I cristiani e la pace di Emmanuel Mounier: la pace come trasfigurazione della forza

Le tensioni e i conflitti che caratterizzano l’attuale temperie politica e culturale sollecitano il cristiano, chiamato a essere «uomo di pace», a porsi la domanda fondamentale: che cosa è la pace per il credente? Nel condurre tale riflessione può esserci di aiuto il confronto con il pensiero degli autori che, nel tentativo di rispondere a questa domanda, ci hanno lasciato degli scritti che tuttora danno da pensare, in quanto non offrono definizioni che ci esonerino dal «pensare in proprio», ma propongono delle linee di ricerca sulle quali è possibile procedere «oltre».

Una sollecitazione in tal senso ci proviene, ad esempio, dal pensiero di un grande intellettuale francese del Novecento, Emmanuel Mounier (1905-1950), fondatore della rivista «Esprit» nonché autorevole esponente del personalismo comunitario, indirizzo di pensiero che nell’Europa della prima metà del Novecento contribuì in misura non trascurabile al «risveglio personalista», ovvero alla ripresa della grande tradizione del personalismo di matrice cristiana.1

Qui non possiamo prendere in esame l’elaborazione teorica riguardante la nozione di persona, che impegna Mounier nelle opere più note, ma ci limitiamo a mettere in rilievo le linee essenziali della riflessione da lui svolta verso la fine degli anni Trenta sul problema della pace, con particolare riguardo alle esigenze che esso pone ai credenti.

Negli scritti risalenti agli anni che precedono l’ultimo conflitto mondiale, a più riprese l’Autore si sofferma sulle strategie perseguibili in quella situazione storica per la difesa della pace e, più in generale, sul significato che la pace assume per chi afferma il primato dello spirituale, innanzitutto per il cristiano.

Per quanto riguarda in particolare il suo paese — la Francia, ove la pace è minacciata dall’esterno e dall’interno — egli scrive che, se nulla «si difende attraverso la guerra moderna», «nulla si difende senza rischio di guerra»: in un mondo che rigetta i valori dello spirito, nulla si crea «senza rischio grave e permanente di conflitto». Volere «a tutti i costi eliminare tale rischio», significa pagare quello stesso prezzo che l’avversario richiede, cioè il tradimento dei valori e il suicidio morale e poi fisico.2 Nell’estate del 1939, in seguito all’aggressione tedesca di Danzica e del corridoio polacco, tale rischio va corso non solo per la salvezza della città baltica, ma per quella dell’Europa tutta. Questa consapevolezza induce il direttore di «Esprit» a replicare nel numero di agosto di quell’anno3 all’articolo Mourir pour Dantzig?, pubblicato sul giornale «L’Œuvre» da Marcel Déat, ex-socialista approdato alla destra attraverso il «neo-socialismo».

Ancor prima di quest’evento, in diverse occasioni, gli scritti di Mounier hanno richiamato l’attenzione sulle responsabilità che gravano sui cristiani nella disfatta morale dell’Europa, e sull’immenso potenziale di energie che essi potrebbero dispiegare per la sua salvezza, se comprendessero le esigenze della loro vocazione nell’ambito temporale. Come è possibile — egli si chiede nell’articolo «L’Europe contro les hégémonies»4 — negare ancora l’esistenza di una «immensa cospirazione contro l’anima del cristianesimo» che, in forme diverse, si irradia da Tokio, a Mosca, a Berlino e a Roma («il quadrilatero spirituale del fascismo»)? Di fronte ad essa, la cristianità, ancora divisa su punti essenziali del dogma, può e deve trovarsi unita sul piano «dei conflitti di civiltà, dove il suo avvenire più elementare è globalmente minacciato», impegnarsi in un’opera di dimensioni mai viste, in difesa della pace. Intanto però, egli scrive, «il mondo cristiano sonnecchia». Delle centinaia di milioni di cristiani, un esiguo manipolo ha già ingaggiato la lotta per la pace. I più, invece:

giocano a carte, guadagnano soldi, hanno paura, sognano di orrori comunisti, sono saggi, osservano scorrere i giorni, e vanno alla messa di mezzogiorno. Settecento milioni di cristiani risoluti a liquidare la plutocrazia, l’anarchia, i fascismi e la guerra, solidarmente: ci si immagina una tale forza?5

Eppure, nel condurre questa lotta, i cristiani troverebbero solidali coloro che, in nome di un umanesimo senza qualificazioni confessionali, hanno già compreso la gravità della minaccia totalitaria.

