Sul pensare l’originario, distorto come risorsa probabilistica dell’infinito universo

1. Introduzione

In una bella descrizione del «pensare l’originario» E. Baccarini1 sottolinea la necessità di trascendere dal pensabile all’impensabile, nel naufragio del pensiero quando «[l]a domanda ultima della filosofia esige che questa venga abbandonata per trovare una risposta». La coscienza del limite è allora «insieme la condizione e lo spazio epifanico dell’originario», dove il pensiero diventa «rivelativo», è ascolto.

Ma, com’è noto, tutto ciò è facilmente, e quanto spesso, oscurato dalla presunzione della ragione calcolante, in un atteggiamento o tentativo che potremmo definire riduzionista dell’uomo di fronte alla domanda ultima che tuttavia lo abita.

Il Baccarini richiama la riflessione cartesiana sull’idea dell’infinito: con il nome di Dio si intende la sostanza infinita, immutabile, eterna, dalla quale tutte le cose hanno avuto origine; e da cui deve trarre origine l’idea stessa di infinito, in quanto posseduta da un essere finito.

Quando sembra mancare l’appello, o venir meno l’ascolto, di questa idea di sostanza infinita, allora all’origine di tutte le cose non si può tuttavia non porre comunque un’idea surrogata d’infinito che, non volendo essere metalogica, si prospetta con le antinomie e i paradossi dell’infinito materiale in atto.

La necessità di abbandonare il limite della logica per affrontare la questione ultima può essere insomma o consapevolmente affermata, oppure rivelarsi nei tentativi di usare categorie inadeguate che in ogni modo confessano l’impotenza della ragione.

2. L’improbabilità del mondo in cui viviamo

È incredibilmente alta, e via via che viene verificata e scientificamente quantificata pone una seria sfida alla ragione di coloro che sostengono che l’universo è accidentale, è «per caso». Osserva P. Davies:

il reale non è fatto soltanto di leggi matematiche e di complessi ordinamenti. Vanno spiegate anche altre cose, e soprattutto le cosiddette «costanti fondamentali» della natura: ed è proprio in quest’ambito che troviamo gli indizi più inquietanti di un disegno superiore.2

Si pensi ad esempio che, se la forza nucleare (l’interazione tra protoni e tra protoni e neutroni) fosse stata soltanto di qualche frazione percentuale più alta, vi sarebbe stata una catastrofica sintesi di elio dall’idrogeno durante i primissimi momenti dell’evoluzione dell’universo (Big-Bang), il che avrebbe privato le stelle stabili, del tipo del nostro sole, della loro sorgente d’energia, l’idrogeno, rendendo impossibile la comparsa della vita. E se la forza nucleare fosse stata appena più debole, l’unione di protoni e neutroni non sarebbe stata abbastanza stabile da consentire la sintesi degli elementi più pesanti e questi non si sarebbero formati né vi sarebbe stata la corrispondente generazione di energia nucleare nelle stelle.

È ben noto che l’idrogeno gioca un ruolo letteralmente vitale nell’universo. Senza idrogeno non esisterebbe acqua, né si potrebbero formare i composti organici; stelle come il nostro sole non disporrebbero del loro combustibile.

Il nucleo dell’idrogeno è costituito da un protone, e tutti i protoni necessari per garantire una congrua presenza di idrogeno sono quelli in soprannumero rispetto alla quantità consumata per la sintesi di elio (i nuclei di elio sono formati da due protoni e due neutroni, incorporati quando, dopo il big-bang, la temperatura cadde sotto 109 K).

Il processo è condizionato da una incredibilmente complessa catena di fattori che includono straordinarie coincidenze numeriche, coinvolgenti aree distinte della fisica e quindi non correlate, come ad esempio la temperatura assoluta, la forza dell’interazione debole, la forza di gravità, che coordinatamente devono determinare le condizioni della trasmutazione di neutrone e protone.3

La differenza tra le masse del neutrone e del protone è di poco più grande della massa dell’elettrone: Δm ≈ me. Se Δm fosse stata inferiore a me il rapporto neutroni/protoni sarebbe stato più alto e sarebbe mancato l’eccesso relativo di protoni che ha dato luogo all’idrogeno. Il rapporto riflette infatti le condizioni del primo secondo di tempo del big-bang dove, all’equilibrio termodinamico, le relative abbondanze delle due specie di particelle sono determinate dal teorema statistico di Boltzmann, e quindi prevale la presenza delle particelle di minor massa (protoni). La trasformazione del neutrone in protone richiede l’emissione di un elettrone. Se Δm (che è 1/1000 della massa del protone) fosse stata appena poco più bassa, i neutroni liberi non sarebbero potuti decadere a protoni perché non avrebbero posseduto abbastanza massa per produrre l’elettrone richiesto. Se la massa del neutrone fosse stata di un paio di millesimi inferiore al suo effettivo valore, allora sarebbe prevalso il processo di decadimento dei protoni liberi in neutroni per emissione di un positrone: in questo caso nell’universo non si sarebbe potuto formare nessun atomo.

Ancora, noi conosciamo tre specie di neutrini, ma se ve ne fosse stata qualcuna in più il raffreddamento dell’universo sarebbe stato più rapido, perché l’energia termica si sarebbe distribuita su una maggiore varietà di particelle, con la conseguenza che si sarebbe bloccata l’interconversione neutroni/protoni e ci sarebbe stato un universo tutto e soltanto di elio.

Il rapporto tra le cariche e le masse delle particelle è fondamentale, e D. Wilkinson riporta altri importanti esempi.4

Il fatto che la massa dell’elettrone sia molto piccola, relativamente a quella del protone, permette agli elettroni di orbitare attorno al nucleo formando una struttura atomica che può godere della necessaria stabilità per inserirsi in reticoli cristallini e in molecole ordinate. Così non sarebbe se la massa dell’elettrone fosse simile a quella del protone: ad esempio la regolare replicazione di una macromolecola come il DNA verrebbe impedita.

Se d’altra parte la carica negativa dell’elettrone, anziché bilanciare perfettamente quella positiva del protone, ne eccedesse anche soltanto di 1 parte su 1000000000000000000, la complessiva repulsione elettrostatica tra un corpo umano e la terra eguaglierebbe l’attrazione gravitazionale, e noi ci perderemmo a fluttuare nello spazio.

E se le cariche elettriche di elettrone e protone fossero sì perfettamente bilanciate, ma entrambe un poco più forti, si sarebbero potuti formare soltanto i cinque elementi più leggeri: idrogeno, elio, litio, berillio, boro. Carbonio e ossigeno non esisterebbero.

L’intensità della interazione elettrostatica tra nucleo ed elettroni in un atomo è inversamente proporzionale al raggio delle «orbite», cioè alla grandezza dell’atomo. Se il valore della costante fondamentale che determina l’intensità dell’interazione fosse stata appena l’1% maggiore, l’evoluzione avrebbe impiegato 1062 anni per arrivare fino all’uomo (l’età dell’universo è inferiore a 2 × 1010 anni, e quindi non saremmo qui a discuterne).5

Se vi è un decadimento dei protoni (come è implicato da teorie di grande unificazione) che richiede in media 1030 — 1032 anni per verificarsi, uno o due soltanto di tali eventi hanno la probabilità di verificarsi nella massa di un corpo umano durante 70 anni. Ma se il decadimento del protone non richiedesse tanto tempo, e corrispondesse per esempio a un milione di volte l’età dell’universo, i decadimenti emetterebbero una tale dose di radioattività da rendere la terra radicalmente inadatta alla vita vegetale ed animale.6

Sono notevoli anche le condizioni a livello di formazione dell’ambiente planetario e il rapporto tra un pianeta come la terra e la sua stella.

