Persona e democrazia nel pensiero di María Zambrano

Raggiungeremo l’ordine democratico solo con la partecipazione di tutti in quanto persone, il che corrisponde alla realtà umana. E l’uguaglianza di tutti gli uomini, «dogma» fondamentale della fede democratica, dovrà essere uguaglianza tra persone umane, non tra qualità o caratteri, perché uguaglianza non significa uniformità. È, al contrario, il presupposto che permette di accettare le differenze, la ricca complessità umana e non solo quella del presente, ma anche quella dell’avvenire. È la fede nell’imprevedibile.

—María Zambrano1

Definiamo democrazia, con tutti i qualificativi e i superlativi necessari per non confonderla con le sue minuscole contraffazioni, quel regime che si basa sulla responsabilità e l’organizzazione funzionale di tutte le persone costituenti la comunità sociale. Allora sì, senza ambagi, siamo dalla parte della democrazia. Aggiungiamo che […] questa democrazia non è mai stata realizzata nella sostanza e che lo è assai poco negli animi.

—Emmanuel Mounier2

1. Persona e democrazia, attestazione di una speranza

María Zambrano può essere annoverata tra le più grandi filosofe europee del Novecento ed appartiene alla cosiddetta «generazione del ’27»3, ovvero a quegli intellettuali ed artisti spagnoli che raggiungono la maturità verso la fine degli anni ’20. Molti di loro, appunto nel 1927, si riuniscono presso l’Università di Siviglia per onorare la memoria di un grande poeta del Siglo de Oro, Luis de Góngora, nel terzo centenario della sua morte. Si tratta di un periodo che in Spagna, pur nel permanere di istituzioni politiche alquanto arretrate, è pervaso da un notevole risveglio culturale, tanto da essere denominato talvolta La edad de la Plata, ovvero «L’età d’Argento».

In questi anni l’autrice, poco più che ventenne, scrive già in diverse riviste spagnole su temi riguardanti la filosofia, la politica, la questione sociale, l’emancipazione femminile. Nello stesso periodo, la brillante allieva del catedrático madrileno José Ortega y Gasset pubblica il suo primo libro, Horizonte del liberalismo. La giovane vi preconizza un nuovo umanesimo, che richiede una profonda riforma del pensiero liberale nella prospettiva di un «nuovo liberalismo», all’altezza dei tempi. A suo giudizio, la concezione dell’uomo propria del liberalismo non va rigettata ma ampliata, in vista di un umanesimo «reintegratore» il quale, oltrepassando l’antropologia sommaria delle ideologie moderne, renda giustizia alla complessità della vita umana.

Nel suo primo libro, María Zambrano opera la fondamentale distinzione tra politica conservatrice e politica rivoluzionaria. La prima è politica soltanto in senso improprio, in quanto non intende «riformare» la vita bensì perpetuare lo stato di cose vigente. Al contrario, la politica autentica è rivoluzionaria e rinnova ab imis la vita sociale e politica, pur non comportando il ricorso alla violenza che, anzi, l’autrice stigmatizza. L’autrice ritiene imminente questa politica nella sua Spagna, al tempo «ingessata» in un regime politico reazionario, ove una monarchia inetta è in balìa del dittatore Primo de Rivera. La politica conservatrice vuole «fare ristagnare la corrente del tempo», quella rivoluzionaria, alla quale è ascrivibile il «nuovo liberalismo», intende invece «fare i conti con il tempo»4 — fattore «potente» e «umile» al contempo — e quindi «crea più nella virtù dei tempi che nell’applicazione aprioristica di alcune formule che hanno la pretesa di essere perenni».5 Se è lecito ricorrere qui a celebri espressioni care a Franz Rosenzweig, il politico rivoluzionario «prende sul serio il tempo» e, anzi, la sua prassi «si nutre di tempo».6

Il liberalismo va rinnovato in quanto ha fondamentalmente disconosciuto questo legame dell’essere umano con il mondo, allorché ha lo ha concepito quale individuo irrelato, compreso in quella entità astratta denominata umanità. Tale indirizzo di pensiero ha rescisso il rapporto con la trascendenza, la natura e i corpi sociali intermedi tra il singolo e lo Stato. Un liberalismo rinnovato, che reintegri l’uomo nel contesto delle relazioni alle quali è originariamente aperto, può offrire il fondamento teorico di un progetto politico valido, ovvero di un governo democratico. Il «nuovo liberalismo» preconizzato dalla giovane filosofa sarebbe in grado di affrontare la questione sociale, molto grave nella Spagna primonovecentesca e di porsi al servizio della persona umana.7

A quasi trent’anni di distanza dalla pubblicazione di Horizonte del liberalismo, María Zambrano espone i tratti essenziali del suo pensiero politico maturo nel libro Persona y democracia. L’autrice ha ormai abbandonato il progetto di un «nuovo liberalismo» — probabilmente, esso le appare ora, analogamente ad altri indirizzi del pensiero politico moderno, intriso di elementi ideologici — ma non desiste dallo sperare in una politica rinnovata.

Allorché pubblica il volume, ovvero nel 1958, l’autrice vive da circa vent’anni in esilio. Come molti intellettuali e artisti repubblicani, ella ha dovuto lasciare la Spagna all’inizio del 1939, quando la guerra civile si è conclusa con la vittoria delle truppe di Francisco Franco. Si tratta di un esilio costellato di peregrinazioni, dal Messico a diversi paesi dell’America Latina, da Parigi a Roma, dove vive dal 1954 al 1963. Sono, questi ultimi, anni di grande precarietà economica, ma particolarmente fecondi: nel 1955 viene pubblicata l’opera più rilevante sul piano teoretico, El hombre y lo divino.8 In seguito, l’autrice si trasferirà a La Pièce, villaggio della Svizzera francese, e tornerà a Madrid, accogliendo le sollecitazioni che le giungono dagli amici intellettuali, nel 1984, ormai ottantenne ed in precarie condizioni di salute.

Come gli intellettuali repubblicani spagnoli appartenenti alla citata «generazione del ’27»,9 la filosofa si comprende come una vittima di quella historia sacrificial menzionata nel sottotitolo dell’edizione del 1988 di Persona y democracia. Una storia, questa, che esige continuamente nuove vittime e sacrifici. E, tra le sue vittime, in ogni epoca figurano degli intellettuali che, analogamente a María Zambrano, intendono non soltanto «pensare la propria vita» ma anche «vivere il proprio pensiero».

Come nel librito giovanile riguardante il liberalismo, in Persona y democracia manca un’adeguata analisi dei processi istituzionali nei quali si articola la vita politica. Pertanto, non si può accreditare a María Zambrano una compiuta filosofia della politica. Quanto alla speranza in un rinnovamento della società e della politica, essa si riscontra anche nel breve Prólogo all’edizione del 1988. Negli anni successivi alla Seconda Guerra Mondiale, dopo il crollo del regime nazista che si era insediato proprio al centro dell’Europa, appariva ragionevole credere in una imminente affermazione concreta della democrazia e in una sua progressiva diffusione in diversi paesi. Trent’anni dopo è evidente quanto la realtà politica dei paesi più evoluti sia lontana dall’autentica democrazia, che pure appare «l’unica strada perché possa proseguire la cosiddetta cultura occidentale».10 Al tempo dell’edizione originaria dell’opera era plausibile parlare di una «crisi» dell’uomo europeo e, in prospettiva più ampia, occidentale. Adesso, anche se la storia continua a costruire idoli e a richiedere vittime e sacrifici, la sua «struttura sacrificale» non è più abbastanza manifesta. All’autrice non sembra più possibile parlare di «crisi» bensì di un «abbandono più forte che mai».11 Ella aggiunge:

