Il Maestro e la Guida

A cura di Nunzio Bombaci

Nota introduttiva: il maestro, ministro del logos nel pensiero di María Zambrano, di Nunzio Bombaci

1. Il carteggio con Agustín Andreu

Presentiamo qui la traduzione di un breve scritto di María Zambrano riguardante il rapporto tra maestro e discepolo nonché la differenza tra il maestro e la guida. Esso fa parte dell’assiduo carteggio tra la pensatrice e il teologo Agustín Andreu,1 pubblicato da quest’ultimo limitatamente alle lettere da lei inviategli tra l’autunno del 1973 e la primavera del 1976.2

Il loro primo incontro risale agli anni Cinquanta allorché la filosofa andalusa, già esule da una quindicina d’anni, risiede a Roma con la sorella Araceli. Con il giovane teologo di allora ella condivide l’interesse per alcune forme di pensiero sapienziale rimaste ai margini della tradizione filosofica occidentale e, soprattutto, per lo gnosticismo, particolarmente nella sua declinazione messaliana e valentiniana. Nei Preliminares all’edizione del carteggio, Andreu scrive:

Nel corso della mia vita ebbi tre incontri con María Zambrano. Il primo va dal 1955 al ’63, e comprende gli anni in cui ero studente a Roma e i primi anni da professore di teologia, sino alla difesa della tesi, nel ’62. In questa fase, tra la necessità, circospetta ma avida, di interrogarla sulla Guerra Civile e sulla Spagna della Institución Libre de Enseñanza,3 di Ganivet, Machado, Unamuno e Ortega, e tra la coincidenza di interessi su ellenismo e cristianesimo (il neoplatonismo di Clemente Alessandrino), restò segnata la vita del più giovane, e ciò dovette significare qualcosa anche nella vita della più matura, filosofa della religione e della mistica, a cui, inoltre, durante la Guerra Civile era stata affidata l’infanzia sfollata a causa del conflitto. In fondo, chi interrogava era un bambino di quella guerra dalla quale ella era metafisicamente segnata…

Il secondo periodo va dal 1973 al ’76, tempi di crisi che inducono il giovane teologo a una considerazione del cristianesimo il cui contenuto intellettuale e religioso si concreta nel plasmare una teologia del Logos e dello Spirito nelle loro relazioni reciproche. E ciò viene a costituire il tema fondamentale di questo scambio epistolare…

Vi è un terzo incontro, questo che mi tocca di rivivere nelle lettere — quasi un centinaio — alle quali ho dato spazio, poiché ne potevano venire alla luce delle altre ancora. Rivivere nella continuità, poiché dall’inizio stesso della mia attività come professore di teologia, nel 1956, sino ad oggi, non ho cessato di riferirmi a María Zambrano così come ad altre autorità della Spagna proscritta; questo, che anche altri individui della mia generazione fecero, e che ci caratterizza, non dovrebbe essere dimenticato allorché si scrive la storia della transizione esteriore o politica.4

Il carteggio pubblicato da Agustín Andreu attesta tra l’altro come la filosofa abbia validamente incoraggiato il teologo, autore di diversi saggi,5 nella sua ricerca sul Logos e lo Spirito. Nelle lettere di María Zambrano, inoltre, non mancano brani di notevole spessore teoretico, non meno di quello qui presentato. Grande interesse rivestono, ad esempio, alcune pagine di appunti sul valore speculativo dell’opera poetica di Antonio Machado,6 e in particolare di un aforisma contenuto in Los complementarios7 dell’eteronomo Abel Martin, nonché di alcuni versi di Galerias e Cancionero apócrifo.8

La corrispondenza pubblicata risale a degli anni particolarmente tormentati della storia europea, allorché si avvertono le conseguenze della crisi petrolifera, nonché a un periodo molto importante per la Spagna, dove va maturando la transizione dal regime franchista alla democrazia (il Generalissimo muore nel 1975). Per María Zambrano — che al tempo va scrivendo una delle sue opere più significative, Claros del bosque9 — si tratta di una stagione abbastanza feconda per quanto riguarda l’attività intellettuale, sebbene turbata dal recente lutto per la sorella Araceli, scomparsa nel 1972, nonché dalle preoccupazioni legate a una situazione economica che, nel corso del lungo esilio, non si affranca mai del tutto da un certo grado di precarietà. Talvolta Andreu, su invito di María, va a trovarla nella sua casa di La Pièce, ove, tra l’altro, discute con lei della possibilità del ritorno in Spagna, che comunque avverrà soltanto nel 1984. Nella minuscola località della Svizzera francese, non lontana da Ginevra, si recano a farle visita anche alcuni giovani intellettuali che le sottopongono i loro scritti.