In consonanza con il suddetto articolo si pone uno scritto che Mounier pubblica nel 1939, e sul quale soffermiamo la nostra attenzione. Si tratta di Les chrétiens devant le problème de la paix,6 saggio la cui edizione italiana, dal titolo I cristiani e la pace, risale al 1978. È interessante notare l’assiduo confronto che qui l’Autore, nel suo tentativo di porre in luce il senso che la pace autentica ha per il credente, conduce con il pensiero filosofico e teologico e con il Magistero della Chiesa. In particolare, Mounier, in questo come in altri scritti della maturità, cita non di rado i documenti di Pio X, Benedetto XV e, soprattutto, di Pio XI.7

Lo stile appassionato del saggio Les chrétiens et le problème de la paix evidenzia come sia ineludibile per l’uomo e l’intellettuale Mounier l’appello alla responsabilità che proviene dalle contingenze storiche, dall’événement («accadimento»). È appena il caso di ricordare che in quegli anni la poderosa avanzata del totalitarismo — che, come l’ombra del Leviatano si estende in modo sempre più sinistro — costituisce una gravissima minaccia per l’Europa e il mondo.

Alcuni mesi prima — nel settembre 1938 — si è svolta la conferenza di Monaco, alla quale hanno partecipato, per le quattro grandi potenze europee, Hitler, Chamberlain, Daladier e Mussolini. In tale occasione viene sancita l’annessione alla Germania del territorio cecoslovacco dei Sudeti; di lì a qualche mese, Hitler invade tutto il territorio ceco. Per gli osservatori più lungimiranti, la conferenza di Monaco segna la sconfitta della diplomazia francese e inglese, e lascia campo libero a Hitler nell’Europa orientale e sud-orientale. Per Mounier, e per buona parte degli intellettuali raccolti intorno alla sua rivista, la conferenza esprime la sostanziale acquiescenza degli stati liberal-parlamentari europei nei confronti del nazifascismo. Una acquiescenza che si cerca di dissimulare proclamando l’ideale della «pace ad ogni costo», slogan che costituisce uno dei bersagli polemici di buona parte degli intellettuali di «Esprit».

Nel saggio del 1939, Mounier, volendo innanzitutto chiarire ciò che la pace non è, critica fin dalla prima pagina la superficialità di coloro che si illudono che Monaco abbia salvato la pace in Europa solo perché «i fucili non sono partiti».8 La pace è ben altra cosa che la «moratoria della catastrofe»,9 è altro rispetto al silenzio delle armi se tale silenzio è carico di odio; i moderni mezzi di propaganda, di intimidazione e demoralizzazione, del resto, sono talora preferiti alle armi da parte degli avversari della pace. Per il cristiano, che assume l’intenzione e non l’esteriorità come criterio di valutazione morale, una pace apparente — una pace che non riposi su un ordine che rispetti la persona e i suoi diritti, che non sia una vera tranquillitas ordinis10 — può essere persino «un male spiritualmente equivalente al male della guerra».11 La pace cristiana non è acquietamento ma pacificazione, non apaisement ma pacification.

Si tratta di una pacificazione che agisce su delle realtà, ovvero le strutture temporali, che oppongono resistenza alla sua azione, in quanto governate da equilibri stabiliti non in base ai diritti delle persone e dei popoli, ma in base a meri rapporti di forza. In un mondo siffatto, un mondo in cui i conflitti si decidono troppo spesso con il ricorso a mezzi violenti — in cui l’istanza decisiva è dunque la forza — la pacificazione cristiana, ovvero l’azione promossa dai «facitori di pace», è testimonianza di una forza di altro ordine, della forza dello spirito e che, nondimeno, si manifesta come «una presenza combattiva» (présence offensive12).