Oscure divinità hanno preso il posto della luminosa chiarezza, quella che si manifestava offrendo la storia, il mondo, come il compimento, il termine della storia sacrificale. Oggi non si vede più il sacrificio: la storia si è tramutata in un luogo indifferente in cui qualsiasi avvenimento può presentarsi con la stessa validità e gli stessi diritti di un Dio assoluto che non consente la più lieve obiezione. Tutto è salvo e allo stesso tempo vediamo che tutto è distrutto o sul punto di distruggersi.12

Eppure, anche in questa inedita temperie storica, è legittimo sperare, e la stessa riedizione del libro, a giudizio dell’autrice, intende essere una testimonianza di questa spes contra spem. Qui si rivela la coscienza utopica della filosofa, soprattutto allorché scrive di credere che l’uomo occidentale possa rinascere «in una luce pura e rivelatrice»,13 propria di un’alba14 che non sia «interrotta», come avvenuto in passato, dal sopraggiungere delle tenebre del totalitarismo. In fondo, María Zambrano esprime una «fede» piuttosto che un pensiero ben argomentato, allorché ritiene «che un trionfo glorioso della Vita in questo piccolo mondo possa ancora avvenire».15 Resta insoddisfatto il desiderio, proprio del lettore, di sapere attraverso quali processi storici possa, secondo l’autrice, schiudersi questa «alba» e realizzarsi questo «trionfo».

In questa prospettiva, l’Occidente non è «luogo del tramonto», né la sua cultura è irremissibilmente destinata a «morire», come se una cultura fosse un «organismo biologico» che ha una sua limitata parabola vitale. Qui la filosofa critica nettamente il pensiero espresso da Oswald Spengler ne Il tramonto dell’Occidente,16, il cui successo sarebbe dovuto al «fascino della mezza verità, della verità a metà, di una scintilla di verità avvolta in qualcosa che brilla».17 Certo, l’Europa del primo Novecento ha vissuto un grave crisi, e in ogni crisi qualcosa deve morire, come «convinzioni, idee, stili di vita che sembravano incrollabili».18 Ma questo fenomeno non comporta la morte della cultura intesa nella sua totalità. Se nei periodi di ascesa di una cultura:

il tempo è ampio e spazioso; i giorni si succedono con ritmo regolare e crediamo di poterne disporre liberamente. Si vive in una specie di presente dilatato. Si vedono giungere gli avvenimenti e si può avere la sensazione di andare loro incontro: la vita è un cammino in avanti che richiede uno sforzo impercettibile o percepibile sotto forma di piacere.19

Di converso, durante la crisi:

non c’è cammino, o non lo si vede. La strada non sembra essere aperta, perché si è oscurato l’orizzonte, evento tra i più gravi nella vita umana, che si accompagna alle grandi disgrazie. Nessun avvenimento trova una sua collocazione. Non c’è punto di vista, che è a sua volta punto di riferimento. E allora gli eventi ci vengono incontro, «ci si avventano contro»(nos vienen encima). Il tempo non sembra trascorrere e dalla quiete immobile, per una scossa o un sussulto, arriva in un istante il peggio. Ci si sente vuoti e terrorizzati insieme.20

Prendendo le distanze da quanto afferma Splengler, María Zambrano, ritiene che proprio in Occidente si possa diffondere la luce di un’alba nuova. L’alba di «una società umanizzata»,21 ovvero della democrazia, cosicché la storia non si comporti più «come un’antica Divinità che esige un sacrificio senza fine».22 Nelle parole della stessa filosofa, un’alba siffatta costituirebbe il trapasso dalla storia sacrificale alla storia etica.

2. La persona e il personaggio nella storia

Per María Zambrano, non è da escludere che l’uomo occidentale sia il primo a percepire la nuova alba nella quale si può sperare, se è vero che egli è stato il primo a comprendere che il «pianeta intero è la nostra casa»,23 ovvero che il genere umano costituisce una comunità di destino. E, proprio in Occidente, nei primi secoli dell’era cristiana, è stata elaborata la nozione di persona, per la quale vivere è convivere. Al riguardo, l’autrice osserva:

Convivere vuol dire sentire e sapere che la nostra vita, seppure nella sua traiettoria personale, è aperta a quella degli altri, non importa che siano nostri vicini o meno; vuol dire saper vivere in una dimensione in cui ogni evento ha la sua ripercussione, che per essere comprensibile non è per questo meno certa; vuol dire sapere che anche la vita è in tutti i suoi strati un sistema. Che facciamo parte di un sistema al momento chiamato genere umano.24

La persona avverte quindi la profonda esigenza di vivere insieme agli altri e, per converso, il bisogno di coltivare la propria vita interiore, un «dentro» che, nelle parole della filosofa, è «privilegio»25 dell’uomo e va scoperto nella solitudine26 (per Emmanuel Mounier la persona è «un dentro che ha bisogno di un fuori»). È, questa, un’interiorità scandagliata in modo incomparabile da sant’Agostino, che la filosofa considera il «padre» della cultura europea.

La persona, quindi, ha bisogno di fruire talora di periodi di «solitudine» per conoscersi più in profondità, «appropriarsi» del suo essere e progettare le azioni future. Nell’intento di demistificare ogni realtà storica che, al di fuori della persona e contro di essa, si erga ad assoluto, l’autrice osserva:

Il luogo dell’individuo è la società, ma il luogo della persona è uno spazio intimo. Ed è qui, esattamente qui che risiede un assoluto. In nessun altro luogo della realtà umana. Niente che sia stato in noi, niente che sia un nostro prodotto è assoluto né potrà mai esserlo. Lo è solo quel lato sconosciuto e senza nome, fatto di solitudine e libertà.27

Per María Zambrano, come per Ortega y Gasset, l’uomo è l’unico essere vivente capace di ensimismamiento,28 ovvero di restare «assorto» in se stesso, di «raccogliersi» in sé, astraendosi dalle circostanze.29 Anche il bambino è capace di ensimismarse. Di converso, per i due autori, l’attenzione dell’animale è sempre rivolta, pur in modi differenti, a ciò che lo circonda. L’animale è sempre immerso nella corrente della vita, «assorbito» in essa, all’essere umano è invece concesso talora avere un istante di «pausa», quasi un’«uscita» da quella corrente, «un’uscita a cui affacciarsi per avere un nome, un tempo per cercarsi e una pausa per riconoscersi e riconoscere, per identificarsi. Un tempo e un luogo oltre la vita animale che non tollera pausa né uscita».30 Allorché la persona «si raccoglie in se stessa», si astrae dal tempo storico31 e circostanziale, e guadagna un peculiare rapporto con il tempo, una sorta di «signoria» su di esso. Leggiamo: «Entrare nella nostra solitudine implica poter disporre del tempo, muovercisi dentro, e, se lo si fa bene, saperlo usare».32

La persona umana sperimenta che non tutto ciò che attiene alla vita interiore può essere comunicato adeguatamente ad altri, e talora si comprende come «un “se stesso” incomunicabile, ermetico».33 Permane in essa, quindi, «l’ansia di comunicazione», «il desiderio di aprirsi e addirittura di riversarsi su qualcosa: è ciò che si chiama amore, per una persona, per la patria, per l’arte, per il pensiero».34

Persona y democracia —che non sempre presenta un ordine espositivo perspicuo al lettore - non verte soltanto sulla persona e sulla democrazia, ma anche su quelle che per l’autrice costituiscono le rispettive antitesi concettuali e storiche, ovvero il personaggio e l’assolutismo. Questi ultimi si riscontrano fin troppo spesso nella storia umana, anche in quella europea del Novecento, mentre la persona e la democrazia, perlomeno nella loro piena realizzazione, si situano per la filosofa in un orizzonte futuro, che l’impegno umano deve pur preparare. Pertanto, il libro attesta sia la capacità di una lucida disamina degli eventi storici nonché, come si è accennato, la fervida coscienza utopica propria dell’autrice.

