I limiti del sapere: metafisica e ragion pratica in Kant

Com’è noto, la questione dei «limiti del sapere» caratterizza l’intera articolazione concettuale della Critica della ragion pura e costituisce il centro argomentativo della «critica» di Kant alla metafisica tradizionale. Il nesso che sussiste in Kant tra i limiti della conoscenza teoretica e la possibilità della vita morale dell’uomo è stato spesso rilevato e discusso; il «primato della ragion pratica» come espressione di un orientamento filosofico di fondo e di una metafisica rinnovata nelle sue sorgenti di validità, è diventato una sorta di luogo comune dell’ermeneutica kantiana. Meno chiaro ci sembra, tuttavia, il significato che si deve attribuire a questa «trasformazione pratica» dei concetti fondamentali della metafisica (Dio, immortalità, libertà), nel passaggio dalla Critica della ragion pura alla Critica della ragion pratica e, più specificamente, dalle idee trascendentali teoretiche ai postulati della ragion pratica. Se il passaggio dalla sfera teoretica a quella pratica non può essere interpretato in senso stretto come un «superamento» dei limiti posti chiaramente da Kant nella Critica della ragion pura, il punto di vista della finitezza umana risulta confermato anche sul terreno della ragion pratica, ed appare in relazione fondativa con la stessa dignità dell’uomo come essere morale. Qui possiamo ovviamente evidenziare soltanto i contorni essenziali della problematica, attraverso il confronto con i testi kantiani che maggiormente chiariscono la natura del nesso indicato; a considerazioni generali sull’origine dell’esigenza metafisica nell’interna dinamica della ragione umana e sulla dissociazione dell’ulteriorità noumenica dal sapere, seguirà un’analisi della dottrina dei «postulati» come ri-configurazione (non teoretica) dei concetti fondamentali della metafisica, e una discussione critica del celebre «primato». Dopo aver delineato l’intreccio problematico tra legge, libertà e fede morale, si cercherà di trarne alcune conclusioni sulla «metafisica» di Kant, che aprono ad una «filosofia positiva del finito» e meritano tuttora di essere elaborate ed approfondite.

1. Il particolare destino della ragione umana

Per Kant l’unità dell’uomo è l’unità della ragione. Ciò sembra implicare, dal punto di vista del metodo, un primato del «dover essere» sull’«essere», della normatività della ragione sulla fattualità dell’esistenza umana quale si manifesta, per dirla con Heidegger, «innanzitutto e per lo più»: in altre parole, non è il fatto che dà la misura della validità, ma è la ragione stessa che deve commisurare i fatti a quella validità universale e necessaria che può derivare unicamente dalle proprie esigenze interne. L’io trascendentale, com’è noto, non è l’uomo empirico, preso nella concrezione del quotidiano, o nella mutevole fisionomia psicologica dei suoi atti; l’«astrattezza» del soggetto kantiano è stata fin troppo sottolineata e criticata. Tuttavia, questa innegabile direzione del pensiero di Kant non deve essere fraintesa; infatti, l’unità della ragione è pur sempre l’unità dell’uomo, e dunque sottolineare la razionalità dell’uomo equivale per Kant ad insistere sulla umanità della ragione, sulla finitezza della condizione umana, sulla ragione umana come ragione finita. Questa rigorosa «tessitura» tra ragione e limite, conoscenza e finitezza, esigenza di unità sistematica e consapevolezza del carattere aperto e precario di ogni ricerca umana, è forse l’eredità più preziosa del filosofo di Königsberg e certamente un nucleo di perdurante vitalità del suo pensiero.

Il tema dell’unità della ragione umana nelle sue differenti forme caratterizza la filosofia kantiana nel suo complesso,1 ma qui ci interessa soprattutto ravvisare che nella definizione dell’unità della ragione (come unità dell’uomo) un contributo essenziale viene assegnato da Kant alla metafisica. A tale proposito, possiamo prendere le mosse dall’affermazione paradossale, ma rivelativa, con cui si apre la prefazione della Critica della ragion pura (nell’edizione del 1781):

In una specie delle sue conoscenze la ragione umana ha il particolare destino di essere tormentata da problemi che non può scansare, perché le sono imposti dalla sua stessa natura, ma ai quali tuttavia non è in grado di dar soluzione, perché oltrepassano ogni suo potere.2

Questo celebre incipit esprime tutta l’ambiguità della posizione di Kant nei confronti della metafisica, che si è puntualmente riflessa nell’ermeneutica kantiana dando luogo a valutazioni molto contrastanti. Se Kant ha potuto essere considerato non del tutto a torto un «distruttore» della metafisica, che ne avrebbe minato le stesse basi cognitive, mostrando l’impossibilità di un qualunque sapere oltrepassante la sfera positiva dei fenomeni, dell’esperienza, per altro verso l’insistenza sulla metafisica come «destino» della ragione umana, dunque come struttura profonda e ineliminabile dell’uomo, ha alimentato le più diverse correnti idealistiche e spiritualistiche. Ma anziché limitarci a scorgere nell’affermazione kantiana i germi di sviluppo del pensiero metafisico (o antimetafisico) successivo, ci pare più produttivo osservare come qui sia in atto un tentativo di «ridefinire altrimenti» la questione della metafisica; più precisamente, Kant descrive la metafisica come problema e paradosso.

Innanzitutto la metafisica emerge nella sua dimensione autentica e originaria di problema. Dire infatti che la metafisica è un «destino» cui la ragione umana non può sottrarsi, perché spinta da un’esigenza fondamentale della sua natura, equivale ad affermare che nel movimento stesso della ragione umana non può non affacciarsi, ad un certo livello dell’indagine, la domanda metafisica, e gli «oggetti» del tutto peculiari che a tale domanda corrispondono (nel caso di Kant si tratta, com’è noto, delle «idee» di Dio, anima, mondo). I grandi problemi della metafisica (l’esistenza di Dio, l’immortalità dell’anima, la libertà del volere come indipendenza del soggetto umano dalla serie delle cause fisiche)3 non sono pseudo-problemi, sollevati in modo arbitrario da una ragione che infrange le regole del buon uso del linguaggio e così esce da se stessa, trovandosi irretita nel non-senso, nel vuoto logico e semantico. Sono problemi genuini e addirittura necessari, che perciò non scompaiono dopo un’adeguata terapia linguistica, ma si ripropongono inevitabilmente ogni volta che la ragione risale, nel movimento di giustificazione dei suoi dati, di condizione in condizione, fino a prospettare un «incondizionato», un fondamento assoluto dei fenomeni. La ricerca dell’assoluto, dell’incondizionato, è inscritta per così dire nel codice genetico e generativo della ragione umana, è prescritta dalla stessa unità e coerenza delle sue operazioni. Per Kant vi è dunque non tanto una metafisica perenne, ma una perennità del problema metafisico. Ciò però vuol dire che i problemi fondamentali della metafisica (almeno quelli che Kant riteneva tali) sono saldamente ancorati alla dimensione del senso, alla richiesta di un significato globale della ricerca umana, piuttosto che scaturire come meri rumori di fondo dalla paralisi logica del discorso. Se, quindi, è corretto identificare in Kant un critico radicale della metafisica,4 la cui lezione può ancora oggi essere fatta valere contro certi eccessi speculativi del linguaggio filosofico, occorre altrettanto prendere atto che egli è stato uno dei pensatori che più nettamente hanno sottolineato la necessità (e, a fortiori, la sensatezza) del problema metafisico, o meglio della metafisica come problema.

Per quanto la Critica della ragion pura possa contenere precise istanze antimetafisiche (riserve profonde contro un certo modo dogmatico di interpretare l’esigenza metafisica della ragione umana), la metafisica non può essere messa da parte come un abito vecchio, o un oscuro sedimento di epoche passate; anche qualora la critica accertasse apoditticamente l’impossibilità di qualsiasi metafisica come sapere, da porre accanto o contrapporre alla conoscenza scientifica, rimarrebbe pur sempre intatta la metafisica come esigenza, come apertura (problematica) della ragione sull’assoluto: quasi che un’eterna «nostalgia» di assolutezza, rettamente intesa, potesse costituire il sigillo razionale dell’uomo. Nei Prolegomeni ad ogni metafisica futura, un saggio pensato e scritto per chiarire i punti più difficili della Critica della ragion pura e dedicato espressamente ad un’analisi delle possibilità effettive del discorso metafisico, Kant parla addirittura di una «legge irresistibile della necessità»5 all’opera nella genesi della metafisica, e in questa ottica si serve di una metafora che è senz’altro tra le sue più note e riuscite: pretendere che l’uomo giunga un giorno a disinteressarsi completamente della metafisica, cessando anche solo di porsi quelle domande radicali che dalla metafisica traggono origine, è come pretendere che smetta di respirare, poiché esse danno espressione e concretezza ad un bisogno fondamentale dello spirito. Conviene leggere direttamente l’intero passaggio:

Che lo spirito umano rinunci un giorno ad ogni ricerca metafisica è così poco da attendersi come che, per non respirare sempre un’aria impura, noi preferissimo un giorno di astenerci affatto dal respirare. La metafisica vivrà quindi sempre nel mondo, anzi meglio, vivrà sempre in ogni uomo, specialmente in ogni uomo capace di riflettere: ciascuno in mancanza di un criterio comune se ne costituirà uno alla sua maniera. Ora ciò che è stato finora chiamato metafisica non può soddisfare nessuno spirito critico: pure il rinunciarvi del tutto è impossibile, dovrà quindi bene essere tentata una critica della ragion pura medesima o, se già esiste, esser presa in esame e sottoposta all’universale giudizio, dal momento che non vi è altro mezzo di dare soddisfazione a questo urgente bisogno, che è qualcosa di ben più profondo che un semplice desiderio di sapere.6

In altri termini, e per utilizzare un linguaggio più vicino a noi, il discorso metafisico necessita di critica, ma non di terapia, di limitazioni, ma non di cure.