Un pianeta troppo piccolo non avrebbe l’attrazione gravitazionale sufficiente (come nel caso di Marte) per trattenere la sua atmosfera e l’acqua; troppo grosso potrebbe generare un campo gravitazionale così forte da rendere impossibile portare in giro un cervello abbastanza grande per una creatura intelligente.7 Ma la presenza dell’acqua non basta: occorre una precisa regolazione della sua temperatura, oltre che della quantità e distribuzione. Per la temperatura è anzitutto fondamentale la distanza del pianeta dalla sua stella: l’orbita della Terra non doveva essere né più vicina né più lontana dal Sole. Ma la regolazione della temperatura dipende anche dalla composizione del pianeta, in particolare dalla concentrazione di elementi pesanti radioattivi capaci di liberare energia termica, che è anche fattore essenziale per la distribuzione dell’acqua sulla superficie. A questa energia termica si deve tra l’altro l’attività tettonica con le relative deformazioni della crosta terrestre, che comportano la formazione di masse continentali separate dalle masse d’acqua oceaniche: senza la tettogenesi vi sarebbe un pianeta a superficie liscia coperta completamente dall’acqua. Ovviamente è altrettanto essenziale che la quantità di questa sia opportunamente proporzionata. Ma torniamo ai fattori critici per la temperatura.

Secondo le esigenze delle reazioni biochimiche, i limiti estremi non possono oltrepassare per lunghi tempi sulla scala termica rispettivamente 0 °C verso il basso o 100 °C verso l’alto. Se si stabilisse infatti una temperatura inferiore allo zero, e tutta l’acqua del pianeta si trasformasse in ghiaccio, il fatto sarebbe irreversibile perché il ghiaccio ha un elevato potere di flessione dei raggi solari e questo non sarebbe compatibile con una possibilità di riscaldamento del pianeta gelato. Viceversa, se per un lungo periodo la temperatura rimanesse al di sopra dei 100 °C, tutta l’acqua degli oceani evaporerebbe creando una coltre di vapore che catturerebbe l’energia termica solare (effetto serra) ulteriormente riscaldandosi e impedendo il ritorno alla presenza di acqua liquida.

Ma, per permettere la comparsa e la funzione di qualcosa come un cervello, la temperatura massima deve restare ben al di sotto dei 100 °C, quindi il margine di oscillazione consentito è di poche decine di gradi sopra lo zero. Ogni altro luogo nell’universo è molto al di sotto o al di sopra di questi limiti che caratterizzano il nostro pianeta. L’atmosfera e il ritmo di rotazione della Terra sono ideali per mantenere la stabilità in questo stretto ambito. Anche gli altri pianeti più vicini alla Terra, come Venere e Marte, ruotano sui loro assi, ma i rispettivi angoli degli assi col piano dell’eclittica variano in modo caotico provocando variazioni importanti della temperatura planetaria, mentre la Terra gode di una stabilità climatica che è anche dovuta alla stabilità dell’angolo dell’asse di rotazione, stabilità associata alla presenza di una grossa luna, altro importante fattore della impressionante serie operante sulla regolazione della temperatura terrestre.

Oltre alla distanza dal Sole, è importante la temperatura superficiale della stella e la sua durata, che dev’essere opportunamente proporzionata al tempo dell’evoluzione svolgentesi sul pianeta, mentre il tipo di radiazione emessa dev’essere adatta alle fotosintesi chimiche dalle quali l’evoluzione dipende, e non tale da distruggere le strutture molecolari e viventi che l’evoluzione costruisce.

Anche contro le radiazioni ionizzanti (radiazione cosmica) è fondamentale che esista un sistema di protezione e qui ancora una volta giocano i gradienti termici, che sviluppano nel nucleo del pianeta celle convettive cui si deve la generazione del campo magnetico terrestre che a sua volta è in grado di deviare la radiazione cosmica.

Un complesso di condizioni è implicato nella durata della biosfera, il cui destino è legato alla decrescente concentrazione di anidride carbonica (sviluppo dei continenti, flusso geotermico in riduzione, aumento dell’esposizione dei silicati), all’ incremento progressivo della radiazione solare, e alla perdita di idrogeno nello spazio per fotolisi dell’acqua, che si realizzeranno tra 1-2 miliardi di anni.8

E perché, si chiede S. W. Hawking,9 l’universo è così prossimo alla linea che divide la prospettiva di ricollassarsi o di espandersi indefinitamente? Se la velocità dell’espansione un secondo dopo il Big Bang fosse stata di una parte su 1010 più bassa, l’universo sarebbe collassato dopo pochi milioni di anni. Se fosse stata di una parte su 1010 più alta, l’universo sarebbe apparso praticamente vuoto dopo pochi milioni di anni. In entrambi i casi la vita non si sarebbe potuta sviluppare.

L’elenco delle coincidenze necessarie perché esista un universo capace di contenere osservatori è troppo lungo per essere riportato in questa sede.10

È possibile che alcune coincidenze trovino spiegazione nelle teorie della grande unificazione e dell’universo inflattivo. Tuttavia una inflazione potrebbe avere amplificato una fluttuazione troppo, o troppo poco, per dire che la formazione delle galassie era necessaria: solo per amplificazioni comprese tra 0, 1 e 0, 01 % i modelli indicano un tipo di evoluzione cosmica che può corrispondere alla realtà.11

La crescita della complessità permessa dall’espansione dell’universo dipende dal comportamento del tasso di raffreddamento, a cominciare dal primo minuto di tempo dell’orologio cosmico, e poi fino a miliardi di anni dopo, attraverso fasi di diverso equilibrio tra le forze gravitazionale, e nucleare ed elettromagnetica. H. Reeves ne ha dato una deliziosa descrizione in un libro12 il cui contenuto ha poi riassunto nell’articolo, di tenore più tecnico, dal titolo: «La crescita della complessità in un universo in espansione».13 In sintesi,

Se il raffreddamento fosse troppo lento, l’universo rimarrebbe in uno stato di equilibrio di reazione per quanto concerne i processi nucleari, deboli ed elettromagnetici, tale da precludere la formazione di strutture di non-equilibrio su piccola scala: nuclei, atomi, molecole e organismi viventi. La materia sarebbe composta di ferro.

Se il raffreddamento fosse troppo veloce, l’universo rimarrebbe per tutto il tempo nel suo stato di entropia gravitazionale tale da precludere la formazione di strutture di non- equilibrio su larga scala: galassie, stelle, pianeti. E l’assenza di stelle a sua volta precluderebbe la formazione di nuclei, atomi, molecole e organismi viventi. Nell’universo primordiale il tasso di espansione era abbastanza veloce per permettere la crescita continua dell’entropia gravitazionale richiesta per l’esistenza delle stelle, ma abbastanza lento per assicurare la comparsa di regimi di non-equilibrio in relazione alle interazioni nucleari ed elettromagnetiche, richieste per l’esistenza di nuclei (non solo il ferro), atomi (non solo i gas rari), molecole, cellule, organismi.