In una prospettiva più ampia, si può affermare che l’opera ripropone pure, in forma alquanto sintetica e talora un po’ criptica, i nuclei teorici fondamentali della visione antropologica zambraniana, disseminata in un arco temporale molto ampio, che si estende dagli anni ’30 sino alla fine degli anni ’80. L’uomo vi è considerato come essere incompiuto, «in continua gestazione», chiamato a realizzare la propria libertà a partire dalla passività radicale propria del nascere assolutamente vulnerabile, in condizioni precarie. Ancora, l’uomo è inteso dalla filosofa — in consonanza con gli autori della coeva filosofia dell’esistenza — quale progetto, essere che si protende sempre al di là di se stesso, che «sogna» le sue possibilità e vuole assolutamente realizzare ciò che ha sognato. In tale prospettiva, l’uomo non è tanto un essere-per-la-morte, ma un essere che non è mai compiuto,35 mai «nato» del tutto, proteso quindi a «nascite» sempre nuove, occasionate anche da vissuti ed eventi biografici che, apparentemente, possono costituire delle «piccole morti», in quanto comportano la radicale rinuncia a progetti già formulati.

Come ama ricordare la stessa María Zambrano, alla luce della ragione vitale e storica del maestro Ortega y Gasset «Vivere è anelare»;36 per il filosofo, l’anelito proprio dell’uomo è volto a «farsi» — hacerse- a realizzare il proprio essere in una storia che è fondamentalmente res dramatica. Se l’animale si rivolge sempre verso qualcosa di determinato, l’anelare proprio dell’uomo comporta un coefficiente di indeterminazione che preannuncia la sua stessa libertà, è segno di un «vuoto» che l’uomo stesso può cercare di «riempiere» in diversi modi. L’anelito umano è illimitato e può convertirsi persino in impeto distruttivo, come attesta esemplarmente la storia europea del ventesimo secolo.

Per la filosofa andalusa, nell’uomo maturo questo anelito si configura come speranza, che si rivela «intimo fuoco»37 di quell’anelito, quale attitudine essenziale dell’essere umano che si rivolge sempre intenzionalmente a «qualcosa». Nelle parole dell’autrice, si tratta di una speranza continuamente alla ricerca di un adeguato argomento:38 la spes qua vuole riversarsi in una spes quae.

Il tempo è l’ambiente peculiare conferito all’uomo39 per conoscersi e realizzarsi, per «completare» la sua nascita. Soltanto la sapienza della vita può insegnargli ad «aprire il tempo», allorché questo appare aggrovigliato e labirintico, ovvero a convertirlo da istanza che sembra resistere al suo conato di essere a forza mediatrice nel percorso che lo conduce alla pienezza del proprio essere.40 La filosofa osserva:

Nella vita, la tragedia è lo stato iniziale, perché non siamo uno, sino alla morte nessuno consegue l’unità nella vita, e la vita non è che il cammino verso tale unità. «Il tempo è la pazienza di Dio», ha detto il filosofo personalista cattolico Emmanuel Mounier. È la pazienza che ha Dio per consentire che ognuno di noi si faccia uno, ed è nel tempo, è tempo quello di cui abbiamo bisogno per trovare proprio questa unità che non ci è data, ma che dobbiamo ottenere.41

Nel rapporto che l’uomo instaura con le tre estasi temporali è di particolare rilievo la tensione verso il futuro, che arrecherà eventi assolutamente inanticipabili e che pertanto, nel linguaggio dell’autrice, è ben diverso dall’avvenire (porvenir), il quale non è altro che la conseguenza pressoché inevitabile delle vicende che si svolgono nel presente. Il tempo dell’uomo non è univoco, ma molteplice. Non vi è solo il tempo in cui si svolgono i fenomeni della coscienza, ma vi è un tempo peculiare per ogni forma di convivenza umana. Leggiamo:

Esiste la misura del tempo in cui troviamo la relazione giusta con il prossimo, nella vita personale, in quella familiare, in quella storica. Infatti, in ognuna di esse viviamo in un tempo differente. La convivenza, inevitabile, si verifica in un certo modo o forma del tempo. Il tempo in cui conviviamo nella famiglia non è lo stesso tempo in cui conviviamo nella storia intera che ci riguarda. E non è lo stesso tempo in cui troviamo la forma di convivenza che chiamiamo amicizia, o amore, e neppure lo stesso tempo intimo, intrasferibile, della nostra solitudine, in cui, a tratti, entriamo in comunicazione con tutti i tempi, con tutte le forme di convivenza. È il tempo della convivenza sociale a interessarci in questo momento. Senza dubbio tempo storico, anzi sostegno del tempo storico, perché sentiamo la storia attraverso questo tempo di convivenza con la nostra società, dentro la quale siamo e ci muoviamo, e i cui cambiamenti decidono la nostra vita.42

María Zambrano afferma che negli ultimi due secoli sembra essersi ampliata la coscienza storica dell’uomo occidentale. Si tratta di quel tipo antropologico che, più di tutti, si è autocompreso quale «essere storico». Non si è sentito più sotto il peso del Destino43 e ha voluto creare, con tutta la sua volontà e le sue forze, la propria storia. Si è trattato di una storia caratterizzata, particolarmente nel Novecento, da una violenza efferata, senza precedenti nel suo carattere distruttivo. Anche e soprattutto in tale secolo la storia ha manifestato il suo carattere tragico, sacrificale, creando nuovi idoli, ovvero carnefici, e nuove vittime, decine di milioni di vittime. Al riguardo, l’autrice scrive:

La struttura tragica che la storia ha avuto finora proviene dal fatto che ogni tipo di società, inclusa la famiglia, persino la particolare società formata da due persone che si amano, ha sempre come legge, ad esclusione di determinati livelli di umanità, la presenza di un idolo e di una vittima. Il che equivale a dire che la soglia della storia davanti alla quale l’uomo ha dovuto tante volte retrocedere è questa: che là dove ci raggruppiamo — e non possiamo farne a meno — smetta di esistere un idolo e una vittima; che la società in tutte le sue forme perda la sua costituzione idolatrica; che riusciamo un giorno ad amare, a credere e a obbedire senza bisogno di idolatria; che la società smetta di reggersi sulle leggi del sacrificio, o meglio, su un sacrificio senza legge.44

Giunge comunque il momento della rivoluzione, allorché l’idolo perde il suo carisma di fronte agli altri uomini, non è più adorato ma viene addirittura esautorato, diviene a sua volta vittima della storia e si ristabilisce temporaneamente una parvenza di uguaglianza sociale. Tuttavia, nella storia non tarda ad affermarsi un altro idolo che, a sua volta, sedurrà le masse per un certo periodo di tempo. Ad esempio, pochi anni dopo la Rivoluzione Francese, sorgerà un altro idolo, ovvero Napoleone.45

Nell’Europa che era stata la patria dei Lumi e della proclamazione dei diritti dell’uomo, anche negli ultimi due secoli questi diritti sono stati tragicamente conculcati e la storia ha conservato il suo carattere sacrificale. Nella prima parte del Novecento, in diversi paesi europei si sono affermati regimi fortemente autoritari o totalitari. Anche se, al tempo in cui viene pubblicato Persona y democracia l’uomo dell’Europa occidentale si è risvegliato dall’«incubo» storico costituito dal totalitarismo, tale risveglio non comporta ancora la piena consapevolezza del proprio essere e delle proprie responsabilità. L’essere umano è ancora un enigma per se stesso — una Sfinge — non è ancora abbastanza libero per pensare e per porre in esercizio la propria libertà.46 L’autentica democrazia, pertanto, sembra una possibilità del futuro da promuovere, più che un dato acquisito da difendere. Per molti uomini la storia continua ad essere un «incubo», che impedisce loro di vivere da persona e li induce a proporsi agli altri come un personaggio. E il personaggio è una finzione, un parassita della persona: tende a soffocarla, assumendo la fissità di una maschera. Il personaggio, in quanto svolge un insieme di ruoli utili alla società, è funzionale alla società stessa, alla quale è invece irriducibile, nel suo mistero, la persona.