Veniamo ora al secondo aspetto cui avevamo accennato leggendo l’incipit della Critica della ragion pura: la metafisica non è soltanto problema, è anche paradosso. In verità, i due aspetti sono qui strettamente connessi, e si può anzi dire che la metafisica conserva tanto più fecondamente la propria natura di «problema» (sui generis) quanto più radicalmente sa mantenersi fedele al suo statuto «paradossale» e, per così dire, «aporetico». Si potrebbe parlare di «problema paradossale», partendo dal presupposto che ogni problema dovrebbe avere una soluzione; infatti, come abbiamo già visto, per Kant la ragione umana non è in grado di dare soluzione ad alcune domande che essa stessa suscita, che nascono interamente da lei, che esprimono in un certo senso la sua natura, e che pertanto essa non può non formulare sempre di nuovo, in virtù di quella «legge irresistibile della necessità» che riflette la nostra immutabile destinazione razionale. Anzi, Kant dice che questi problemi, i problemi metafisici, non solo sorgono nel cuore della ragione, ma la «tormentano» come un rovello continuo, senza che essa possa acquietarsi in una vera e propria soluzione, che sarebbe però anche la fine della sua ricerca, l’estinguersi della sua nostalgia. La ragione è assediata dalla domanda metafisica, non perché incapace di fronteggiare una forza estranea che preme ai suoi confini, ma perché abitata da una «differenza» tra esigenze naturali, come tali inevitabili nel loro prodursi, e i poteri limitati di cui dispone, che non le consentono di dare piena soddisfazione a queste esigenze. Ciò ha naturalmente risvolti esistenziali che Kant puntualmente sottolinea quando parla della metafisica e che si inscrivono in una riflessione più generale sulla finitezza umana.

Che vi siano domande razionali, dunque legittime, giustificate e addirittura necessarie, cui però la stessa ragione teoretica che le solleva non può rispondere in maniera soddisfacente, perché sprovvista degli strumenti o delle «pietre di paragone» per il giudizio nell’ambito di tali questioni, è un elemento importante e profondamente attuale della teoria kantiana della ragione. Le conseguenze, in larga misura ancora da pensare, sul terreno della logica e dell’ontologia sono per alcuni aspetti in linea con una tendenza oggi prevalente in molti campi del sapere: quella che connette ai poteri della ragione umana, in ogni sfera del loro esercizio, precisi teoremi di limitazione. Sembra che in alcuni passaggi cruciali della Critica della ragion pura (segnatamente nella Dialettica trascendentale) Kant abbia sviluppato un argomento che, nel linguaggio formale contemporaneo, potrebbe essere schematizzato come segue: la ragione non può essere «consistente» senza essere «incompleta». In termini assai semplificati, ciò significa che l’esistenza per la ragione di problemi indecidibili (teoreticamente) non è solo una limitazione spiacevole cui dobbiamo sottostare nostro malgrado, ma è condizione di possibilità dell’esistenza di problemi invece decidibili (se non di fatto, almeno in linea di principio), e come tali oggetto di sapere e di scienza. Inoltre, come vedremo più avanti, nel caso di Kant l’incompletezza della ragione sul piano teoretico si riverbera positivamente sul piano pratico, fondando la possibilità dell’impegno morale dell’uomo. Il «particolare destino» della ragione umana, di essere costantemente alle prese con il paradosso metafisico, di rimanere quindi «incompleta» pur aspirando alla completezza, si scopre un vantaggio considerevole per l’etica.

2. L’isola e l’oceano: ulteriorità come non-sapere

Finora abbiamo parlato di «ragione umana» in senso generico, e abbiamo riconosciuto in essa una tensione o «destinazione» metafisica, ma prima di confrontarci nuovamente con il testo kantiano non ci sembrano inopportune alcune precisazioni. In Kant il termine «ragione» è usato sia per indicare la natura razionale dell’uomo nel suo complesso (che si compone di diverse facoltà, concetti, principi, ecc.), sia in un senso più tecnico (per intenderci, quello più ricorrente nella Dialettica trascendentale7); quest’ultimo fa riferimento ad una facoltà autonoma, che ha come proprio «oggetto» (problematico) la totalità assoluta delle condizioni, nelle forme differenti che essa può assumere. Se l’intelletto (Verstand), come «facoltà delle regole», è diretto alla determinazione dell’oggetto nel giudizio, la ragione (Vernunft), come «facoltà dei principi», si spinge per intrinseca necessità al di là delle regole del giudizio determinante; in altre parole, la ragione non si limita a «determinare» un oggetto empirico, conoscendolo attraverso le categorie, ma risale da un oggetto all’altro, da una condizione all’altra, attraverso sintesi sempre più ampie, «puntando» verso un incondizionato che sarebbe all’origine o a fondamento di tutte le condizioni.

Si potrebbe parlare, certo con estrema cautela, di due «logiche» che presiedono alle operazioni rispettive di intelletto e ragione nell’uomo: «logica della determinazione» nel primo caso, «logica del sistema» nel secondo. Mentre infatti l’intelletto mira soprattutto a de-terminare e de-finire, e perciò deve operare sempre nell’ambito del condizionato, unica garanzia di possibilità di conoscenza, la ragione persegue un interesse marcatamente interconnettivo e ampliativo, cerca cioè di organizzare i dati dell’esperienza nella forma della completezza sistematica, e dunque, anziché fermarsi al condizionato o ad una sequenza finita di condizioni, deve percorrere l’intera serie delle condizioni, fino all’incondizionato. Naturalmente, le due «logiche» obbediscono a imperativi diversi, ma ciò non significa che non vi sia relazione tra le facoltà; infatti, la ragione cerca di portare ad unificazione sistematica le operazioni dell’intelletto stesso, compiendo una sorta di «passaggio al limite» che le proietta al di là del loro campo di applicazione più proprio. L’«oggetto» che la ragione si configura in questo «passaggio al limite» è ciò che Kant chiama una idea trascendentale:

L’idea è per me un concetto necessario della ragione, a cui non può esser dato alcun oggetto congruente nei sensi. I concetti razionali puri […] sono pertanto idee trascendentali. Si tratta di concetti della ragion pura in quanto considerano ogni conoscenza d’esperienza come determinata da una totalità assoluta di condizioni. Essi non sono il prodotto di escogitazioni arbitrarie, ma traggono origine dalla natura della stessa ragione e si riferiscono pertanto all’intero uso dell’intelletto. Da ultimo, essi sono trascendenti e varcano i confini di ogni esperienza, nel cui ambito quindi non è possibile che si riscontri un oggetto adeguato all’idea trascendentale.8

Com’è noto, anche sulla base di considerazioni di tipo «architettonico» sulle quali si è molto discusso, Kant ritiene che le idee della ragione siano soltanto di tre specie, e precisamente si tratta qui di tre concetti di totalità assoluta (Dio, anima, mondo),9 che nella tradizione prekantiana costituivano gli oggetti della teologia, psicologia, cosmologia razionali come rami della metafisica speciale:

Tutti i concetti puri, in generale, hanno a che fare con l’unità sintetica delle rappresentazioni, a differenza dei concetti della ragion pura (idee trascendentali) i quali hanno a che fare con l’unità sintetica incondizionata di tutte le condizioni in generale. Ne viene che tutte le idee trascendentali si possono ricondurre a tre classi: la prima contiene l’unità assoluta (incondizionata) del soggetto pensante [idea dell’anima]; la seconda contiene l’unità assoluta della serie delle condizioni del fenomeno [idea del mondo]; la terza contiene l’unità assoluta della condizione di tutti gli oggetti del pensiero in generale [idea di Dio].10

Il dinamismo unificante del pensiero non può non articolarsi secondo questa triplice direzione intenzionale, non può non «proiettare» un’unità assoluta (incondizionata) a fondamento rispettivamente dell’io come soggetto pensante, della serie dei fenomeni esterni, e di tutti gli oggetti pensabili in generale. Dio, anima e mondo, così concepiti, non sono perciò mere congiunture della ragione umana la cui genesi e funzionalità possa essere chiarita su un piano prevalentemente storico-culturale, come se fosse davvero ipotizzabile un futuro in cui la ragione potrebbe prescinderne del tutto senza recare danno alla propria esigenza di unità. Al contrario, per Kant, una «giustificazione» delle idee trascendentali della ragione non è possibile mostrando che di fatto gli uomini hanno pensato e pensano entità metafisiche come Dio, anima e mondo, ma occorre invece argomentare che la ragione stessa ha bisogno, ed avrà sempre bisogno, di queste idee per pensare il proprio compimento sistematico. La ragione si «prospetta» queste idee, le «proietta» per così dire nel suo campo visivo, per poter dare a se stessa la struttura del sistema. Se dobbiamo pensare l’incondizionato (nelle tre idee trascendentali che abbiamo visto), è perché l’incondizionato, l’assoluto è il compimento della ragione. Questo concetto è bene espresso ne I progressi della metafisica, un breve saggio del 1793 in cui Kant scrive:

Le condizioni sintetiche (principia) della possibilità delle cose, cioè i loro principi di determinazione (principia essendi), qui sono ricercate precisamente nella totalità della serie ascendente in cui sono subordinate tra loro, a partire dal condizionato (dai principiatis), per giungere all’incondizionato (principium quod non est principiatum). La ragione richiede ciò per compiersi in se stessa.11

Dal condizionato, lungo la serie delle condizioni, all’incondizionato: ecco come «procede» la ragione umana, ed ecco il motivo per cui Kant ritiene che la metafisica ne costituisca un tratto essenziale, o meglio una necessità immanente. La ragione non può pensarsi come «completa» se non pensa la totalità assoluta delle condizioni, se non ascende di condizione in condizione verso l’incondizionato; ma l’«incondizionato», come principio assoluto della serie, rimane del tutto eterogeneo rispetto ai membri della serie stessa. Ecco perché le idee della metafisica non sono «escogitazioni arbitrarie», bensì concetti necessari nell’ambito della critica della ragione, e l’assoluto funge sempre in qualche misura da sfondo e orizzonte nella comprensione del finito.