Per consentire la vita occorrono dunque leggi fisiche finemente regolate del microcosmo, e dei rapporti tra i relativi processi e tra questi e le leggi che governano il macrocosmo. Non possiamo dunque in nessun caso liberarci dalle restrizioni numeriche che rappresentano soltanto la necessaria informazione presente nel processo.

Un esempio a questo proposito, portato per la prima volta da F. Hoyle,14 riguarda la storia naturale del carbonio 12C. Dell’unicità delle sue caratteristiche diremo più avanti. Esso possiede un nucleo fatto di 6 protoni e 6 neutroni; ha quindi il peso atomico 12.

I nuclei di questo isotopo vengono sintetizzati nelle stelle rosse giganti per l’incontro di tre nuclei di elio 4He (2 protoni e 2 neutroni ciascuno). Una triplice collisione simultanea sarebbe troppo improbabile per avere un ritmo di sintesi abbastanza veloce; ma il processo si svolge in due tempi: dapprima con l’incontro di due nuclei di elio si forma un nucleo instabile di berillio 8Be. A questo punto è necessario che un terzo nucleo 4He venga incorporato dando il 12C prima che l’instabile 8Be decada. La probabilità di questa sintesi è funzione dell’energia con cui può aver luogo la collisione di elio con berillio.

E qui entrano in gioco le risonanze nucleari: il caso vuole (ma è un caso?) che l’energia termica dei costituenti nucleari di una stella tipica corrisponda ad una risonanza del 12C in modo che la cattura del terzo 4He è facilitata perché la frequenza dell’onda quantistica, che lo accompagna a quella determinata condizione di temperatura e pressione, corrisponde a una frequenza di vibrazione tipica del nucleo che deriva dalla fusione. In tal modo è grandemente aumentata la velocità di sintesi del carbonio 12C.

Ma c’è di più: basterebbe una ulteriore collisione di un nucleo 4He con 12C per sintetizzare l’ossigeno 16O facendo scomparire il carbonio. Quel che è necessario per lo sviluppo della vita (basata sul carbonio) è un rapporto finale 12C : 16O di circa 1: 2, perché anche l’ossigeno è necessario, sia come componente delle molecole organiche sia dell’acqua e dell’atmosfera ecc. Le sintesi nucleari portano proprio a questo risultato essendo la sintesi di 16O modulata opportunamente, perché una risonanza nel nucleo dell’ossigeno si trova soltanto ad una certa distanza rispetto all’energia termica dei componenti nelle condizioni di una stella tipica.15

Una volta prodotto all’interno delle stelle il carbonio, come l’ossigeno e gli altri elementi, dev’essere distribuito nello spazio per divenire polvere cosmica, disponibile così ad essere incorporato nei pianeti di sistemi solari che si formano in epoche successive.

Il meccanismo di questa distribuzione è reso possibile in virtù di finissimi equilibri esistenti tra le forze di interazione debole e gravitazionale e le masse di elettrone e protone, perché in sostanza il carbonio di cui siamo fatti è stato rimosso dalle stelle che esplodendo (supernovae, in media una ogni tre anni nella nostra galassia) provocano un flusso di neutrini il quale, in virtù dei suddetti equilibri, può spingere fuori dagli strati esterni della stella gli atomi di carbonio e di altri elementi.

È stato calcolato che tre miliardi di supernovae furono necessari per produrre gli elementi di cui è costituito il nostro sistema solare.16 Tra questi elementi, alcuni sono scarsi nelle polveri cosmiche, per cui ad esempio per fornire la quantità di fosforo e di potassio presenti mediamente in un corpo umano bisogna che sia stata raccolta tutta la quantità di essi che si trovava in un volume galattico venti milioni di volte più grande del sole.

La fucina cosmica che ha preparato gli ingredienti per costruire i nostri pianeti e i nostri corpi non è rappresentata soltanto dalle supernovae esplose prima di 5 miliardi di anni fa (l’età del sistema solare). Alcuni elementi presenti nelle polveri cosmiche avevano altra origine. Il fluoro per esempio si forma prevalentemente sulla superficie di stelle nane bianche legate in sistemi binari nei quali il corpo celeste di maggiore grandezza ha ceduto materiali alla nana bianca.

Per fare un sistema solare con pianeti adatti alla vita occorre insomma una complessa attività dell’intera galassia per miliardi di anni.

Sembra difficile definire casuale la lunga storia del carbonio, dalla regolazione della sua produzione nella nucleosintesi stellare, alla possibilità della successiva dispersione negli spazi interstellari, all’incorporazione nel sistema solare, e poi alla sua capacità di costruire, insieme a pochi altri elementi, molecole complesse e organi come la coclea dell’orecchio umano con le sue 24 mila fibre che concorrono a trasformare i suoni in stimoli elettrici per il nervo acustico.

Gli elementi costituenti le biomolecole sono quelli preponderanti sotto le condizioni cosmiche: sono rappresentati (carbonio, idrogeno, ossigeno, azoto) da atomi di piccolo calibro e nei quali, con l’aggiunta di elettroni, si ottiene prontamente una stabilità, fattori che consentono agli atomi in questione la formazione di legami multipli e stabili.

Ci si potrebbe chiedere perché la vita è nata col carbonio e non col silicio, vicino al carbonio per molte proprietà, oltre cento volte più abbondante sul nostro pianeta.17 Anche il silicio, come il carbonio, può guadagnare quattro elettroni per formare altrettanti legami covalenti. Ma determinanti sono alcune caratteristiche di legame: quello tra atomi di carbonio ha stabilità circa doppia del legame silicio-silicio, e quindi è più adatto alla costruzione delle macromolecole, oltre che alla formazione di legami multipli. Le catene di silicio sono anche suscettibili di attacco da parte di vari reagenti, tra cui acqua e ammoniaca. La combinazione con l’ossigeno dà luogo a prodotti tanto diversi come l’anidride carbonica e rispettivamente il quarzo.

I legami del carbonio dipendono dagli elettroni del secondo strato che formano quattro orbitali ibridi diretti verso gli angoli di un tetraedro regolare. Nei composti con doppio legame, gli orbitali π formano angoli di 90° col piano degli orbitali ibridi, ai quali si legano gli H e i gruppi di sostituzione. La molecola del benzene, il membro più semplice (C6H6) della serie degli idrocarburi aromatici, è planare e altamente simmetrica, i sei legami con l’idrogeno sono di identica lunghezza, i sei legami carbonio-carbonio sono di identica lunghezza, e tutti gli angoli che essi formano sono di 120°. Secondo la regola di Hückel, il numero di elettroni capaci di formare sistemi ad anello delocalizzato stabile è 4n+2, ed infatti molecole organiche aromatiche possono essere costruite solo con i cosiddetti numeri «magici» 6, 10, 14, 18, ecc., elettroni π. È ovvio che non vi è alcunché di magico: vi è una variabilità preselezionata da orientamenti precisi dell’organizzazione atomica e molecolare.

La materia potrebbe corrispondere «ai differenti aspetti di una struttura matematica immateriale»; essa esiste «in un campo evoluzionario [campo delle forme] analogo al campo gravitazionale».18

La natura dimostra di saper costruire con delle regole. Se, da un punto di vista teoretico e in assenza di conoscenze chimiche pertinenti, si volesse calcolare la probabilità che cinque atomi di idrogeno, cinque di carbonio e cinque di azoto si mettano insieme al punto giusto per costruire una molecola di adenina, si otterrebbe una probabilità così bassa da doversi concludere che la formazione dell’adenina è praticamente impossibile, salvo che non vi sia una specifica forza d’autoorganizzazione. Adenina e altre molecole organiche sono state trovate anche nel meteorite di Murchison e sono presenti negli asteroidi.