Come si è visto, per Andreu la teologia del Logos e dello Spirito costituisce il nucleo tematico più significativo del carteggio. Lo studioso afferma che esso “rappresentava un nuovo modo di sentire e concepire il divino”,10 e il fondamento di una teologia e di una ecclesiologia che, riportando alla luce tradizioni di pensiero rimaste in ombra nella tradizione cristiana, potesse dare una risposta alla coscienza inquieta dei credenti che ritenevano intollerabile l’ipertrofia dell’apparato istituzionale della Chiesa, che ne soffocava l’afflato comunitario, radicato proprio nel mistero trinitario.

2. Il maestro e il discepolo: un rapporto nel persistere della distanza

Nel brano qui presentato, la figura che viene delineata con maggiore vigore è quella del maestro, sebbene non vadano trascurate le incisive e dense notazioni che riguardano la figura e il compito della guida.

María Zambrano distingue innanzitutto gli idealtipi del maestro e del professore. Quest’ultimo non è che un funzionario dell’insegnamento, a cui è demandato un compito che potrebbe essere assolto da altri. In fondo, nel suo lavoro può anche non mettere in gioco la realtà di persona.

Il maestro, al contrario, è “l’unico”, pronuncia parole sue, che sono segnate dal suo stesso timbro di voce, non patiscono l’oblio e non si disperdono nel vuoto, poiché “permangono inviolabili”. Egli non si rappresenta quale personaggio che assolve un ruolo — non è “uno che fa il maestro” — ma viene a comparire di fronte agli allievi nella pienezza della sua realtà di persona. In quanto tale, “si dà a vedere e udire” con la parola e con l’agire in modo a lui peculiare, provenendo da una dimensione altra, “da un luogo inaccessibile dal quale non cessa mai di uscire” e che permane insondabile, a preservare il mistero della sua persona. Il comparire, il venire alla presenza del maestro, che non ha bisogno di parole, non è rappresentazione — si rappresenta il personaggio che occulta la persona, di cui è il saprofita — ma neanche svelamento. Piuttosto, si direbbe una rivelazione: “Il maestro trascende”. Egli permane nella distanza. La relazione con il discepolo, nella asimmetria che le è connaturata, non sopporta una prossimità che abolisca la distanza.

María Zambrano sottolinea l’esigenza del permanere di tale distanza, alla quale sembra essere funzionale anche “il vuoto delle aule”. I partner di questa relazione debbono essere in grado di stare di fronte, a distanza, senza lasciarsi assalire dalla “vertigine” di questo vuoto. Se essa ha il sopravvento, si perverte la relazione, hanno libero gioco gli appetiti che trovano terreno fertile proprio nella natura ambigua, insidiosa, dell’eros pedagogico. Il maestro vede allora la sua immagine riflessa, in modo diverso, in ciascuno degli allievi, che a loro volta cercano di “vedersi” in lui. La signoria del maestro, la sua presenza, ne escono compromessi. Per gli allievi, viene a mancare quell’unità propria della persona del maestro che rimanda al mistero del legame imprescindibile tra realtà e verità. Inoltre, essi non possono più scorgere quel centro intorno al quale si va strutturando la loro “mente”, ovvero quella facoltà che trascende qualsiasi luogo di raccolta dei “materiali” grezzi e caotici costituiti dalle impressioni, materiali che non sono stati sottoposti alla “fatica del concetto”: concetti che non sono stati concepiti, meno ancora che aborti del pensiero.

È, questo, quanto accade allorché il maestro cede all’eros che tende ad annullare la distanza propria di una relazione così esigente. Allora, l’allievo non è più tale, è anch’egli un essere smarrito, abbandonato al caos delle rappresentazioni che turbinano nella coscienza. Si svilisce la parola del maestro, che non vale più a salvaguardare la “rettitudine” della relazione. L’“appetito di esistere”, l’ansia di affermarsi a scapito dell’altro, hanno in tal caso il sopravvento.