L’idea trascendentale è per Kant una sorta di esibizione della ragione umana nella sua struttura profonda, e ciò è sufficiente per poter parlare di una necessità della metafisica in quanto problema, secondo le direzioni specifiche che abbiamo illustrato. Ma notoriamente Kant è anche colui che ha dichiarato impossibile, se non la metafisica tout-court, almeno una certa configurazione di essa, attirandosi fino ai nostri giorni elogi e critiche per tale verdetto. Se ci limitiamo all’ambito della ragione teoretica, quello preso in considerazione nella Critica della ragion pura, non ci pare azzardato affermare che Kant attribuisce alla metafisica una natura paradossale per cui essa rappresenta, per la ragione umana, una necessità impossibile. Abbiamo già detto che la ragione umana si pone problemi che non può risolvere con le sue forze e dei quali, tuttavia, non può nemmeno sbarazzarsi. L’ambiguità inizia a dissiparsi non appena distinguiamo, con Kant, la metafisica come esigenza dalla metafisica come sapere: correlativamente, la metafisica appare necessaria e naturale come esigenza, ma impossibile e inconfigurabile come sapere. Qui naturalmente stiamo parlando della metafisica in quanto dottrina delle idee della ragione, e sotto questo aspetto Kant vede aprirsi una frattura incolmabile tra l’esigenza della ragione di pervenire all’incondizionato attraverso le idee trascendentali e la pretesa di esprimere l’incondizionato stesso nella forma del giudizio determinante (e quindi della scienza vera e propria).

Le motivazioni vanno ricercate negli asserti di base della teoria della conoscenza di Kant: il conoscere (umano) si muove sempre nell’ambito di condizioni che ne definiscono la possibilità e l’estensione, e tra di esse figura l’intuizione spazio-temporale come unica garanzia di applicabilità delle forme categoriali in senso cognitivo ed epistemico. La critica kantiana della metafisica poggia su una concezione interamente positiva (e tuttavia non dogmatica) della facoltà sensibile dell’uomo; l’io umano si distingue da un problematico «intelletto infinito» proprio in quanto la sensibilità è per lui condizione della conoscenza.12 Dire che la conoscenza umana è ricettiva e dunque finita, non è conoscenza divina, per Kant non significa tanto che la vera realtà della cose ci si sottrae, bensì, più positivamente, che tutto ciò che per noi può valere come «realtà» (conosciuta) deve sempre avere un riferimento, diretto o indiretto, alla pura struttura della sensibilità. Quest’ultima non è uno schermo che ci separa dalle «cose in sé»; al contrario, come Heidegger ha acutamente rilevato nel suo Kantbuch, spazio e tempo costituiscono la «dimensione di apertura» dell’io all’interno della quale soltanto qualcosa può apparire come «dato» ed offrirsi alla categorizzazione, alla determinazione conoscitiva.13 Va allora da sé che dell’«incondizionato» espresso nelle idee della ragione non può esserci vera conoscenza, mancando quel referente sensibile che solo si adegua alle possibilità di un essere razionale finito.

Il nodo della questione è nel singolare statuto dell’idea trascendentale, che rimane polo o termine dell’intenzionalità della ragione pur non essendo propriamente un «oggetto». Kant sottolinea, nelle pagine della Dialettica trascendentale, come l’idea sia «incongruente» rispetto a qualunque fenomeno, eppure la tendenza ad oggettivarla in un contenuto di cui disporre direttamente nel conoscere è per noi quasi irresisistibile, perché radicata in una illusione naturale. E come non è possibile far sì che il mare in lontananza non appaia più alto rispetto all’osservatore che si trova sulla riva, anche dopo che si è svelata la radice dell’illusione, la «parvenza» (Schein) di un uso speculativo delle idee non può essere ridotta ad un banale errore logico.14 Scrive infatti Kant:

Esiste dunque una dialettica naturale e inevitabile della ragione pura; non dunque una dialettica in cui si irretisca, per incompetenza, un improvvisatore, o che sia il frutto delle artificiose elucubrazioni di un sofista per trarre in inganno le persone di buon senso; si tratta invece di una dialettica inscindibilmente connessa con l’umana ragione, sicché, anche dopo il chiarimento della sua infondatezza, non cesserà per questo di sedurre la nostra ragione, traendola continuamente in errori momentanei, che dovranno venir sempre nuovamente rimossi.15

La ragione pensa più di quanto possa conoscere con l’intelletto, e dunque occorre sempre un vigile senso critico che distingua accuratamente ciò che si offre al sapere e ciò che, nonostante l’interesse naturale che suscita in noi, resta strutturalmente non-sapere. Se per oggetto in senso stretto Kant intende il risultato di una sintesi cognitiva in cui un molteplice sensibile viene unificato da un concetto puro dell’intelletto, nel caso dell’idea trascendentale siamo di fronte ad un «oggetto» del tutto peculiare, un «oggetto inoggettivabile», almeno nella misura in cui l’intelletto non può affatto indicarne un esempio corrispondente nell’esperienza:

Si può affermare che l’oggetto di una semplice idea trascendentale sia qualcosa di cui non si ha alcun concetto, benché tale idea sia stata prodotta dalla ragione in modo del tutto necessario, in base alle proprie leggi originarie. Infatti, in realtà, di un oggetto che debba risultare adeguato alle esigenze della ragione, non è possibile alcun concetto dell’intelletto, tale cioè da poter esser mostrato e reso intuibile in un’esperienza possibile. Ci si esprimerebbe però meglio, e con minor pericolo di fraintendimenti, se dicessimo che non ci è possibile avere conoscenza alcuna di un oggetto corrispondente a un’idea benché sia possibile averne un concetto problematico.16

L’impossibilità di rispecchiarsi sul terreno dell’esperienza attraverso un esempio è quanto distingue un’idea della ragione da un concetto puro dell’intelletto. Ogni concetto intellettuale, pur sorgendo dal pensiero puro e non dall’esperienza, può essere riferito all’esperienza e di fatto acquista capacità conoscitiva solo restringendosi alle condizioni formali dell’intuizione, cioè «schematizzandosi». Nella Critica della ragion pura, la dottrina dello schematismo trascendentale è propriamente una fenomenologia del conoscere, in quanto analizza le categorie non più solo in relazione all’unità sintetica dell’appercezione (questo era il compito specifico della «deduzione trascendentale»), ma nella loro concreta possibilità di aderire alla dimensione della temporalità. La schematizzazione è una «temporalizzazione», un libero legarsi dell’intelletto al tempo secondo figure universali e necessarie, e ciò permette al concetto puro di incarnarsi in «esempi» che lo concretizzano senza esaurirlo. Sotto questo aspetto, gli schemi sono «determinazion[i] trascendental[i] del tempo»17 che costituiscono la saldatura effettiva dei concetti dell’intelletto con la sensibilità, fornendo le strutture intuitive corrispondenti. Se dunque «le categorie prive di schemi sono esclusivamente funzioni dell’intelletto per i concetti, ma non rappresentano oggetti di sorta»,18 il contributo dello schematismo risulta essenziale per la costituzione dell’oggettività. Ora, nel caso delle idee trascendentali l’oggettivazione non è possibile, la totalità ontologica presa di mira dalla ragione è accessibile solo indirettamente, in maniera «differita», come ulteriorità.19 La metafisica non è sapere, è differimento del sapere; tuttavia, proprio in questa forma epistemologicamente più debole, essa può ristabilire un corretto rapporto con l’esperienza, svolgendo una funzione euristica che alimenta il continuo progresso della conoscenza.

