Aspetti problematici della finalità oggettiva della natura nell’«Analitica del giudizio teleologico» di Immanuel Kant

1. Una partenza difficile

Nel § 61 della Critica del Giudizio,1 che apre la «Critica del giudizio teleologico» e che precede immediatamente i paragrafi dedicati all’«Analitica del giudizio teleologico», Kant presenta già alcuni dei nodi cruciali riguardanti il tema della finalità oggettiva della natura.

Posto che l’esperienza è suscettiva di essere organizzata secondo l’unità delle leggi empiriche che la governano, resa necessaria dai principi trascendentali che esigono a priori tale unità sistematica, questo, dice Kant, può certo rispondere ad una «finalità soggettiva della natura»,2 cioè ad una esigenza conoscitiva del nostro intelletto. Allo stesso modo i prodotti naturali possono soddisfare un’esigenza estetica, per la varietà e l’unità che li caratterizza, attraverso il libero gioco dell’immaginazione e dell’intelletto di cui Kant parla nella prima parte della Critica, dedicata appunto al giudizio estetico.

Dunque ci muoveremmo nell’ambito di leggi trascendentali atte a configurare un giudizio determinante circa i prodotti naturali, ovverossia potremmo procedere nel senso dell’unificazione della molteplicità dei fenomeni esperibili, poiché così comanda il principio a priori del nostro intelletto per cui la realtà va concepita sub unitate. Oppure potremmo assecondare quest’esigenza unificante in chiave estetica, fornendo un giudizio soggettivo (di natura riflettente, non determinante), sulle «belle forme»3 della natura.

Ma in quest’ordine di considerazioni non trova posto la concezione di una natura i cui prodotti stiano tra loro in una relazione di mezzi e fini gli uni rispetto agli atri, o che la contengano al loro interno, e che possano essere concepiti solo a partire da questa relazione. Nel caso del giudizio estetico possiamo ottenere un «accordo finale interno alle nostre facoltà conoscitive»4 e possiamo farlo anche sulla base di un principio a priori, che il giudizio riflettente darebbe a se stesso per poter investigare una categoria particolare di oggetti. Ma la rappresentazione che ne otterremmo sarebbe «qualcosa in noi»,5 resterebbe cioè confinata in una riflessione tutta e solo nostra. Quella che noi cerchiamo, invece, è «una specie particolare di causalità»,6 quella secondo fini. E questi fini non ci appartengono, non sono qualcosa in noi. Dunque come concepire il legame finale tra le cose della natura, sulla scorta di un qualche principio a priori, che, risiedendo solo in noi, possa farci presumere, come condizione stessa dell’esperienza, quel legame? Né tampoco possiamo senz’altro attribuire quei fini alla natura stessa, perché dovremmo farne un essere intelligente, operazione altrettanto arbitraria quanto la presunzione di cui sopra.

Possiamo forse cercare nell’esperienza per vedere se troviamo in essa le prove di questa finalità?

Ma questo richiederebbe già la presenza in noi di un «concetto dello scopo nella natura delle cose»,7 che però, per quanto detto, non potremmo derivare dagli oggetti della natura, sicché ci troveremmo di fronte alla elaborazione di un giudizio a priori, analogo a quello di cui ci serviamo quando cerchiamo di individuare il legame delle nostre rappresentazioni (pensiamo ancora al giudizio estetico) e di cui poi saggiamo la consistenza cercandone le prove nella realtà esterna. Ma appunto: le nostre rappresentazioni. Mentre a noi interessano qui dei principi oggettivi.

E c’è di più.

Come afferma Kant:

la finalità oggettiva, come principio della possibilità delle cose naturali, è tanto lungi dall’ esser connessa necessariamente (spaziato nel testo) col concetto della natura stessa, che anzi è proprio essa che s’invoca a preferenza per provare la contingenza di questa e della sua forma.8

Si può sostenere che tutto, in natura, non è fatto così e così perché risponde ad una finalità oggettiva, ma semplicemente perché è così che si è venuto costituendo, in modo dunque contingente: avrebbe potuto costituirsi in qualunque altro modo. Quello che osserviamo in natura è un meccanismo che lega le cose in quel dato modo senza che si possano avanzare ragioni sul perché si siano legate in quel modo e non in un altro. È ciò che Kant chiama nexus effectivus. A meno che non si osservi in natura una finalità. Ma saremmo portati a cercare questo nexus finalis al di fuori della natura. Se invece lo cercassimo nella natura, questa non cesserebbe di presentarsi a noi come contingente: perché, infatti, un dato ente è organizzato finalisticamente in quel modo? Perché vive in quel modo? Non siamo in grado di cogliere la necessità di quell’organizzazione. Di qui l’affermazione di Kant che abbiamo riportato poco sopra.