Pertanto, il valore autentico della pace non risiede, secondo l’Autore, nell’ideale dei cosiddetti «pacifisti». Mounier vede piuttosto nella pace una trasfigurazione della virtù della forza: non l’«anima bella», ma solo chi è capace di violenza e sa dominare i propri impulsi in virtù di una coscienza etica può rivelarsi fautore di pace. Egli scrive:

riconoscerei in un aspetto essenziale della pace cristiana una trasfigurazione della forza: non più violenza aggressiva ma vigore […] la pace non è una condizione di debolezza, ma la condizione forte che richiede dai noi il massimo di spoliazione, di sforzo e di rischio per mantenervi l’eroismo della nostra vocazione cristiana.13

In tale prospettiva, per Mounier non può considerarsi un fautore di pace colui che nel settembre 1938, al tempo della conferenza di Monaco, «non aveva nel cuore né la giustizia dei Sudeti, né quella dei Cechi, né quella dei Trattati, né quella delle loro vittime, né l’ingiustizia della guerra, ma una sola ossessione: che non si interrompessero i suoi sogni di pensionato».14 L’Autore cita peraltro Gandhi, il cui pensiero sulla resistenza non-violenta gli è noto anche grazie alla frequentazione, risalente ad alcuni anni prima, del circolo degli intellettuali raccolti intorno a Jacques e Raïssa Maritain. Di Gandhi, Mounier richiama un brano in cui il Mahatma afferma di ritenere la violenza meno deprecabile della vigliaccheria. L’obiezione di coscienza, che nei fatti può essere talora un alibi per anime imbelli, resta per Mounier la vocazione straordinaria di persone spiritualmente elevate, che sappiano opporre alla violenza una resistenza che non fa appello né all’odio né alla brutalità. Leggiamo:

Non è impossibile che domani noi avremo a venerare come sante certe vocazioni eccezionali a forme cattoliche di «obiezioni di coscienza» riguardo alle quali non tocca a me definire ciò che potrebbero essere e ciò che dovrebbero escludere, ma delle quali si intravede, nella santità, ciò che potrebbero essere.15

Il «pacifismo», in una parte non trascurabile dei suoi rappresentanti, gli appare invece dotato di scarsa consistenza intellettuale, essendo in realtà «una fissazione puerile di sogni informi e inappagati»,16 la quale ostacola la maturazione di un impegno che le stesse «resistenze del reale» volgono in una continua «lotta spirituale». L’intellettuale nota peraltro che anche non pochi cristiani sembrano ignorare l’esigenza di una lotta siffatta; egli ravvisa in questa carenza una retaggio dell’educazione ricevuta, una formazione «religiosa», ma lontana dal realismo cristiano, e che non li ha affatto preparati alla vita responsabile. Si coglie qui una critica di un certo tipo di educazione impartita in molte famiglie cattoliche del tempo, critica che trova più ampio spazio in opere successive, nonché in alcuni passi dell’Epistolario.17

Quanto agli studi cui Mounier attinge per documentarsi circa la visione cristiana della pace, il più citato è Pax nostra del gesuita Gaston Fessard.18 Nel passo riguardante la dimensione comunitaria della pace — la quale è «opera collettiva dell’umanità», è opera di giustizia e, su un piano ancora più elevato, opera di carità — egli rinvia invece il lettore che volesse approfondire la valenza comunitaria dell’esperienza cristiana all’opera, appena pubblicata da un altro gesuita, Henri de Lubac, Catholicisme. Di questo libro — in cui il teologo propone, con un riferimento puntuale a moltissimi testi della Patristica, noti e meno noti, il recupero della dimensione storica e sociale del dogma cristiano19 — egli è anzi uno tra i primi a cogliere il valore. Scrive Mounier, parafrasando «la splendida opera» di de Lubac che «il cristiano non pone un atto, che non sia posto nella comunità, attraverso o contro di essa», comunità che è la Chiesa stessa. In questa egli è chiamato a vivere una «Comunità ad un tempo mistica e visibile» nel Cristo. Questa realtà, alla quale partecipano non solo i battezzati, ma anche coloro che, versando in uno stato di ignoranza riguardo la parola di salvezza, sono retti davanti a Dio, «è infinitamente più reale, più intima e più potente che qualsiasi altro legame comunitario, di nazione, di famiglia, di classe o di miseria».20 Nel contempo, giacché questa «società mistica» è ben lungi dal rinchiuderli in un ghetto o in una città autosufficiente nella città, l’appartenenza ad essa fonda un impegno ancora più esigente nella società e nella politica, nel temporale tutto.