L’idea è un concetto problematico, sebbene necessario per la ragione umana: è qui che si concentra il paradosso della metafisica, cioè nel fatto che le idee della ragione non ci fanno conoscere oggetti soprasensibili, da contrapporre in qualche modo agli oggetti di cui si dà esperienza, ma hanno unicamente lo scopo di indirizzare la ricerca umana, nell’ambito dell’esperienza, verso la massima unità, coerenza e completezza possibile.20 L’unico uso teoretico legittimo delle idee è per Kant quello di estendere indefinitamente l’esperienza, senza però varcarne i limiti; si tratta quindi di un uso regolativo, teso a mantenere in fecondo equilibrio le facoltà teoretiche, impedendo che l’intelletto riposi sui fondamenti già raggiunti nella spiegazione scientifica del reale e che la ragione per converso speculi dogmaticamente sulle «cose in sé» abbandonando ogni forma di controllo critico. Kant esclude invece senza esitazioni la possibilità di un uso costitutivo, volto cioè a determinare positivamente quegli «oggetti» cui le idee razionali incessantemente ci indirizzano; proprio perché le idee non ci parlano propriamente di cose da conoscere, ma prescrivono massime di comportamento cui dobbiamo attenerci nella nostra ricerca della realtà, esse rimangono soggettive senza essere arbitrarie, inoggettivabili pur attirando indirettamente il nostro sguardo nell’indicazione di compiti sistematici.21 È quanto Kant annota con chiarezza nei Prolegomeni:

Le idee trascendentali esprimono così la destinazione propria della ragione che è di essere il principio dell’unità sistematica dell’attività intellettiva. Ma quando si considera questa unità soggettiva del conoscere come se appartenesse all’oggetto medesimo della conoscenza, quando di unità puramente regolativa se ne fa un’unità costitutiva e si viene a credere di potere per mezzo di queste idee estendere la propria conoscenza al di là di ogni esperienza possibile e così nel campo del trascendente, mentre questa unità serve soltanto a rendere l’esperienza in se stessa più completa che sia possibile e cioè a non limitarne il progresso con ciò che non può appartenere all’esperienza: si fraintende allora del tutto il compito vero e proprio della ragione e dei suoi principi e si va incontro ad una dialettica, la quale sconvolge l’uso empirico della ragione ed introduce in essa un insanabile dissidio.22

Le idee della ragione orientano quindi la conoscenza, senza tradursi in oggetti conosciuti: ma ciò significa che una metafisica speculativa e oggettiva, che pretende di esporre l’incondizionato della ragione nella forma del sapere positivo, è radicalmente impossibile. Questa pretesa pone la ragione in conflitto con se stessa, perché spingendola verso un sapere apparente la distoglie dal ricercare ed articolare, con sempre maggiore estensione, l’unico sapere per lei davvero possibile: cosicché il dogmatismo si rovescia fatalmente in scetticismo, e la ragione stessa si dibatte in modo inconcludente tra questi due poli che ne occultano l’autentico fine.

Ci sembra che lo sforzo di Kant nel delineare il problema della metafisica in campo teoretico sia soprattutto rivolto a salvaguardare la metafisica come problema, e precisamente come un problema la cui «soluzione» oltrepassa il campo teoretico, ma la cui «esigenza» va tenuta viva affinché la ragione teoretica nel suo uso empirico possa pensare la propria completezza sistematica, senza mai fermarsi sui risultati determinati di volta in volta raggiunti. Nel campo teoretico la metafisica, come esigenza, ha dunque la funzione positiva di guidare la ragione nel suo lavoro continuo di dissodamento del terreno dell’esperienza, ponendole l’imperativo del sistema e mostrandole come la possibilità di ottemperare a tale imperativo passi per il riconoscimento di un uso puramente critico e regolativo delle idee. Se invece la ragione intende dar voce all’esigenza metafisica cercando di tradurla in un sapere dell’ulteriorità, in una conoscenza del trascendente, ipostatizzando le idee in entità metafisiche oggettive, essa rimane vittima dell’illusione naturale, abbandona l’isola sicura dell’intelletto che legifera sull’esperienza per avventurarsi nell’oceano senza fine dell’indeterminabile e dell’ignoto. È questa la suggestiva metafora utilizzata da Kant, quasi una fenomenologia in nuce della ragione umana, che si carica di inequivocabili connotazioni psicologiche, antropologiche ed esistenziali:

Al punto in cui siamo giunti abbiamo non solo percorso il territorio dell’intelletto puro, considerandone accuratamente ogni parte, ma l’abbiamo altresì misurato, assegnando il suo posto a ogni cosa. Ma questo territorio è un’isola che la natura ha racchiuso in confini immutabili. È il territorio della verità (nome seducente), circondata da un ampio e tempestoso oceano, in cui ha la sua sede più propria la parvenza, dove innumerevoli banchi di nebbia e ghiacci, in corso di liquefazione, creano ad ogni istante l’illusione di nuove terre e, generando sempre nuove ingannevoli speranze nel navigante che si aggira avido di nuove scoperte, lo sviano in avventurose imprese che non potrà né condurre a buon fine né abbandonare una volta per tutte.23

L’ulteriorità è il campo aperto della metafisica, l’oceano verso cui la ragione è spinta da un impulso naturale, come se essa non potesse appagarsi di quell’isola in cui la conoscenza scientifica è giustificata e garantita; come se essa presentisse che l’oceano è l’autentico fondamento da cui l’isola affiora come da un orizzonte più vasto e più mobile. Ma, come Kant ha mostrato con estrema consapevolezza, questo fondamento, se vi è, è in realtà un abisso, una profondità insondabile, un orlo su cui il pensiero teoretico si affaccia senza poter determinare alcunché. Oltre l’uso regolativo in cui le idee trascendentali fecondano l’esperienza prescrivendo all’intelletto la massima dell’unità sistematica, e anche al di là di un’accezione più generale del termine «metafisica» per cui essa viene semplicemente a designare una gamma di principi a priori di un dominio ontologico assegnato («metafisica della natura», «metafisica dei costumi»), la metafisica in Kant ci rimanda a questo protendersi della ragione sull’incondizionato che nella pretesa di dar luogo a un vero sapere costituisce la sede naturale e inevitabile dell’illusione. Il bisogno soggettivo di ammettere degli «esseri intelligibili», dei noumeni, cui gli stessi «fenomeni» nella loro condizionatezza problematicamente rinviano e nei quali soltanto la ragione troverebbe quella soddisfazione completa e definitiva che non può mai sperare di ottenere percorrendo il cammino dell’esperienza, non ci autorizza a formulare alcuna affermazione oggettiva e vincolante sull’esistenza e la natura di questi esseri. Se dunque, per Kant, dobbiamo certamente pensare un’anima immortale, un mondo intelligibile ed un essere supremo, è altrettanto vero che «questi esseri intelligibili noi non possiamo assolutamente conoscerli in modo determinato, cioè così come sono in sé».24

La metafora kantiana dell’isola e dell’oceano è istruttiva sotto diversi aspetti. In essa si rispecchia un’immagine della ragione, in cui è in primo piano l’esigenza di circoscrivere il sapere entro confini ben definiti, ma in cui l’«oceano» dà la dimensione di come le questioni che oltrepassano i limiti della conoscenza non siano per questo sprovviste di senso: la regione del senso è molto più vasta di quella del sapere. D’altra parte, se ciò impedisce di considerare gli «esseri intelligibili» della metafisica come invenzioni arbitrarie da cui la ragione umana non può ricavare nulla di positivo, non bisogna neppure passare all’estremo opposto, pretendendo che vi sia realmente sapere là dove è possibile per noi scorgere solo del senso. Tra l’altro, raffigurando il campo del sovrasensibile come un oceano vasto e tempestoso, punteggiato di presenze effimere che continuamente ci promettono grandi scoperte, Kant intende metterci in guardia dai pericoli di una speculazione che avventurosamente si sporge oltre il limite di ciò che è possibile sapere, per invitarci invece ad apprezzare il contributo positivo che si può trarre da una riflessione sul limite come tale. Il non-sapere, come impossibilità di conoscere l’ulteriorità metafisica, nella sua rigorosa giustificazione diventa un sapere-di-non-sapere, l’assunzione ben fondata dei limiti strutturali della conoscenza umana si converte in conoscenza del limite. Scrive infatti Kant:

La limitazione del campo dell’esperienza per via di qualche cosa, che rimane sotto ogni altro rispetto ignoto, è pure una conoscenza che rimane alla ragione da questo punto di vista; per la quale essa non rimane chiusa entro il campo del sensibile e nemmeno può vagare fuori di esso, ma come si conviene alla conoscenza d’un limite, si restringe al rapporto di ciò che è fuori con ciò che è dentro il limite stesso.25

Che la dissociazione dell’ulteriorità dal sapere, dell’assoluto dalla scienza (almeno all’interno della condizione umana) abbia non solo la funzione di focalizzare la nostra attenzione sui limiti della ragione nel campo teoretico, ma possieda altresì una profonda efficacia sul terreno della ragion pratica, è ciò che dobbiamo vedere nelle prossime pagine.