Ciò che è significativo è il fatto che si vada scoprendo una grande ricchezza di descrizioni matematiche della stabilità strutturale, delle transizioni tra diversi tipi di strutture, dei processi di autoorganizzazione, leggi matematiche che risultano applicabili all’evoluzione, alla morfogenesi, a processi chimici e biologici.19

Da dove vengono queste leggi matematiche? Come mai ai processi naturali si possono applicare i cambiamenti qualitativi caratteristici delle soluzioni dei sistemi di equazioni evolutive quando qualche parametro attraversa un valore critico e compaiono nuovi punti di equilibrio stabili caratterizzati da stati di maggiore organizzazione?

Immaginiamo di osservare due fotografie che ritraggono 100 molecole di gas in un dato volume: nella prima tutte le molecole sono addensate verso un lato, con l’altra metà del volume vuota, mentre nella seconda sono ritratte le stesse molecole uniformemente distribuite nell’intero volume. Se vi si chiede quale fotografia è stata scattata per prima e quale per seconda, senza esitazione rispondete che la prima dev’essere quella che ritrae le molecole addensate, e la seconda è stata scattata dopo, quando le molecole si erano ben distribuite nello spazio disponibile. Ciò perché è ovvio ritenere altamente improbabile che le 100 molecole lasciate a sé si raggruppino spontaneamente tutte da un lato. Se osserviamo nel mondo reale un tale tipo di asimmetria (che possiamo chiamare stato di bassa entropia) invochiamo immediatamente una probabile causa diversa dall’operazione del puro caso.20

Se ad ogni secondo vi fosse la possibilità di cogliere una ridistribuzione delle molecole in moto nell’interno del volume facendo una fotografia, potrebbe capitarci di vedere, tra le tante possibili distribuzioni casuali, anche un addensamento (casuale) di tutte le molecole in una metà del volume, almeno se prolunghiamo il tempo d’osservazione fino a 2100 secondi, equivalenti a 4 × 1022 anni. L’età dell’universo è decine di miliardi di volte inferiore: l’improbabilità che una condizione siffatta si realizzi per caso è enorme.

E se al posto delle 100 molecole nel semivolume considerassimo la probabilità che si costruisca per caso la catena dei 100 (per la precisione, 103) aminoacidi ordinati nella sequenza di una proteina quale un esemplare tipico di citocromo-c, facendo un tentativo per ogni secondo con i 20 diversi tipi di aminoacidi disponibili? Dovremmo aspettare 20103 secondi, ossia ben oltre 10120 anni. L’età dell’universo è inferiore a 2 × 1010: l’improbabilità è mostruosa.

Se teniamo conto del fatto che la struttura molecolare così ordinata del citocromo-c è essenziale per l’organismo vivente di cui è parte, dobbiamo ammettere che il grado di ordine richiesto negli stati biologici è straordinariamente elevato, e non può aver avuto a disposizione un tempo sufficiente per formarsi casualmente con tentativi alla cieca.

Come ha fatto notare tra i primi I. Prigogine, gli stati autoorganizzati della materia permessi dalla fisica del non equilibrio possono spiegare la complessità, e tra questi il più importante è la dinamica caotica.

Infatti, l’instabilità del moto associato al caos permette al sistema di esplorare continuamente il suo spazio delle fasi, creando così informazione e complessità. D’altra parte, essendo il risultato di un sistema fisico, questi stati vengono prodotti con probabilità uno: il problema della selezione di una particolare sequenza da un gran numero di sequenze, a priori ugualmente probabili, semplicemente non si pone. In un certo senso, il sistema dinamico che genera il caos agisce come un efficiente selettore che rigetta la maggior parte delle sequenze casuali e tiene solamente quelle compatibili con le sottostanti leggi di riproducibilità.21

Nel corso dell’evoluzione biologica vi sono altri aspetti sorprendenti nella costruzione dei sistemi complessi. Forse quel che più sorprende nella considerazione della complessità di geni e genomi è che il potenziale generativo dei genomi è tanto più grande di quanto nell’evoluzione si è di fatto realizzato.22 S. Kauffman ha evidenziato come ci sia un’enorme differenza tra il potenziale numero delle combinazioni di possibili stati di espressione genica e quelle che effettivamente esistono negli organismi.23 Dati infatti appena due inputs a ciascun gene, un sistema di 100 000 geni (quanti ve ne sono in animali evoluti e anche nell’uomo) avrebbe 2100 000 possibili stati, mentre, se usiamo il numero di tipi cellulari come indicatore di stati di espressione, solo 200-300 risultano realizzati. Commenta S. B. Carroll:

Le esigenze della selezione naturale possono favorire o escludere certe forme, ma c’è ampio consenso sul fatto che la selezione non può rappresentare l’intera storia.24

L’Autore parla di «trends» nella storia evolutiva delle forme complesse. E molti hanno proposto l’esistenza di «campi morfoforetici» o «campi delle forme» in sostituzione o ad integrazione dei meccanismi accidentali della mutazione e selezione darwiniana.25

W. A. Dembski già nel sottotitolo del suo libro: No Free Lunch, pone la questione in chiari termini: Why Specified Complexity Cannot Be Purchased without Intelligence.26 Con una corretta fondazione filosofica e un indiscutibile formalismo matematico che neppure i suoi detrattori gli contestano,27 Dembski, tenendo conto del numero totale di particelle elementari costituenti il nostro universo, della massima frequenza possibile della transizione da uno stato fisico ad un altro (tempo di Planck), e dell’età dell’universo, dimostra che le risorse probabilistiche del sistema, cioè il numero possibile dei tentativi casuali di produrre forme di specificata complessità, sono assolutamente troppo basse per ipotizzarne la formazione per caso.

È per sormontare questa difficoltà che taluni hanno invocato l’esistenza di risorse probabilistiche illimitate quali si prospettano nell’ipotesi che l’universo in cui viviamo sia un frammento infinitesimo di una molteplicità di universi in un modo o nell’altro contemporanei o successivi.

Dembski contesta:

È illegittimo prendere un evento, decidere per qualunque ragione che dev’essere dovuto al caso, e quindi proporre un numero di risorse probabilistiche perché altrimenti l’ipotesi casuale non risulterebbe plausibile.28

L’Autore sotto questa luce contesta gli universi a bolle della cosmologia inflazionaria di A. Guth, l’interpretazione della quantomeccanica attraverso i molti mondi di H. Everett, la selezione naturale cosmologica dei buchi neri autoriproducentisi di L. Smolin, la metafisica dei possibili mondi di D. Lewis.29

M. Rees, esponendo il significato dei sei numeri che permettono il fine condizionamento di parametri fisici necessari per l’emergenza della vita, conclude che noi non siamo figli di un Universo ma di un Multiverso, che contiene regioni con differenti proprietà, tra le quali capita che almeno una di queste regioni sia adatta alla comparsa di esseri viventi.30 L’idea del Multiverso, ad onta della più assoluta mancanza di dati empirici, sta diventando parte della scienza convenzionale. In realtà essa rappresenta una sorta di metafisica, che fa ricorso all’infinito attuale nella materia come risorsa probabilistica priva di limiti.

