento, sebbene l’autore stesso abbia espressamente richiamato l’attenzione su questa chiave di lettura della sua opera, esigendo dai suoi lettori pazienza filologica.1 Wolfram Groddeck parla di una razionalità architettonica che si presenta nelle opere di Nietzsche come «labirinto».2 Per orientarsi in questo labirinto bisogna avere un filo da tenere stretto nelle mani e da seguire nelle stanze dei diversi aforismi. Nel presente scritto verranno seguiti due fili, che corrono paralleli e talora si intrecciano, perché si tratta di due punti di vista che sono in realtà due facce di uno stesso problema, il problema che a mio parere caratterizza il libro della Gaia scienza nella sua edizione originaria del 1882:3 il superamento della fase della Freigeisterei (libertà di spirito) e il passaggio all’insegnamento di Zarathustra. I fili da seguire per comprendere questo passaggio fondamentale del pensiero nietzscheano sono i seguenti: da un lato l’affermarsi della crisi del progetto illuministico, che viene portato avanti nelle opere della fase della Freigeisterei (da Umano, troppo umano alla Gaia scienza) e si esplicita nella critica alla metafisica e alla morale in nome della finitezza; d’altro lato il tema dell’onestà intellettuale, che rappresenta tanto il motore del progetto illuministico quanto la causa della sua messa in discussione e del suo superamento. L’analisi del concetto di ‘onestà intellettuale è a mio parere un punto di vista privilegiato, per comprendere lo sviluppo del pensiero di Nietzsche. Nel destino dell’onestà intellettuale, infatti, che entra in crisi proprio nel momento in cui radicalizza la sua funzione, si rispecchia il destino del progetto illuministico, e se ne comprende al tempo stesso la causa.

Nella prima parte di questo scritto verrà seguito il primo filo e si mostrerà la qualità della Gaia scienza come opera di transizione verso il pensiero dell’eterno ritorno, mentre il ruolo giocato dall’onestà intellettuale in questa transizione e l’analisi della sua origine verranno trattati nella seconda parte.

1. La Gaia scienza tra Freigeisterei e il pensiero dell’eterno ritorno

La Gaia scienza è stata scritta quando l’autore era già occupato dal pensiero dell’eterno ritorno, che, secondo la testimonianza di Nietzsche stesso, era sopraggiunto nella forma di una sorta di visione nell’agosto del 1881. A questa data infatti risale un abbozzo che porta il titolo Wiederkunft des Gleichen (Ritorno dell’uguale). Ma nel libro composto tra la primavera e l’estate del 1882, che porta il titolo di Gaia scienza, non si trova alcuna esposizione di questo pensiero. Il tema principale dell’opera è ancora, come nel precedente scritto Aurora, la critica alla morale e alla religione nell’ambito del progetto illuministico inziato con Umano, troppo umano. L’atteggiamento di Nietzsche viene descritto da Salaquarda nel seguente modo: «Nietzsche evidentemente era sin dal principio convinto della enorme importanza del suo pensiero, che nell’aforisma 341 della Gaia scienza designa come “Il peso più grande”. Ma era indeciso su come e in quale contesto potesse comunicare nel migliore modo possibile al pubblico questo “pensiero dei pensieri”».4 Egli indugiava nella composizione dell’opera, che al principio era stata pensata come la continuazione di Aurora. Ma l’incontro e la promettente amicizia con la giovane russa Lou Salomé lo convinsero a terminare l’opera:

In questa straordinaria giovane donna credette di aver trovato la tanto attesa discepola e l’erede spirituale del suo pensiero. Per conquistarla a questo ruolo, volle fornirle una sintesi scritta degli ultimi sviluppi del suo pensiero. Per accellerare i tempi, fece uso per il nuovo progetto del materiale già esistente, ma cercò di presentarlo in una forma più fortemente indirizzata verso la nuova inclinazione del suo pensiero.5

Pertanto vennero inseriti diversi riferimenti alla «nuova dottrina», fino all’ultimo momento prima della stampa.6

1.1 Ironia e superamento del progetto illuministico nella Gaia scienza

Il pensiero dell’eterno ritorno però non è presente solo in queste allusioni. L’intera atmosfera circolante in questo libro costituisce un riferimento continuo ad esso. Qui viene abbandonato il tono tragico di Aurora7 e questo è possibile solo alla luce del pensiero dell’eterno ritorno, che tra l’altro si presenta come amor fati. Dinnanzi all’amor fati viene meno la serietà della passione per la conoscenza e la gravitas della lotta per una rinascita illuministica. Di fronte al «peso più grande» del pensiero dell’eterno ritorno la conoscenza del peso delle cose sembra perdere d’importanza, tanto da dissolversi in una sorta di ilarità. La scienza può divenire quindi «gaia». Presupposto della «gaia scienza» è allora la «nuova dottrina» dell’eterno ritorno dell’uguale. D’altra parte la Gaia scienza deve essa stessa assolvere il compito di preparare il cammino della «nuova dottrina», mostrando che non esiste alcuna verità assoluta e che ogni risultato della conoscenza, anche della conoscenza realizzata dall’intelletto critico e antimetafisico, costituisce solo un punto di vista e non l’assoluta verità. Nella Gaia scienza viene rappresentato un pensiero prospettivistico che intende definitivamente eliminare il concetto clessico di verità. In questo modo viene portata alle estreme conseguenze la critica alla metafisica implicita nel progetto illuministico. Ma l’estremizzazione della prospettiva illuministica porta al tempo stesso alla sua crisi, dal momento che non si può avere un «illuminismo» (Aufklärung) se non c’è una verità da «illuminare» (auf-zu-klären). La conoscenza viene privata della sua serietà, e il pensare diventa gioco. Questo passaggio viene sottolineato dal tono ironico, che è percepibile sin dai primi aforismi del libro.

Nell’aforisma 1 («I teorici del fine dell’esistenza») il superamento del concetto di verità viene considerato come perdita del fine dell’esistenza. Con ciò l’esistenza perde la sua tragicità, che consiste nella tensione verso fini irraggiungibili. Al tragico segue il «riso». Inizia il tempo della «gaia scienza»:

Ridere di se stessi come si dovrebbe, se si volesse ridere procedendo da tutta la verità: per far questo i migliori fino ad oggi non hanno avuto abbastanza senso della verità e i più dotati troppo poco genio. […] Forse il riso si sarà allora alleato alla saggezza, forse allora ci sarà, se non altro, una «gaia scienza».8

Ma Nietzsche prosegue: «per il momento le cose stanno ben diversamente, per il momento la commedia dell’esistenza non è ancora “divenuta cosciente” di se stessa — per il momento continua ad aesserci il tempo della tragedia, il tempo delle morali e delle religioni», cioè il tempo nel quale «quel che sempre, necessariamnte, accade, di per se stesso e senza scopo alcuno […] appare fatto in vista di uno scopo e risulta plausibile all’uomo come ragione e ultimo comandamento».

Nell’aforisma 2 («La coscienza intellettuale») l’autore sembra invece sdegnato nell’osservare che «manca ai più la coscienza intellettuale», cioè che «i più non trovano disprezzabile credere questo o quello e vivere conformemente a questa credenza, senza essersi prima resi consapevoli delle ultime e più fondate ragioni a favore e contro, e senza nemmeno essersi data, più tardi, la pena di cercare siffatte ragioni». Alla luce delle parole del primo aforisma questo giudizio, però, non può venir preso così seriamente, dal momento che si è già venuti in chiaro del fatto che le «ultime e le più fondate ragioni» semplicemente non esistono, e che «l’esigenza della certezza» è priva di senso. Perciò Nietzsche sembra esecitare una certa autoironia, quando scrive: «questo è quel che io sento spregevole». Tale autoironia si manifesta poi nell’ultima frase, dove si trova l’allusione alla «follia» del «nobile sentimento» dei filosofi che tende ad indagare le ragioni dell’essere: «non so per quale follia torno sempre a persuadermi che ogni uomo, in quanto uomo, possiede questa sensazione. È il mio genere di ingiustizia».