3. Dalle idee ai postulati: la ridefinizione pratica dei concetti fondamentali della metafisica

La nostra riflessione sul problema della metafisica in Kant ci ha posto innanzitutto di fronte ad un impasse cui abbiamo sempre fatto riferimento, cercando di trarne le conseguenze più importanti per una fenomenologia della ragione umana: se la ragione è abitata da una nostalgia di sapere assoluto, che si esprime nel dar forma a totalità di tipo metafisico in cui l’esperienza dovrebbe trovare i propri fondamenti ultimi, alla ragione stessa non è concesso di ottenere una vera conoscenza delle realtà intelligibili e può al massimo farsene un concetto problematico. Questa situazione non deve essere vissuta semplicemente come uno scacco, ma va inquadrata sia nell’ottica di un perfezionamento continuo della conoscenza empirica attraverso l’uso regolativo delle idee, sia nella possibilità che essa offre di riflettere positivamente sui limiti strutturali del conoscere. In ogni caso, è emersa ovunque la necessità dell’apertura metafisica nel cuore stesso della ragione umana, e dunque anche la sensatezza di domande cui non è possibile rispondere nella forma del sapere. Ciò che non conosciamo e non potremo mai conoscere, l’incondizionato, non solo non rende vano o sospetto ciò che invece conosciamo, l’esperienza, ma addirittura ci consente di apprezzarne integralmente il valore: in Kant, la prospettiva del limite è sempre strettamente connessa con l’esercizio della possibilità.26 Ci si può tuttavia chiedere se l’indagine non possa compiere qualche passo ulteriore, indicando motivazioni più stringenti cui ricondurre l’interesse naturale della ragione per l’incondizionato. Sembra infatti che questo interesse abbia nell’uomo radici talmente profonde da attingere in un bisogno che trascende l’intera sfera del sapere e ci pone in contatto con una dimensione diversa. In tal caso, la dottrina dei limiti della conoscenza potrebbe ricevere luce adeguata solo da una considerazione dell’intreccio delle facoltà razionali umane, e della «proporzione» che si stabilisce nel loro congiunto operare.

Abbiamo appurato che la ragione, oltrepassando i limiti dell’esperienza, presta necessariamente il fianco all’illusione naturale e dunque è costretta a ritornare dentro i limiti per dare consistenza al suo progetto di sapere. D’altra parte, la dinamica dell’illusione si riproduce anche dopo che la critica filosofica ne ha chiarito la genesi, perciò la ragione pare destinata ciclicamente a «ripetere» lo stesso cammino che dall’esperienza conduce all’incondizionato, e dall’incondizionato ripiega sull’esperienza. Che da tale «coazione a ripetere» non si possa però trarre la conclusione scettica di una ragione in contraddizione con se stessa, è quanto Kant ha cercato di assicurare in tutti i modi nella Dialettica trascendentale, ed è una delle cifre più significative del suo razionalismo critico. La ragione, per Kant, non conosce vere e proprie contraddizioni che ne dissolverebbero l’unità e la coerenza, ma si imbatte in paradossi necessari; questi ultimi, ponendoci di fronte a problemi insolubili, costituiscono per così dire la «spia» di un cattivo uso dei nostri concetti. Essi non gettano indiscriminatamente un’ombra scettica sulla ragione umana, ci invitano semmai a rivedere i nostri presupposti e a modificare di conseguenza le nostre aspettative. La fiducia di fondo nella possibilità di organizzare i concetti in una tessitura coerente in cui la contraddizione può esistere di fatto ma non di diritto (il «principio trascendentale» dell’unità sistematica dell’esperienza) non è tanto una fiducia nella ragione, ma è piuttosto la ragione stessa come fonte di ogni diritto nel campo della speculazione umana. È alla capacità della ragione di essere giudice autonomo e supremo in tutte le questioni che riconosce come sue, come espressioni (anche problematiche) della sua natura, che Kant ci rimanda in ultima analisi:

Le idee della ragion pura non possono essere dialettiche in se stesse; soltanto il loro cattivo uso può far sì che da esse prenda origine una parvenza ingannatrice. Tali idee ci sono infatti date dalla natura stessa della nostra ragione ed è impossibile che questo sommo tribunale di ogni diritto e di ogni pretesa della nostra speculazione contenga inganni originari e illusioni fuorvianti. Con ogni probabilità, esse troveranno una loro destinazione vantaggiosa e indirizzata ad un fine nella disposizione naturale della nostra ragione.27

È dunque ragionevole ricercare uno scopo, una precisa finalità, anche nell’inevitabile dialettica che a più riprese ci rende vittime dell’illusione e che la critica filosofica deve sempre di nuovo smascherare. Siamo almeno autorizzati a compiere questa ricerca, poiché per Kant è impensabile che la ragione come tale, e non solo il suo uso improprio, sia all’origine di parvenze ed inganni, o addirittura persegua l’illusione come suo obiettivo principale (possiamo qui accennare al «genio maligno» di Descartes, ma anche alla «volontà di potenza» di Nietzsche, come figure esemplari di una «perversità» o «inversione» della ragione alle quali il pensiero kantiano rimane sostanzialmente estraneo). In tale contesto, lo scopo che si deve cogliere dietro l’illusione del sapere metafisico non si esaurisce nella possibilità di trasformare le idee trascendentali da presunti organi della conoscenza dell’assoluto in legittimi strumenti metodologici per l’unificazione e il progresso delle scienze empiriche; certo, la stessa conoscenza scientifica deve servirsi delle «idee» come schemi operativi in cui si annuncia chiaramente il compito dell’unità sistematica, ma Kant ritiene che la tendenza, insita nella nostra ragione, alla formazione di concetti «trascendenti» abbia una radice più profonda che non la pura esigenza della connessione degli elementi dell’esperienza in un sistema. L’oltrepassamento dell’esperienza che la ragione ha di mira nella metafisica non viene effettuato in direzione del sapere, ma nella prospettiva dell’etica:

Quando io considero tutte le idee trascendentali, il cui complesso costituisce il vero e proprio compito della ragion pura naturale, dal quale essa è tratta ad abbandonare il semplice studio della natura, a trascendere ogni possibile esperienza ed a costituire in questo suo sforzo quella cosa che (sia essa vero sapere o sofisticheria) dicesi metafisica, io credo di vedere che questa disposizione naturale miri a liberare la nostra ragione dai vincoli dell’esperienza e dai confini della semplice scienza della natura in modo che essa veda almeno dinanzi a sé aperto un campo che contiene soltanto oggetti per l’intelletto puro, trascendenti ogni facoltà sensibile: non con l’intenzione invero che noi ci occupiamo speculativamente di essi (perché non troviamo ivi terreno sul quale possiamo prender piede), ma perché i principi pratici, se non trovassero dinanzi a sé un campo aperto per le loro aspettative e speranze, non potrebbero conquistarsi quella universalità di cui la ragione sotto l’aspetto morale ha assolutamente bisogno.28

In altri termini, se la tensione verso l’ulteriorità metafisica ci libera dai vincoli dell’esperienza sensibile indicandoci un orizzonte trascendente, non è per prometterci una nuova forma di conoscenza (teoretica), ma per attestare e consolidare un bisogno pratico. Si tratta di modificare il nostro atteggiamento nei confronti del problema metafisico, rinunciando alla pretesa di conoscere le realtà intelligibili e cogliendo nel loro dileguarsi dall’orizzonte cognitivo l’occasione per intraprendere un percorso analitico differente:

La ragione ha il presentimento di oggetti forniti per essa di grande interesse. Essa si incammina per la via della speculazione per accostarsi a tali oggetti, ma essi le si dileguano innanzi. Probabilmente, può sperare in una sorte migliore per la sola strada che le resti, quella dell’uso pratico.29

L’esistenza di Dio, l’immortalità dell’anima, la libertà del volere, che non possono essere oggetti di un sapere teoretico qualsiasi, diventano per Kant accessibili nella dimensione della vita morale dell’uomo, attraverso l’analisi delle sue specifiche esigenze. È qui che si inserisce la nota dottrina kantiana del «primato della ragion pratica», secondo la quale la ragione umana è obbligata ad assumere come valide dal punto di vista pratico quelle stesse proposizioni che dal punto di vista speculativo rimanevano per lei del tutto problematiche e indecidibili. Se infatti non ci è dato sapere se «Dio esiste» o se «c’è una vita futura» o se «la volontà è libera», e dunque le tre proposizioni non hanno valore oggettivo, non possono essere né affermate né negate perché oltrepassano il campo dell’esperienza possibile, Kant ritiene tuttavia che in una prospettiva puramente morale non possiamo fare a meno di dare ad esse il nostro assenso, in quanto indissolubilmente intrecciate con le condizioni della ricerca del sommo bene. Il non-sapere teoretico, l’impossibilità della metafisica come scienza delle realtà intelligibili, manifesta la sua più profonda efficacia e, si potrebbe dire, «positiva risoluzione» in un ambito in cui non è più in primo piano il conoscere, ma l’agire, non la determinazione categoriale dell’oggetto, ma la vita attiva del soggetto. È solo spostando lo sguardo alla ragione pratica che quelle stesse istanze generate dalla ragione teoretica, destinate a restare prive di valore conoscitivo, rivelano il loro significato più concreto. Si può qui parlare non tanto di un’etica come filosofia prima, quanto di una radice metafisica (sia pure «negativa»: per la ragione umana, l’ulteriorità si dà come non-sapere) che onticamente condiziona, rendendola possibile, l’etica, la vita morale dell’uomo, la ricerca del bene. Più precisamente, come cercheremo di mostrare attraverso qualche riferimento incrociato al testo kantiano, il non-sapere metafisico (nella sua «intenzionalità» concreta: come non-sapere di Dio, immortalità, libertà) appare strutturato in una connessione originaria con la praticità della ragione, o almeno con la possibilità di un impegno effettivo dell’uomo nel campo morale. Ciò che importa ora sottolineare è che una soddisfazione totale delle pretese speculative della ragione non solo risulta impossibile per interni vincoli cui sottostanno necessariamente le funzioni del giudizio teoretico, ma anche indesiderabile nella prospettiva della ragion pratica e delle sue esigenze peculiari; se infatti si potesse mostrare con sufficiente chiarezza che la conoscenza oggettiva delle realtà metafisiche (almeno di alcune di esse) intaccherebbe l’autonomia della sfera pratica, così fortemente rivendicata da Kant, allora occorrerebbe concludere che l’oscurità che avvolge il soprasensibile per la ragione teoretica è pur sempre quella luce che, per la ragione pratica, illumina la destinazione e la dignità dell’uomo, aprendo l’orizzonte della finitezza e della responsabilità. Ma questo passaggio potrà delinearsi in modo convincente solo dopo un’analisi delle nozioni kantiane del sommo bene e dei postulati della ragion pratica, che ripresentano in una nuova forma di senso le idee della metafisica.

