Recensione ad Andrea Oppo, Filosofia e salvezza

Andrea Oppo, Filosofia e salvezza, collana «Bibliotheca minima», PFTS University press, Cagliari, 2013

Che cosa ha a che fare la filosofia con la salvezza? Esiste un rapporto tra la ricerca razionale del vero e l’esser salvi? È pensabile offrire una risposta filosofica alle domande di senso più elevate quali: cosa ci salva o ci salverà per davvero? Quale bellezza? Quale fede? Quale speranza? E soprattutto: che cos’è la «salvezza»?

Filosofia e salvezza (PFTS University Press 2013), di Andrea Oppo, è un dialogo filosofico tra quattro interlocutori, che nasce a partire dalla metafora del naufragio su un’isola deserta e, con un linguaggio denso e un riferimento costante al mondo culturale russo, giunge in modo diretto alle «domande totali» dell’uomo. Si dice che la filosofia ponga sempre le domande più profonde sul senso della vita e delle cose, ma non sia poi altrettanto capace di fornirne le risposte. Questo dialogo è a tutti gli effetti un testo di «conclusioni», che propone delle risposte filosofiche alla condizione esistenziale dell’uomo in stato di «naufragio».

È sistematico nel senso letterale del termine: vale a dire «sistema» una questione, che è quella della salvezza da un punto di vista filosofico, come finora non era stato fatto. Si legge d’un fiato e tuttavia non è un testo facile; non ha note o tecnicismi, eppure è zeppo di riferimenti e di autori: vi è dentro, in pratica, tutta la storia del pensiero filosofico occidentale, con un’importante finestra sulla Russia.

Andrea Oppo è docente associato di estetica alla Pontificia Facoltà Teologica della Sardegna: fra i suoi interessi principali vi è la filosofia religiosa russa della cosiddetta «età d’argento», e questo è bene che il lettore lo sappia per poter capire lo spirito di fondo che anima un simile esperimento, che nasce in modo solido nel pensiero filosofico occidentale — e ha quasi uno spirito «analitico», per come tiene ferma una tesi che sviluppa dall’inizio alla fine — ma solo in Russia, verrebbe da dire, trova le risposte necessarie alle sue domande, davanti alle quali probabilmente l’Occidente fallisce. E tuttavia, proprio in questo fallimento — l’autore lo ribadisce numerose volte — vi è anche il senso più profondo della stessa filosofia occidentale.

Stabilito, dunque, che si tratta di un testo filosofico e che forse il lettore che ha una certa dimestichezza con la filosofia apprezzerà più di altri questo lavoro, bisogna anche osservare che il contenuto che pervade ogni singola riga del dialogo è propriamente teologico, di quel «teologico» di cui la filosofia fin dalle sue origini, fin da Talete in pratica, è impregnata. Non vi è domanda sulla salvezza, infatti, senza un riferimento o un orizzonte teologico. Questo, l’autore lo ha ben presente: e per teologia egli assume, senza ombra di dubbio, una teologia cristiana, anche se non vi sono riferimenti espliciti di tipo confessionale o dogmatico. Ma non è neppure una teologia filosofica: è piuttosto una messa in opera di un possibile rapporto, problematico e spesso conflittuale, tra filosofia e cristianesimo. Ripetiamo, il testo è sistematico perché, all’infuori di dogmi o riferimenti forti, mette a punto una questione in modo autonomo e organico, muovendo da premesse a conclusioni. E tuttavia, proprio leggendo questa sistemazione ci si accorge che essa non si contrappone ad altre del genere o che, probabilmente, non vi sono altre sistemazioni paragonabili a questa, neanche in senso oppositivo. Il rapporto stesso tra gli interlocutori del dialogo mostra tutto ciò molto chiaramente.

Diviso in tre parti (Theoresis, Praxis e Aisthesis), secondo una scansione classica della filosofia, il testo mostra, attraverso una serie di definizioni e, come detto, mantenendo ferme alcune tesi di fondo, una possibilità di rapporto tra il logos filosofico e l’idea di salvezza. E lo fa individuando alcune questioni chiave — relative alla «innaturalità umana» e alle possibili risposte giuste a quest’ultima; alla «morale del riconoscimento» e infine all’estraneità del sentimento di piacere e dell’idea di arte che ne deriva rispetto alla salvezza — che partono da una nuova definizione dell’idea di bellezza e da un’ottica specificamente iconica e russa. Non manca una riflessione approfondita sul concetto di amore in senso cristiano, e sul concetto di «prossimo», così come su quelli di libertà e identità esistenziale. Fra gli infiniti riferimenti filosofici e letterari presenti in questo testo è possibile trovare proprio negli autori russi della filosofia (Florenskij, Solov’ëv), della letteratura (Dostoevskij) e dell’arte (Kramskoj, Malevi? e soprattutto Rublëv) la vera direzione teorica di questo dialogo che, al di là della neanche tanto celata proposta teologica, per un versante, ed estetica, per un altro, resta fortemente fedele al titolo, come un’indagine della filosofia sull’esperienza della salvezza o del sentirsi salvati. In tal senso, la ragione filosofica forse non incide praticamente sul nostro esser salvi, ma ugualmente lavora sugli scarti e sui riflessi negativi di un simile evento. Porta a una consapevolezza che è tutta umana, e che dà il segno della nostra nevrosi e della nostra impossibilità. Ma dove — viene da chiedersi — se non lì, nell’autentica consapevolezza dell’impossibilità, è lecito porre la domanda di salvezza più elevata e cercarne, dunque, la vera risposta?