Se si osserva la sequenza degli aforismi del primo libro, si può cogliere il ripetersi di queste ironiche contraddizioni, tanto da rilevare un atteggiamento complessivamente ironico nei confronti del progetto illuministico fino ad ora portato avanti. Il concetto di «gaia scianza» è così presente nel primo libro più nel tono generale dello scritto che in precise asserzioni sul tema.

Tutto il primo libro si potrebbe leggere e interepretare alla luce della conclusione del primo aforisma. Qui trovano la loro giustificazione sia la dottrina del fine dell’esistenza, e con essa la disposizione tragica del sapere, che la mancanza di scopo, e di conseguenza la gaia scienza, entrambe in nome del superiore principio della «conservazione della specie»:

E il previdentissimo filantropo di rincalzo: «Non soltanto il riso e la gioconda saggezza, bensì anche il tragico con tutto il suo irrazionale, appartiene ai mezzi e alle necessità della conservazione della specie!» Ne consegue allora… ne consegue, ne consegue! O fratelli miei, mi intendete voi? Intendete questa nuova legge del flusso e del riflusso? Anche noi abbiamo il nostro tempo!

Questa «legge del flusso e del riflusso» potrebbe essere la cifra del labirinto di questo libro (e dell’intera opera), e infatti si può osservare che nell’alternanza degli aforismi alcuni rimandano alla crisi e al superamento del progetto illuministico, altri rientrano ancora pienamente nel tono della Freigeisterei, secondo il modello verificato nei spracitati aforismi. E in ciò si realizza la gaiezza del gioco della conoscenza.

È poi nel quarto libro, l’ultimo della prima edizione dell’opera, che viene espressamente chiarito il significato di «gaia scienza», proprio mentre si rivela nel modo più evidente il carattere di transizione dell’opera, che, come si è detto, è stata pensata da Nietzsche come introduzione al pensiero dell’eterno ritorno.9 Nell’aforisma 327, sotto il titolo significativo di «Prendere sul serio», Nietzsche scrive:

L’intelletto è nei più una macchina pesante, tenebrosa e scricchiolante, che malamente si riesce ad avviare: costoro chiamano «prendere la cosa sul serio» quando vogliono lavorare con questa macchina e ben pensare — oh! come deve essere gravoso per loro il ben pensare! L’amabile bestia uomo appare perdere il suo buon umore ogni qualvolta pensa bene: essa diventa «seria»! E «dove c’è riso e allegrezza, il pensare non vale un bel nulla», così suona il pregiudizio di questa bestia seria contro ogni «gaia scienza». Orsù! Mostriamo che è un pregiudizio!

1.2 «La vita come mezzo della conoscenza» e la vita estetica

La «gaia scienza» è un nuovo tipo di pensiero, al quale sono chiamati tutti coloro che vengono identificati con l’appellattivo «spiriti liberi» e che spesso sono designati nell’opera con il pronome personale «noi». Il presupposto di questo nuovo tipo di pensiero è il superamento della sua dimensione tragica, come viene chiarito nell’aforisma 324 («In media vita»):

No. La vita non mi ha disilluso. Di anno in anno la trovo invece più ricca, più desiderabile e più misteriosa — da quel giorno in cui venne a me il grande liberatore, quel pensiero cioè che la vita potrebbe essere un esperimento di chi è vòlto alla conoscenza — e non un dovere, non una fatalità, non una frode. E la conoscenza stessa: può anche essere per altri qualcosa di diverso, per esempio un giaciglio di riposo o la via ad un giaciglio di riposo, oppure uno svago o un ozio; ma per me essa è un mondo di pericoli e di vittorie […] «La vita come mezzo della conoscenza» — con questo principio nel cuore si può non soltanto valorosamente, ma perfino gioiosamente vivere e gioiosamente ridere.

Se la vita diventa un mezzo della conoscenza, la conoscenza perde lo scopo di servire la vita, o di condurre la vita «ad un giaciglio di riposo». Di conseguenza la tragedia del sapere perde di significato. Infatti il tragico della conoscenza consiste nel fatto che essa finisce per distruggere le condizione su cui riposa la vita, proprio mentre vuole porre la vita sotto la luce della verità e ritiene così di elargirle un servigio. Se però viene accolta la prospettiva che la cosa più importante non è la vita, bensì il conoscere in sè, interpretato come un «mondo di pericoli e di vittorie», cioè come un grande esperimento senza scopo, la disperazione di colui che si è vòlto alla conoscenza si trasorma in un «vivere gioiosamente e gioiosamente ridere». E la vita stessa d’altra parte diviene «un esperimento di colui che è vòlto alla conoscenza», dal momento che ad essa è tolto ogni altro scopo al di fuori della conoscenza. La riduzione della vita e della conoscenza ad uno sperimentare che non mira ad alcuno scopo non significa niente altro che il rifiuto della dottrina del fine dell’esistenza. E questo rifiuto rappresenta uno dei punti di partenza per approdare al pensiero dell’eterno ritorno.10

Nell’aforisma 123 («La conoscenza più che un mezzo»), che si trova subito prima dell’annuncio dell’uomo folle (aforisma 125), Nietzsche allude già alle conseguenze della morte di Dio: la morte di Dio significa la perdita dell’assoluto, non solo nell’ambito della religione, ma anche della morale e della conoscenza. Morte di Dio significa «morte» dell’assoluto bene e dell’assoluto vero, cioè fine dei criteri assoluti relativi all’agire e al sapere. Ma se non c’è alcuna verità e alcun bene in sè, la conoscenza non è più un mezzo per la conquista della verità o della virtù. Incredibilmente viene confermato il giudizio del Papa Leone X, il quale aveva definito la conoscenza «come l’ornamento più bello e l’orgoglio più grande della nostra vita». Nel suo giudizio il Papa taceva però la propria convinzione che comunque nella vita ci fosse qualcosa di più importante di questo «ornamento», vale a dire la «verità rivelata» e la «salvezza eterna dell’anima». Ma se tali beni sono spariti con la morte di Dio, rimane alla fine solo l’«ornamento», così che la vita scivola nella dimensione della vita estetica.

La vita estetica è la vita come esperimento, che non ha nessun altro scopo al di fuori di se stessa, e può essere compresa nella forma del gioco. Essa costituisce il punto di riferimento per comprendere il pensiero dell’eterno ritorno, e al tempo stesso la sua conseguenza e la sua espressione esistenziale.

All’inzio della prima parte di Così parlò Zarathustra si trova infatti il discorso «Delle tre metamorfosi», dove vengono descritte allegoricamente le forme di esistenza che corrispondono rispettivamente al pensiero metafisico, al progetto illuministico e al pensiero dell’eterno ritorno. La forma di esistenza che dà espressione al pensiero dell’eterno ritorno viene stigmatizzata attraverso la figura di un bambino dedito al gioco:

Innocenza è il bambino e oblio, un ricominciare, un giocare, una ruota che ruota da sola, un primo impulso, un santo dir di sì.

Come il discorso di Zarathustra è da collegare alla comunicazione del «pensiero dei pensieri», anche l’affermazione ripresa dalla Gaia Scienza sulla vita come esperimento ovvero sulla vita estetica è da comprendere alla luce del pensiero dell’eterno ritorno.

Questa chiave di lettura è confermata nel quinto libro della Gaia scienza, che risale alla seconda pubblicazione dell’opera nel 1886, dopo la composizione di Così parlò Zarathustra. Nel penultimo aforisma di questo libro (n. 382: «La grande salute»), infatti, viene rappresentato l’ideale di coloro che sono «senza paura» (Furchtlose) e che nel sottotilo di questo quinto libro vengono interpellati con il pronome personale «noi», vale a dire di coloro che sanno vivere anche di fronte al terribile pensiero dell’eterno ritorno: «l’ideale di uno spirito che ingenuamente, cioè suo malagrado e per esuberante pienezza e possanza, giuoca con tutto quanto fino ad ora fu detto sacro, buono, intangibile, divino». A coloro che incarnano questo ideale è dedicata ed per costoro è scritta la Gaia scienza.