Com’è noto, nella Critica della ragion pratica la dottrina del sommo bene istituisce una connessione di principio tra i concetti di virtù e felicità che, almeno all’inizio, non poteva affatto dedursi da un’analisi della pura forma imperativa della legge, la quale comanda incondizionatamente e senza riguardo per le conseguenze felici o infelici che attendono il soggetto agente:

La legge morale è l’unico motivo determinante della volontà pura. Ma poiché la prima è meramente formale (ossia concerne solo la forma della massima, che esige essere universalmente legislatrice), fa perciò astrazione, in quanto motivo determinante, da ogni materia, e quindi da ogni oggetto del volere.30

D’altra parte, l’adeguazione della volontà alla legge non esaurisce per Kant il compito della soggettività nella prospettiva morale, e il cosiddetto «rigorismo» non è poi così radicale da espungere totalmente il riferimento alla felicità nella costruzione concettuale del discorso etico. Il bene supremo non è il bene sommo, la virtù come adesione rispettosa e disinteressata alla legge costituisce sì il vertice e il fondamento, ma non ancora la totalità e la concretezza della vita morale dell’uomo.31 L’aspirazione alla felicità rimane legittima in un essere razionale finito, quale è l’uomo, la cui natura sensibile e incarnata non può essere messa semplicemente tra parentesi, e anzi rappresenta in qualche modo il terreno concreto con cui deve sempre misurarsi, criticamente, una filosofia della prassi; l’importante è che la sensibilità non pretenda di sostituirsi alla legge come movente dell’azione, e che quindi la felicità non diventi essa stessa «imperativa». Ma nelle forme che non contrastano in maniera inequivocabile con il rispetto della legge morale, inquinando la purezza dell’intenzione e quindi le radici stesse della moralità, l’esigenza (soggettiva e intersoggettiva) della felicità non solo non viene astrattamente negata da Kant, bensì egli ritiene che sia addirittura doveroso, per un essere razionale finito, promuovere il più possibile l’accordo, la corretta proporzione tra virtù e felicità, in se stesso e negli altri uomini.32

Ciò, ed è qui che il rigorismo kantiano mantiene intatta la sua fisionomia, non significa che si debba contemperare il «diritto» dell’individuo alla felicità con il «dovere» del rispetto della legge morale, perché la legge continua a rappresentare (almeno nelle intenzioni di Kant) l’unico tribunale cui deve affidarsi la volontà dell’uomo per potersi configurare come volontà etica, come volontà buona. Non solo una qualunque simmetria tra virtù e felicità come moventi dell’attività umana è resa impossibile dall’assolutezza dell’ingiunzione etica, ma questa assolutezza, per il suo stesso senso, fa sì che in nessun caso pensabile la felicità individuale o collettiva debba pesare più del movente morale, anche quando quel caso dovesse rivelarsi assai poco piacevole per il soggetto che vi è incorso. La dottrina del sommo bene afferma invece che un soggetto la cui volontà risultasse effettivamente in coerenza con la legge meriterebbe la felicità, o meglio quella felicità che appare compatibile con il rispetto della legge. Ora, è interessante notare, ben al di là dei limiti che ci siamo imposti in questo saggio, come per Kant la realizzazione dell’accordo tra virtù e felicità (come «oggetto» del concetto del sommo bene morale) non debba essere solo proiettata in una dimensione ultraterrena e rimessa alla volontà di un artefice divino; è nel mondo, nel concreto mondo dell’uomo, che il sommo bene deve essere realizzato, anche se non lo è e non lo sarà mai di fatto. L’ipotesi di una vita futura, anziché distogliere dall’impegno mondano, ha precisamente lo scopo di promuoverlo, rafforzarlo e consolidarlo nei limiti delle possibilità di un essere finito, e l’immortalità sembra costituire appunto l’anello di congiunzione tra l’infinità del compito richiesto dalla legge e la finitezza intrascendibile dell’agire umano, il quale può sempre solo aspirare ad una condizione di perfetta intenzione morale («santità»). Scrive Kant:

Cagionare il sommo bene nel mondo è l’oggetto necessario di una volontà determinabile dalla legge morale. Ma, in essa, la piena adeguazione delle convinzioni alla legge morale è la condizione suprema del sommo bene. Tale adeguazione deve essere dunque possibile come il suo oggetto, poiché è contenuta nello stesso comando di promuoverlo. Ma la piena adeguazione della volontà alla legge morale è la santità, una perfezione di cui non è capace nessun ente razionale del mondo sensibile in nessun momento della sua esistenza. Poiché tuttavia è richiesta come praticamente necessaria, può essere trovata solo in un progresso all’infinito verso quella piena adeguatezza, ed è necessario, secondo i principi della ragione pratica, fare di siffatto progredire pratico l’oggetto reale della nostra volontà.33

Così intesa, l’idea dell’immortalità in Kant cessa di apparire un discutibile dogma teoretico per assumere la più consona fisionomia di «postulato» cui riferire, se non la realtà, almeno la possibilità della completezza dell’istanza pratica dell’io. Questa possibilità, nella concreta situazione umana, non è pensabile che come un progredire continuo dai gradi più bassi ai gradi più alti della perfezione morale:34 di fatto, l’unica forma per noi possibile di adesione incondizionata alla legge morale è un lavoro etico incessantemente rinnovato, da cui il soggetto non deve considerarsi assolto nemmeno nella prospettiva della sua inevitabile morte naturale. Lungi dunque dalla promessa di un godimento statico (o «estatico») di verità eterne, l’ambito metafisico più stringente e significativo che il concetto critico-trascendentale dell’immortalità riesce realmente a dischiuderci è l’eternità del compito morale;35 come abbiamo visto nel passaggio precedente, la stessa prospettazione di una vita umana indefinitamente estesa oltre i confini della morte naturale non è fatta che per riprendere e riannodare le fila interrotte del lavoro etico. La morte del soggetto non può costituire una contro-istanza rispetto all’imperativo morale, che ne limiti o sopprima la validità; in particolare, quest’ultima non è legata all’esistenza empirica dell’uomo quale ci appare di fatto. Poiché la moralità non si dà mai per noi nella forma del possesso stabile, ma solo come progresso continuo dell’attività, l’affermazione dell’immortalità non esprime un qualche fatto constatabile, bensì la direzione intenzionale della volontà dell’essere finito;36 se per Dio la perfezione morale ha necessariamente la forma del possesso, di contro

ciò che alla creatura [all’essere finito] può spettare […] sarebbe la consapevolezza della sua convinzione [morale] confermata, al fine di sperare — in base al progresso fin qui compiuto, da un livello peggiore ad uno migliore di moralità, nonché al proposito così appreso e immutabile — di proseguire ininterrottamente tale progresso, nella misura accessibile alla propria esistenza, e persino al di là di questa vita, e così al fine di essere pienamente adeguata alla volontà di Dio.37

Il compito della necessaria completezza della prima e più fondamentale porzione del sommo bene morale, cioè della virtù, conduce Kant a porre l’immortalità dell’anima come condizione della sua realizzazione, nei termini spiegati. Passando al secondo membro costitutivo del sommo bene, cioè alla felicità, è invece l’idea di Dio, già dichiarata da Kant problematica dal punto di vista teoretico, a riconfigurarsi entro un positivo orizzonte pratico, dal quale guadagna una nuova possibilità operativa. Se infatti rimane pacifico che, nel mondo sensibile, non c’è la minima ragione di riconoscere una connessione necessaria tra la moralità e la felicità, e se è altrettanto evidente che in quanto esseri morali «abbiamo il dovere di cercare di promuovere il sommo bene (il quale dunque deve necessariamente essere possibile)», vi deve essere per Kant almeno la possibilità che la condotta virtuosa, di per sé degna della felicità, partecipi in qualche maniera di quella felicità che nel mondo sensibile non può esserle affatto assicurata: «Dunque è postulata [oltre all’immortalità dell’anima] anche l’esistenza di una causa della natura tutta che sia diversa dalla natura stessa, e che contenga il fondamento di tale connessione, ossia della precisa concordanza della felicità e della moralità».38 Anche qui, come nel caso dell’immortalità, la prima impressione è che Kant abbia inteso solo proiettare in un’ulteriorità indefinita (e, forse, indefinibile) quella «soluzione completa» del problema morale che, nel nostro mondo della vita, può essere «progettata» ma mai raggiunta, ardentemente sperata sì, ma mai scrutata direttamente in ciò che è dato, nel fenomeno. Tuttavia, anche in questo caso, la funzione esplicativa di una nozione metafisica (Dio) in campo morale non toglie o minimizza affatto l’importanza dell’impegno, qui ed ora, per il sommo bene (nemmeno in relazione alla sua seconda parte).39 È proprio per fondare in concreto la possibilità di questo impegno che Kant, strategicamente, ricorre al concetto di Dio come supremo garante della moralità; in altre parole, è di questo Dio, del Dio che garantisce in modo permanente la possibilità dell’impegno morale dell’uomo di fronte alla minaccia dello scetticismo (pratico), che occorre necessariamente affermare, postulandola, l’esistenza. Scrive Kant:

Ora è nostro dovere promuovere il sommo bene, e quindi noi non siamo solo autorizzati a presupporre la possibilità di tale bene sommo, dobbiamo presupporla, in quanto si tratta di un bisogno, nel senso di una necessità legata col dovere; e poiché ciò ha luogo solo a condizione dell’esistenza di Dio, lega indisgiungibilmente il presupposto di questo con il dovere, ossia è moralmente necessario assumere l’esistenza di Dio.40

L’autentica rilevanza dell’assunzione di Dio si può dunque cogliere non attraverso un improbabile slittamento della facoltà teoretica al di là della sfera della sensibilità, ma piuttosto nella delicata filigrana delle condizioni connesse con l’esercizio del nostro dovere.