Il cristiano, pertanto, non è in nessun modo un «separato»: a questo proposito, anzi, de Lubac offre a Mounier un valido fondamento teologico all’accento che egli pone — in virtù della sua stessa vocazione e sensibilità di marieur,21 di fautore di comunione — sul peccato visto come separazione, rottura, individualizzazione, attentato al progetto di Dio sull’uomo, che è essenzialmente un progetto di comunione.22

Nella drammaticità del tempo in cui Mounier scrive, la tentazione di vivere «separati» dal mondo consiste, per il cristiano, nel ritenere che egli non abbia nulla da proporre per affrontare i problemi che angosciano i suoi contemporanei. Quando egli soccombe a questa tentazione, i rapporti internazionali, che sono relazioni tra uomini, divengono sempre più meri rapporti di forze, dal cui esito dipende la vita di uomini e nazioni, degradati al ruolo di oggetti della politica; allora, il cristiano stesso contribuisce ad espellere «la pace dai soli luoghi ove essa può trovare asilo: dai cuori di uomini che meditano sulle loro responsabilità personali di uomini e sui loro rapporti con gli uomini ne costituiscono il prossimo».23

Spetta in primo luogo ai credenti, quando si profila una minaccia alla pace, porre in essere tutte quelle azioni, sul piano educativo e politico, che combattano i deliri dei nazionalismi e dei particolarismi contrapposti e propongano una cultura sempre più consapevole dei valori sui cui si fonda la comunità internazionale. Tale concetto è, a ben vedere, per una parte non trascurabile, debitore dello stesso pensiero di ispirazione cristiana, che ha affermato l’esistenza di una società naturale delle nazioni e ha contribuito alla elaborazione di un diritto internazionale fondato sui principi del diritto naturale.24

Per la promozione della pace e la salvezza della Francia e dell’Europa, poi, Mounier non dimentica l’importanza dei mezzi puramente spirituali di cui il cristiano dispone: la preghiera, i sacramenti e il sacrificio vissuto nel silenzio. Leggiamo al riguardo:

Non è impossibile che, per il modo in cui un monaco sconosciuto crocifigge in lui la Francia in qualche oscuro convento, la Francia sia oggi salvata senza che entrino in gioco, in tale sfera, il niente dei cannoni e il niente delle nostre parole.25

In rapporto ai mezzi puramente spirituali, tuttavia, la tentazione da vincere è — come in pagine dal grande vigore espressivo scriveva già Charles Péguy, uno dei maestri di Mounier,26 che lo cita frequentemente anche in questo scritto — è quella di non lavorare, non agire pensando di colmare la lacuna ricorrendo ad essi.

Nel saggio, l’Autore sottolinea inoltre come le condizioni politiche dell’epoca e la forza distruttiva della guerra moderna abbiano messo in crisi il concetto stesso di «guerra giusta», che nei secoli precedenti anche la più accreditata teologia cattolica, seguendo S. Tommaso,27 aveva riconosciuto, subordinatamente al ricorrere di alcune condizioni:28 la guerra moderna è una catastrofe spirituale sproporzionata ad ogni possibile causa. È altrettanto vero, tuttavia, che la pace non può essere salvata dai credenti a prezzo di una colpevole rinuncia, quella di combattere contro le potenze oscure che minacciano la civiltà e il cristianesimo. Ciò può comportare l’uso della forza, resa allora necessaria dalla loro precedente ignavia, che per tanto tempo ne ha ispirato l’acquiescenza nei confronti di situazioni palesemente inique, che al loro insorgere potevano essere combattute diversamente.

Ricorrere ai mezzi violenti può pertanto diventare necessario allorché troppo a lungo i cristiani stessi, tradendo la loro vocazione, non sono intervenuti in altri modi — quali, ad esempio, il dialogo, la denuncia delle situazioni di ingiustizia, la sensibilizzazione delle coscienze — in situazioni ove bisognava intervenire, allorché, in altre parole, essi hanno troppo a lungo tollerato stati di fatto intollerabili.

Al tempo in cui Mounier scrive, ad esempio, in Europa i cristiani non hanno fatto abbastanza per denunciare l’iniquità delle condizioni di pace dettate dalle potenze vincitrici nei trattati stipulati a Versailles nel 1919. Per i paesi vinti, e in particolare per la Germania, si trattava di condizioni estremamente onerose e umilianti — si pensi alle riparazioni finanziarie che furono imposte — tanto da fomentare il diffondersi nel popolo tedesco di quei sentimenti di rivalsa che avrebbero costituito il terreno di coltura ideale per il delirio nazionalsocialista. Lo spirito iniquo di Versailles — sottolinea Mounier — ha avuto tutto il tempo per produrre i suoi disastrosi effetti, con la complicità del silenzio da parte della stragrande maggioranza dei cristiani. In questo senso, per il fondatore di «Esprit», il fatto stesso che la guerra diventi a un determinato momento ineludibile vale quale denuncia profetica dello «scacco della cristianità occidentale»,29 ovvero di quella determinata proiezione sociologica del cristianesimo della quale egli, nei suoi scritti più tardi, preconizzerà prossima la fine.