1.3 La prospettiva ontologica e l’«istanza superiore»: il principio di conservazione della specie e l’arte

La vita estetica, considerata ontologicamente, rinvia all’identità tra essere e apparire. Su questo aspetto ontologico, che sta al fondo della perdita di tragicità dlla conoscenza, di cui abbiamo detto, si esprime al meglio l’aforisma 54 («La coscienza dell’apparenza»):

… Che cosa è ora per me «apparenza»! In verità, non l’oppposto di qualche sostanza: che cosa posso asserire di una qualche sostanza, se non appunto i soli predicati della sua apparenza? In verità, non una maschera inanimata, che si potrebbe applicare ad una X sconosciuta e pur anche togliere! Apparenza è per me ciò stesso che realizza e vive, che va tanto lontano nella sua autoderisione da farmi sentire che qui tutto è apparenza e fuoco fatuo e danza di spiriti e niente più…

La prima conseguenza della trasformazione dell’apparenza in essere viene tratta da Nietzsche in relazione alla morale. Se tutto viene ridotto ad apparenza, anche i principi morali divengono «maschere inanimate», dietro le quali si muove la vita priva di scopo e di senso. I principi morali sono espedienti per offrire un appoggio all’eterno movimento della vita, affinché l’esistenza divenga per l’uomo sopportabile. Anche i valori dell’Illuminismo rientrano in questo giudizio.

In tale situazione «Nietzsche necessitava di altri criteri, sulla base dei quali egli potesse giudicare la moralità della morale»,11 dopo aver messo in discussione i criteri che avevano guidato il progetto illuministico.

Nel primo libro è la conservazione della specie a costituire il punto di vista dal quale Nietzsche intende superare il progetto illuministico. La conservazione della specie dovrebbe rappresentare quella istanza superiore rispetto alla quale sia la libertà di spirito (Freigeisterei) che la morale tradizionale, ovvero «nobile e volgare» (cfr. aforisma 3) vengono da un lato relativizzati, dall’altro giustificati.

Nel seguente passo del sopracitato aforisma 54 Nietzsche presenta il ruolo dell’uomo della conoscenza in rapporto alla conservazione della specie:

… che tra tutti questi sognatori anch’io, l’«uomo della conoscenza», danzo la mia danza; che l’uomo della conoscenza è un mezzo per tirare in lungo la danza terrena ed in questo senso fa parte dei soprintendnti alle feste dell’esistenza; e che la sublime consequenzialità e concomitanza di tutte la conoscenze è, forse, e sarà il mezzo più alto per mantenere l’universalità delle loro chimere di sogno e la generale comprensione reciproca di questi sognatori e con ciò appunto la durata del sogno.

La capacità della conoscenza di conservare la specie umana non dipende solo dal fatto che essa grazie all’invenzione e all’uso dei concetti è in grado di creare i presupposti per la reciproca comprensione umana. L’uomo vòlto alla conoscenza, soprattutto lo spirito libero che realizza il progetto illuministico, appartiene ai mezzi di conservazione della specie umana anche per il fatto che egli rappresenta l’elemento «nuovo», rivoluzionario, che è necessario alla vita non meno dell’elemento vòlto al mantenimento delle tradizioni, risiedente nell’istinto del gregge.

L’istanza della conservazione della specie sta al di là del bene e del male, che invece sono al servizio di questa istanza. Il male, infatti, non sarebbe niente altro che «il nuovo», il quale porta con sè sempre una forza distruttrice, mentre «l’antico», il rassicurante ordine esistente rappresenterebbe il bene.12

L’istanza della conservazione della specie implica una prospettiva, però, nella quale è ancora presente una certa differenza tra due diversi piani ontologici, ovvero quello del singolo e quello della specie. La coscienza dell’apparenza non è ancora stata portata alle sue più radicali conseguenze, poiché la conservazione della specie umana detiene ancora un certo primato, morale e ontologico, di fronta al singolo. Sebbene non si tratti di un giudizio morale, la conservazione della specie viene vista come una realtà «superiore».

Nel secondo libro della Gaia scienza, però, il ruolo di questa «istanza superiore» viene assunto dall’arte, soprattutto sulla scorta di un approfondimento della riflessione sul rapporto tra essere e apparire.

Nella fase illuministica del pensiero di Nietzsche, in particolare in Umano, troppo umano, l’arte viene respinta quale inebriante illusione e falsificazione della realtà. In particolare Nietsche si rivolge contro l’arte wagneriana, di cui era stato appassionato sostenitore e che poi finisce per considerare come il più grande pericolo per l’affermazione della libertà di spirito. Ma con l’entrare in crisi del progetto illuministico anche l’arte riceve una nuova valutazione.

Nell’aforisma 57 (il primo del secondo libro), dedicato «Ai realisti», Nietzsche indica la nuova posizione assunta nei confronti dell’arte, ascrivendo la medesima «passione» ed «ebbrezza» propria degli artisti tanto «agli uomini equilibrati», che si sentono «corazzati contro la passione e i capricci della fantasia», quanto agli spiriti liberi.

Nell’aforisma 58 («Solo come creatori») si capisce chiaramente che solo l’artista è in grado di accettare la sussistanze della pura apparenza, dal momento che egli non si dà più pena di svelare la realtà, bensì di crearla:

fin dal principio l’apparenza ha finito quasi sempre per diventar la sostanza, e come sostanza si è resa operante. Chi pensasse che il rinvio a quest’origine e a questo nebbioso involucro dell’illusione basterebbe ad annientare questo mondo tenuto per sostanziale, questa cosiddetta «realtà», non sarebbe altro che un bel pazzo! Solo come creatori noi possiamo annientare!

La vita artistica, ovvero la vita che crea forme, si può comprendere al meglio solo in relazione al pensiero dell’eterno ritorno, perché essa deve essere intesa come conseguenza della perdita del concetto di verità e della mancanza di scopo ell’esistenza.

Alla fine del secondo libro, nell’aforisma 107 («La nostra ultima gratitudine verso l’arte»), viene presentato un altro significato dell’arte: l’arte vale come mezzo per rendere l’esistenza sopportabile:

Se non avessimo consentito alle arti e non avessimo escogitato questa specie di culto del non vero, la cognizione dell’universale non-verità e menzogna che ci è oggi fornita dalla scienza, — il riconoscimento dell’illusione e dell’errore come condizioni dell’esistenza conoscitiva e sensibile, — non sarebbe affatto sopportabile. […]

In quanto fenomeno estetico ci è ancora sopportabile l’esistenza, e mediante l’arte ci è concesso l’occhio e la mano e soprattutto la buona coscienza per poter fare di noi stessi un siffatto fenomeno.

L’arte (così come la conservazione della specie) non è l’unico punto di orientamento dopo la fine del progetto illuministico. Si tratta piuttosto di una prospettiva, grazie alla quale l’esistenza può ancora trovare una giustificazione dopo la caduta dell’orizzonte metafisico. Nietzsche non intende, insomma, proporre una nuova assolutizzazione dell’arte á la Wagner. Egli anzi mette in guardia da una tale assolutizzazione, individuando in questa il ripresentarsi sotto mentite spoglie della vecchia metafisica (cfr. aforisma 99: «I discepoli di Schopenhauer»). L’arte è, piuttosto che un principio, un mezzo per abbellire la vita e sciogliere la tragicità dell’esistenza nel gioco della finzione. L’arte è l’antidoto alla mortale serietà, nella quale gli spiriti liberi rischiano di cadere, qualora facciano dell’onestà intellettuale che li muove un principio morale. Ma di questo tema si parlerà più diffusamente nella seconda parta dello scritto.

