Recensione a Cristiana Dobner, Dalla penombra toccata dall’allegria. María Zambrano la donna filosofo

Cristiana Dobner, Dalla penombra toccata dall’allegria. María Zambrano la donna filosofo, Edizioni OCD, Morena (RM) 2005, 223 pp., € 16,00.

Cristiana Dobner, carmelitana scalza del monastero di Concenedo di Borzio presso Lecco, è autrice di diversi volumi di spiritualità, mistica e filosofia, tra i quali ricordiamo: Il libro dei sette sigilli. Edith Stein: Torah e Vangelo (2001), La dimora trasversale nel Castello interiore di Teresa di Gesù (2002), Rapida come volo di colomba. La simbolica di santa Teresa di Gesù Bambino(2002), Il segreto di un archivio. Teresa di Gesù e il nonno marrano (2003), La rugiada di Dio. Marjam di Gesù Crocifisso (2004), L’unico ovile. Maria Elisabetta Hesselblad (2004).

In quest’ultimo libro, la studiosa affronta il pensiero di María Zambrano, particolarmente a lei congeniale poiché esso ha tributato una grande attenzione alla mistica, e in particolare ai grandi carmelitani spagnoli del Siglo de Oro. La riflessione della filosofa, d’altronde, costituisce ormai l’oggetto di un’ampia letteratura secondaria, anche nel nostro paese: si pensi, ad esempio, ai saggi di studiosi quali Massimo Cacciari, Armando Savignano, Elena Laurenzi, Silvano Zucal e Carlo Ferrucci. In tale autorevole contesto, il volume di Cristiana Dobner si segnala nel privilegiare la messa in luce del debito contratto nei confronti della mistica cristiana da María Zambrano, la cui opera assume peraltro il suo timbro di indiscutibile originalità anche nell’assiduo confronto con espressioni della mistica sorte in altri universi religiosi, quali il sufismo, nonché di diverse tradizioni sapienziali e religiose, come il pensiero orfico-pitagorico, lo stoicismo e lo gnosticismo.

L’opera della autrice andalusa ha una grande rilevanza anche sul piano letterario, attestata dal conferimento, nel 1988, del prestigioso Premio Cervantes, ma è considerata da Cristiana Dobner soprattutto per il suo valore filosofico, che negli ultimi decenni è stato riconosciuto da buona parte della critica. Per la studiosa essa è, innanzitutto, l’opera di una mujer filosofo, nella cui personalità trovano modo di esprimersi il rigore proprio del pensiero e l’attitudine oblativa di un’anima femminile, capace di amicizia, fedeltà e tenerezza («María vicina sempre» la chiamava la poetessa Cristina Campo).

Il titolo del libro — Dalla penombra toccata dall’allegria — fa riferimento a un episodio occorso alla giovane María negli anni in cui frequenta i corsi di Filosofia all’Università di Madrid. Tra i suoi professori figurano due grandi filosofi, dallo stile estremamente diverso: Ortega y Gasset — al cui pensiero il volume di Cristiana Dobner dà ampio spazio (pp. 35-68) — e Xavier Zubiri. Per María costituisce un serio problema rimodulare continuamente la sua capacità di attenzione, che talora si deve adeguare all’abbacinante claridad del primo, talaltra all’oscurità dell’argomentare propria del secondo. Ella vive allora momenti di profondo scoraggiamento, e arriva a chiedersi se la filosofia costituisca davvero la sua vocazione, finché un giorno qualcosa di apparentemente banale l’aiuta a superare le sue perplessità. Nella Nota introduttiva all’importante raccolta Hacia un saber sobre el alma, ella ricorda che una mattina di maggio, mentre Zubiri spiegava le Categorie aristoteliche «entrò un raggio di luce attraverso una tendina nera che copriva una delle fessure dell’edificio di San Bernardo che davano su un patio». Aggiunge: «In un attimo mi ritrovai non tanto presa da una rivelazione folgorante, quanto pervasa da qualcosa che si è sempre rivelato più adatto al mio pensiero: la penombra toccata d’allegria». Allora María comprese che non aveva alcun motivo di dubitare della sua vocazione filosofica. E, significativamente, in seguito ella avrebbe prestato sempre grande attenzione a tutto ciò che vive «nella penombra», ovvero ciò che resta al di fuori del campo di osservazione illuminato dal chiarore uniforme del logos proprio della tradizione egemone del pensiero occidentale.