Eppure, in una storia che non ha ancora realizzato il trapasso dallo stadio sacrificale a quello etico, l’autrice recensisce alcuni periodi privilegiati, consentanei alla rivelazione dell’uomo, dell’individuo e della persona. Per María Zambrano, l’uomo quale essere affrancato dall’originaria persecuzione del sacro fascinans et tremendum e, pur in modi diversi, aperto alla Trascendenza, si è rivelato, quasi contemporaneamente, sia in Occidente che in Oriente, sin dal sesto secolo prima di Cristo. A partire da tale epoca — che fa parte del «periodo assiale» (Achsenzeit) nella terminologia di Karl Jaspers, il quale lo situa tra l’ottavo e il terzo secolo avanti Cristo —47 in Grecia si è affermato il pensiero filosofico, mentre in Asia sono sorte o si sono consolidate grandi religioni o forme di pensiero di ispirazione religiosa, quali il buddismo, l’induismo, il confucianesimo e il taoismo. Scrive l’autrice:

C’è un momento in cui l’aurora dell’umano sembra estendersi e occupare un vasto orizzonte: è VI secolo prima di Cristo. Buddha in India, Lao-Tse in Cina, i Sette Saggi, e tra questi Talete di Mileto in Grecia e Pitagora. Punto di unione tra l’Egitto e l’India. E non è propriamente un Dio ad affacciarsi, ma una via. Perfino nella definizione, Buddha chiama la sua dottrina la «Terza Via». Lao-Tse fonda il Taoismo, e tao significa via. E con le riflessioni di Talete di Mileto sull’«essere delle cose» si apre la via, la strada del pensiero filosofico-scientifico, prima in Grecia e poi in Occidente. Queste strade, per quanto diverse, hanno in comune il fatto di essere strade aperte dall’uomo nella selva oscura e compatta formata dagli dèi, dalla confusione della natura e perfino dall’oscurità della sua mente. È come se l’uomo si fosse finalmente messo in moto. E farsi strada è l’azione umana per eccellenza: è proprio dell’uomo, come mettere in esercizio il suo essere e insieme manifestarlo, perché l’uomo è egli stesso strada.48

Per quanto riguarda l’individuo, esso «si rivela», comincia ad esistere ed agire in quanto tale, innanzitutto nel quinto secolo avanti Cristo all’interno della democrazia propria della polis greca. Qui ogni uomo libero concorre, al pari degli altri, alle determinazioni relative alla vita politica. E, al contempo, prende vigore il pensiero filosofico, che esige che l’individuo sia capace di «appartarsi», di avvalersi di un tempo proprio, del «tempo della solitudine»49 per elaborare una riflessione che aspira comunque alla validità universale.

Dinanzi alle leggi della città, ogni individuo ha gli stessi diritti, è un ciascuno. È noto che la cultura della grecità non perviene alla nozione di persona. In greco non esiste neppure una parola che sia idonea per designarla. Il lemma che si approssima di più ad essa è prosopon, ovvero «maschera», ma anche «volto» quale manifestazione eminente della singolarità dell’uomo e della sua capacità di «affrontare» le più diverse condizioni di vita.

3. La riflessione sulla persona

La nozione di persona è il novum apportato alla cultura umana occidentale dal pensiero di ispirazione cristiana, in virtù delle controversie teologiche di carattere trinitario e cristologico. Al riguardo, in Persona y democracia María Zambrano è alquanto laconica, in quanto scrive sommariamente che in Occidente «appare la rivelazione della persona umana come qualcosa di originale, di nuovo: una realtà radicale che non si può ricondurre a nessun’altra. Ed è proprio qui che si presenta il problema di trovare una società adatta ad ospitare questa realtà umana».50

Tuttavia, l’autrice pone in rilievo che l’uomo europeo, convertitosi al cristianesimo sul piano meramente sociologico a partire dal quarto secolo, non si è avvalso nella sua storia della ricchezza delle implicazioni semantiche presenti nella nozione di persona. Se l’uomo europeo si fosse realmente convertito al cristianesimo, almeno nel suo Continente la storia si sarebbe affrancata dal carattere sacrificale che assume tuttora. Vi si sarebbe estinto quel perverso «meccanismo vittimario» che la filosofa andalusa pone in luce e che, alcuni lustri più tardi e in una prospettiva teorica ben più ampia, René Girard analizzerà nella sua opera. Il Sacrificio redentivo si era già consumato, una volta per tutte, sulla Croce. Scrive l’autrice:

Nel mistero centrale del cristianesimo, la storia di Cristo, Dio e vittima, è una sola; è Dio che si fa vittima. L’accettazione di questo mistero avrebbe dovuto liberarci dall’adorazione dell’idolo e della sua ombra, e dalla necessità che debba sempre esserci un condannato.51

Pertanto, la storia europea non avrebbe avuto più bisogno di vittime sacrificali, se l’uomo avesse creduto realmente nel valore redentivo della Croce. Tuttavia - come María Zambrano evidenzia soprattutto nel volume La agonía de Europa52 l’uomo non ha creduto nel Dio di misericordia che ha offerto il Figlio per la salvezza degli uomini, bensì nel Dio creatore, nel quale avevano creduto, ancor prima dei cristiani, gli ebrei. In questo libro, più che nelle altre opere zambraniane, è evidente la dicotomia istituita dall’autrice — che risente di alcune suggestioni di ascendenza gnostica — tra il Dio dell’Antico Testamento e il Dio rivelato dal Vangelo.

Secondo l’autrice, l’uomo europeo ha adorato un Dio onnipotente piuttosto che misericordioso e ha voluto persino imitarlo. L’europeo ha pure realizzato, in qualche misura, questo suo insano progetto, rivelandosi inesausto creatore di cultura, di forme e di stili di vita come nessun altro tipo antropologico. Nella modernità, egli ha pagato a caro prezzo la sua hybris, il processo di endiosamento, mediante il quale egli ha «divinizzato» se stesso. Il suo slancio creatore si è tramutato nel suo opposto, è divenuto potenza distruttiva. Egli ha rescisso il suo legame con il divino ed è tornato in balìa del sacro, di quella potenza immane dalla cui persecuzione si era affrancato allorché aveva iniziato a percepire la luce del divino stesso. È il sacro è una potenza ancipite, generatrice e distruttrice. L’uomo della tarda modernità, inconsapevole preda del sacro, è stato capace di porre in atto una capacità di distruzione senza precedenti. Questo si è manifestato non solo nella storia — come attestano le stragi arrecate dai conflitti mondiali del ventesimo secolo — ma anche nella cultura e nell’arte con la «distruzione delle forme» che la tradizione aveva consacrato e persino la «disumanizzazione dell’arte».53 L’eclissi del divino, il secolarismo affermatosi al culmine della secolarizzazione, ha comportato una gravissima crisi dell’uomo.