1.4 «La morte di Dio»: presupposto dell’insegnamento di Zarathustra

Se nel primo e nel secondo libro della Gaia scienza è il problema dell’istanza superiore a costituire lo sfondo delle riflessione svolte negli aforismi, problema che viene risolto prima con il principio della conservazione della specie, poi con quello dell’arte, nel terzo libro il punto chiave è costituito dalla «morte di Dio», il cui significato viene chiarito nell’aforisma 109 («Stiamo all’erta!»). In questo aforisma infatti vengono presentate tutte le convinzioni alle quale dopo la morte di Dio, ovvero la perdita dell’Assoluto, si deve rinunciare:

Guardiamoci dal pensare che il mondo sia un essere vivente. […]

Guardiamoci bene dal credere che il mondo sia una macchina: non è certo costruito per una meta… […]

Guardiamoci dall’attribuirgli assenza di sensibilità e di ragione, ovvero l’opposto di essa: l’universo non è perfetto, né bello, né nobile e non vuol diventare nulla di tutto questo, non mira assolutamente ad imitare l’uomo! […]

Gurdiamoci dal dire che esistono leggi nella natura […]

Guardiamoci dal dire che morte sarebbe quel che si contrappone alla vita. Il vivente è soltanto una varietà dell’inanimato e una varietà alquanto rara. Guardiamoci dal pensare che il mondo crei eternamente qualcosa di nuovo. … quando sarà che tutte queste ombre di Dio non ci offuscheranno più? Quando avremo del tutto sdivinizzato la natura! Quando potremo iniziare a naturalizzare noi uomini, insieme alla pura natura, nuovamente ritrovata, nuovamente redenta!

La libertà di spirito può condurre fino alla morte di Dio, cioè fino all’eliminazione dell’assoluto. Ma questo non basta. Per accettare veramente la morte di Dio occorre porsi in una nuova ottica, assumere un nuovo punto di vista, non solo teoreticamente. Vale a dire lo si deve «incarnare».13 Solo così anche le ombre di Dio possono essere combattute.14 Ma «incarnare» significa creare una nuova visione del reale. Non ci si può infatti liberare veramente di qualcosa, se si rimane nella sua critica.

L’uomo folle, che sulla piazza del mercato annuncia la morte di Dio (aforisma 125), è consapevole del fatto che gli uomini non sono ancora pronti per comprendere il senso della terribile notizia. Essi sbeffeggiano l’uomo folle, perché non sono ancora venuti in chiaro delle conseguenze della perdita dell’assoluto. Non capiscono il discorso dell’uomo folle, perché il loro ateismo è superficiale. Esso rimane rinchiuso nella semplice negazione del supremo bene, senza pensare alla «trasvalutazione di tutti i valori», che ne consegue. In altre parole essi non hanno ancora compiuto la vera e propria «sdivinizzazione» della natura:

A questo punto il folle uomo tacque, e rivolse di nuovo lo sguardo ai suoi ascoltatori: anch’essi tacevano e lo guardavano stupiti. Finalmente gettò a terra la sua lanterna che andò in frantumi e si spense. «Vengo troppo presto — proseguì — non è ancora il mio tempo…»

L’autentica recezione dell’evento della morte di Dio si può avere solo sulla base di una nuova dottrina, che escluda la contrapposizione tra l’esistenza umana e l’assoluto eterno Dio cristiano, cioè metafisico. Questa è la dottrina dell’eterno ritorno dell’uguale.

1.5 I riferimenti al pensiero dell’eterno ritorno nel quarto libro

Il quarto libro della Gaia scienza, secondo l’intenzione di Nietzsche, doveva comunicare uno speciale sentimento, che disponesse alla recezione dell’annuncio di Zarathustra. Di seguito verranno prese in considerazione alcune affermazioni presenti in questo libro, che rimandano al pensiero dell’eterno ritorno e che aprono la via all’interpretazione di questo pensiero.

A differenza degli altri libri dell’opera il quarto libro ha un titolo (Sanctus Januarius), a cui segue una poesia. Il titolo si riferisce al felice Gennaio del 1882, che Nietzsche trascorse a Genova insieme con Paul Rèe. Il ricordo di quel tempo costituisce l’occasione per comunicare il tono felice di un pensiero che ha accettato la perdita dell’ordine universale, così da vedere «il necessario nelle cose come fosse quel che v’è di bello in loro». Si tratta dell’amor fati, che costituisce la prima forma in cui si dà il pensiero dell’eterno ritorno:

Aforisma 276 («Per il nuovo anno»): […] Amor fati: sia questo d’ora innanzi il mio amore! Non voglio muover guerra contro il brutto. Non voglio accusare, non voglio neppure accusare gli accusatori.

Questa volontà di dire di sì può essere compresa solo alla luce del pensiero dell’eterno ritorno, e al tempo stesso essa è indispensabile presupposto per accettare la dottrina di Zarathustra.

Se l’amor fati costitusce il primo approccio al pensiero dell’eterno ritorno e insieme la prima immediata conseguenza, non è ne è però l’unico. Nel quarto libro della Gaia scienza vengono accennate anche le altre prospettive che si allacciano al «pensiero dei pensieri» e che vengono poi prese in considerazione in Così parlò Zarathustra. Si tratta dei concetti di «volontà di potenza» (Wille zur Macht), di «superuomo» (Übermensch) e della vita estetica, di cui si è già parlato. Queste sono le parole chiave, che hanno causato diverse interpretazioni e incomprensioni, ma che acquistano il loro giusto significato solo in rapporto al pensiero dell’eterno ritorno, come Heidegger ha sottolineato nelle sue lezioni su Nietzsche.15

Per quanto riguarda la volontà di potenza, tale concetto appare nell’aforisma 283 («Precursori»), dove la volontà di signoreggiare sulle cose, però, viene collegata in modo chiaro alla conoscenza:

Io saluto tutti i segni di un’età virile e guerriera che riporterà in onore prima di tutto la virtù del prode! […] — quell’età che porta l’eroismo nella conoscenza e muove guerre per amore delle idee e delle loro conseguenze. […]

Passerà resto il tempo in cui potevate contentarvi di vivere come timidi cervi nei boschi. Finalmente la conoscenza stenderà la mano verso ciò che le è dovuto: vorrà signoreggiare e possedere, e voi con essa!

Alla scienza, ovvero la «gaia scienza», spetta «signoreggiare», dopo che essa ha scoperto che non c’è alcuna verità da servire. Non esiste una verità assoluta, né metafisica nè fattuale, quindi colui che vuole conoscere la realtà deve trasformarsi in creatore della realtà. In questo contesto le parole «signoreggiare» e «possedere» acquistano un significato ben diverso da quello che si potrebbe supporre in una considerazione politico-sociale di questi concetti., come è ben chiarito anche dall’aforisma 58 («Solo come creatori!»).

In tal modo i confini tra conoscenza e arte si perdono facilmente. La conoscenza, infatti, consiste in una specie di creazione, come l’arte. Dal momento che essa non ha più un ordine cosmico da scoprire, lo deve inventare, deve assumersi il pericoloso terribile compito di dare «nuovi nomi» alle cose e di stabilire «il loro peso», cioè il loro valore. Come viene sottolineato nel secondo libro, la vita «scientifica» si trasforma in «vita artistica».

La volontà di potenza, di cui si parla nell’aforisma 283, deve insomma essere letta nel contesto del discorso presentato nell’aforisma 290 («Una cosa sola è necessaria»):

«Dare uno stile» al proprio carattere: è un’arte grande e necessaria. […]

Saranno le nature forte e dominatrici a godere in una tale costrizione, in una tale vincolata disciplina e compiutezza sotto una propria legge… Inversamente si comportano i caratteri deboli, impotenti su se stessi, i quali odiano la disciplina vincolante dello stile…

La vita come opera d’arte è il risultato della creazione di un uomo, che può disporre di se stesso. Solo se si è imparato a «signoreggiare» su se stessi si può «dare uno stile» alla propria vita. Ma questo tipo di «signoreggiare» non è alla fin fine niente altro che l’affermazione della visione antimetafisica, cioè l’affermazione di una vita che non ha bisogno di nessun appiglio in un aldilà per giustificare l’esistenza, cioè per disporre della propria esistenza e darle una forma.