Ma allora quale spazio residua per il giudizio teleologico? Uno spazio problematico. Kant scrive:

Tuttavia il giudizio teleologico è applicato a ragione, almeno problematicamente, all’investigazione della natura; ma soltanto per sottoporla a principii di osservazione ed investigazione mediante l’analogia (spaziato nel testo) con la causalità secondo fini, e senza pretendere di poterla spiegare.9

Avremo modo di tornare sull’inciso «mediante l’analogia con la causalità secondo fini».

Per ora soffermiamoci su questo primo assunto: il giudizio teleologico presenta una intrinseca problematicità. Da quest’angolo visuale la natura appare addirittura inspiegabile. Kant lo dice subito, pur non intrattenendosi sul tema. La ragione è semplice: tutta la «Critica del giudizio teleologico» è, direttamente, o indirettamente, attraversata dalla problematicità della finalità oggettiva. E già nella posizione stessa del tema noi troviamo tutta una serie di rimandi alle difficoltà cui Kant andrà incontro ponendosi, circa i prodotti della natura, il drammatico interrogativo: «A che scopo»?

2. Un principio meramente regolativo

Il giudizio teleologico, afferma Kant, non si propone di spiegare la natura, ma solo di «sottoporla a principi di osservazione e investigazione […] Sicché esso appartiene al Giudizio riflettente, non al Giudizio determinante».10

Ora, noi abbiamo necessità di individuare un principio del giudizio riflettente, principio a priori, poiché altrimenti non potremmo ricondurre ad unità, in termini di causalità finale, la molteplicità fenomenica: abbiamo visto sopra come Kant sgombri il campo dalla possibilità di un principio di giudizio operata attribuendo i fini alla natura stessa, per poi trarne un principio di causalità unificante, dunque a posteriori — per farlo dovremmo considerare la natura un essere intelligente, il che va escluso.

Questo principio del giudizio riflettente ci serve puramente per orientare la nostra investigazione della natura, per avere come riguardarla, come osservarla, in termini di causalità finale, non per spiegarla, ovvero, come scrive Kant: «Il concetto dei legami e delle forme della natura secondo fini è almeno un principio di più (spaziato nel testo) per ricondurre a regole i suoi fenomeni, dove non bastano le leggi della causalità puramente meccanica».11

Un principio di più che non spiega la natura. Il senso di queste affermazioni viene chiarito poco oltre nel testo, quando Kant avverte che il principio posto a fondamento della teleologia è di natura solo regolativa e non costitutiva.

Infatti se cercassimo un principio costitutivo, esso dovrebbe presiedere all’attribuzione alla natura di una intenzione, cosa che, tacendo delle altre difficoltà, ricondurrebbe il concetto di causalità finale al giudizio determinante e non più a quello riflettente. E cosa accadrebbe se ci rifacessimo ad un giudizio determinante, ad un principio costitutivo del concetto di causalità finale?

Accadrebbe che ci affideremmo ad un concetto in vista del quale le cose della natura verrebbero considerate tali, quanto a dire che vedremmo nella causalità finale una categoria da applicare ai fenomeni in base a leggi trascendentali dell’intelletto, ovvero fornendo, per l’appunto, un giudizio determinante, che spiegherebbe i prodotti naturali poiché li conoscerebbe in universale, a prescindere dalle leggi empiriche che li regolano. Ricadremmo così nella difficoltà iniziale: non avremmo principi oggettivi su cui fondare la nostra analisi.

Non solo. Ma poiché in questa causalità dovremmo infine riconoscere una intenzionalità, finiremmo per porre il concetto di scopo al di fuori del campo proprio del giudizio, per ammetterlo «come concetto della ragione», e introducendo così «una nuova causalità nella scienza della natura, che però noi deriviamo solo da noi stessi, ed attribuiamo ad altri esseri senza tuttavia volerli assimilare a noi».12

Non è però questa la prospettiva di Kant.