In questa temperie storica, per l’autrice è di estrema importanza promuovere una nuova autocomprensione dell’essere umano che, in fondo, equivale alla riscoperta della ricchezza insita nell’antropologia cristiana. L’uomo è chiamato a riscoprirsi quale persona, essere che trascende la società («Se così non fosse, sarebbe esistita una sola società. E, come genere, l’uomo sarebbe simile a una specie animale»),54 la comunità politica55 e la storia; pertanto, egli deve affrancarsi dalla tentazione di fare un assoluto di un altro uomo o di una determinata realtà storica. Leggiamo: «Paradossalmente, infatti, esiste la storia, con i suoi incessanti mutamenti, perché l’uomo, suo protagonista, è qualcosa che non si esaurisce nella storia, perché in qualche dimensione del suo essere la oltrepassa. E per questo la determina».56 Se ciò non fosse vero l’uomo si ridurrebbe a «scimmia della storia».57

Nel libro Persona y democracia si rinvengono fini notazioni sulla persona, piuttosto che una compiuta definizione. Un abbozzo di essa si riscontra allorché l’autrice pone in rilievo la trascendenza della persona stessa sull’io, analogamente ad Emmanuel Mounier, per il quale la persona non è l’io, né l’individuo, né la coscienza o la personalità,58 bensì «il volume totale dell’uomo».59 Per l’autrice, la persona trascende anche il soggetto: persino il singolo animale è «soggetto», poiché: «Là dove appare la vita, appare l’uno e l’altro. Un’unità tale da creare l’altro, una lotta che è rivalità, concorrenza. Si tratta dell’apparizione di quello che chiamiamo soggetto».60

Riguardo alla persona, la filosofa scrive:

La persona include l’io e lo trascende, mentre l’io è veglia, attenzione immobile, è una specie di guardiano. La persona, come indica il nome, è una forma, una maschera con cui affrontiamo la vita, le relazioni e i rapporti con gli altri, con le cose umane e divine. Questa persona è morale, davvero umana, quando porta dentro di sé la coscienza, il pensiero, una conoscenza precisa di sé e un ordine preciso, quando si situa in un suo ordine prima di ogni relazione e di ogni azione, quando accoglie il più intimo dei sentimenti, la speranza.61

È tuttavia possibile all’uomo, come si è detto, agire come personaggio anziché quale persona. Leggiamo subito dopo: «Ma possiamo anche costruirci un’immagine di noi stessi, un’immagine fittizia, maschera di una passione, per esempio quella della divinizzazione, oppure un’altra qualsiasi, e indossarla quando agiamo».62 In questo caso, la «vera persona è soggiogata, giace vittima del personaggio che la sostituisce».63 La differenza tra l’una e l’altro è che «il personaggio, per quanto possa essere storico, lo rappresentiamo, mentre persone lo siamo per davvero».64

Vivere da personaggio è una forma di alienazione, è un vivere da altro rispetto a se stesso. Non sempre le conseguenze di ciò sono riprovevoli, in quanto talora l’essere umano agisce in conformità a un’immagine di sé informata da nobili ideali, secondo «l’Io ideale», direbbe uno psicologo. Allora il personaggio può porre in atto una morale «eroica», in uno slancio continuo che induce persino all’abnegazione, al sacrificio di sé. Tuttavia, per lo più il personaggio vive da opportunista, si rivela fondamentalmente egocentrico, talvolta narcisista.

Se l’essere umano riesce a individuare una mèta adeguata per la propria, ineludibile speranza, ad innamorarsene e a tradurre il suo amore in ferma volontà di giungere a quel traguardo, allora in lui il personaggio «si dissolve»,65 è realmente sconfitto dalla persona, la quale assume come proprio un fine di rilevanza universale, assurgendo al piano dell’azione etica. E attinge l’eticità, pur nel suo delirio, anche don Chisciotte, il quale ama Dulcinea e vuole rendersi degno del suo stesso amore lottando per la giustizia. Qui, secondo l’autrice, «l’innamoramento è diventato amore, perché non c’è amore senza questa ascesa al piano morale».66

4. La democrazia, luogo della persona. Il popolo e la massa

Per María Zambrano, la persona costituisce la cellula prima della democrazia. Nella sua riflessione l’una e l’altra simul stabunt aut cadent. Il titolo del libro che qui prendiamo in considerazione — Persona y democracia - costituisce pertanto una endiadi. Nelle parole dell’autrice, la democrazia «è la società in cui non solo è permesso, ma è addirittura richiesto essere persona».67 In una società in cui l’uomo riuscisse finalmente a vivere semplicemente quale persona, anche l’inevitabile divisione in classi sociali perderebbe il suo carattere oppressivo, «perché al di sopra della loro diversità e anche al loro interno sarebbe visibile l’unità dell’essere persona, del vivere come persona».68 Ancora, una società — come qualsivoglia componente al suo interno — è vitale nella misura in cui si rende «a immagine e somiglianza della persona».69

È la persona, non l’individuo, ad aspirare alla partecipazione alla vita democratica. L’individuo si costituisce per «separazione» rispetto agli altri, si appaga della propria particolarità. Nelle parole di Martin Buber: «L’individualità si manifesta distinguendosi da altre individualità».70

Rispetto all’individuo, la persona contiene un «di più», la sua unicità assume un senso positivo in quanto coesiste con un’originaria apertura alla convivenza. Martin Buber scrive: «La persona si manifesta entrando in relazione con altre persone».71 Da parte sua, María Zambrano afferma:

Nell’espressione «individuo» si insinua sempre un’opposizione alla società, un antagonismo. La parola individuo suggerisce quanto nell’uomo concreto individuale esiste di unico, ma in senso leggermente negativo. Invece, il termine persona include l’individuo e in più insinua nella mente qualcosa di positivo, qualcosa di unico perché positivo, perché è un «di più», non una semplice differenza.72

Nel Novecento - secolo che pur è stato caratterizzato da diverse forme di efferata violenza contro la persona — si è aperta un varco nella coscienza umana la rivelazione che «la persona umana costituisce non solo il valore più alto, ma la finalità stessa della storia».73 Il processo di umanizzazione della società che si sta avviando in taluni paesi e l’affermarsi della filosofia della persona, la quale ha assunto differenti declinazioni in vari paesi europei, attestano tale «rivelazione».

Per esplicare la propria libertà, la persona ha bisogno proprio della democrazia, che non consiste tanto in una determinata «forma di governo» regolata da precise norme, ma in una realtà politica che favorisce il processo di umanizzazione della società, sino a condurre a una società realmente per l’uomo. In quest’ultima, l’essere umano può riconoscere la propria «casa». L’autrice manifesta delle riserve riguardo alla tradizionale definizione della democrazia quale «governo del popolo». Si tratta di una definizione abusata, parziale. Bisogna adottarne un’altra e quella da lei proposta, e che abbiamo già riportato, la trascende pur non rinnegandola, ed è consona al significato74 che nella realtà presente, e soprattutto futura, la democrazia stessa può assumere.