3. L’infinito matematico e la realtà

Come Galilei diceva: «… per arrivar al numero infinito tanto è l’accumular migliaia quanto decine e quanto zeri.»; così, descrivendo il più grande dei numeri cui, almeno nel modo occidentale, sia stato assegnato un nome (10 elevato alla potenza 100, chiamato Google), E Maor nel libro Infinity and Beyond fa notare che l’infinito è tanto lontano da Google quanto lo è da 1; e che una quantità variabile è detta approssimarsi all’infinito se può divenire più grande di qualunque numero finito arbitrariamente grande. «It follows that infinity is not a number at all, but a concept31

Gli fa eco A. W. Moore: «… our concept of the mathematically infinite […] has no possible direct application to reality.»32 Mentre L. Wittgenstein, a proposito di qualche aspetto della matematica del transfinito, scriveva: «The dangerous, deceptive thing […] is that it makes the determination of a concept […] look like a fact of nature.»33 (corsivi miei)

Quando si pretende che l’infinito sia attuato nella realtà delle cose, concretizzato e completato, è chiaro che non si tratta più di un concetto, ma che si intende determinarlo, attribuirgli una fattuale esistenza nello spazio e/o nel tempo.

È da questo equivoco che nascono molte ambiguità, affermazioni arbitrarie e anche paradossi. Si potrebbe obiettare che i fisici applicano alla realtà (per es., all’origine dell’universo) il concetto di singolarità per indicare stati teorici nei quali è implicato l’infinito in atto per alcune grandezze; il concetto significa però che lo spazio, il tempo e le leggi di natura cessano di esistere.

Nel senso della definizione di Cantor,34 un sistema si chiama infinito se è equipotente (uguale per numero) a una sua parte propria. Così quello che per Galilei aveva rappresentato un paradosso per cui l’infinito attuale andava rifiutato, è divenuto dopo Cantor il modo per definire un insieme infinito, che è tale se ha almeno un proprio sottoinsieme i cui membri siano in corrispondenza uno-a-uno con quelli dell’insieme considerato (per esempio il sottoinsieme dei numeri pari rispetto a quello di tutti i numeri naturali: i due insiemi infiniti sono equipollenti pur essendo l’uno una parte dell’altro).

Si definisce cardinalità di un insieme il numero di membri che esso contiene.

Il numero dei membri di un insieme numerico finito è caratterizzato dal suo numero cardinale che è il numero più alto della serie che costituisce l’insieme: per esempio per l’insieme dei numeri: 1, 2, 3, 4, 5 il cardinale è 5. Si dicono equipollenti (o equipotenti) due insiemi che hanno uguale numero cardinale. L’ordinalità dell’insieme ne definisce la posizione nell’elenco degli insiemi: per esempio un insieme di sette membri è il settimo (ordinale 7) di un elenco il cui predecessore è il sesto, il successore l’ottavo. In tali insiemi finiti il cardinale e l’ordinale coincidono. Non così per gli insiemi infiniti. Considerando il più semplice degli insiemi infiniti, quello di tutti i numeri naturali, (1, 2, 3, …), non esistendo il più grande tra essi (perché si può sempre aggiungere +1 e averne uno maggiore) la cardinalità dell’insieme non può corrispondere a un ordinale, come negli insiemi finiti; ed è chiamato ℵ0, il più piccolo dei cardinali transfiniti. Ogni insieme equipotente a quello dei numeri naturali è detto numerabile, e ha sempre lo stesso cardinale ℵ0. Vi sono anche gli ordinali transfiniti, quale l’ordinale ω definito come il primo numero che segue tutta la successione dei naturali (1, 2, 3…) nel loro ordine usuale.

L’insieme dei numeri naturali riordinati in modo che un numero viene spostato alla fine della successione (es.: 2, 3, 4, … 1) rispetto alla lacuna infinitamente lunga indicata dalla serie dei punti, ha come ordinale ω+1; la successione (1, 3, 5, … 2, 4, 6, …) che ha due lacune infinite, avrà l’ordinale ω+ω ossia 2ω; ecc. Dato che gli elementi di questi insiemi, tutti infiniti, possono sempre essere messi in corrispondenza biunivoca con l’insieme dei numeri interi positivi (ordinale ω), e quindi anche tra loro, tutti avranno come cardinale ℵ0 anche se i loro ordinali sono diversi.

Vi sono numeri cardinali transfiniti maggiori di ℵ0, quali i cardinali degli insiemi di tutti i punti geometrici, per esempio su una linea, o quello, ancora più grande, dell’insieme delle curve geometriche, ma la discussione che segue non interessa infiniti matematici con cardinali maggiori di ℵ0.

Uno dei più noti sostenitori della finitezza soprattutto temporale (a parte ante) dell’universo è W.L. Craig,35 che riprende le argomentazioni risalenti alla filosofia islamica del nono secolo («kalam cosmological argument»), aggiornandole, ed elaborando considerazioni sull’impossibilità dell’infinito attuale da un punto di vista filosofico, ma anche fisico-cosmologico.

Sul problema scientifico della finitezza spaziale si può trovare una buona sintesi e numerosi riferimenti bibliografici nell’articolo «Is space finite?» su Scientific American.36 Per l’aspetto temporale si sono considerati modelli di universo «stazionario», alcuni rivelatisi non realistici; un modello «ciclico» recente prospetta su nuove basi l’ipotesi dell’eterna sequenza di espansione e contrazione dell’universo per cui il famoso big-bang sarebbe l’ultimo (per ora) di una serie infinita.37 Il problema si allarga alle ipotesi di universi «multipli» come quelle della teoria inflazionaria-caotica nella quale si descrive un meccanismo di autoriproduzione degli universi,38 che implica l’infinito spaziotemporale.

L’argomentazione di Craig è rappresentata fondamentalmente da due sillogismi:

Un infinito attuale non può esistere Un regresso temporale infinito di eventi è un infinito attuale Dunque un regresso temporale infinito di eventi non può esistere

Una collezione formata da addizioni successive non può essere infinita in atto La serie temporale degli eventi passati è formata da addizioni successive Dunque la serie temporale degli eventi passati non può essere attualmente infinita

Per quanto attiene al primo sillogismo, non si tratta di affermare l’impossibilità logica di una serie infinita; l’argomentazione contesta che una tale serie sia realmente possibile, a causa dei paradossi cui l’ipotesi porta.

Un esempio classico di applicazione alla realtà dell’infinito cantoriano immagina un hotel con un numero infinito di stanze, tutte occupate. Quando arriva un nuovo ospite, l’albergatore gli trova subito una stanza libera perché sposta la persona della stanza 1 alla 2, quella della 2 alla 3 e così via; supponendo che arrivi addirittura un numero infinito di nuovi ospiti non ci sono problemi: basta spostare gli occupanti dalla stanza 1 alla 2, dalla 2 alla 4, dalla 3 alla 6, dalla 4 alla 8, dalla 5 alla 10 e così via: è facile calcolare che tutte le stanze con numeri dispari resteranno libere e in questo sottoinsieme infinito si sistemano i nuovi ospiti. Supponiamo poi, con Craig,39 che gli ospiti comincino a lasciare l’albergo, per esempio che sia partito quello della camera 1: non ci sarà un ospite di meno nell’albergo? E se partono tutti quelle delle camere a numero dispari, 1, 3, 5, …? In questo caso addirittura se ne va un numero infinito di persone, ma gli ospiti dell’albergo non saranno diminuiti. E se partissero tutti, tranne quelli delle stanze 1, 2, e 3, l’albergo resterebbe quasi vuoto e l’infinito sarebbe ridotto a un limitatissimo finito, eppure in questo caso il numero delle partenze sarebbe uguale a quello avutosi nell’occasione in cui sono partiti tutti gli ospiti delle camere a numero dispari.