Il principio di causalità finale regola la nostra investigazione della natura secondo sue leggi particolari, che non possono essere determinate da leggi trascendentali, poiché il fine dell’oggetto della natura è da ricercarsi nell’oggetto stesso, attribuendo, dice Kant, «al concetto di un oggetto una causalità rispetto all’oggetto stesso».13

Ma come regolare questa particolare investigazione della natura?

Kant risponde: «mediante l’analogia (spaziato nel testo) con la causalità secondo fini».14 Quando cioè noi ci figuriamo la causalità finale rispetto ad un oggetto, lo facciamo «come se il concetto si trovasse nella natura (non in noi) […] e quindi pensiamo la natura come tecnica per virtù propria».15

L’analogia di cui parla Kant è con la finalità in base alla quale parametriamo le nostre azioni. Trasferiamo alla natura una causalità che conosciamo poiché si trova in noi. In questo contesto, la locuzione «come se» usata da Kant merita attenzione, perché riguarda la problematicità della finalità oggettiva della natura.

Il ricorso alla teoria giuridica dell’interpretazione può qui tornare utile.

Quando l’ordinamento giuridico presenta delle lacune, tra i modi per colmarle esistono due procedimenti interpretativi solo apparentemente simili. Uno è quello che mette capo alla cd. extensiva interpretatio: in presenza di fattispecie simili, il contenuto di una disposizione viene allargato a ricomprendere casi non espressamente contemplati dalla disposizione stessa, ma che, in virtù della similarità con i casi previsti, vi si possono far rientrare. Ciò che è consentaneo con la regolare attività interpretativa e non introduce nova nell’ordinamento. Quando invece la similarità tra fattispecie comporta il ricorso alla cd. analogia legis, vuol dire che quell’elemento o quegli elementi di similarità non autorizzano, evidentemente per la presenza di altri elementi irriducibili di dissimiglianza, quella sussunzione di casi simili sotto un’unica disposizione, sicché si dà luogo in realtà ad una vera e propria produzione di diritto per colmare i vuoti di legge. A differenza che nel caso precedente, qui gli ordinamenti spesso pongono delle precise restrizioni in taluni campi ritenuti insuscettivi di applicazione analogica, a tutela della tassatività delle fattispecie previste, come per esempio avviene in materia penale.

Qualcosa del genere riteniamo avvenga a proposito della causalità finale. Quando riflettiamo su di essa «come se» ciò che vale per noi valesse anche per la natura, ricorriamo all’analogia in un contesto in cui, non avendo a disposizione la verifica sperimentale di quel nexus finalis cui ricondurre i fenomeni, come invece può avvenire nel caso della causalità meccanica, non possiamo far altro che figurarcelo come esistente per e a partire dalla nostra esigenza di avere a disposizione «un principio in più» sotto cui riguardare le cose della natura. Sebbene dunque si voglia rintracciare una finalità oggettiva nei prodotti naturali, ciò può avvenire soltanto a mezzo della trasposizione in rerum natura della causalità finale che conosciamo perché è quella cui noi ricorriamo. Ecco perché, tenendo presente questa operazione di produzione di finalità, Kant non può spingersi fino al punto di voler spiegare con essa la natura, ma deve restare fermo alla sua sola osservabilità, alla sua sola pensabilità da un altro punto di vista, senza volere con questo introdurre chiavi esplicative di un qualcosa che non si può provare. Operazione lecita quella del ricorso all’analogia, ma problematica, perché nel caso di specie vale come denotato di un’attività intellettuale senza un effettivo riscontro fattuale.

  1. La quadratura del cerchio

La finalità oggettiva dev’essere tale da rendere «possibile il concetto dell’oggetto stesso», che deve essere «considerato come possibile soltanto relativamente a quest’uso»,16 all’uso, cioè, relativo alla finalità. Quest’asserzione, che compare all’inizio del § 62, che apre l’«Analitica del giudizio teleologico», chiarisce una volta di più il proprium del concetto di finalità oggettiva, al fine di tenere distinta la finalità oggettiva formale da quella materiale, argomento della trattazione kantiana.

Oggetto della finalità formale sono considerate le figure geometriche. Di esse Kant dice che sono soggette ad una finalità intellettuale oggettiva, che però non necessita della posizione di uno scopo come fondamento.