L’eros può dunque insidiare la relazione tra mastro e allievi. Si tratta di un rischio connesso all’ambiguità dell’eros, il quale, tuttavia, non può restare del tutto estraneo ad essa. L’eros della distanza — quello che non manifesta l’avidità di una orexis volta a fagocitare l’altro ma corrisponde al richiamo normativo del logos — può anzi trovare spazio in tale relazione. Non è pertanto l’eros che reclama la fusione con l’altro, ma quello che volge lo sguardo a un orizzonte comune, dischiuso dalla parola del maestro. Il logos di cui questi è ministro può in tal caso conferire ordine nell’ambito in cui opera. Esso, anzi, vale a dilatare lo spazio, come se il maestro parlasse e operasse sempre “all’aria aperta”, anche restando nella più sordida, nella più angusta delle aule. Come se il maestro fosse il demiurgo che dà ordine e connessione alla coscienza degli allievi, che così può elevarsi a mente, in quanto informata dal logos geometrikós, medium del pensiero, e dal logos spermatikós, che li rende “esseri viventi”.

Diversa dal Maestro è la Guida, la quale non compare, non è in primo luogo né presenza né volto. Essa non si manifesta, ma giunge occultata da una figura, per poi sparire. Può ritornare, magari assumendo un’altra figura, non meno enigmatica. È proprio la figura ciò che essa offre nel suo stesso occultarsi. La guida, a differenza del maestro, non reca l’ordine del logos, non si propone quale esempio, ma attrae e indica una strada da seguire, un cammino di liberazione. Questo opera, ad esempio, il Maestro nello Zen, che forse è perciò più guida che maestro.

La guida ha l’autorità di ordinare al seguace determinate azioni o riti, come il Virgilio dantesco. Per lo più, essa non esplicita le ragioni di ciò che ordina o del cammino che propone. Anche qui, la distanza tra la guida e l’adepto è qualitativa, indivisibile e invalicabile. La guida può appartenere ai più svariati ordini dell’essere: può delinearsi non solo quale figura umana, ma anche come “un animale, un’ombra, un fischio, un tremolio, qualcosa che si intravede”, quale “cifra e figura” del mistero dell’essere. Il compito della guida inizia ove cessa quello del maestro, in quanto soltanto essa fa segno alla vocazione, quell’autentico destino che non è mai oggetto di una certezza, ma è appunto as-segnato sempre in speculo et aenigmate. È il destino che “ci precede e ci trascende”. Seguire la propria vocazione, allora, non comporta mai la placida acquiescenza a un cammino illuminato da una luce uniforme e rassicurante, è correre un rischio, ma è proprio un “bel rischio”.

La rivelazione del senso e la realizzazione dell’autenticità del Sé si conseguono attraverso la sequela della guida. Bisogna allora “apprendere” tutto, affrontare la vertigine del Nulla, attraversare tutte le regioni dell’Essere, il pelagus infinitum. L’anima, secondo la tradizione orfico-pitagorica, è diapason/dia-pason, deve passare attraverso tutto ciò che è,11 al fine di potere cogliere la musica, l’armonia che è in essa, che essa stessa è. Bisogna “attraversare anche l’inferno”. Si tratta di un percorso che è segnato da una sofferenza oltre il dicibile, da una passione assoluta: l’essere umano è, in profondità, pathos. Prima che animal rationale, prima che “spirito creatore” o “volontà di potenza”, l’uomo è anima, oscuro sentire, essere-esposto, vulnerabilità. Il patire gli è proprio, è l’originario. L’agire viene dopo. Egli patisce la trascendenza, innanzitutto la propria: è enigma a se stesso.

L’uomo ha quindi bisogno della guida. Nel percorso che questa assegna, egli deve abbandonare uno dopo l’altro i molteplici epifenomeni dell’ego, ovvero lasciare che l’io “si cancelli” “a ogni passo”, per accedere al proprio “essere vero” oltre la maschera del personaggio rappresentato nella storia. Si tratta dunque di esperire l’abbandono dei mistici — si pensi alla Gelassenheit in Meister Eckhart, per il quale proprio l’io è ciò che vi oppone maggiore resistenza — al fine di essere, secondo un’espressione cara a María Zambrano, un hombre verdadero.

Nella chiusa del brano, l’autrice afferma che l’uomo occidentale, che vive una delle più gravi crisi spirituali della sua storia, ha bisogno di un maestro che sia anche una guida.12 In tale temperie storica, infatti, il maestro deve non soltanto fare segno al logos che informi la mente e la vita dell’allievo, ma accompagnare il discepolo/seguace, rispettandone la libertà, fino a renderlo capace di cogliere l’appello della sua vocazione, in modo che egli possa “nascere” a nuova vita.