Craig si chiede se qualcuno potrebbe credere che un simile hotel possa esistere in realtà. Infatti, cosa fa infinito meno infinito? per esempio: tutti i numeri naturali meno i numeri dispari? Fa sempre infinito (i numeri pari). Ma se da tutti i numeri naturali sottraiamo tutti quelli maggiori di 4 cosa resta? Resta 3, così infinito meno infinito fa 3. Contraddizioni che risultano quando le operazioni di sottrazione o divisione vengono applicate ai numeri transfiniti. E infatti queste operazioni sono proibite nell’aritmetica del transfinito, ma certo non possono essere bandite dal mondo reale.

Chi fa l’ipotesi che nel mondo reale, nell’universo, esistano in atto infiniti elementi reali discreti, deve considerare che i numeri naturali siano infiniti in atto. Infatti è dimostrabile che l’insieme di tutti gli oggetti fisici esistenti nell’universo è numerabile, cioè può essere ordinato in modo che ognuno di essi abbia la sua posizione in una serie unidimensionale, e questa serie può essere posta in corrispondenza biunivoca con una parte o con l’intiero insieme dei numeri naturali.40

I numeri ordinali sono infinitamente numerosi, ma ciò non significa che vi sia una totalità infinita di ordinali; significa esattamente il contrario, cioè che non vi è una siffatta totalità: infatti, data qualunque totalità, ve n’è un’altra che è più inclusiva. Se si può dire che nello stesso modo vi sono naturali infinitamente numerosi (che tali essendo comprendano tutti gli ordinali) allora non può avere senso parlare di un ordinale come il cantoriano ω che dovrebbe succedere a una non determinata totalità.41 «Un insieme che fosse genuinamente infinito non potrebbe esserci», scrive A. W. Moore, sottolineando come sia importante «che lo stesso Cantor ha parlato in questi termini».42

In ogni caso è dimostrato che, per spazi fisici quali si considerano in cosmologia, il numero degli atomi non potrebbe essere superiore a una semplice infinità numerabile,43 il cui cardinale è quello dei numeri naturali. Se una tale infinità si ipotizza come realmente attuale ciò equivale a dire che il numero ℵ0 è in atto, che è come dire che tutti i numeri naturali possano essere compresi in un elenco di fatto scritto, esistente.44 Anche quando si dice che l’universo è esistito per un tempo infinito, l’insieme delle unità di tempo cosmico deve rappresentare un insieme infinito con numero cardinale ℵ0. Il numero delle unità del tempo passato, cioè, è in corrispondenza 1-1 con l’insieme infinito dei numeri naturali: il problema è identico. La stessa cosa si può dire per le ipotesi di universi multipli, paralleli o successivi.

A identica conclusione si arriva dalle due premesse del secondo sillogismo di Craig. Egli ritiene di rafforzare le sue dimostrazioni sull’impossibilità dell’infinito in atto sottolineando che per quanto riguarda gli eventi del passato si tratterebbe di una serie infinita costruita «sequentially or successively»,45 ed è impossibile contare o formare per sintesi successive una quantità infinita, senza trascurare che l’assunto di un passato infinito distrugge il contrasto tra attualità e potenzialità.

Il contare ha il carattere asimmetrico che è proprio dell’accadere degli eventi temporali; esso descrive («maps») il succedersi degli eventi. Ma non potrebbe mai esaurire un insieme infinito di eventi che si presumono esistere prima di qualunque definito presente.46 Ciò perché per ogni elemento che si aggiunge se ne può sempre aggiungere uno in più, e non si può quindi raggiungere l’infinito: quello che si costruisce è un infinito potenziale.

Si obietta: contare fino all’infinito è un processo incompletabile se esso ha un inizio; ma un processo passato, per ipotesi infinito, non può avere un inizio, per definizione; quindi il fatto di non poterlo contare dimostra solo che manca l’inizio, che il processo è in atto da sempre.

C’è la contro-obiezione di G. J. Whitrow47: i sostenitori di un passato di eventi senza un inizio sono costretti ad ammettere che vi sia un numero infinito di eventi

«intermedi» succedutisi nel passato. Se si vuol fare l’ipotesi che ci sia un numero infinito di eventi passati, ce ne dovrà essere cioè almeno qualcuno, realmente attuato, che sia infinitamente lontano da un determinato evento presente. Nel passato non vi sono che eventi attuati, qualsiasi evento passato cui ci si riferisca lo è. Negare che vi sia un evento attuato infinitamente lontano vuol dire non riconoscere la qualità di attuato del passato infinito o la qualità di infinito del passato attuato.48 Se c’è un qualche evento infinitamente distante nel passato di un definito evento presente, allora ci possiamo chiedere come sarebbe possibile una enumerazione — un evento contato dopo l’altro — o la formazione, di un infinito per addizioni successive, tra l’evento infinitamente lontano e quello presente (attraversamento dell’infinito; cfr. S. Tommaso, Summa Theol., 1, 46, 2 ad 6; Contra gent. 2, 38 ad 3). Né la serie temporale degli eventi può essere pensata in altro modo, perché ogni parte di essa dev’essersi formata per addizioni successive di eventi con un tempo di presenza per ciascuno di essi.

Chi sostiene che l’infinità in atto è propria della serie (o dell’insieme) ma che ciò non significa collocare all’infinito alcuno dei componenti, come pensa per esempio R. Sorabij, si trova di fronte a paradossi.49

L’argomentazione di Whitrow — che tra l’altro si domanda quando, nella catena temporale che precede il presente, il numero totale di eventi intermedi diviene infinito — ricordano da vicino l’analisi di P. C. Landucci,50 dalla quale prendiamo alcune frasi:

Diversissimo è il caso del tempo futuro e del tempo passato, quanto alla sua eventuale durata e assenza di limiti.

Una ipotetica successione temporale futura infatti, senza mai termine, sarà misurata da numeri sempre crescenti, ma mai attualmente bensì solo potenzialmente infiniti. […]

Una successione temporale passata invece, senza mai inizio, essendo già tutta attualmente trascorsa, non può essere misurata da numeri finiti, per quanto grandi e crescenti a piacere, non cioè da numeri solo potenzialmente infiniti, ma da numeri attualmente infiniti. […]

Consideriamo perciò, a partire dal momento presente, tutto il complesso delle distanze temporali passate. Esse sono […] divise in due categorie: dei tempi finiti e dei tempi infiniti. I primi più vicini al presente, gli altri più distanti. Né vi può essere, com’è ovvio, una categoria di mezzo. Ogni distanza infatti o è finita o infinita. Il che significa che le due categorie sono in contatto.

Ci dev’essere cioè un momento reale del passato, dove termina l’ultima distanza finita e comincia la prima infinita. Tale momento del passato dev’essere quindi contemporaneamente a distanza temporale finita e infinita dal momento presente: il che evidentemente è assurdo. Ma è un assurdo dipendente esclusivamente dalla ipotetica premessa: l’infinita durata della passata evoluzione cosmica. […]

V’è tra passato e futuro, infatti, la differenza netta, già sopra accennata, che il passato è già tutto compiuto, mentre il futuro sta progressivamente svolgendosi.