Anche la libertà del volere viene fatta rientrare da Kant tra i postulati della ragion pratica, sebbene questa opzione non risulti molto coerente con l’impostazione metodologica generale della seconda Critica; infatti, come è ben noto e come vedremo meglio tra breve, la riduzione della libertà ad un semplice «postulato», da collocare allo stesso livello argomentativo dell’immortalità e di Dio nell’analisi della vita morale dell’uomo, appare in palese conflitto con il nesso strettissimo che Kant aveva individuato, nell’Analitica della ragion pura pratica, tra legge morale e libertà (e, precisamente, tra evidenza della legge morale e deduzione della libertà in senso trascendentale), un nesso immediato e assolutamente peculiare, che non sembra potersi affermare negli altri due casi senza stravolgere la fisionomia del pensiero morale di Kant e l’originalità stessa dell’etica critica. Bisogna però dire che l’assunzione della libertà idealmente «accanto» a Dio e all’immortalità non è priva di ragioni interne, ed appare dettata (più che da considerazioni di «simmetria» tra i campi teoretico e pratico, o da un’inconfessata fedeltà alla venerabile tradizione della metafisica) dalla convinzione profondamente kantiana che della libertà, come di Dio e dell’immortalità, non sia possibile attingere una qualunque evidenza di tipo teoretico: sotto questo aspetto, i tre concetti fondamentali della metafisica sembrerebbero condividere il medesimo statuto logico. Come che sia, è almeno innegabile che Kant in alcuni passaggi cruciali della Critica della ragion pratica consideri la libertà appunto come un «postulato», pur con tutte le difficoltà che ciò comporta. Si veda, in proposito, il passaggio seguente:

[Per la via della ragione pratica] non conosciamo certo nè la natura della nostra anima, né il mondo intelligibile, né l’Ente sommo in ciò che sono in se stessi, ma abbiamo solo riunito i loro concetti nel concetto pratico del sommo bene, in quanto oggetto della nostra volontà — , e questo interamente a priori con la pura ragione, ma solo tramite la legge morale, e inoltre meramente in relazione alla stessa, rispetto all’oggetto che essa comanda. Ma ciò non permette di discernere neanche in quale maniera sia possibile la sola libertà, né come ci si debba rappresentare teoreticamente e positivamente, questo modo di causalità; invece solo che [la libertà] ci sia, è postulato mediante la legge morale e in sua funzione. Questo è anche il caso delle altre idee: nessun intelletto umano ne potrà mai scandagliare la possibilità, ma, per un altro verso, nessuna sofisticheria potrà mai estorcere la convinzione che non siano veri concetti, neppure all’uomo più comune.41

Se la conoscibilità della libertà nel suo specifico modo di operare come forma di causalità noumenica è ovviamente fuori discussione restando ferme le conclusioni della critica della ragione teoretica, la sola esistenza della libertà («che la libertà ci sia») è altresì un postulato della ragion pratica, la cui necessità viene esibita «mediante la legge morale e in sua funzione»: equivalente alle altre due idee nel suo rapporto strutturale con la moralità, la libertà sembra qui perdere quel singolare privilegio di ratio essendi della legge che Kant le aveva nettamente attribuito nell’Analitica,42 per inserirsi a tutti gli effetti nello stesso contesto argomentativo che conduce alla validità dell’immortalità e di Dio in prospettiva etica. La riduzione della libertà ad un postulato, per quanto problematica possa apparire ad una disamina globale dell’etica kantiana, obbedisce alla stessa logica che ha guidato Kant nella trasformazione (o, per così dire, «ri-definizione») dei Grundbegriffe der Metaphysik da oggetti teoreticamente inconseguibili a indispensabili punti di riferimento dell’attività pratica della ragione umana. Le idee di Dio, libertà e immortalità, che rimanevano inaccessibili come oggetti di un preteso sapere metafisico, acquistano un saldo criterio di validità se ripensate a fondo sul terreno morale, cioè non più come tesi sull’essere, ma come proposizioni sul dover essere.

4. Primato della ragion pratica e finitezza del soggetto

Le proposizioni fondamentali della metafisica, riformulate nel contesto della filosofia trascendentale di Kant, non esprimono «oggetti assoluti», bensì esigenze assolute. Ciò è vero, per molti aspetti, già nella dottrina dell’uso regolativo delle idee in campo teoretico (come condizioni della ricerca dell’unità sistematica dell’esperienza), ma appare quantomai evidente nella stessa definizione dei postulati della ragion pratica. Di fatto, un postulato è nient’altro che un bisogno dell’essere razionale finito, nella misura in cui quest’ultimo vincola il proprio comportamento ad un dovere:

Un bisogno della ragione pura pratica è fondato su un dovere, quello di fare di qualcosa (del sommo bene) l’oggetto della mia volontà, per promuoverlo con tutte le mie forze; nel qual caso devo necessariamente presupporre anche la possibilità di esso, quindi anche le sue condizioni, ossia Dio, libertà e immortalità, poiché con la mia ragione speculativa non posso dimostrare queste ultime, sebbene non possa neanche confutarle.43

Questa equazione che esplicitamente risolve il concetto di postulato in quello, forse ancor più pregnante, di «bisogno razionale pratico», ci dà l’occasione di discutere, sia pure sinteticamente, la questione del (cosiddetto) primato della ragion pratica in Kant.44

A noi la questione interessa non tanto in astratto, come cifra complessiva del filosofare kantiano, quanto nella sua intima relazione con il verdetto (negativo) della Critica della ragion pura sulla possibilità umana di conoscere il soprasensibile; si tratta di vedere, come già ampiamente sottolineato, quali conseguenze (e di quale «segno») possono derivare sul terreno della ragion pratica dall’impossibilità della metafisica in sede teoretica, e quindi dal paradosso dell’insorgenza di problemi legittimi, addirittura inevitabili, che però non si lasciano dirimere in giudizi determinanti («sapere»). D’altra parte le idee trascendentali, nella forma di postulati della ragion pratica, sembrano ormai godere di un riferimento oggettivo e di un potere determinante che non potevano avere nel campo teoretico; infatti Kant afferma più volte che, in quella forma e solo in quella forma, i concetti cardinali della metafisica ottengono un reale «oggetto», e perciò non possono più essere neppure minimamente sospettati di fantasticheria o arbitrio.45 È perciò importante stabilire in linea generale che tipo di «oggettività» Kant abbia qui in mente: se si tratti, cioè, di un «sapere» in qualche modo analogo a quello teoretico, che supplisca a suo modo, in maniera indiretta, a quel deficit conoscitivo cui la dialettica trascendentale sembrava aver definitivamente consegnato il discorso metafisico. O se, al contrario, nella stessa pretesa di una «retroazione» in senso compensativo della ragion pratica sulla ragione teoretica, si annidi non solo un probabile fraintendimento del testo kantiano, ma anche, più radicalmente, la segreta nostalgia di un’etica teologica (laddove per Kant può darsi, del tutto legittimamente, una teologia morale).

È solo guardando a ciò che dobbiamo fare, piuttosto che a quanto possiamo conoscere, che la nostra ragione acquista la certezza delle realtà metafisiche, e quindi sembrerebbe che per Kant la ragion pratica riesca a colmare quel vuoto lasciato dalla ragione teoretica e ad aprirci direttamente uno spiraglio sul mondo intelligibile. Svolgendo a pieno titolo questa funzione di «supplenza», la ragion pratica sarebbe in grado di condurre l’uomo verso quella sfera dell’incondizionato che costituisce il centro dei suoi interessi più alti, e dunque i limiti della ragione in campo teoretico sarebbero effettivamente oltrepassati, sebbene solo attraverso la via del pratico. Se ciò corrispondesse davvero alle intenzioni di Kant, si dovrebbe parlare di un «effetto retroattivo» della ragion pratica sulla ragione teoretica: la prima estenderebbe in qualche misura le possibilità della seconda, alle domande fondamentali della metafisica dovremmo dare una risposta positiva, ma solo dopo aver analizzato l’ambito delle questioni morali. In altre parole, la fenomenologia della vita morale, e l’analitica delle sue strutture ed esigenze costitutive, ci permetterebbero finalmente di sollevare, almeno un poco, il velo che si frapponeva alla visione delle cose in sé; di rimuovere, almeno in parte, i vincoli che parevano segnare in modo irrevocabile la nostra finitezza; di confutare una volta per tutte lo scetticismo, mostrando che almeno in un ambito dell’esperienza umana non si è mai liberi di dubitare dell’esistenza di Dio e dell’immortalità, perché ciò equivarrebbe a negare la stessa, irrinunciabile esigenza del dovere, l’esistenza di una legge morale universale e universalmente impegnativa.