La descrizione dell’uomo che ha chiuso la partita con le tendenze metafisiche si trova nell’aforisma 285 («Excelsior!»). A quest’uomo spetta propriamente il nome di «superuomo» (Übermensch):

«Non pregherai mai più, non adorerai mai più, non riposerai mai più in una fiducia senza fine — è questo che ti neghi: fermare il passo davanti a un’ultima saggezza, a un ultimo bene, a un’ultima potenza […] … non esistete per te nessuno a retribuirti e a correggerti in ultimo appello — non esiste più nessuna ragione in ciò che accade, nessun amore in ciò che ti accadrà — più non si dischiude al tuo cuore un asilo di pace, in cui ci sia soltanto da trovare e non più da cercare, ti stai difendendo contro una qualsiasi ultima pace, tu vuoi l’eterno ritorno di guerra e pace: uomo della rinuncia, in ogni cosa vuoi tu rinunciare? Chi te ne darà la forza? Nessuno ancora ebbe questa forza!». C’era un lago che si rifiutò un giorno di far defluire le sue acque e che rialzò una diga laddove fino ad allora trovava deflusso: da questo momento questo lago cresce sempre più d’altezza. Forse proprio quella rinuncia darà anche a noi la forza con cui può essere sopportata la rinuncia stessa; forse l’uomo a partire da ora crescerà sempre più in alto, non avendo più sbocco in un dio.

La forza di «signoreggiare» sopra la realtà e sopra se stessi senza l’appoggio di un’istanza assoluta si collega qui chairamente con l’accettazione del pensiero dell’eterno ritorno, cioè dell’«eterno ritorno di guerra e pace».

Dopo diverse allusioni all’eterno ritorno delle cose, presenti in connessione con il concetto di volontà di potenza, di superuomo e di amor fati, nell’afrisma 341, il penultimo del quarto libro, Nietzsche presenta direttamente questo «pensiero abissale». La sua comunicazione avviene nella forma di un’ipotesi e l’accento è posto sin dal titolo («Il peso più grande») sulle conseguenze di questo pensiero, ovvero sul nuovo «peso» che le cose riceverebbero nel caso di una sua accettazione, cioè sulla trasvalutazione dei valori:

Che accadrebbe se, un giorno o una notte, un demone strisciasse furtivo nella più solitaria delle tue solitudini e ti dicesse: «Questa vita, come tu ora la vivi e l’hai vissuta, dovrai viverla ancora una volta e innumerevoli volte, e non ci sarà in essa mai niente di nuovo, ma ogni dolore e ogni piacere e ogni pensiero e sospiro, e ogni indicibilmente piccola e grande cosa della tua vita dovrà fare ritorno a te, e tutte nella stessa sequenza e successione — e così pure questo ragno e questo lume di luna tra i rami e così pure questo attimo e io stesso. L’eterna clessidra dell’esistenza viene sempre di nuovo capovolta e tu con essa, granello della polvere». Non ti rovesceresti a terra, digrignando i denti e maledicendo il demone che così ha parlato? Oppure hai forse vissuto una volta un attimo immenso, in cui questa sarebbe stata la tua risposta: «Tu sei un dio e mai intesi una cosa più divina»?… la domanda per qualsiasi cosa: «Vuoi tu questo ancora una volta e innumerevoli volte?» graverebbe sul tuo agire come il peso più grande! Oppure quanto dovresti amare te stesso e la vita, per non desiderare più alcun’altra cosa che questa ultima eterna sanzione, questo suggello?

Il significato di questo aforisma si comprende ancor meglio se si prende in considerazione la posizione che esso occupa nel libro e tra quali aforismi esso si trova. Infatti, l’aforisma 340 («Socrate morente») allude alla morale tradizionale, che è rappresentata attraverso la figura di Socrate. Il naufragare di questa morale, e quindi della metafisica su cui essa poggia, si rivela sinbolicamente nel fatto che anche Socrate, il suo «inventore», alla fine della sua esistenza abbia manifestato un pessimistico rifiuto della vita. Le ultime parole di Socrate rivelano incredibilmente un decadente ‘male di vivere’. L’aforisma 342, invece, dal titolo Incipit tragoedia, presenta per la prima volta la figura di Zarathustra, che scende tra gli uomini dal monte della sua solitudine per comunicare l’incondizionato sì alla vita.16 La comparsa di Zarathustra come pendant alla figura di Socrate non è un caso. Zarathustra è il rappresente del più estremo immoralismo, cioè della più dura critica alla morale socratica, e alla metafisica platonica, a cui questa è collegata. Egli è l’antisocrate per eccellenza. Tra questi estremi sta l’ipotesi dell’etrno ritorno dell’uguale, sussurrata nell’orecchio di ogni possibile lettore dalla voce di un demone. L’accettazione di questa ipotesi costituisce il punto di passaggio all’immoralismo di Zarathustra. Nietzsche però sembra esigere un’accettazione non solo teorica di quest’ipotesi. L’autentica comprensione e asunzione della dottrina dell’eterno ritorno è possibile solo se questo pensiero si trasforma in esperienza esistenziale, cioè se esso viene incarnato.17

2. Radicalizzazione e superamento dell’onestà intellettuale

Come si è visto, la Gaia scienza è l’opera che segna il passaggio dalla fase della Freigeisterei a quella della dottrina dell’eterno ritorno. Esiste un punto di vista privilegiato per seguire questo passaggio ed è quello dello sviluppo e della crisi della onestà intellettuale, «la più nuova delle virtù», che costituisce il motore del progetto illuministico. La radicalizzazione dell’onestà intellettuale, esercitata nella critica alla metafisica, porta alla sua stessa dissoluzione, perché essa stessa si rivela come l’ultimo pezzo del mondo metafisico, ovvero della morale cristiana.

2.1 L’onestà intellettuale: da motore del progetto illuministico a mezzo per la conservazione della specie

Il tema della radicalizzazione e del superamento dell’onestà intellettuale viene trattato soprattutto nel primo libro, nel quale è ancora fortemente presente il progetto illuministico di Aurora, sebbene esso appaia in una forma sottilmente autoironica. Ed è appunto questa forma ironica, di cui si è parlato sopra, che tradisce la crisi nella quale esso è caduto.

L’ironia è data da un atteggiamento contraddittorio, che caratterizza già i primi aforismi. L’ultima verità, alla quale l’uomo è pervenuto grazie all’onestà intellettuale, è quella dell’assenza di fini nell’esistenza (aforisma 1). A questo punto, però, viene messa in discussione la stessa attività della coscienza intellettuale, dal momento che essa consiste nel ricercare «le ragioni a favore e contro». Se infatti non c’è alcun fine, non ci sarà neanche alcuna ragione, per la quale ci si debba decidere a favore o contro qualcosa.

Nell’aforisma 3 («Nobile e volgare») e nell’aforisma 4 («Ciò che conserva la specie») viene poi presentata l’istanza della conservazione della specie, che è per Nietzsche diretta conseguenza della perdita della finaklità metafisica dell’esistenza.: dal momento che l’esistenza non ha nessun’altro fine al di fuori di se stessa, essa tende naturalmente alla conservazione di sè, ovvero alla conservazione della specie. In rapporto a questa prospettiva la virtù dell’onestà intellettuale assume un nuovo ruolo: da motore della conoscenza essa diviene mezzo per la conservazione della specie. Il suo potenziale rivoluzionario serve alla conservazione della specie tanto quanto le «volgari» forze conservatrici. «Il nuovo», che «in tutte le situazioni» è «il male», e «il vecchio» ovvero «il bene», in rapporto alla superiore istanza della conservazione della specie ricevono lo stesso diritto ad esistere. Pertanto non solo «gli uomini di animo volgare», i pollói di Platone, sono ingiusti, se giudicano «gli animi nobili», i filosofi, «una specie di mentecatti». Anche se gli uomini di animo superiore parlano «della follia dell’umanità, delle sue incongruenze e stravaganze, facendo grandi meraviglie per lo strampalato corso del mondo e perché questo non vuol riconoscere ciò che gli è strattamente necessario», sono ingiusti: «questa è l’eterna ingiustizia delle nobili nature» (aforisma 3). L’atteggiamento filosofico, infatti, che ricerca le ragioni di ogni cosa non ha alcun primato nei confronti della comune visione della realtà, inconsapevole delle ultime ragioni, ma esso serve al pari di questa alla conservazione della specie. Di fronte a queste conclusioni il pensiero perde di fatto in dignità, come sancisce l’aforisma 6 («Perdita di decoro»).