Per inquadrare il concetto di finalità formale, Kant prende a modello la figura del cerchio, ovvero «un’intuizione determinata dall’intelletto secondo un principio».17

Questo principio è quello secondo il quale noi costruiamo il cerchio in base a determinate regole, che l’intelletto adopera per determinare l’intuizione pura dello spazio, ovvero per la conoscenza immediata dell’oggetto — cerchio nello spazio. Ora, questo principio, che riduce ad unità le molteplici regole cui obbedisce la costruzione del cerchio, fa sì che esse rispondano a degli scopi, come la risoluzione di certi problemi geometrici, ma questi scopi non risultano necessari per la costruttibilità della figura geometrica. Perché? Perché quelle regole, che consentono il giudizio sulle proprietà per esempio del cerchio, non risultano dal concetto di cerchio, ma dalla costruzione della figura geometrica — cerchio nello spazio. E la costruzione della figura deve essere conforme all’intuizione pura dello spazio. I molteplici scopi che la figura geometrica — cerchio può assolvere derivano da questa costruttibilità dello spazio puro, ovvero da una sintesi tra concetto costruttivo e intuizione pura dello spazio. Gli scopi possibili della figura e le regole che vi sono collegate «esigono che l’oggetto sia dato nell’intuizione».18 Questa rappresentazione dello spazio risiede in noi ed è a priori: noi la possediamo indipendentemente dall’esperienza. Se avessimo bisogno dell’esperienza per poter dire qualcosa del cerchio, se dovessimo pensarlo come dato empirico, allora noi potremmo dedurne le proprietà e le regole a partire da un principio rinvenibile nel concetto dell’oggetto e dunque potremmo porre a fondamento di quel concetto una finalità. Ma è quello che facciamo? No, risponde Kant.

Possiamo dire che, se lo facessimo, ciò equivarrebbe a dire che i punti che costituiscono la linea curva che chiamiamo cerchio (inteso come oggetto empirico) configurano un tracciato consentaneo con la necessità di raggiungere un certo scopo.

Certo, parafrasando quello che Kant dice a proposito dell’ordine che riscontriamo nella realtà,19 noi potremmo costruire un giardino a forma di cerchio, ordinando lo spazio in modo circolare perché così il giardino realizzerebbe un qualche fine che noi ci siamo proposti e che non intravediamo finché il giardino non è realizzato, finché non esiste come giardino. Ma in questo caso, il nostro giardino circolare è appunto una cosa esistente. Abbiamo bisogno che la figura geometrica del cerchio venga disegnata su un foglio per figurarcelo? Abbiamo bisogno della sua esistenza per riscontrarne la finalità?

Se, come per Kant, la risposta è no, il cerchio è e rimane una nostra rappresentazione arbitraria a priori, che non necessita di alcuna materialità per poter essere concepita. Pertanto la sua finalità, come quella di ogni figura geometrica è da ritenersi solo formale. Il discorso di Kant può così approdare, grazie a questa prima delimitazione negativa di campo, al concetto di finalità oggettiva della natura in quanto finalità materiale, non prima però di averla ulteriormente distinta dalla finalità che egli chiama relativa o esterna.20 Quest’ultima implica una relazione di mezzi a fini, mentre la prima, finalità interna, è propria del prodotto naturale in quanto tale.

La finalità interna è quella per cui la causalità rinvenibile nel concetto dell’oggetto, e che lo fa essere quel che è, è determinata da un fine, come condizione di possibilità di un dato effetto in natura. La finalità esterna, invece, individua solo la convenienza o l’utilità di una cosa rispetto ad un’altra e non autorizza un giudizio teleologico, poiché, dovendo essere la cosa per se stessa scopo della natura, la semplice deduzione di un nesso eziologico non basta.

Dovremmo in tale ultimo caso sostenere che, data una serie di nessi causali, una data cosa, che per se stessa consideriamo fine della natura, venga ad esserlo già solo perché occupa una data posizione nella serie causale, come se la natura avesse avuto di mira proprio la realizzazione di quel dato effetto, tesi quantomeno avventata.