Un maestro che sia al contempo una guida non intende impartire una conoscenza, ma promuovere la nascita dell’uomo all’essere autentico. Se è lecito mutuare una suggestione da Paul Claudel, la sua presenza dischiude l’orizzonte di una connaissance che è co-naissance, ovvero una nascita che non può avvenire nella solitudine, ma alla presenza di un altro che sia realmente “più grande” e che — nelle parole di Emmanuel Lévinas — provenga da una “dimensione di maestosità”.

Il Maestro e la Guida

Il maestro è lui, lui, il maestro, e perciò si distingue dal professore che è un professore, qualcuno che arriva a insegnare qualcosa senza che lo si noti, nel migliore dei casi, quando ci riesce. Soltanto se lo fa male, o in una forma che rompa i canoni inveterati, si avverte la sua singolarità. Non è lui personalmente, ma uno, un funzionario. Non ci si aspetta che celebri o che intoni il suo canto, non ci si aspetta da lui né attraverso di lui l’insperato. Le parole che dice potrebbe dirle un altro, sono ripetizioni e si tende a ripeterle, il che non è sempre male. Il maestro, invece, è unico, lui, lo stesso. Le parole che dice sono sue e, per quanto giungano a essere molto familiari, restano prese dalla sua voce e insieme distaccate, in spazi ove permangono inviolabili. “Egli lo disse”. Il comprendere ciò che egli disse verrà dopo o non verrà mai. Il maestro è la sua presenza. Un essere che con la sua parola o il suo agire si presenta dandosi a vedere e udire. Le spiegazioni che dà sono di solito poche e sono subordinate a ciò che egli dà al comparire. Viene da un luogo inaccessibile dal quale non cessa mai di uscire. Oppure ha attraversato una soglia aprendo una porta della quale egli solo ha la chiave, e persino qualche muro che ha ceduto al suo passaggio. E sta qui, dinanzi ai discepoli, conservandosi sempre in un luogo inaccessibile e persino remoto. Il maestro trascende. Per questo, anche stando calmo e silenzioso, continua a essere presente.

Il discepolo si sente visto, sebbene non sia guardato, e ascoltato, per nulla che dica o che possa dire, soprattutto ciò che a lui più importa, che egli più brama, che il maestro sappia di lui: che sappia, il maestro, che egli, il discepolo, è lui, a sua volta. E che sta qui silenzioso e senza speranza di darsi a conoscere. Che a volte si rivolta e reclama perché sta chiamando per essere riconosciuto da lui. Il discepolo, alla maniera di un amante sconosciuto, che sa di non potere dire il suo amore e che non sa neppure che tipo di amore sia, o se sia amore, e perciò si confonde dinanzi alla presenza del maestro. Una situazione tra due esseri in cui la presenza compiuta di uno risveglia l’anelito dell’altro che ancora non la ha. Il che esige innanzitutto distanza e trasparenza. Il vuoto delle aule è luogo adeguato a questo doppio rendersi presenza. Vi sono maestri che occupano questo spazio interamente e lo assorbono nella loro presenza che così cresce e si diffonde. È il maestro posseduto da questa sua presenza, al contempo ignorandola, come succede con ciò che ci possiede, che ignoriamo mentre non ce ne distacchiamo.

È il momento in cui il maestro e il discepolo possono essere assaliti dalla vertigine della distanza e del vuoto. Nulla come questa vertigine vale a scatenare gli appetiti e a far sì che la molteplice “orexis” si espanda. Il momento dell’eros specificamente pedagogico. Se il maestro cede o semplicemente vacilla, andrà vedendosi, come in una galleria di specchi, nei discepoli che, a loro volta, lo guardano per vedersi in modo riflesso. L’unità del maestro si frantuma; quella sua unità, asse della sua presenza e che dovrebbe mantenere perché impercettibilmente si vada presentando dinanzi al discepolo come segno dell’asse che mantiene la realtà e la verità, l’asse indispensabile, e il centro per il quale esiste la mente. Mente, e non incatenamenti di associazioni date, di “idee” ricevute, di ogni sentire avventato, questo caos, impronta e persino stigma del mondo immediato, come se la coscienza fosse il luogo inerte ove vanno a cadere tutti i materiali. I materiali della disintegrazione del pensiero: concetti che non sono stati concepiti.