L’attività teoretica appare ancor meno degna se si pensa che essa è l’ultima e la più imperfetta apparizione della vita.18 Il valore del sapere viene ancor più messo in dubbio, se si pensa che è tuttora incerto «se la scienza sia in grado di fornire obbiettivi all’agire, una volta che essa ha dimostrato di poterli assumere e distruggere» (aforisma 7: «Qualcosa per i laboriosi»). Per dare «nuovi fini», per creare nuovi valori l’onestà intellettuale è insufficiente. La facoltà illuministica della coscienza intellettuale possiede solo una forza distruttrice, che lascia però poi lo spirito, liberato dai pregiudizi, in una landa solitaria. Se il filosofo segue la voce dell’onestà intellettuale, arriva a distuggere le stesse condizioni su cui poggia la vita. «Le nostre forze ci incalzano a volte così lontano, che non possiamo più tollerare le nostre debolezze e per esse andiamo in rovina», scrive Nietzsche nell’aforisma 28 («Nuocere con il proprio meglio»). E nell’aforisma 107 («La nostra ultima gratitudiene verso l’arte») afferma che «le conseguenze dell’onestà sarebbero la nausea e il suicidio».

La tragicità della conoscenza si dissolve, però, se si pensa alla dissoluzione del senso della verità. Nell’aforisma 51 («Il senso della verità») Nietzsche rappresenta la radicalizzazione dello scetticismo introdotto dall’onestà intellettuale:

Quanto a me, le mie lodi vanno ad ogni scepsi alla quale mi è permesso di rispondere: «Facciamo il tentativo». E non voglio più saperne di tutte le cose e di tutti i problemi che non consentono l’esperimento. Questo è il limite del mio «senso di verità»: là infatti il coraggio ha perduto il suo diritto.

«Il senso della verità» può essere preso qui per l’onestà intellettuale. Infatti Nietzsche usa spesso e volentieri diverse espressioni per definire la stessa ‘cosa’, e così facendo ne illumina al tempo stesso i diversi aspetti. Se il limite dell’onestà intellettuale è quello designato nell’aforisma, allora non v’è più una verità, nè una realtà a cui dover essere fedeli. Ogni verità, pur raggiunta attraverso un profondo pensare, è solo una parte, una prospettiva, che vale solo in quanto serve a conservare la specie. A questo punto la serietà del sapere si trasforma, come si è visto, nel gioco dell’arte. Così può essere scongiurato «il più grande pericolo» corso dal genere umano, quello della distruzione delle proprie condizioni di vita ad opera della propria ragione. Ulteriore conseguenza è poi l’acquisto di una certa leggerezza nei confronti di «successo» e «insuccesso»19 della ricerca. La passione della conoscenza, insomma, perde i tratti melanconici, e trova in sè «la via verso il riso e la vita gaia».20

2.2 L’origine dell’onestà intellettuale: libertà di spirito e cristianesimo

Se la radicalizzazione dell’onestà intellettuale porta nel primo libro della Gaia scienza alla sua messa in questione e alla sua funzionalizzazione a favore della conservazione della specie, nel terzo libro si scopre l’origine di questa virtù propria degli spiriti liberi.

Il tema fondamentale del terzo libro è, come si è detto, la morte di Dio. Collegato ad esso c’è il problema della posizione occupata dalla religione, e dal cristianesimo in particolare, in rapporto alla nuova scienza, cioè alla gaia scienza. Qui Nietzsche giunge ad una conclusione inaspettata: l’onestà intellettuale ha le sue radici proprio nel tanto osteggiato cristianesimo.

Nell’aforisma 122 («La scepsi morale nel cristianesimo») Nietzsche scrive:

Anche il cristianesimo ha dato un grosso contributo all’illuminismo: ha insegnato la scepsi morale — in una maniera molto penetrante ed efficace, con l’accusare e l’amareggiare, non senza però una infaticabile pazienza e finezza […] Se noi oggi, educati come siamo a questa scuola cristiana della scepsi, leggiamo i libri di morale degli antichi, per esempio quelli di Seneca e di Epitteto, abbiamo un senso di piacevole superiorità e ci sentiamo colmi di una segreta perspicacia e vastità di sguardo […]

Infine però abbiamo applicato questa stessa scepsi anche a tutti gli stati ed i processi di carattere religioso, come peccato, pentimento, grazia, santità, e abbiamo lasciato così bene scavare il verme, che ora proviamo lo stesso sentimento di sottile superiorità e perspicacia anche nel leggere tutti i libri cristiani: anche i sentimenti religiosi li conosciamo meglio! È tempo di ben conoscerli e di ben descriverli, poiché anche i devoti dell’antica fede stanno morendo: salviamo, almeno per la conoscenza l’immagine dell’esmplare di essi!

La scepsi degli spiriti liberi, quindi, ha la sua origine nella scepsi morale dei cristiani nei confronti degli antichi. I cristiani hanno messo in discussione la semplice e buona coscienza morale degli antichi, fino al punto da distruggere con il «verme» del dubbio e della critica l’immediatezza dei valori umanistici. Al posto di tale immediatezza è subentrata una diffusa incertezza nei confronti del bene e del male, così che l’ultimo giudizio morale deve essere affidato ad un’istanza ultramondana, per avere valore assoluto. Questa istanza è stata per i cristiani la grazia. Ora però lo stesso «verme» si è rivolto anche contro questo principio, come contro tutti i principi della fede cristiana. Gli spiriti liberi non sono quindi in sostanza molto lontani nel loro atteggiamento dai cristiani. Solo una cosa li differenzia da questi ultimi: il rifiuto di un’istanza ultramondana, dal momento che con essi non solo le regole dell’agire, ma anche i principi ontologici sono sottoposti a critica.

Che l’atteggiamento scientifico, ovvero l’onestà intellettuale, abbia infine la propria origine nella religione e in particolare nel cristianesimo, Nietzsche lo ribadisce anche nell’aforisma 300 («Preludi della scienza»):

Credete, dunque, voi che le scienze sarebbero nate e progredite, se non le avessero precedute maghi, alchimisti, astrologi e streghe, in quanto dovettero essere stati questi a creare per la prima volta, con le loro promesse e millanterie, la sete, la fame e il gusto dellepotenze occulte e proibite?

… Forse — allo stesso modo in cui ora si presentano a noi preludi ed esercizi preliminari della scienza, che non furono assolutamente praticati e avvertiti come tali, — ci apparirà in qualche tempo lontano anche la religione tutta quanta come esrcizio e preludio; forse essa potrebbe essere stata il curioso espediente, perché un giorno singoli uomini possano godere l’intero autoappagamento di un dio e tutta la sua forza di autoredenzione.

È interessante notare che sia l’aforisma 122 che l’aforisma 300 sono inseriti in due significative posizioni all’interno del libro: l’aforisma 122 si trova poco prima dell’annuncio della morte di Dio (aforisma 125), mentre l’aforisma 300 precede l’aforisma «Illusione dei contemplativi», nel quale viene ribadito il nuovo valore creativo della conoscenza. In entrambi i casi l’ordine degli aforismi rimanda ad una funzione introduttiva, che appare particolarmente evidente, se si leggono le ultime righe dei due aforismi presi in considerazione. Nell’aforisma 122 il fatto che «i devoti dell’antica fede stanno morendo» preannuncia la morte di Dio stesso, mentre nell’aforisma 300 è chiara l’allusione alla forza creatrice della conoscenza e all’«illusione (Wahn) dei contemplativi», se si fa attenzione al significato della storia di Prometeo, che viene accennato in conclusione dell’aforisma stesso: «non dovette Prometeo in un primo momento supporre erroneamente (wähnen), di aver rubato la luce e pagarne il fio, per giungere infine a scoprire che era stato lui nella sua brama di luce a creare la luce….».

In questo modo si vuol dar prova della struttura labirintica dello scritto nietzschano e, insieme, della centralità del tema dell’onestà intellettuale nell’economia dell’opera. Come l’onestà intellettuale è da considerare il motore del processo illuministico, così la scoperta della sua origine diviene il motore della radicalizzazione e del superamento di detto progetto.