È nel § 64 che Kant comincia dunque a tratteggiare in positivo la fisionomia della finalità oggettiva propriamente detta. Scrive Kant:

Per comprendere che una cosa non è possibile se non come fine, vale a dire che la causalità della sua origine deve essere cercata non nel meccanismo della natura, ma in una causa il cui potere è determinato ad agire da concetti, è necessario che la sua forma non sia possibile secondo semplici leggi naturali, cioè tali che possono esser conosciute da noi col solo intelletto applicato agli oggetti dei sensi, ma che la sua conoscenza empirica stessa, circa la causa e l’effetto, presupponga concetti della ragione.21

La forma di qualcosa che non sia possibile se non in quanto fine è ciò che ne determina l’unità, il raccordo dei molteplici elementi che la compongono in chiave finalistica.

Le semplici leggi naturali ci danno, è vero, principi in base ai quali è possibile unificare la molteplicità fenomenica, e dunque conoscerla sub unitate.

Ma se ricerchiamo l’unità sotto cause finali, il ricorso alle leggi naturali, che sono un prodotto dell’intelletto, non può assisterci. L’intelletto comprende soltanto una consequenzialità meccanica delle cose della natura, che raccorda poi fornendone un quadro sistematico, unitario, approcciando i fenomeni naturali come soggetti a leggi che li spieghino sulla scorta di ripetute verifiche sperimentali. Le leggi della fisica si propongono di spiegarci il mondo com’è, ma che l’ordine riscontrato debba essere questo e non un altro non è un dato inoppugnabile: il mondo è per se contingente, necessaria vuole essere solo la spiegazione che ne diamo in base a leggi. È chiaro quindi, che da questo punto di vista, la causalità finale, cioè il chiedersi a che scopo una cosa è quella che è, esula dagli interessi di una fisica impegnata a ricostruire i nexus effectivi della natura.

Ma allora chi può occuparsi dei nexus finales?

La ragione. Perché soltanto la ragione, in quanto facoltà di agire secondo fini, secondo una volontà, può rappresentarsi l’oggetto come possibile solo secondo fini. Oggetto della volontà è quanto, esistendo, determina una rappresentazione finale secondo ragione.

Se, osserva Kant, un giorno ci trovassimo di fronte ad un esagono regolare disegnato sulla sabbia, tentando di farcene un concetto, non potremmo ricorrere a cause naturali agenti a caso, né a leggi naturali, perché saremmo costretti a riconoscere che quanto vediamo è frutto di pura contingenza e che non c’è modo di spiegarcelo. Solo attraverso la ragione potremmo farci una qualche idea della «unità del principio con cui fu prodotta».22 Ciò che vediamo può essere considerato solo da una prospettiva finalistica, anche se non come fine naturale, bensì come prodotto dell’arte.

In quanto fine naturale, l’oggetto dovrebbe contenere in se stesso il fine, mentre in un prodotto dell’arte il fine è quello che si propone l’artefice.

Questo è un punto molto importante.

Di là dallo sforzo notevole che Kant compie per indagare la struttura dei prodotti naturali, che nel § 65 chiama esseri organizzati (relazione causale ascendente e discendente al contempo, relazione parti — tutto, le parti come causa ed effetto della loro forma e altre caratterizzazioni che Kant fornirà nel prosieguo della trattazione), e che meriterebbe una trattazione a parte, quello che ci interessa qui è questo: sebbene Kant abbia cura di distinguere un prodotto naturale da un prodotto dell’arte, perché solo il primo è fine in sé, mentre il secondo necessita di concetti di essere ragionevoli esterni, si ritrova poi a dover ricorrere, per orientare l’investigazione dei prodotti naturali ad una «lontana analogia con la nostra causalità secondo fini in generale»,23 di cui il prodotto dell’arte non è che un’estrinsecazione. Lontana analogia che comunque non risulta soddisfacente.

Kant scrive: «Si dice assai poco della natura e della facoltà che essa dimostra nei prodotti organizzati, quando questa si chiama un analogo dell’arte (spaziato nel testo); perché allora si pensa l’artista (un essere ragionevole) fuori di essa».24 Né d’altronde possiamo pensare la natura come un analogo della vita (spaziato nel testo): dovremmo concepire la materia come un essere vivente, oppure dotarla di un’anima. La prima ipotesi (l’ilozoismo), «ripugna alla sua essenza».25 La seconda richiederebbe o la presenza di un’ anima mundi che governi la natura, e con ciò non ce la spiegheremmo, o di un’anima che produce artatamente la natura e allora non si saprebbe più cosa far fare alla natura.