Anche per la filosofa, nella democrazia il popolo governa eleggendo delle minoranze, delle élites (nel migliore dei casi, las minorías egregias elogiate da Ortega y Gasset). In Persona y democracia, ella distingue le minoranze creative e quindi atte a governare la politica da quelle che si isteriliscono in una laudatio temporis acti. Tale dicotomia si rende evidente soprattutto in tempo di crisi. Leggiamo:

Non tutte le minoranze prendono le stesse posizioni. Di fronte all’insicurezza dei tempi di crisi, cosa che propriamente li caratterizza, esiste una minoranza creativa che avanza aprendo il futuro: nel pensiero, nella scienza, nella tecnica, nella politica, nell’arte e in ogni genere di attività creativa. Possono essere ben in vista o meno, secondo il genere di attività e secondo il periodo. Ma esiste un altro genere di minoranza formato da coloro che si ritirano disgustati dalla confusione, e cercano rifugio nel passato, aggrappandosi a esso, a un passato, beninteso, del tutto immaginario, perché nessun passato si potrà mai conoscere interamente. E oltretutto succede una cosa di cui queste persone non sembrano accorgersi: situandoci in un’epoca passata, ne scegliamo sempre la circostanza più vantaggiosa, quella che meglio si adatta alle nostre preferenze, eliminandone gli aspetti negativi che avrebbe nella realtà concreta.75

La democrazia autentica è una realtà politica e sociale nella quale le élites in parola sono realmente responsabili dinanzi al popolo, sono al servizio di quel popolo nel quale la filosofa andalusa dice di credere «allo stesso modo in cui crede in Dio».76 L’autrice tende talvolta a offrire un’immagine idealizzata del popolo, nel quale ravvisa la «sostanza» della storia, e accredita la massima veridicità all’uomo appartenente al popolo stesso allorché scrive:

La differenza tra il popolo e qualsiasi casta privilegiata o minoranza superiore è che la sua realtà e il suo valore consistono semplicemente nel fatto che è composto di uomini, di essere umani, e che la realtà umana vi appare senza alcun bisogno di aggiunte. L’uomo del popolo è semplicemente l’uomo. E la sua figura è la prima apparizione della persona umana libera da qualsiasi personaggio e maschera.77

In determinate circostanze storiche, il popolo si può dimostrare estremamente coeso nella difesa di valori comuni, rivelandosi addirittura eroico e animato dalla certezza di non doversi giustificare dinanzi ad alcuna istanza superiore. Nei primi anni dell’Ottocento lo è stato, ad esempio, il popolo madrileno, in quanto si è opposto strenuamente alle truppe napoleoniche che avevano invaso la Spagna ed è stato immortalato da celebri dipinti di Francisco Goya.78 Tuttavia, vi sono anche periodi di inerzia, di sottomissione del popolo a nuovi idoli.79 Come avviene nella vita della persona e persino del mistico,80 in quella del popolo a istanti di grande trasporto spirituale — quasi di «estasi» - succedono altri caratterizzati dall’avvilimento e dalla depressione.

Le élites al potere sono corresponsabili degli orientamenti del popolo, potendolo trattare quale interlocutore responsabile - il «come parlare al popolo»81 costituisce un problema fondamentale della democrazia - oppure come insieme di individui soggetti a decisioni calate dall’alto. In quest’ultimo caso si concretizza il rischio che il popolo si degradi a massa, folla che agisce per «contagio psichico» e nella quale sono annullate le differenze individuali. L’uomo-massa - el hombre-masa nel linguaggio di Ortega y Gasset -82 è un componente fungibile di un enorme «organismo» che si muove spinto da immani pulsioni ed spesso propenso a seguire i demagoghi e i dittatori. I regimi dittatoriali del ventesimo secolo sarebbero inconcepibili senza il concorso delle masse, l’avvento della «società di massa» e dei mass-media.

Riguardo alla massa, l’autrice scrive:

La massa è una materia grezza, uno «starsene lì» come materia: significa una degradazione perché allontana la realtà-popolo, che è una realtà umana, dall’aspetto in cui la realtà umana raggiunge il suo splendore, la possibilità di vivere come persona. Il che implica responsabilità e coscienza. Tutto ciò può avvenire solo in un certo tempo, in un certo modo di vivere il tempo…La massa soddisfatta è avida di beni materiali e non si sa che cos’altro. Perché, essendo umana, sente il vuoto.83

In sintesi, si può affermare che per María Zambrano la democrazia è una realtà politica laica, che riconosce i diritti affermati dal pensiero liberale ma pure i diritti sociali, ed è inclusiva delle differenze culturali e religiose. Se è lecito ricorrere a una metafora per alludere a tale democrazia, ci si può avvalere di una metafora basata sul registro acustico anziché su quello visivo: per la filosofa, essa non è tanto un edificio costruito una volta per tutte, bensì una sinfonia, ovvero una convivenza complessa e in continuo divenire, che comprende e armonizza note diverse. In quanto tale, essa è «un ordine che viene a crearsi davanti a noi e dentro di noi. Esige la nostra partecipazione».84 Leggiamo:

La democrazia è il regime dell’unità della molteplicità, e pertanto del riconoscimento di tutte le diversità, di tutte le situazioni più differenti. L’assolutismo, e anche i suoi resti operanti nel senso di un regime democratico, tiene conto soltanto di una situazione determinata. Se in effetti le cose stessero così, se di fatto esistesse solo un’unica situazione nel momento presente, sarebbe possibile il genere di unità che l’assolutismo, dichiarato o meno, propone. Ma una società è un insieme di situazioni diverse: perdere di vista anche una sola delle più decisive significa la catastrofe o la paralisi.85

È legittimo chiedersi quale sia il valore cardine dello spirito democratico per María Zambrano. Se si oltrepassa il detto di Persona y democracia e si tiene conto che la democrazia è unità di persone e aggregazioni umane differenti, alla luce di una visione complessiva del pensiero maturo dell’autrice si potrebbe ravvisare tale valore nella pietà, parola a cui ella ascrive una densità semantica analoga a quella propria della pietas latina.86 È, questa, un’attitudine fondamentale dell’uomo, la quale può assurgere a fondamento della religione civile che si delinea nelle pagine zambraniane. Qui la pietà è considerata la capacità di «trattare adeguatamente con l’altro», con il divino e con l’altro uomo, soprattutto colui che è più lontano da me quanto a condizione sociale ed economica, cultura, provenienza geografica.87 È appena il caso di aggiungere che proprio la pietà intesa in questo senso è l’attitudine che l’uomo europeo è chiamato ad assumere soprattutto oggi, in quanto vive all’interno di una società multietnica.

La filosofa andalusa ravvisa un «esperimento» di democrazia nella Repubblica Spagnola, proclamata nel 1931 e durata solo cinque anni: nel 1936 avrebbe preso avvio la rivolta delle truppe di Franco, che avrebbero avuto il sopravvento tre anni dopo. Ella ha creduto nella Repubblica, ha anche partecipato ad alcune sue importanti iniziative culturali volte ad elevare il livello di istruzione del popolo spagnolo. Tuttavia, questa Repubblica è stata soffocata nel sangue, prima ancora di pervenire alla sua maturità. È rimasta «bambina»: María Zambrano ama chiamarla Republica niña. Per lei si è trattato quindi una delle tante speranze irrealizzate della storia, di un’«alba interrotta», come molte altre, dall’irrompere delle tenebre, ovvero di un tentativo fallito di dare avvio alla trasformazione della storia sacrificale in storia etica.