E anche noi, cristiani che pur viviamo in un orizzonte storico estremamente diverso, noi cristiani ormai orfani della «cristianità occidentale», orfani di quelle sicurezze che essa pur offriva, ma forse proprio per questo ancora più es-posti alla nostra responsabilità, possiamo e dobbiamo, oltre che condannare gli «atti di violenza», riflettere su quali siano le situazioni di ingiustizia, di iniquità, di sopraffazione, il cui protrarsi — anche qui con la complicità costituita dal silenzio, dall’opportunismo, dall’ignavia di molti cristiani — rende a un certo momento ineludibile il ricorso alle armi. Con Mounier, dobbiamo riconoscere che l’«azione violenta», sulla quale si accentra l’attenzione dei mass-media, è troppo spesso l’esito del perdurare di «stati di violenza», ovvero di tutte quelle situazioni nelle quali i diritti della persona e delle comunità sono conculcati, e che non attirano al contrario l’interesse degli strumenti di informazione. In un articolo del 1933, Mounier scrive:

si pensa troppo agli atti di violenza: cosa questa che impedisce di vedere che molto più spesso vi sono degli stati di violenza — in cui scioperano, muoiono e si disumanizzano oggi senza barricate, anzi nell’ordine milioni di creature umane — e che, pur essendo il tiranno il vero promotore del disordine, tuttavia la vera violenza, nel senso odioso della parola, sta nella continuità del regime.30

Pertanto, nella prospettiva dell’Autore, chi voglia lavorare alla formazione delle coscienze in ordine al problema della pace, deve focalizzare la sua attenzione, e richiamare l’attenzione dei contemporanei sul rapporto tra «stati» e «atti» di violenza; sono soprattutto i primi a configurare una «violenza istituzionalizzata», per usare la pregnante espressione contenuta nel documento finale della conferenza dei vescovi latino americani svoltasi a Medellin nel 1968 (tale documento si riferisce alle situazioni oppressive che i gruppi di potere tendono a perpetuare con tutti i mezzi di cui dispongono).

Il rapporto tra «stati di violenza» — ovvero il perdurare del «disordine stabilito»,31 per usare un’altra espressione cara a Mounier — e «atti di violenza» viene per lo più occultato allorché il clamore mass-mediatico, oggi ancor più che ai tempi in cui l’Autore scriveva, si incentra sui fenomeni di efferata violenza o sulle operazioni di guerra. È un rapporto occultato, o meglio rimosso, in quanto porlo al centro della nostra attenzione, farne la «Cosa» del nostro pensiero, comporterebbe il riconoscimento delle gravi responsabilità che l’Occidente — l’Occidente nel quale noi siamo e del cui benessere partecipiamo — ha nel produrre e mantenere gli «stati di violenza» che costituiscono terreno fertile per gli «atti di violenza».

Per concludere, una rivisitazione delle pagine mounieriane riguardanti il problema della pace e della violenza che non sia indotta da un interesse meramente storiografico può allora promuovere, tra l’altro, una salutare quanto «difficile» riflessione su tale responsabilità, una responsabilità che si tenta di rimuovere, in modo maldestro e colpevole, dalla coscienza dell’Occidente: in realtà, della pace e per la pace — opera collettiva di giustizia32 e, ancor più, di carità33 — siamo tutti responsabili.