Ergo? Qui Kant fa un’affermazione che deve essergli costata moltissimo:

l’organizzazione della natura non ha dunque alcuna analogia con qualche causalità che noi conosciamo.26

Un’affermazione lapidaria, che subito Kant cerca di stemperare in nota, stabilendo un’analogia con il corpo organizzato dello Stato, «perché in un tutto come questo ogni membro dev’essere non soltanto mezzo, ma anche scopo»,27 ma che non cancella il fatto che la proprietà della natura, in quanto «si organizza da sé», resta «impenetrabile».28

Rimane soltanto la possibilità di considerare le cose, in quanto fini naturali, come oggetto del Giudizio riflettente, che dirige la nostra ricerca su questi oggetti che non pertengono a concetti costitutivi dell’intelletto o della ragione, ma solo a principi regolativi di quel Giudizio. E quella «lontana analogia con la nostra causalità secondo fini in generale» è tutto ciò di cui disponiamo per orientare la nostra riflessione.

Riflessione che non spiega la natura, non ce la fa conoscere, e che si rifà ad una causalità finale che vale per noi e per la natura solo analogicamente, il che vuol dire che la risposta alla domanda «a che scopo? », quando si riferisce agli esseri organizzati è destinata a rimanere stricto sensu senza risposta e che se ci sono vantaggi da trarre da questa riflessione, questi sono per «la facoltà pratica della ragione con la quale analogicamente consideriamo la causa di quella finalità»,29 quanto a dire che il discorso sulla finalità oggettiva importa addirittura uno slittamento verso ciò a cui viene comparato piuttosto che verso ciò che lo caratterizza in proprio.

In questo passaggio, il tema della finalità oggettiva svela tutta la sua problematicità.

3. Dall’oggetto giudicato al soggetto giudicante

All’inizio del § 66 Kant enuncia il principio in base al quale giudicare gli essere organizzati e nel contempo la loro definizione: «è un prodotto organizzato della natura quello in cui tutto è reciprocamente scopo e mezzo. Nulla in esso è vano, senza scopo, o da attribuirsi ad un cieco meccanismo della natura».30

Questo principio, afferma Kant, noi lo deriviamo dall’esperienza, dall’osservazione della natura. Ma l’osservazione dei casi particolari non ci fornisce l’universalità di cui abbiamo bisogno per formulare quel principio. Dunque dobbiamo ricorrere ad un principio a priori, sebbene solo regolativo, data la sua afferenza al Giudizio riflettente, che è quello che regola la nostra indagine in questo contesto.

In tal modo, prosegue Kant, noi ammettiamo «che quei fini risiedano soltanto nell’idea di colui che giudica e non in qualche causa efficiente».31 In tale ultimo caso ammetteremmo infatti una causa che produce l’oggetto, come avviene nel caso del prodotto dell’arte.

Dunque il fine dell’oggetto giudicato non appartiene all’oggetto stesso, ma è un’idea presente nel soggetto giudicante. E l’idea è «un’assoluta unità di rappresentazione», cioè presiede ad una unità incondizionata, laddove la materia è molteplice e condizionata. Ciò rende l’idea atta a servire come principio a priori che determini una legge naturale della causalità e a porsi al di là dell’esperienza sensibile come fondamento soprasensibile del tutto di cui si compone il prodotto.

L’idea determina a priori le parti del composto come un tutto, sebbene non come causa del composto, perché quest’ultimo non è un artefatto, ma come fondamento per il giudicante. Giudicante che attraverso questo processo di unificazione del molteplice nell’idea, è in grado di guardare al prodotto naturale come a un tutto in cui nulla è vano.