Si tratta delle realtà che restano sconosciute, o misconosciute, da gran parte della filosofia moderna, poiché non possono essere il termine dell’intenzionalità di una coscienza che in tale tradizione di pensiero ha sostanzialmente reciso i legami vitali con le «ragioni del cuore» e si è resa sorda alle istanze proprie di quel fondo oscuro dell’umano costituito dalle entrañas, dalle «viscere». È, questa, una parola dall’ineguagliabile densità semantica, e pertanto non traducibile in maniera adeguata, che nel linguaggio di María Zambrano ricorre con estrema frequenza, come e più che in Miguel de Unamuno, uno degli autori da lei più amati. Invero, le viscere sono il fondo senza fondo, l’abisso del pathos costitutivo dell’umano. Se rimangono inascoltate esse si trasformano in un «inferno» che dà segni di sé nella vita del singolo e delle comunità umane, ma in forma enigmatica e inquietante, al di qua di ogni sintassi convenzionale, soprattutto attraverso il sogno e il delirio.

L’uno e l’altro attengono a ciò che sembra non comunicabile, all’idios kosmos, in quanto al di fuori dell’ordinario, del «comune mondo degli uomini», il koinos kosmos apprezzato da Eraclito. Tuttavia, il pensiero dell’autrice andalusa vuole proporsi come un percorso nuovo, in quanto vuole de-cifrare proprio questi segni. Decifrarli con attenzione, pazienza, amore — atteggiamenti che accompagnano la pietas nella sua opera — non analizzarli come intende la psicanalisi. Invero, non bisogna dispiegare al riguardo un’algida capacità analitica, ma far sì che il logos si intrida nuovamente del pathos, ovvero ac-condiscenda alle sue segrete ragioni, arricchendosi di risonanze inedite.

La posta in gioco è molto alta, va ben oltre l’estemporaneità delle proteiformi querelles filosofiche: è l’uomo nella sua integralità — proprio l’uomo che è più che io, coscienza o soggetto, che si è smarrito, nell’oblio del suo essere com-plesso, contessuto di elementi diversi — che deve ritrovarsi. La riflessione di questa mujer filosofo, pertanto, si rivela un «esercizio di pietà» nei confronti dell’uomo dimidiato e angosciato della tarda modernità e, probabilmente, non perde nulla della sua capacità propositiva nella pur diversa temperie del postmoderno. María Zambrano è una «donna filosofo» cui sta a cuore il destino dell’essere umano, la quale crede che egli possa sempre riprendere in mano la propria vita, in un atto che è, in realtà, una ri-nascita, in modo che ancora si possa veramente dire di lui: Perierat, et inventus est.

Come scrive Cristiana Dobner: «Zambrano è donna di cultura che pensa ed esplicita l’articolazione ed il luogo delle donne nella cultura e nella cultura filosofica, Ella non solo rilegge le figure femminili, tipiche della tradizione europea e del pensiero greco… ma coniuga in modo compiuto un pensiero declinato da donna, in quella tipicità del “feminino” che è “la sintesi nell’unione degli opposti”, non in una modulazione sentimentale o emotiva ma ontologica e poetica» (p. 7).

Si potrebbe forse aggiungere che soltanto una donna che abbia fatto della filosofia la sua ragione di vita può — in modo così autorevole, e al contempo, suadente — rimandare l’essere umano alle sorgenti del suo esserci: non al pensiero solipsistico di una res cogitans, ma al sentire originario, ovvero al pathos di un sentir-si previo a qualsiasi autocomprensione esplicitabile concettualmente. Certo, per compiere un siffatto esercizio di pietà non si può far conto né ragione superba dell’idealismo, né della ragione che procede more geometrico propria dell’argomentare scientifico: è la «ragione poetica», proposta e affinata dalla filosofa andalusa nella maturità, a intraprendere questo compito. Si tratta di una ragione misericordiosa, materna, medicinale nel suo offrire un percorso di senso alla sofferenza che, ineludibile, accompagna l’uomo. In sintesi, essa è una ragione mediatrice tra l’esprit de géometrie e l’esprit de finesse. La ragione poetica, per la studiosa, «si pone nella forma della metafora, resa possibile dallo spirito risvegliato mentre materia prima ne sono i simboli… Claros del bosque e De la Aurora lo dimostrano palesemente per il pullulare di simboli, sottoposti ad un’esegesi delicata e sensibile, raffinatamente esposti: il centro, il cuore, la fonte, il verbo, la parola perduta, il risveglio, il velo, l’aurora, la caverna, il labirinto» (p. 135).

Il pregevole saggio di Cristiana Dobner, più che analizzare la genesi e il progressivo esplicitarsi della ragione poetica, oggetto dell’attenzione di altri critici, riesce a rendere conto della fecondità del suo dispiegarsi nelle pagine di Los Bienaventurados, De la Aurora, Claros del bosque, presentandola in actu exercito. Pertanto esso coglie la capacità, propria dell’organon del pensiero zambraniano, di creare metafore e simboli, e di trascorrere con impareggiabile levità da metafora in metafora, da simbolo a simbolo. In tale lavoro di difficile scavo ermeneutico, la studiosa si è avvalsa indubbiamente del tesoro di esperienza maturato nello studio che va compiendo da anni sull’universo simbolico proprio dei mistici, in particolare Giovanni della Croce, Teresa d’Avila e Teresa di Lisieux.