Supponendo, per fissare le idee, che tutto il moto sia costituito dalle oscillazioni di un pendolo, quelle infinite del passato sono tutte già avvenute, mentre quelle future stanno avvenendo. Quelle passate sarebbero già, cioè, per ipotesi infinite, mentre quelle future cresceranno sempre, saranno interminabili, ma mai infinite.

La realtà di questo supposto passato infinito, quindi, corrisponde alla realtà di tutte codeste infinite oscillazioni […]. In tale ipotesi, le oscillazioni a distanza infinita […] ci devono essere state, precisamente come quelle a distanza finita […] a titolo perfettamente eguale, […] partecipando della stessa realtà delle finite.

Dal punto di vista dell’aritmetica cantoriana il tipo d’ordine della serie passata di oscillazioni in questione sarebbe *ω, che è quello dei numeri negativi. Pensare che una tale serie sia stata formata per successive addizioni equivale ad ammettere che qualcuno sia riuscito ad enumerare tutti i numeri negativi terminando con lo zero. Ma questo sarebbe inconcepibile dato che, come Whitrow ricorda, una collezione del tipo d’ordine *ω è un insieme non costruibile: la questione di come una sequenza di eventi di questo tipo d’ordine possa effettivamente essere formata, prodotta, è spesso ignorata da chi basa la possibilità di un infinito passato sulla teoria di Cantor. Infatti, il solo modo in cui possiamo definire l’insieme infinito degli interi negativi è iniziando da -1, mentre viceversa questo non corrisponde all’ordine temporale degli eventi, cui si vorrebbero tuttavia associare i numeri negativi. Dato che l’insieme con tipo d’ordine *ω non è costruibile, non è possibile che esso possa rappresentare una sequenza infinita di eventi passati.51 Sentiamo J. Seifert:

Ciò corrisponde all’impossibilità di passare da una enumerazione successiva finita di numeri ad una infinità attuale. Il modo di questa successione, la modalità ontica dell’avere fasi successive di durata, non condurrà mai all’attualmente infinito. Così la temporalità strutturale essenziale e la finitezza e la successività degli esseri temporali e della loro durata impediscono che essi possano essere eterni e senza cominciamento.52

Che l’infinito, come aumento illimitato della quantità, possa essere soltanto potenziale è stato sostenuto chiaramente da Aristotele (Metafisica, XI, 10) ma si ritrova anche in Hume (Treatise, I, IV) e in molti empiristi e razionalisti per i quali l’infinito non è una realtà ma un ordine della ragione, di cui Kant farà un’idea trascendentale, con le note antinomie (Prolegomeni).

Lasciamo la conclusione ad A. Zichichi:

Identificare quantità fisiche fondamentali che possono avere le loro radici nei vari livelli d’Infinito (ℵ0, ℵ1, ℵ2, ecc.) è un problema che esula totalmente dalla Fisica Teorica contemporanea. […] Altro che Infinito. Non c’è traccia né di quello potenziale né di tutti quegli altri livelli che da Cantor ad oggi hanno appassionato i cultori dell’Infinito Matematico.53

4. Conclusione

Ritornando alla questione che abbiamo posto nell’introduzione, è evidente che la filosofia della natura pone una sfida sempre più ardua alla presunzione della ragione quando, rifuggendo dall’atteggiamento della meraviglia, e incapace di contemplazione, tende a costruire ipotesi «metafisiche» — come le definisce N. Dallaporta sottolineandone il significato etimologico in quanto poste al di fuori degli ambiti di controllo della scienza fisica — «ipotesi molto più impegnative e artificiose dell’opposta visione direttamente metafisica di un universo costruito secondo un piano…».54

È necessario prendere atto che non si viene a capo del problema ultimo se non si abbandona in qualche modo lo strumento logico-matematico che, come ha dimostrato Gödel, soffre d’ineliminabile incompletezza55 e non vede infinite verità, né è capace di riflettere su sé stesso, mentre l’autoreferenzialità nella logica come nella teoria degli insiemi può comportare contraddizione. D. Hofstadter ricorda il secondo teorema di Gödel il quale implica che le sole versioni della teoria formale dei numeri che asseriscono la loro stessa consistenza sono inconsistenti.56 E. R. Rucker in una frase semplice ed efficace scrive: «… rational thought can never penetrate to the final ultimate truth…».57 E infatti, nota P. Davies,

Se anche l’infinito potesse essere afferrato e manipolato usando il pensiero razionale, aprirebbe questo la via a una comprensione della spiegazione ultima delle cose senza bisogno di misticismo? No, non sarebbe possibile.

Uno dei lati sorprendenti del lavoro di Cantor è che non vi è un solo infinito, ma ve n’è una molteplicità. […] Ci si può chiedere: c’è un infinito più grande di tutti? Bene, si potrebbero combinare in un unico superinsieme tutti gli insiemi infiniti. La classe di tutti gli insiemi possibili è stata chiamata l’Assoluto di Cantor. Ma c’è un ostacolo. Questa entità non è essa stessa un insieme, perché se lo fosse dovrebbe per definizione contenere sé stessa. Ma gli insiemi autoreferenziali cadono nell’antinomia di Russell [L’insieme di tutti gli insiemi che non contengono sé stessi come elemento dovrebbe contenere sé stesso come elemento]. E qui incontriamo i limiti Gödeliani al pensiero razionale, il mistero alla fine dell’universo. Noi non possiamo conoscere l’Assoluto di Cantor, o qualunque altro Assoluto, con mezzi razionali, perché qualunque Assoluto, essendo una Unità e quindi completo entro sé stesso, deve includere sé stesso.58

Alla classe di tutti gli insiemi di idee (cui si è dato il nome di Mindscape) che richiama l’aristotelico autoreferenziale Pensiero del Pensiero, non si può avvicinare l’umano ragionare, nessun pensiero razionale potendo essere un membro di sé stesso. Mai potrà l’intelletto raggiungere l’Assoluto se non con una visione mistica.


  1. E. Baccarini, «La passione del filosofo: pensare l’originario», Dialegesthai, 1999, 1. ↩︎

  2. P.C.W. Davies, Dio e la nuova fisica, Mondadori, Milano 1984, p. 259. ↩︎

  3. P.C.W. Davies, The Accidental Universe, Cambridge University Press, Cambridge 1982, p. 60. ↩︎

  4. D. Wilkinson, Our Universes, Columbia University Press, New York 1992, p. 169-200. ↩︎

  5. P.W. Atkins, La creazione, Zanichelli, Bologna 1985, p. 24. ↩︎

  6. I.D. Barrow, J. Silk, La mano sinistra della creazione, Mondadori, Milano 1985, p. 105. ↩︎

  7. D. Wilkinson, Our Universes, cit. alla nt. 4, p. 173. ↩︎

  8. K. Caldeira, J.F. Kastings, «When Climate and Life Finally Devolve», Nature 1992, 360, p. 721-23. ↩︎

  9. S.W. Hawking, citato da M. Skermer, «Digits and Fidgets», Sci. American 2003, 288(1), p. 23. ↩︎

  10. P.C.W. Davies, The Accidental Universe, cit. alla nt. 3; J. P. Moreland Ed., The Creation Hypothesis: Scientific Evidence for an Intelligent Designer, InterVarsity Press, Downers Grove Ill 1994. ↩︎

  11. I.D. Barrow, J. Silk, La mano sinistra, cit. alla nt. 6, p. 121; P. C. W. Davies, «Inflation in the Universe and Time Asimmetry», Nature 1984, 312, p. 524. ↩︎