Questa chaive di lettura dell’opera viene proposta da Nietzsche stesso all’inizio del quinto libro. Nell’aforisma 344 («In che senso anche noi siamo ancora devoti»), infatti, viene chiarito che presupposto della scienza è alla fin fine la fede nella verità, la quale fede non può trovare alcuna giustificazione al di fuori del terreno della morale e della religione:

Nella scienza le convinzioni non hanno alcun diritto di cittadinanza, così si dice a giusta ragione; soltanto quando esse si risolvono ad abbassrasi alla modestia di un’ipotesi, a un provvisorio punto di vista sperimentale, a una finzione regolativa, può essere loro accordato l’accesso e persino un certo valore entro il regno della conoscenza […] La disciplina dello spirito scientifico non comincerebbe forse qui, nel non concedersi più convinzione alcuna?… Probabilmente è così: resta soltanto da domandare se, affinché questa disciplina possa avere inizio, non debba esistere già una convinzione… anche la scienza riposa su una fede, … non esiste affatto una scienza «scevra di presupposti». La domanda se sia necessaria le verità, non soltanto deve avere avuto già in precedenza risposta affermativa, ma deve averla avuta in grado tale da mettere quivi in evidenza il principio, la fede, la convinzione che «niente è più necessario della verità e che in rapporto ad essa tutto il resto ha soltanto un valore di secondo piano». Questa incondizionata volontà di verità, che cos’è dunque? È la volontà di non lasciarsi ingannare? È la volontà di non ingannare? […] non ci si vuole lasciare ingannare perché si ammette che è nocivo, pericoloso, nefasto essere ingannati — in questo senso la scienza sarebbe una lunga accortezza, una cautela, un’utilità; a ciò tuttavia si potrebbe giustamente obbiettare: come? realmente il non voler farsi ingannare è meno nocivo, meno pericoloso, meno nefasto? Che sapete voi a priori sul carattere dell’esistenza, per poter decidere se il vantaggio più grande sta dalla parte dell’assoluta diffidenza o dell’assoluta fiducia? […] Dunque: la fede nella scienza che esiste ormai incontestabilmente, non può aver avuto origine da un tale calcolo utilitario, ma è sorta piuttosto, nonostante il fatto che continuamente si siano dimostrati ad essa lo svantaggio e la pericolosità della «volontà del vero», della verità a tutti i costi. […] potrebbe essere anche qualcosa di peggio, vale a dire un principio distruttivo, ostile alla vita… «Volontà di verità» potrebbe essere una occulta volontà di morte. In tal modo, la domanda: perché scienza? riconduce al problema morale: a qual fine esiste in genere una morale, se vita, natura e storia sono «immorali»? Non c’è dubbio, l’uomo verace, in quel temerario e ultimo significato in cui la fede nella scienza lo presuppone, afferma con ciò un mondo diverso da quello della vita, della natura e della storia […] Ebbene si sarà compreso dove voglio arrivare, vale a dire che è pur sempre una fede metafisica quella su cui riposa la nostra fede nella scienza; che anche noi, uomini della conoscenza di oggi, noi atei e antimetafisici, continuiamo a prendere anche il nostro fuoco dall’incendio che una fede millenaria ha acceso, quella fede cristiana che era anche la fede di Platone, per cui Dio è verità e la verità è divina…

È significativo che Nietzsche all’inizio del quinto libro della Gaia scienza, a cui egli mette mano dopo la stesura dello Zarathustra,21 si preoccupi di mettere in chiaro l’origine metafisica della scienza stessa. In questo modo egli indica la chiave di lettura, per comprendere il superamento del progetto illuministico, proprio nella scoperta della stretta parentela tra tale progetto e i fondamenti della metafisica, ovvero della religione.22

2.3 Il superamento dell’onestà intellettuale: dall’approccio critico al «dire di sì»

La crisi del progetto illuministico ad opera di quella virtù che era stata proprio il motore della sua realizzazione, può gettare l’uomo in un disperato nichilismo oppure può condurlo ad un’accettazione indiscriminata del reale, ad un eterno «dir-di-sì». Dal punto di vista dell’onestà intellettuale ciò significa che la sua messa in discussione può condurre o ad un totale smarrimento o ad una gioiosa e giocosa visione della vita, nella quale è concessa persino la riabilitazione delle antiche virtù. Se infatti «la più nuova delle virtù» si rivela come l’ultimo germoglio dell’atteggiamento dei credenti, la fede, in particolare la fede cristiana, viene giustificata non meno della scienza. Il diritto ad esistere è concesso alla fine ad ogni forma di vita, ad ogni ente, come Nietzsche afferma all’inizio del quarto libro.23

L’accettazione della realtà nella sua interezza rappresenta la piena liberazione dal «mondo dietro il mondo» (Hinterwelt), cioè dal mondo metafisico. In tal modo si realizza la piena libertà di spirito, dal momento che la prospettiva decisiva non è più quella della critica, che mantiene sempre una certa dipendenza dall’oggetto della critica,24 bensì quella del «dire-di-sì». Finché «gli spiriti liberi» rimangono fermi nella critica, rimandano inevitabilmente al fatto che essi, infine, hanno la propria origine in quella morale cristiana che intendono combattere, perché la «volontà di verità» è qualcosa di morale e di religioso (cfr. aforisma 344). Solo se diventano uomini capaci di dire di sì, dimostrano di essersi veramente lasciata alle spalle la morale e la religione cristiana, ovvero la decadence. In altre parole solo se il progetto illuministico giunge a termine, ci si può dire veramente liberati dalla fede nella verità. Lo sfociare della fase illuministica nel «dire-di-sì» (bejahen), ovvero nell’amor fati, viene solo accennato all’inizio del quarto libro (aforisma 276), ma ripreso e confermato nel quinto libro, soprattutto alla fine dell’aforisma 377 («Noi senza patria»):

Noi siamo… buoni Europei…: in questo senso siamo cresciuti troppo anche per il cristianesimo, ostili ad esso proprio perché è nel cristianesimo che abbiamo le nostre radici, perché i nostri antenati furono cristiani, di un’onestà assoluta come tali, essi che hanno sacrificato di buon animo alla loro fede sostanze e sangue, ceto sociale e patria. Noi — facciamo lo stesso. Per che cosa dunque? Per le nostre incredulità? Per ogni genere d’incredulità? No, voi lo sapete bene, amici miei! Quel nascosto dentro di voi è più forte di tutti i no e i forse, di cui siete malati insieme al vostro tempo: e se dovete tentare il mare, voi emigranti, è perché anche voi siete incalzati da una fede

Lo stesso principio fideistico guida in ultima istanza gli spiriti liberi e gli uomini religiosi.Tra queste due figure che si oppongono c’è una profonda somiglianza, della quale Nietzsche parla già nel primo libro della Gaia scienza, precisamente nell’aforisma 27 («Il rinunciatario»), dove analizza la figura dell’asceta:

Che fa il rinunciatario? Aspira ad un mondo superiore, vuole volare più oltre e più lontano e più in alto di tutti gli uomini che dicono sì. Egli getta via molte cose che costituirebbero un peso per la sua fuga […] Sì! È più savio di quel che pensassimo e così cortese con noi — quest’uomo che dice di sì! Giacché anche quando rinuncia quest’uomo è simile a noi.

La vicinanza tra libertà di spirito e cristianesimo, allora, si trova non solo nell’atteggiamento morale che è alla base di entrambe queste prospettive, ma anche nelle conseguenze della loro visione della vita: tanto il cristianesimo ascetico e rinunciatario, quanto l’esperimento di vita degli spiriti liberi, sono validi solo se il loro profondo significato consiste in un dire di sì. Il superamento della religione si realizza in una dialettica, che si ripete tale e quale per la Freigeisterei: il sorgere, il radicalizzarsi e la crisi della libertà di spirito rispecchiano da vicino l’evoluzione dei sentimenti religiosi, in particolare cristiani. Si tratta d’altra parte della stessa dialettica che segue lo sviluppo dell’onestà intellettuale: dalla radicale messa in discussione di ogni cosa fino all’autocritica e alla scoperta della propria origine. Nel destino della virtù più propria degli spiriti liberi è da leggere il destino dello stesso progetto illuministico e il suo trapasso al pensiero dell’eterno ritorno.