Nel riflettere sugli esseri organizzati ci ritroviamo quindi, ancora una volta, in una situazione in cui l’oggetto da esaminare ci sfugge. Quando, per poter investigare la natura, ci siamo serviti dell’analogia con la causalità secondo fini in generale, che è l’unica da noi conosciuta che possa lontanamente avvicinarsi alla causalità finale che vogliamo ravvisare negli oggetti, ragionando come se quanto ci riguarda come soggetti dotati di volontà fosse concepibile analogicamente anche per le cose della natura, ammettevamo tale ricorso all’analogia in virtù dell’inesplicabilità della natura, la cui finalità oggettiva era, in ultima analisi, una nostra esigenza e non qualcosa di coglibile oggettivamente. Qui accade qualcosa di simile. Anche andando alla ricerca di un fondamento di questa finalità oggettiva, dobbiamo ricorrere a qualcosa che è in noi, ma che riferiamo alla natura fuori di noi. E in un contesto del genere, il porre l’idea non come causa del composto, per separare la produzione naturale dalla produzione di un oggetto dell’arte, intercetta il tentativo di Kant di cogliere l’inseità dei prodotti naturali senza ricorrere a schemi interpretativi che, valendo per noi, risultano insoddisfacenti per la natura. Ma se il problema del fondamento interessa la ragione, come quello dell’analogia, e se in quest’ultimo caso il ricorso al prodotto dell’arte dice poco ma dice, questo fondamento che riflette sulla relazione tutto — parti, non rifacendosi ad una qualche causalità da noi conosciuta, rischia di dire ancora meno.

Che si tratti del problema dell’analogia o di quello del fondamento, resta, ad ogni modo, che il fine dell’oggetto non gli appartiene in quanto ne sonda e ne identifica la natura, ma in quanto siamo noi a conferirglielo. Ancora una volta, l’oggetto qual è è frutto di una nostra rappresentazione. La problematicità della finalità oggettiva si rivela qui nel senso che quanto andiamo attribuendo alla natura proviene da noi. Cercando principi oggettivi in questo campo finiamo inevitabilmente per assistere ad uno slittamento verso rappresentazioni soggettive.

Ciò che otteniamo dal principio per cui nulla è vano «è un principio inerente alla ragione solo soggettivamente»:32 parole di Kant.

Da notare che la finalità formale come cifra della finalità oggettiva era stata scartata perché prescindeva dall’esperienza, mentre la ricerca di un fondamento per riflettere sull’esperienza viene cercato fuori e a prescindere da essa.

Se poi ci sia una intenzionalità della natura, per cui tutto esiste, in definitiva, per l’uomo, dalla causalità secondo fini, anzi dalla natura tutta come sistema di fini, non lo si può dedurre, perché equivarrebbe ad attribuire alla natura ciò che noi al massimo possiamo conferirle per via analogica: questa ipotesi è destinata a rimanere una suggestione, magari feconda, ma pur sempre una suggestione.

4. Un principio interno della scienza della natura?

Nel § 68, che chiude l’«Analitica del giudizio teleologico», Kant si impegna a configurare la teleologia come principio interno della scienza della natura. Per fare ciò è necessario espungere dal sistema della scienza della natura quei lemmata, quei concetti o principi che se fossero introdotti ne farebbero altro da quello che deve essere.

Noi non possiamo, quindi, ricorrere all’idea di Dio per renderci spiegabile la natura in quanto finalisticamente orientata. Se lo facessimo, animati dal desiderio di fornire una risposta definitiva alla domanda «a che scopo rappresentarci una finalità nella natura? », finiremmo per dire o che siccome c’è un Dio esiste una finalità o che siccome c’è una finalità esiste un Dio. Ne deriverebbe un circolo vizioso che non renderebbe giustizia né alla teleologia né alla teologia. Per quanto si faccia ricorso ad un principio a priori per concepire unitariamente la natura come sistema di fini, noi non possiamo prescindere dall’esperienza, e il concetto di Dio non è adeguato ad alcuna esperienza.

Possiamo prescindere dall’esperienza, come quando ci occupiamo di geometria o delle connessione tra leggi naturali, ma se pretendessimo di investigare per il loro tramite la natura in quanto sistema di fini, dovremmo adottare considerazioni di natura metafisica, che non competono alla scienza della natura.

Allo stesso modo esula dall’indagine fisica, come abbiamo accennato, la circostanza se la natura agisca o meno con intenzione, o se lo faccia una causa soprannaturale che ne governi la finalità.