  1. Una bibliografia della letteratura critica riguardante il pensiero di Mounier in: AA.VV., E. Mounier: la ragione della democrazia, a cura dell’Istituto E. Mounier di Reggio Emilia, Lavoro, Roma 1986, pp. 295-313 (per gli studi pubblicati fino al 1985); «Nota bibliografica», a cura di Paolo Ponzio, pp. 219-42 dell’edizione italiana di J.-M. Domenach, E. Mounier, Ecumenica, Bari 1996. Sulla recezione del pensiero del filosofo in Italia, vedi: A. Lamacchia, «Mounier in Italia», in Mounier. Personalismo comunitario e filosofia dell’esistenza, Levante, Bari 1993, pp. 301-339. ↩︎

  2. E. Mounier, Péguy prophète du temporel, «Esprit», 8 (1939) 77, febbraio 1939. ↩︎

  3. Id., Conditions de paix pour l’été 1939, ibidem, 8 (1939) 83, agosto 1939. ↩︎

  4. Articolo apparso sul n. 74 di «Esprit» (novembre 1938) e riportato E. Mounier, Les Certitudes difficiles, pp. 193-207, raccolta di saggi risalenti agli anni 1933-50, pubblicata postuma (du Seuil, Paris 1951); tale raccolta è ora alle pp. 7-281 del quarto e ultimo volume di Œuvres, du Seuil, Paris 1961-3 (testo dal quale sono tratte le citazioni). ↩︎

  5. Ibidem, p. 207. ↩︎

  6. E. Mounier, Les chrétiens devant le problème de la paix. Il saggio fu pubblicato nel 1939 — ma con il titolo Pacifistes ou bellicistes? — presso le edizioni du Cerf, Paris; è stato successivamente riportato in Œuvres, vol. I, pp. 785-837 (testo qui citato), senza l’originaria introduzione, Munich, signe de contradiction. Traduzione italiana: I cristiani e la pace, Ecumenica, Bari 1978. Cfr. A. Lamacchia, Il diritto alla pace. Mounier e La Pira testimoni del nostro secolo, Ecumenica, Bari 1995. ↩︎

  7. Di papa Ratti viene citata in particolare la prima enciclica, Ubi arcano Dei, del 23 dicembre 1922. ↩︎

  8. E. Mounier, Les chrétiens devant le problème de la paix, cit., p. 785 (traduzione mia). ↩︎

  9. Ibidem↩︎

  10. «Pax omnium rerum, tranquillitas ordinis. Ordo est parium dispariumque rerum sua cuique loca tribuens dispositio» (S. Agostino d’Ippona, De civitate Dei, I, XIX). ↩︎

  11. E. Mounier, Les chrétiens…, cit., p. 786. ↩︎

  12. Ibidem, p. 789. ↩︎

  13. Ibidem, pp. 800-801; il corsivo è nel testo. ↩︎

  14. Ibidem, p. 792. ↩︎

  15. Ibidem, p. 799. ↩︎

  16. Ibidem, p. 795. ↩︎

  17. E. Mounier, Mounier et sa génération, in Œuvres, cit., vol. IV; traduzione italiana Lettere e diari, Città Armoniosa, Reggio nell’Emilia 1981. ↩︎

  18. G. Fessard, Pax nostra. Examen de conscience international, Grasset, Paris, 1936 (saggio scritto subito dopo la remilitarizzazione della Renania da parte di Hitler). Rispetto a Mounier, Fessard è ancora più severo nei confronti dell’obiezione di coscienza. A suo giudizio, il «pacifismo» — degenerazione dell’«atteggiamento pacifico» — si rivela, nella concretezza delle situazioni, «nemico della Pace». L’obiettore di coscienza manca per lui al dovere di solidarietà nei confronti dei suoi connazionali, il suo «prossimo» nel senso più pieno e, rinunciando alla lotta anche nel caso di una guerra difensiva, contribuisce a rendere più precaria la condizione del suo paese nei confronti dell’aggressore. Egli, più che servire un ideale, sacrifica il suo prossimo ad un idolo (ibidem, pp. 11-22); manca di realismo morale, sociale e politico. Per Fessard, «non si ha il diritto di pensare che solo l’ideale interessa», «non si ha il diritto di dimenticare che tra le nazioni come tra gli individui regni innanzitutto la legge della lotta per la vita» (ibidem, pp. 18-19). Il gesuita ritornerà nel dopoguerra sulla visione cristiana della pace (Paix ou Guerre? Notre Paix, Monde Nouveau, Paris 1951). ↩︎

  19. H. de Lubac, Catholicisme. Les aspects sociaux du dogme, du Cerf, Paris 1938. Segnalo le due traduzioni italiane del saggio (Cattolicismo. Gli aspetti sociali del dogma): la prima è del 1948, presso Studium, Roma, mentre l’altra costituisce il VII volume dell’Opera omnia edita da Jaca Book, Milano, 1979. ↩︎