Tale affinità tra la libertà di spirito e il cristianesimo, tanto più evidente, se si prende in considerazione l’origine dell’onestà intellettuale, è da considerarsi di grande importanza per un’indagine sul rapporto tra il pensiero nietzschano e la religione cristiana. Essa permette di considerare questo problema, uno dei problemi fondamentali per la comprensione della filosofia di Nietzsche, da una prospettiva forse meno faziosa, che, avvalendosi di un’analisi puntuale dei testi, sfugga alla tentazione di classificare il pensiero nietzschano semplicemente come una risentita condanna del cristianesimo o di forzarlo dentro categorie teologiche che non sono le sue.25


  1. «Miei pazienti amici, questo libro si augura soltanto perfetti lettori e filologi: imparate a leggermi bene!» scrive Nietzsche alla fine dell’introduzione ad Aurora↩︎

  2. Cfr. W. Goddeck, Die »neue Ausgabe« der Fröhlichen Wissenschaft, in «Nietzsche-Studien» 26 (1997), pp. 184-198, 184 s. ↩︎

  3. Delle condizioni che hanno determinato la composizione del libro tratta con ampiezza lo scritto di Jörg Salaquarda, A última fase de surgimento de A Gaia Ciência, in «Cadernos Nietzsche» 6 (1999), pp. 75-93. Qui viene data prova di come Nietzsche abbia inteso affidare alla Gaia scienza la funzione di introdurre al pensiero dell’eterno ritorno. ↩︎

  4. Cfr. J. Salaquarda, Die *Fröhliche Wissenschaft zwischen Freigeisterei und »Neuer Lehre«*, in «Nietzsche-Studien» 26 (1997), pp. 165-183, 166. ↩︎

  5. Cfr. Jörg Salaquarda, A última fase de surgimento de A Gaia Ciência, in «Cadernos Nietzsche» 6 (1999), pp. 75-93, 77. ↩︎

  6. Queste correzioni sono presentate da Salaquarda nel suddetto articolo Die *Fröhliche Wissenschaft zwischen Freigeisterei und »Neuer Lehre«*, in «Nietzsche-Studien» 26 (1997), pp. 165-183, 166. ↩︎

  7. Del tono tragico di Aurora parla Marco Brusotti in Erkenntnis als Passion. Nietzsches Denkweg zwischen Morgenröthe und der Fröhlichen Wissenschaft, in «Nietzsche-Studien» 26 (1997), pp. 199-225. ↩︎

  8. Le citazioni dei testi di Nietzsche sono tratte dalla’edizione italiana di Colli e Montinari. ↩︎

  9. Tale intenzione si può rilevare anche dalle lettere che Nietzsche invia a Jacob Burckhardt (del 2/3 agosto 1882) e a Peter Gast (20 agosto 1882) poco dopo aver dato alla stampa la Gaia scienza. In queste lettere l’autore si preoccupa di verificare se sia stato percepito il carattere particolare dell’opera, e in particolare del quarto libro. ↩︎

  10. Cfr. Jörg Salaquarda, Der ungeheure Augenblick, in «Nietzsche-Studien» 1989 (18), pp. 317-337, 322. ↩︎

  11. J. Salaquarda, Die *Fröhliche Wissenschaft zwischen Freigeisterei und »Neuer Lehre«*, in «Nietzsche-Studien» 26 (1997), pp. 165-183, 176. ↩︎

  12. Aforisma 4: «sono stati gli spiriti più vigorosi e più malvagi ad aver fino ad oggi maggiormente portato innanzi l’umanità: essi riaccesero sempre le passioni prossime ad assopirsi — ogni ordinata società assopisce le passioni […] Ma in tutte le situazioni il nuovo è il male… e soltanto l’antico è il bene. […] Ma in verità i cattivi istinti sono adeguati al fine, utili alla conservazione della specie e indispensabili nello stesso grado in cui lo sono i buoni. soltanto la funzione è diversa.». ↩︎

  13. Il problema della «incarnazione» del pensiero dell’eterno ritorno occupa soprattutto il quinto librodella Gaia scienza. Nel primo aforisma di questo libro (n. 343: «Quel che significa per la nostra serenità») Nietzsche scrive: «Il maggiore degli avvenimenti più recenti — che “Dio è morto”, che la fede nel Dio cristiano è divenuta inaccettabile — comincia già a gettare le sue prime ombre sullÈuropa. […] Ma in sostanza si può dire che l’avvenimento stesso è fin troppo grande, troppo distante, troppo alieno dalla capacità di comprensione del maggior numero perché possa dirsi arrivata anche soltanto notizia di esso…». E nell’ultimo aforisma (n. 383: «Epilogo») dà indicazioni sulla giusta comprensione di queste riflessioni. Non si tratta di una comprensione razionale, bensì di un «lasciarsi-toccare-e-muovere»: «Quel che però vi capiterà di udire è se non altro nuovo, e se non lo comprenderete, se fraintenderete chi canta, poco male! ormai è questa “la maledizione del cantore”. E quanto maggiore sarà la chiarezza con cui potrete ascoltare la sua musica e la sua aria, tanto più facile sarà per voi danzare a suo talento. Volete voi questo?…». ↩︎

  14. Cfr. aforisma 108 («Nuove battaglie»): «Dopo che Buddha fu morto, si continuò per secoli ad additare la sua ombra in una caverna — un’immensa orribile ombra. Dio è morto. ma stando alla natura degli uomini, ci saranno forse ancora per millenni caverne nelle quali si additerà la sua ombra. E noi — noi dobbiamo vincere anche la sua ombra!». ↩︎

  15. È qui necessario il riferimento all’opera di Heidegger Nietzsche (1961), che raccoglie le lezioni univerisitarie tenute negli anni Trenta all’università di Friburgo. ↩︎

  16. Questo aforisma è l’ultimo della prima edizione della Gaia scienza, e Nietzsche ha voluto chiaramente sottolineare il collegamento tra la conclusione di quest’opera e Così parlò Zarathustra, riportando all’inzio dello Zarathustra parola per parola l’aforisma 342. ↩︎

  17. «Come il demone non argomenta questo pensiero, nè si preoccupa di renderlo probabile, ma lo comunica e basta, così Nietzsche non è tanto interessato all’aspetto contenutistico del pensiero, quanto alla reazione esistenziale dei destinatari» (Jörg Salaquarda, Der ungeheure Augenblick, in «Nietzsche-Studien» 1989 -18, pp. 317-337, 333). ↩︎

  18. Cfr. aforisma 11: «La coscienza». ↩︎

  19. Cfr. aforisma 41: «Contro il pentimento». ↩︎

  20. Cfr. M. Brusotti, Erkenntnis als Passion, in «Nietzsche-Studien» 26 (1997), pp. 199-225, 213ss. ↩︎

  21. Sulla nuova edizione della Gaia sceinza del 1886 e sul significato del quinto libro si veda l’articolo di Wolfram Groddeck, Die »neue Ausgabe« der »fröhlichen Wissenschaft«, in «Nietzsche-Studien» 26 (1997), pp. 184-198. ↩︎

  22. Il tema della dignità della fede religiosa si ritrova anche in più aforismi del quinto libro: n. 350 («A onore degli homines regiosi»), 351 («A onore di chi ha l’anima del prete»), 355 («Dell’origine delle religioni»), 373 («“Scienza” come pregiudizio») e alla fine dell’aforisma 377 («Noi senza patria»). ↩︎

  23. Si veda aforisma 276 «Per l’anno nuovo»: «… non voglio muovar guerra contro il brutto. Non voglio accusare, non voglio neppure accusare gli accusatori… voglio soltanto essere, d’ora in poi, uno che dice di sì». ↩︎

  24. Il problema del rapporto tra negazione e oggetto della negazione è di grande importanza anche per comprendere il rapporto di Nietzsche con il cristianesimo, come giustamente rivela J. Salaquarda in Der Antichrist, in «Nietzsche-Studien» 2 (1973), pp. 91-136, 123. ↩︎

  25. Di questi pericoli parla diffusamente Peter Köster nel suo articolo Nietzsche-Kritik und Nietzsche-Rezeption in der Theologie des 20. Jahrhunderts, in «Nietzsche-Studien» 10/11 (1981-82), pp. 615-685. ↩︎