Tuttavia si guarda alla natura come se agisse intenzionalmente. Ancora una volta Kant fa riferimento ad una «analogia con la causalità nostra nell’uso tecnico della ragione, affine di aver davanti agli occhi la regola con cui debbono essere studiati certi prodotti naturali».33

E questo perché la necessità di ricorrere ad una causalità finale «riguarda i nostri concetti e non la natura delle cose».34

Noi possiamo parlare di saggezza, preveggenza, intenzione della natura, ma tutto ciò riguarda il nostro modo di riflettere su un oggetto della natura, in analogia con il nostro modo di agire secondo fini. Ecco perché la teleologia non è una parte speciale della scienza teoretica della natura: essa non introduce un «principio particolare di causalità»35 (anche se, inizialmente Kant aveva detto esattamente l’opposto, così come aveva posto i fini non in noi ma nella natura: come se qui si rendesse conto, nonostante l’affermazione della finalità come principio interno della natura, che quella pretesa iniziale era troppo ambiziosa) ma fornisce solamente un’altra modalità investigativa alla ragione, sicché lo studio della natura rimane ancorato a ciò che può essere soggetto ad osservazione e ad esperimenti, senza che ciò possa riguardare la finalità interna della natura, mentre, d’altro canto, la finalità esterna non può essere oggetto della fisica in quanto afferente al meccanismo dei fenomeni naturali. La finalità oggettiva della natura viene così ad essere solo una risorsa in più a vantaggio del Giudizio riflettente per compensare, nella ricerca empirica, le lacune delle leggi meccaniche.

Se la finalità oggettiva è un principio interno della scienza della natura, essa incontra il limite invalicabile per cui l’investigazione della stessa riempie di contenuto i concetti che ce ne facciamo, ma non ne svela l’essenza finalistica. Questa rimane per noi impenetrabile.

Il discorso kantiano sulla teleologia delinea il quadro composito di un prodotto intellettuale di notevole livello. Ma la sua problematicità, che qui abbiamo cercato di evidenziare, condurrà ad esiti tali che quella proprietà impenetrabile della natura non solo non verrà spiegata, ma al contrario se ne prescinderà. La teoria evolutiva di Darwin sconfesserà il disegno kantiano non ammettendo finalità o intenzionalità di sorta, ma solo processi casuali che hanno favorito geneticamente certi esseri e non altri. Il meccanismo che Kant voleva addirittura subordinato alla finalità, diventerà il protagonista indiscusso di un tempo in cui la scienza poté accettare il caso come cifra dei processi naturali.


  1. Immanuel Kant, Critica del Giudizio, trad. it. di A. Gargiulo, Laterza, Bari, 1972, p. 225. ↩︎

  2. Ibidem↩︎

  3. Ibidem↩︎

  4. Ibidem↩︎

  5. Ibidem↩︎

  6. Ibidem↩︎

  7. Ibidem↩︎

  8. Ivi, p. 226. ↩︎

  9. Ibidem↩︎

  10. Immanuel Kant, Critica del Giudizio, cit., p. 225. ↩︎

  11. Immanuel Kant, Critica del Giudizio, cit., § 61, p. 226. ↩︎

  12. Ibidem↩︎

  13. Ibidem↩︎

  14. Ibidem↩︎

  15. Ibidem↩︎

  16. Immanuel Kant, «Analitica del giudizio teleologico», § 62, in Idem, Critica del Giudizio, cit., p. 229. ↩︎

  17. Ibidem↩︎

  18. Immanuel Kant, «Analitica del giudizio teleologico», § 62, cit., p. 232. ↩︎

  19. Ivi, p. 231. ↩︎

  20. Immanuel Kant, «Analitica del giudizio teleologico», cit., § 63 , p. 234-237. ↩︎

  21. Immanuel Kant, «Analitica del giudizio teleologico», cit., § 64 , p. 237. ↩︎

  22. Ivi, p. 238. ↩︎

  23. Immanuel Kant, «Analitica del giudizio teleologico», cit., § 65 , p. 243. ↩︎

  24. Ibidem↩︎

  25. Ibidem↩︎

  26. Ibidem↩︎

  27. Immanuel Kant, «Analitica del giudizio teleologico», cit., § 65 , p. 243, n. 1. ↩︎

  28. Ibidem↩︎

  29. Ivi, p. 244. ↩︎

  30. Immanuel Kant, «Analitica del giudizio teleologico», cit., § 66 , p. 245. ↩︎

  31. Ibidem↩︎

  32. Immanuel Kant, «Analitica del giudizio teleologico», cit., § 66 , p. 248. ↩︎

  33. Immanuel Kant, «Analitica del giudizio teleologico», cit., § 68 , p. 253. ↩︎

  34. Ivi, p. 254. ↩︎

  35. Ivi, p. 253. ↩︎