Poiché la coscienza comune viene a essere come un vuoto inerte ove cadono idee e concetti, rappresentazioni, metafore, visioni che la occupano. Il maestro il quale cede all’eros che cerca di annullare la distanza, che cerca la fusione, lungi dal risvegliare nel discepolo questa presenza che gli è promessa, lo condanna a vagare ingarbugliandosi in una semivita, a perdersi. E, se fa così, tutto nelle aule, persino la luce, cambia di colore, le parole acquistano un’intenzione obliqua che il discepolo raccoglie come allusione a se stesso. Ciò che entra in gioco è ormai la sua esistenza. L’appetito di esistere affermandosi, in ansia di essere, innanzitutto. E non può più vedere proprio quando cominciava a farlo. Nel frattempo, l’alienazione tende insidie al maestro. Il che reca con sé una generosità che va proliferando, una falsa consegna di sé. E, sebbene appare impossibile che l’eros si renda assente dall’aula del maestro, dovrebbe esserlo.

Un eros della distanza. L’eros che corrisponde al logos che apre spazio ove potere circolare. L’eros che conduce lo sguardo verso l’orizzonte prima di tutto, salvandolo da questa prima, immediata solitudine che dà luogo al solipsismo. L’ego minaccia a sua volta di impadronirsi dell’eros. E così, colui che è disposto a essere discepolo rimarrebbe rinchiuso in questa coscienza ancora inerte, occupata dal suo stesso io. “L’unico e la sua proprietà”;13 l’io, che si erige come massima resistenza al logos nella sua purezza. E da qui, l’instancabile parlare tra maestro e discepoli nel quali si svia il logos nella sua prima e timida apparizione, più vera.

Poiché il logos va creando i propri spazi in ognuna delle menti che lo accolgono, e va aprendo una certa configurazione laddove germina.

Il maestro, nel mantenere la distanza conduce sguardo e parola, apre l’orizzonte, e in un certo modo si assimila all’orizzonte. La sua presenza è al pari asse, centro, orizzonte. E così la sua lezione avrà luogo sempre all’aria aperta, per angusta, e persino sordida, che sia l’aula.

E l’eros andrà assimilandosi all’“eros architetto dell’universo”, quello che mantiene e assiste il “logos geometrikós”, che apre spazi abitabili al pensiero. E quest’altro luogo un poco inclinato, il “logos spermatikós”, quello che fa dell’essere un essere vivente, offrendo pensiero all’essere che cresce, e vita al pensiero. Il maestro è così come un buon demiurgo.

La Guida non dà il suo volto e la sua presenza permanentemente e non è questo ciò che conta. Al contrario, arriva e si occulta, sparisce e non si sa mai se per sempre, o se ritornerà con un’altra figura. Non è presenza ma figura ciò che la guida offre e, a volte, enigmaticamente o in incognito. Si direbbe che il suo regno non è propriamente quello del logos e che perciò, e non solo per liberare la mente dalle macerie, il Maestro Zen rompe, anche con la violenza, le catene che legano l’adepto. Attrae, la guida, per essere seguito — il maestro, invece, si tende a imitarlo — . La guida ordina di eseguire una qualche azione senza darne ragione alcuna, a meno che non sia indispensabile. Così vediamo Dante seguire Virgilio, e per seguirlo esce dall’inferno, capovolgendosi senza neanche sapere di farlo, di fronte alla presenza di Lucifero e proprio nel luogo della gravità assoluta. E solo in seguito si accorge del cambiamento, al vedere l’“animale immondo” dall’alto. Alla guida non si chiede. Non è questione di ragionare. La distanza tra la guida e colui che è guidato è qualitativa, invalicabile: si tratta, invero, di un altro ordine dell’essere. Pertanto, la guida può essere un animale, un’ombra, un fischio, un tremolio che si insinua, qualcosa che si intravede. E se si intravede la guida stessa, ancora presente, come cifra e figura dell’enigma e anche del mistero dell’essere e del suo essere lui. La guida parte da laddove il maestro si ferma: dal mistero della vocazione. Il seguire la guida è, in verità, continuare a vedere se si raggiunge la propria vocazione. Poiché la vocazione ci precede e ci trascende.

È la figura della trascendenza dell’essere che ha appreso tutto e che va errando nei suoi molti saperi, nella sua inanità, nel suo vuoto e nel suo nulla e non essere. Deve uscire da se stesso per raggiungersi. È se stesso che insegue. E il suo io si cancella a ogni passo per lasciare che nasca l’essere vero, più in là di ogni storico destino.