  1. M. Zambrano, Persona e democrazia. La storia sacrificale, Bruno Mondadori, Milano 2000, p. 197; ed. originaria: Persona y democracia, Departamento de Instrucción Pûblica, San Juan de Puerto Rico 1958. Nel 1988 il libro venne ripubblicato, con il sottotitolo La historia sacrificial, presso l’editrice Anthropos di Barcellona. ↩︎

  2. E. Mounier, Lettre ouverte sur la democratie, articolo pubblicato su «L’Aube» il 27 febbraio 1934, ora in Rivoluzione personalista e comunitaria, Ecumenica, Bari 1984, pp. 231-232 (Révolution personnaliste et communautaire, Montaigne, Paris 1935, riportato in Œuvres, vol. I, du Seuil, Paris 1961. Quest’ultimo editore ha ripubblicato il volume nel 2000. Segnalo la prima edizione italiana dell’opera, presso Comunità, Milano 1949). ↩︎

  3. Vedi J. Valender, María Zambrano y la generación del 27, in AA.VV., De la razón cívica a la razón poética, Publicaciones de la Residencia de Estudiantes/Fundación María Zambrano, Madrid 2004, pp. 271-293. ↩︎

  4. Ivi, p. 212. ↩︎

  5. Ibidem↩︎

  6. Vedi F. Rosenzweig, Il nuovo pensiero. Alcune note supplementari a «La stella della redenzione», in Id., La Scrittura. Saggi dal 1914 al 1929, Città Nuova, Roma 1991; ed. originaria: Das neue Denken. Einige nachträgliche Bemerkungen zum «Stern der Erlösung», in «Der Morgen», n. 4, 1925. ↩︎

  7. J. Sánchez-Gey Venegas, Hacia un nuevo liberalismo. Razón ética, in AA. VV., Crisis cultural y compromiso civil en M. Zambrano, cit., p. 157. Al riguardo, mi permetto di rinviare anche a N. Bombaci, «Horizonte del liberalismo», Politica e tempo in María Zambrano, «Humanitas», n. 1-2/ 2013, pp. 32-47. Il fascicolo della rivista comprende gli Atti del Convegno di Studi sul pensiero politico dell’autrice, svoltosi a Trento il 20-21 ottobre 2011. Vedi pure, nello stesso fascicolo, S. Bignotti, L’Antigone di María Zambrano, specchio dei liberalismi, pp. 66-84. ↩︎

  8. M. Zambrano, El hombre y lo divino, 1.a ed. Fondo de Cultura Económica, México 1955; ed. it.: L’uomo e il divino, Edizioni del Lavoro, Roma 2002, 2008. ↩︎

  9. Talora l’autrice la denomina anche «generazione del toro», in quanto destinata ad essere sacrificata, come il toro nella corrida. ↩︎

  10. N. Zambrano, Persona e democrazia, cit., p. 1. ↩︎

  11. Ivi, p. 2. ↩︎

  12. Ibidem. ↩︎

  13. Ibidem. ↩︎

  14. «L’alba è l’ora più tragica del giorno, è il momento in cui la luce appare come una ferita che si apre nell’oscurità, in cui tutto riposa. È risveglio e promessa che può restare incompiuta» (ivi, p. 35). ↩︎

  15. Ivi, p. 3. ↩︎

  16. O. Spengler, Der Untergang des Abendlandes. Umrisse einer Morphologie der Weltgeschichte, ed. completa, in due volumi, pubblicata presso Beck, München 1923 (Il tramonto dell’Occidente. Lineamenti di una morfologia della storia mondiale, Longanesi, Milano 1957; l’ed. più recente, anch’essa presso Longanesi, risale al 2008). ↩︎

  17. M. Zambrano, Persona e democrazia, cit. p. 25. ↩︎

  18. Ivi, p. 26. ↩︎

  19. Ibidem. ↩︎

  20. Ivi, p. 27. ↩︎

  21. Ivi, p. 9. ↩︎

  22. Ibidem. ↩︎

  23. Ivi, p. 14. ↩︎

  24. Ibidem. ↩︎

  25. Ivi, p. 139. ↩︎

  26. «Si tratta di quella che abbiamo chiamato sospensione, quel “dentro” secondo Ortega, quella solitudine che, se ci aspetta è perché c’è sempre» (ibidem). ↩︎

  27. Ivi, p. 146. ↩︎

  28. Cfr. J. Ortega y Gasset, Ensimismamiento y alteración. Meditación de la técnica, Espasa Calpe, Madrid/Buenos Aires 1939. Segnalo la più recente edizione dell’opera, presso Alianza, Madrid 2014. ↩︎

  29. M. Zambrano, Persona e democrazia, cit., p. 138. ↩︎

  30. Ibidem. ↩︎

  31. «E se l’uomo non potesse ritirarsi dalla vita storica, che è vita sociale, la sua situazione sarebbe analoga a quella dell’animale, sarebbe prigioniero della storia. Ma, in questo caso, potrebbe esserci storia?» (ivi, p. 140). ↩︎

  32. Ibidem↩︎

  33. Ivi, p. 138. ↩︎

  34. Ibidem. ↩︎

  35. «E l’uomo non è mai compiuto, la sua promessa supera in tutto la sua riuscita e continua la sua lotta costante, come se l’alba, invece di avanzare, si estendesse, si dilatasse, e la sua ferita si aprisse più in profondità per dare modo a questo essere incompiuto di nascere» (ivi, p. 35). ↩︎

  36. Vedi ivi, p. 69, dove l’autrice scrive: «L’anelito è la prima manifestazione della vita umana». ↩︎

  37. Ivi, p. 71. ↩︎

  38. «…la storia, tutta quanta, potrebbe intitolarsi “Storia di una speranza in cerca del suo argomento”…La speranza non si limita a esserci e basta, ha le sue eclissi, le sue cadute, le sue esaltazioni, la sua momentanea estinzione e la sua resurrezione» (ivi, pp. 34-35). ↩︎

  39. «Il tempo ci avvolge, ci mette in comunicazione con tutto il resto e insieme ce ne separa. Per mezzo del tempo, e al suo interno, comunichiamo tra noi. È proprio dell’uomo viaggiare attraverso il tempo» (ivi, p.15). ↩︎

  40. Vedi Ead., Del método en filosofía o de las tres formas de visión, in Rio Piedras. Revista de la Facultad de Humanidades, Rio Piedras-Puerto Rico, n. 1, 1972, pp. 70-78. In fondo, si può affermare che l’autrice «deformalizza» il tempo, analogamente agli autori del pensiero dialogico, in gran parte a lei sconosciuti. Pertanto, in ogni accadimento — o, in una prospettiva più ampia, nell’incontro con l’alterità — il tempo accade in modo ogni volta differente, a seconda dell’atteggiamento assunto dall’uomo nei confronti dell’accadimento o dell’alterità. Si tratta di un atteggiamento che può qualificare il tempo in senso etico, connotandolo positivamente, oppure lo può svilire, allorché l’uomo — nelle parole di Miguel de Unamuno e della stessa Zambrano — intende «ammazzare il tempo». ↩︎

  41. Ead., Unamuno, Bruno Mondadori, Milano 2006, p. 96 (Unamuno, Debate, Barcelona 2003). L’espressione di Mounier si legge in Personalismo e cristianesimo, Ecumenica, Bari 1977, p. 125. L’opera fu pubblicata originariamente in inglese nel 1939, in un volume commemorativo del centenario della Catholic University di Washington. Nel 1940, con il titolo, L’enjeu des veleurs judéo-chrétiennes. Personnalisme catholique, essa fu pubblicata nei numeri 89-91 della rivista «Esprit». Probabilmente Zambrano ha letto la traduzione in spagnolo, dal titolo Personalismo católico, pubblicata dalla rivista messicana «Luminar». ↩︎

  42. Ead., Persona y democracia, cit., pp. 16-17. ↩︎

  43. Vedi ivi, p. 13. ↩︎

  44. Ivi, p. 44. ↩︎

  45. «Napoleone non era così crudele, eppure portò la desolazione ovunque si diresse; ma non era il suo scopo, perché la sua vera finalità storica era troppo in anticipo: l’unità dell’Europa. Ma fini per essere personaggio storico, per indossare una maschera: accettò la condizione di idolo» (ivi. pp. 46-47). ↩︎

  46. Vedi ivi, p. 9. ↩︎

  47. K. Jaspers, Vom Ursprung und Ziel der Geschichte, Piper, München 1949; Origine e senso della storia, Edizioni di Comunità, Milano 1965. ↩︎

  48. M. Zambrano, Persona e democrazia, cit., pp. 30-31. ↩︎

  49. Ivi, p. 18. ↩︎

  50. Ivi, p. 65. ↩︎

  51. Ivi, p. 46. ↩︎

  52. Ead., La agonía de Europa, 1.a ed. Sudamericana, Buenos Aires 1945, tra le edizioni più recenti segnalo quella presso Minima Trotta, Madrid 2000. Tr.. it.: L’agonia dell’Europa, Marsilio, Venezia 1999, 2009. ↩︎