  20. E. Mounier, Les chrétiens devant le problème…, cit., pp. 804-5. ↩︎

  21. Cfr. A. Dumas, «Les options du personnalisme depuis cinquante ans vis-à-vis du christianisme», in AA.VV., Le personnalisme de E. Mounier. Hier et demain. Pour un cinquantenaire, du Seuil, Paris 1985. ↩︎

  22. «Ogni infedeltà all’Immagine divina che l’uomo porta in lui, ogni rottura con Dio è nell’atto stesso laceramento dell’unità umana. Senza poter sopprimere l’unità naturale del genere umano — l’immagine di Dio, per quanto insudiciata, resta indistruttibile — ne rovina l’unione spirituale, che nei disegni del Creatore doveva essere tanto più intima quanto l’unione stessa soprannaturale dell’uomo con Dio fosse stata più pienamente realizzata. Ubi peccata, ibi multitudo. Fedele a questa indicazione di Origene, Massimo il Confessore considera il peccato originale come una separazione, una frammentazione; si potrebbe dire, nel senso peggiorativo della parola, una individualizzazione» (H. de Lubac, Cattolicismo…, cit., Jaca Book, Milano, 1979, pp. 9-10). ↩︎

  23. E. Mounier, Les chrétiens devant le problème…, cit., p. 814. ↩︎

  24. Gli autori cui egli fa riferimento sono i gesuiti e i domenicani spagnoli del XVI secolo (come Vitoria, Soto, Suárez) e l’italiano Taparelli d’Azeglio. ↩︎

  25. E. Mounier, Les chrétiens…, cit., p. 799. ↩︎

  26. Cfr. M. Campiti, «La presenza di C. Péguy nel pensiero di E. Mounier», introduzione a E. Mounier, Il pensiero di Charles Péguy, Ecumenica, Bari 1987 (ed. originale: La pensée de C. Péguy, Plon, Paris 1931, ora nel primo volume di Œuvres, cit). ↩︎

  27. S. Tommaso d’Aquino, Summa theologiae, II-IIae, qu. 11, a. 1: De bello↩︎

  28. Nelle parole di S. Tommaso: «[…] tria requiruntur. Primo quidam, auctoritas principis, cuius mandato bellum est gerendum […] Secundo, requiritur causa iusta: ut scilicet illi qui impugnantur propter aliquam culpam impugnatione mereantur […] Tertio, requiritur ut sit intentio bellantium recta: qua scilicet intenditur vel ut bonum promoveatur, vel ut malum vitetur» (ibidem). Le tre condizioni sono brevemente richiamate da Mounier nel saggio Les chrétiens… (p. 831 del testo in Œuvres IV). ↩︎

  29. E. Mounier, Les chrétiens…, cit., p. 835. ↩︎

  30. Id., Confession pour nous autres chrétiens, «Esprit» 2 (1933) 6, marzo 1933, riportato in Id., Révolution personnaliste et communautaire, Montaigne, Paris 1935, ora in Œuvres I. Segnalo le due edizioni italiane, dal titolo Rivoluzione personalista e comunitaria: Comunità, Milano 1949; Ecumenica, Bari 1984. Cfr. M. Montani, Persona e società. Il messaggio di Emmanuel Mounier, LDC, Leumann (To), 1978, II ed., pp. 137-8. ↩︎

  31. La paternità della locuzione désordre établi, che deve in gran parte la sua fortuna a Mounier, pare sia da attribuire ad Alexandre Marc, figura di primo piano all’interno di Ordre nouveau, movimento di giovani intellettuali, che nei primi anni Trenta propugnava un suo «personalismo». ↩︎

  32. Is 32, 17. Il rapporto tra pace e giustizia fu scelto da Paolo VI quale tema della Giornata della Pace del 1972 («Si vis pacem sequere iustitiam»; cfr. R. Rossi, Civiltà e disincanto. Note di Paolo VI sulla pace, in Istituto Paolo VI, notiziario n. 42, novembre 2001, pp. 17-56. ↩︎

  33. Riguardo al rapporto tra carità e giustizia, Mounier cita Pio XI, in particolare l’enciclica Ubi arcano Dei e l’allocuzione del Natale 1930 (E. Mounier, Les chrétiens…, cit., p. 813). ↩︎