Qui, in Occidente, il maestro deve essere anche come una guida, deve esserlo fermandosi al margine stesso di quel mistero dell’essere di ognuno che è la sua vocazione. Riesce in pienezza se lo ha lasciato libero, intero, se ha lasciato nella libertà di nascere questo essere intatto che si dà a ogni uomo con la sua nascita. L’azione rivelatrice del maestro, la risposta vera alla domanda del discepolo, quella di essere riconosciuto, sarebbe il lasciarlo intatto sulla via del risveglio. Ci furono, tali maestri, e ve ne è testimonianza. E ce ne saranno.

Aprile 1975, La Pièce-Crozet-Francia

María Zambrano, Lettera n. 67, 29 luglio 1975, pp. 255 — 258, in Cartas de La Pièce (correspondencia con Agustín Andreu), a cura di Agustín Andreu, Pre-Textos, Universidad Politécnica de Valencia, Valencia 2002 (fotocopia di un dattiloscritto corretto a mano, aprile 1975).


  1. Colgo l’occasione per ringraziare qui il prof. Agustín Andreu, attualmente docente alla Universidad Politécnica de Valencia, che mi ha inviato il volume del carteggio e mi dato preziosi suggerimenti per la mia ricerca sul pensiero di María Zambrano. ↩︎

  2. M. Zambrano, Cartas de La Pièce (correspondencia con Agustín Andreu), a cura di Agustín Andreu, Pre-Textos, Universidad Politécnica de Valencia, Valencia 2002. ↩︎

  3. L’intento di tale Institución era quello di “creare una classe sociale nuova nella società spagnola : una borghesia intellettuale, libera, tollerante, dalle idee ampie, soprattutto in materia religiosa. Nel suo fondatore, don Francisco Giner de los Rios, doveva esserci indubbiamente qualcosa di molto spagnolo, uno spirito fondatore simile in qualità a quello dei grandi fondatori della nostra cultura” (M. Zambrano, Los intelectuales en el drama de España, I ed. Panorama, Santiago de Chile 1937, riportato in Senderos, Anthropos, Barcelona, 1986, pp. 42-43). ↩︎

  4. A. Andreu, “Preliminares a esta edición”, in Cartas…, cit., pp. 13-14. ↩︎

  5. Tra gli autori studiati da Andreu, figurano Jacob Bõhme, Lessing, Leibniz, Shaftesbury e Ignazio di Loyola. Una bibliografia essenziale è riportata in Cartas de la Pièce, p. 405. ↩︎

  6. M. Zambrano, “Un Pensador”, in Cartas…, cit., lettera n. 68 del 3 agosto 1975, pp. 259- 274. ↩︎

  7. “Muéstrame ¡Oh Dios! La portentosa mano que hizo la sombra: la pizarra oscura donde se escribe el pensamiento humano” (“Mostrami, o Dio! La mano prodigiosa che fece l’ombra: la lavagna oscura ove si scrive il pensiero umano”). ↩︎

  8. “Si un grano del pensar arder pudiera, / no en el amante, en el amor, sería / la más honda verdad lo que se viera” (“Se un granello del pensare ardere potesse / non nell’amante, nell’amore, sarebbe / la più profonda verità ciò che si vedrebbe”). ↩︎

  9. M. Zambrano, Claros del bosque, Seix Barral, Barcelona 1977, 1986, 1993. Edizioni italiane: Chiari del bosco, Feltrinelli, Milano 1991; Bruno Mondadori, Milano 1994. ↩︎

  10. A. Andreu, “Preliminares…”, cit., p. 15. ↩︎

  11. “La scala musicale […] lo prescrive: ‘dia-pas-on’. Si deve passare attraverso tutto; si devono attraversare gli inferni della vita per arrivare a sentire i numeri della propria anima”: M. Zambrano, Delirio y destino (los veinte años de una española), Mondadori, Madrid 1989; Delirio e destino, Raffaello Cortina, Milano 2000, p. 294. ↩︎

  12. Si comprende allora come, nei primi lustri dell’esilio l’autrice, allorché la sua riflessione si incentra sulla genesi della crisi dell’Europa — e, più in generale, dell’Occidente — presti grande attenzione alla Guida, intesa come genere letterario che in Spagna ha avuto una storia illustre. Al tale genere appartiene, ad esempio, la Guida dei Perplessi di Mosè Maimonide. Cfr. Ead., La confesión, género literario y método, I ed. Luminar, México 1943; La confessione come genere letterario, Bruno Mondadori, Milano 1997. ↩︎

  13. Riferimento all’opera di Max Stirner Der Einzige und sein Eigentum [N.d.T.]. ↩︎