  53. Vedi J. Ortega y Gasset, La deshumanización delarte, Revista de Occidente, Madrid 1925; La disumanizzazione dell’arte, Luca Sassella, Roma 2005. ↩︎

  54. M. Zambrano, Persona e democrazia, cit., p. 133. ↩︎

  55. La filosofa spagnola avrebbe potuto sottoscrivere quanto afferma al riguardo San Tommaso, ovvero che l’uomo non può essere ordinato alla comunità politica secondo se stesso nella sua totalità e tutto ciò che gli appartiene («homo non ordinatur ad communitatem politicam secundum se totum et secundum omnia sua», Summa Theologiae, Ia IIae, q. 21 a. 4). ↩︎

  56. M. Zambrano, Persona e democrazia, cit., p. 133. ↩︎

  57. Ivi, p. 140. ↩︎

  58. Vedi E. Mounier, Rivoluzione personalista e comunitaria, cit., pp. 74-83. ↩︎

  59. Ivi, p. 77. ↩︎

  60. M. Zambrano, Persona e democrazia, cit., p. 136. ↩︎

  61. Ivi, p. 89. ↩︎

  62. Ibidem. ↩︎

  63. Ivi, p. 90. ↩︎

  64. Ivi, p. 48. ↩︎

  65. Ivi, p. 91. Qui l’autrice aggiunge: «In questo caso si è “se stessi” per essere qualcosa di migliore, per offrirsi interamente a un’impresa e consegnarsi alla ricerca o alla conquista di qualcosa che servirà a tutti, che deve essere utile a tutti. E questa universalità è anche interiorità». ↩︎

  66. Ibidem. ↩︎

  67. Ivi, p. 157. Cfr. ivi, p. 181 («Se la democrazia è questa società che abbiamo cercato di delineare, la società umanizzata, come l’abbiamo definita, la società in cui non solo è possibile, ma addirittura necessario essere persona, allora bisogna convenire che si trova ancora in uno stadio nascente»). ↩︎

  68. Ivi, p. 160. ↩︎

  69. Ivi, p. 180. ↩︎

  70. M. Buber, Io e Tu, in Il principio dialogico e altri saggi, San Paolo, Cinisello Balsamo-Mi 1993, p. 103. Ed. originaria dell’opera: Ich und Du, Insel Verlag, Leipzig 1923. ↩︎

  71. Ibidem. ↩︎

  72. M. Zambrano, Persona e democrazia, cit., p. 157. ↩︎

  73. Ivi, p. 48. ↩︎

  74. Con riguardo alle parole «democrazia», «popolo», «individuo» e «libertà», l’autrice scrive: «Bisognerà allora lasciare che da esse cada, come la pelle di un serpente, il significato che avevano un giorno, perché venga allo scoperto il significato cui miravano» (ivi, p. 159) ↩︎

  75. Ivi, p. 23. ↩︎

  76. «…mi pueblo, en el que creo al par que en Dios»: M. Zambrano, Carta a Rosa Chacel, «Ínsula», 509, maggio 1989, pp. 17-18, ora in Ead., Los intelectuales en el drama de España y escritos de la guerra civil, Editorial Trotta, Madrid 1998, p. 212. ↩︎

  77. Ead., Persona e democrazia, cit., pp. 160-161. ↩︎

  78. «Il popolo che prende la Bastiglia; il popolo di Madrid che si solleva contro Napoleone, ovvero contro l’Esercito vincitore d’Europa. Acquista in quei momenti l’immagine di una forza della natura; il suo potere cresce, si nutre di se stesso, intuisce, si slancia nella sua certezza, si dispone a morire vivendo, a morire di una morte vivente. Come lo spirito della vita, sparge la morte per poter proseguire» (ivi, p. 163). ↩︎

  79. «Lo stesso popolo di Madrid, anni dopo la sua rivolta contro Napoleone, grida «Viva le catene». Lo stesso popolo di Parigi segue i cortei della dea Ragione e non si sazia di vedere la ghigliottina in azione» (ibidem). ↩︎

  80. «I mistici sostengono che dopo l’estasi arrivano i momenti di maggior rischio e maggior depressione. E anche se si tratta di estasi diverse, questi a cui alludiamo sono anch’essi istanti vissuti come fuori dal tempo; istanti di evasione dalla catena temporale, in cui si sperimenta l’unità, l’unità nella nostra vita, e l’unità di una realtà inesauribile che diventa presente, un presente puro, perfetto, senza resti di passato, un “sempre”» (ibidem). ↩︎

  81. Ibidem, p. 169. I demagoghi parlano al popolo adulandolo, al fine di farlo permanere nella condizione in cui esso vive (ivi, p. 170). ↩︎

  82. «Ortega caratterizza l’uomo della massa come colui che riconosce solo i propri diritti, avido di usare e di godere delle cose che non solo non è capace di creare, ma che neppure conosce. L’uomo, dunque, che vive dei risultati dei prodotti, il cui processo di creazione gli è del tutto sconosciuto e, cosa ancora più grave, persino indifferente» (ivi, p. 173). Cfr. J. Ortega y Gasset, La ribelión de las masas, Revista de Occidente, Madrid 1930. Tra le edizioni italiane dell’opera, segnalo: La ribellione delle masse, SE, Milano 2001. ↩︎

  83. M. Zambrano, Persona e democrazia, cit., p. 172. Anche il modo di parlare proprio della massa è ben diverso da quello del popolo. Al riguardo, vedi ivi, pp. 173-178. ↩︎

  84. Ivi, p. 196. ↩︎

  85. Ibidem, pp. 193-194. Riguardo all’assolutismo, l’autrice aggiunge: «In ogni assolutismo del pensiero e in ogni dispotismo cova la paura della realtà umana e anche della realtà in sé, prima che umana» (ivi, p. 195). ↩︎

  86. La pietà costituisce, tra l’altro, il tema di un ciclo di conferenze svolto dalla filosofa a L’Avana nel 1948, dal titolo Para una historia de la piedad. Los conflictos entre la piedad y el amor. Il testo della prima conferenza, Para una historia de la piedad, fu pubblicato originariamente nella rivista «Lyceum», n. 17, vol. 5, 1949, e poi riportato nella raccolta La Cuba secreta y otros ensayos, Ediciones Endimión, Madrid 1996. La traduzione italiana, Per una storia della pietà, si legge alle pp. 63-69 di «aut aut», n. 279, maggio giugno 1997. Riguardo alla riflessione sulla pietà, mi permetto di rinviare a N. Bombaci, Patire la trascendenza. L’uomo nel pensiero di María Zambrano, pp. 169-218 (capitolo «La pietà, forma della relazione giusta») ↩︎

  87. Per l’autrice, la pietà è anche e soprattutto capacità di trattare con gli esseri che non condividono lo statuto ontologico proprio dell’uomo oppure con l’essere umano che non è nel pieno possesso delle proprie facoltà. Radicalizzando tale prospettiva, ella osserva: «Riflettiamo un istante: quando parliamo di pietà, ci riferiamo sempre al rapporto con qualcosa o qualcuno che non sta sul nostro stesso piano vitale; un dio, un animale, una pianta, un essere umano infermo o deforme, qualcosa di invisibile o innominato, qualcosa che è e non è.» (M. Zambrano, L’uomo e il divino, cit., p. 189). Cfr. M. Gómez Blesa, La razón mediadora. Filosofía y piedad en María Zambrano, Gran Via, Burgos 2008. ↩︎