  12. H. Reeves, The Hour of Our Delight: Cosmic Evolution, Order and Complexity, Freeman and Company, New York 1991. ↩︎

  13. —, «The growth of complexity in an expanding Universe», The Anthropic Principle, F. Bertola & U. Curi Eds., Cambridge University Press, Cambridge 1993, p. 67-84. ↩︎

  14. F. Hoyle, Galaxies, Nuclei and Quasars, Harper & Row, New York 1964. ↩︎

  15. M. Livio, D. Hollowell, A: Weiss, J.W. Truran, «The anthropic significance of the existence of an excited state of C», Nature 1989, 340, p. 281-84; H. Oberhummer, A. Csòtò, H. Schlattl, «Stellar Production Rates of Carbon and Its Abundance in the Universe», Science 2000, 289 p. 88-90. ↩︎

  16. R.E. Davies, R.M. Koch, «All the Observed Universe has Contributed to Life», Philosophical Transactions of the Royal Society London B 1991, 334, p. 391-403. ↩︎

  17. C. Ponnamperuma, The Origins of Life, Thames and Hudson, London 1972, p. 114. ↩︎

  18. F. Cramer, Chaos and Order, VCH, Weinheim 1993, p. 179. ↩︎

  19. E. Pessa, «La descrizione matematica delle strutture», Rivista di Biologia, 1991, 84, p. 325-39; S. A. Kauffman, «Antichaos and Adaptation», Sci. American, 1991, 265(2), p. 64-70; R. Thom, Stabilità strutturale e morfogenesi, Einaudi, Torino 1980. ↩︎

  20. H. Von Ditfurth, Non siamo solo di questo mondo, Longanesi, Milano 1982; D. Park, The Image of Eternity, The University of Massachussets Press, Amherst 1980. ↩︎

  21. G. Nicolis, I. Prigogine, La complessità, Einaudi, Torino 1991, p. 222. ↩︎

  22. S.B. Carroll, «Chance and necessity: the evolution of morphological complexity and diversity», Nature 2001, 409, p. 1102-09. ↩︎

  23. S. Kauffman, citato da S. B. Carroll, ibidem, p. 1108. ↩︎

  24. S.B. Carroll, «Chance and necessity», cit. alla nt. 22, p. 1102. ↩︎

  25. Per esempio, G.C. Webster, B.C. Goodwin, Il problema della forma in biologia, Armando, Roma 1988; E. Laszlo, L’ipotesi del campo Psi, Lubrina, Bergamo 1987; F. Cramer, Chaos and Order, cit. alla nt. 18. ↩︎

  26. W.A. Dembski, No Free Lunch, Rowman & Littlefield, Lanham, 2002. ↩︎

  27. B. Charlesworth, «Evolution by design?», Nature 2002, 418, p. 129. ↩︎

  28. W.A. Dembski, No Free Lunch, cit. alla nt. 26, p. 86. ↩︎

  29. A. Guth, The Inflationary Universe: The Quest for a New Theory of Cosmic Origins, Addison-Wesley, Reading, Mass. 1977; H. Everett, «Relative State Formulation of Quantum Mechanichs», Rev. of Modern Physics 1957, 29, p. 454-62; L. Smolin, The Life of the Cosmos, Oxford University Press, Oxford 1997; D. Lewis, On the Plurality of Worlds, Basil Blackwell, Oxford 1986. ↩︎

  30. M. Rees, Just Six Numbers: The Deep Forces that Shape the Universe, Weindenfeld & Nicolson, London 1999. ↩︎

  31. E. Maor, Infinity and Beyond, Birkhäuser, Boston 1987, p. 16. ↩︎

  32. A.W. Moore, The Infinite, Routledge, London 1993, p. 222. ↩︎

  33. L. Wittgenstein, citato da Moore, The Infinite, cit. alla nt. 32, p. 140. ↩︎

  34. S. Lavine, Understanding the Infinite, Harvard University Press, Cambridge Mass. 1994; P. Suber, «A Crash Course in the Mathematics of Infinite Sets», St. John’s Review, 1998, XLIV, p. 35-59 e ↩︎

  35. W.L. Craig, The Kalam Cosmological Argument, Macmillan, London 1979. ↩︎

  36. J.P. Luminet, G. D. Starkman and J: R: Weeks, «Is Space Finite?», Sci. American 1999(4), 280, p. 68-75. ↩︎

  37. P.J. Steinhardt, N. Turok, «A Cyclic Model of the Universe», Science 2002, 296, p. 1436-39. ↩︎

  38. A. Linde, Inflation and Quantum Cosmology, Acad. Press, New York 1990. ↩︎

  39. W.L. Craig, «Wallace Matson and the Crude Cosmological Argument», Australasian J. of Philosophy 1979, 57, p. 163-70. ↩︎

  40. J.D. North, The Measure of the Universe, Oxford 1965, citato da P. Huby, «Kant or Kantor?», cit. alla nt. 44, p. 125. ↩︎

  41. A.W. Moore, The Infinite, cit. alla nt. 32, p. 209. ↩︎

  42. A.W. Moore, The Infinite, cit. alla nt. 32, p. 128. ↩︎

  43. R. Schlegel, «Transfinite Numbers and Cosmology», Nature 1962, 193, p. 655-66. ↩︎

  44. P. Huby, «Kant or Cantor? That the Universe, if Real, Must be Finite in Both Space and Time», Philosophy 1971, 46, p. 121-32. ↩︎

  45. W.L. Craig, The Kalam Cosmological Argument, cit. alla nt. 35. ↩︎

  46. G.W. Shields, «Is the Past Finite? On Craig’s Kalam Argument», Process Studies 1984, 14, p. 31-40. ↩︎

  47. G.J. Whitrow, The Natural Philosophy of Time, 2a ed., Clarendon Press, Oxford 1980, p. 31. ↩︎

  48. G.W. Shields, «Is the Past Finite?», cit. alla nt. 46. ↩︎

  49. R. Sorabij, Time, Creation and the Continuum, Cornell University Press, New York 1983, p. 328. ↩︎

  50. P.C. Landucci, Esiste Dio? , Pro Civitate Cristiana, 4a ed., Assisi 1957, p. 88-93. ↩︎

  51. W.L. Craig, «Professor Mackie and the Kalam Cosmological Argument», Religious Studies, 1985, 20, p. 367-75; A. W. Moore, Infinity, Dartmouth, Aldershot 1993, p. 380. ↩︎

  52. J. Seifert, Essere e Persona, Vita e Pensiero, Milano 1989, p. 452. ↩︎

  53. A. Zichichi, L’Infinito, Rizzoli, Milano 1994, p. 244-45. ↩︎

  54. N. Dallaporta, «Metaphysical Outlooks in Physics and the Anthropic Principle», in: The Anthropic Principle, F. Bertola & U. Curi Eds., Cambridge University Press, Cambridge 1993, p. 143-50. ↩︎

  55. S. Galvan, Introduzione ai teoremi di incompletezza, Franco Angeli, Milano 1992. ↩︎

  56. D.R. Hofstadter, Gödel, Escher, Bach, Basic Books, New York 1979, p. 449-50. ↩︎

  57. R. Rucker, Infinity and the Mind, Birkhauser, Boston 1982, p. 48. ↩︎

  58. P.C.W. Davies, The Mind of God, Simon and Schuster, London 1992, p. 230. ↩︎