In ultima istanza, dopo aver esplorato il territorio della coscienza morale ed averne tratto le conseguenze di cui sopra, la problematicità che sembrava aderire intimamente alle tre proposizioni fondamentali della metafisica non avrebbe più alcun motivo di sussistere. Illuminata retroattivamente dall’etica, la metafisica non potrebbe più essere seriamente interpretata come quell’abisso del sapere che genera l’illusione trascendentale e pone la ragione umana in un costante stato di imbarazzo; pur restando fermo che non conosciamo Dio, anima e mondo nella loro natura profonda, dovremmo però riconoscere che una parte essenziale del problema metafisico è stata risolta e può essere formulata, assertoriamente, come segue: «Dio esiste», «la volontà è libera», «c’è una vita futura». Che questo pensiero non fosse del tutto estraneo a Kant, può essere chiaramente attestato dal passo seguente:

Ora una legge pratica apodittica [la legge morale] conferisce a siffatte idee […] una realtà obiettiva; ossia quella legge ci insegna ad assegnare ad esse oggetti, ma senza che possiamo indicare in quale modo il loro concetto si riferisca a un oggetto; e ciò non è ancora conoscenza di tali oggetti […]. Eppure ciò amplia la conoscenza teoretica non già di tali oggetti, bensì della ragione in genere, in quanto i postulati pratici danno pure oggetti a quelle idee, per cui un pensiero che prima era meramente problematico riceve per la prima volta una realtà obiettiva. Non si è dunque trattato di un ampliamento della conoscenza di oggetti sovrasensibili dati, peraltro di un ampliamento della conoscenza della ragione teoretica e della conoscenza della medesima rispetto al sovrasensibile in genere, in quanto è stata costretta ad ammettere che ci sono tali oggetti, tuttavia senza potere determinarli esattamente, né, quindi, estendere essa stessa tale conoscenza di oggetti (che d’ora in poi le sono dati su un fondamento pratico e anche per il solo uso pratico): incremento, dunque, per cui la ragione pura teoretica, per la quale tutte quelle idee sono trascendenti e prive di oggetto, deve ringraziare esclusivamente la facoltà pratica della stessa ragione pura.46

Ma se, come Kant pare qui concedere, la stessa ragione teoretica, indirizzata in tal senso da quella pratica, deve ammettere non solo la possibilità di Dio, libertà e immortalità, ma la loro esistenza (sebbene non possa poi determinarla ulteriormente), il «primato della ragion pratica» andrebbe indubbiamente inteso in senso ampliativo rispetto alla sfera teoretica. Certo Kant ridimensiona subito la portata di questo ampliamento, negando che esso equivalga ad una sia pur minima conoscenza degli oggetti metafisici (di cui non abbiamo intuizione alcuna), ed affemando anzi che alla ragione teoretica non resta che un uso meramente negativo di ciò che le è stato offerto da una sorgente del tutto diversa;47 ma se la ragione teoretica fosse davvero costretta a riconoscere che quegli oggetti vi sono, il limite della conoscenza fenomenica stabilito dalla Critica della ragion pura sarebbe già infranto e la stessa ragion pratica non riuscirebbe a mascherare a lungo quelle pretese speculative che, a parole, Kant le aveva risolutamente negato.

Il dover essere, se questa ottica fosse perseguita fino in fondo, implicherebbe l’essere e lo esigerebbe come una premessa o una promessa, senza le quali la moralità non sarebbe nemmeno pensabile. La novità dell’impostazione kantiana rispetto alle tradizionali prove metafisiche consisterebbe allora solo in una diversa (ed opposta) direzione del procedimento fondativo: invece di cercare dimostrazioni teoretiche delle realtà metafisiche per dedurne principi e orientamenti sul versante pratico, si tratta di muovere dalla certezza del nostro dovere per ritrovare, indirettamente, la validità di asserzioni teoretiche di per sé indimostrabili. Lo stesso Kant sembra talora avvalorare questo mero «rovesciamento» della strategia fondativa; nel paragrafo dedicato espressamente alla definizione del primato della ragion pratica, pur distinguendo formalmente i due interessi della ragione (quello teoretico, rivolto alla conoscenza, quello pratico, rivolto alla volontà), egli afferma che la stessa ragione speculativa deve accettare quelle proposizioni che la ragion pratica riconosce come necessarie nel suo campo, e ciò in nome dell’unità della ragione umana:

Se la ragione pura può essere di per se stessa pratica e lo è realmente, come attesta la consapevolezza della legge morale, ebbene, è pur sempre una medesima ragione, quella che, con finalità teoretica o pratica, giudica secondo principi a priori, e allora è chiaro che, sebbene nel primo caso la sua facoltà non riesca affatto ad affermare con tutta sicurezza certe proposizioni, che peraltro neanche le contraddicono, tuttavia questa stessa ragione speculativa deve accettare proprio tali proposizioni, non appena appartengano indissolubilmente all’interesse pratico della ragione pura.48

In realtà, a fronte di non poche ambiguità, nella Critica della ragion pratica (e altrove) vi sono esplicite avvertenze che tolgono qualsiasi fondamento alla tesi, qui delineata, di un puro e semplice recupero delle verità metafisiche (addirittura in termini di evidenza dimostrativa!) dopo aver percorso la via della ragion pratica. In una nota della Prefazione, Kant si rende conto che l’espressione «postulato» avrebbe potuto generare un grave equivoco nel lettore, «se le fosse stato commisto il significato che hanno i postulati della matematica pura, che comportano una certezza apodittica»; ora, nel caso della ragion pratica, «questa certezza della possibilità postulata non è affatto teoretica, e quindi neanche apodittica, ossia non è una necessità (ri)conosciuta rispetto all’oggetto, è invece un’assunzione necessaria rispetto al soggetto affinché osservi le sue leggi obiettive, ma pratiche, e quindi non è che un’ipotesi necessaria».49 La struttura logica di un postulato pratico è ben presentata come necessità ipotetica; la sua «oggettività» è nient’altro che una relazione (necessaria) con l’oggetto del dovere, non può essere una certezza apodittica (neppure di tipo pratico, perché questa compete soltanto alla legge morale).

Quando Kant dice che i postulati hanno validità oggettiva in campo pratico, che dunque la possibilità delle idee, prima del tutto problematica, diventa ora assertoria, non intende alludere ad un completamento della ragione teoretica attraverso strumenti ad essa estranei.50 La validità oggettiva sul piano pratico va intesa in senso assolutamente letterale: cioè come correlato di un non-sapere teoretico, che rimane sempre presupposto e insuperabile, e come necessità soggettiva di ammettere determinati oggetti (in connessione con la possibilità del sommo bene).51 La definizione dei postulati pratici come bisogni razionali puri, che abbiamo già visto, ci sembra la più chiara e la più in linea con il disegno generale dell’etica kantiana, ed essa si attaglia in modo particolare alle idee di Dio e dell’immortalità, prese nel loro rapporto con l’oggetto della legge morale (Kant però, almeno nella Dialettica della ragion pura pratica, include senz’altro la libertà tra i postulati). Dopo averli definiti come bisogni della ragione, Kant non solo determina i postulati come interamente congegnati all’uso pratico e, perciò, privi di qualsiasi sbocco teoretico necessitante, ma li lascia altresì emergere nella loro natura intrinsecamente soggettiva:

[Il dovere di realizzare il sommo bene] si fonda su una legge invero del tutto indipendente da questi ultimi presupposti [i postulati], ossia sulla legge morale, e pertanto non ha bisogno di essere suffragato da altro, da un’opinione teoretica intorno alla costituzione interna delle cose, alla destinazione segreta dell’ordine cosmico, o a un suo reggitore e capo, per obbligarci nel modo più perfetto ad azioni incondizionatamente conformi alla legge medesima. Ma l’effetto soggettivo di questa legge, ossia la radicata convinzione ad essa conforme e resane anche necessaria, onde promuovere il bene sommo praticamente possibile, inoltre presuppone almeno che l’ultimo sia possibile, poiché nel caso contrario sarebbe praticamente impossibile aspirare all’oggetto di un concetto che, in fondo, sarebbe vuoto e privo di oggetto.52

La connessione della dottrina dei postulati con la legge morale non è dunque di tipo strettamente deduttivo, poiché la legge non richiede a suo fondamento un’altra condizione,53 ad essa esterna, ed è appunto capace da se stessa di suscitare la rappresentazione del dovere (o, ancor meglio, fa tutt’uno con questa rappresentazione): non è corretto affermare che l’esistenza di Dio o l’immortalità dell’anima siano richieste espressamente dalla legge, come condizioni dell’adesione ad essa. Non può infatti darsi nessun movente del rispetto della legge al di fuori della legge stessa. Nemmeno si può pensare che Dio e immortalità siano momenti interni della legge, sue interne necessità, perché, oltre al rischio di introdurre l’eteronomia nel cuore stesso della ragion pratica, non si capirebbe allora in qual senso la necessità dei postulati sia per Kant non solo interamente pratica, ma anche soggettiva (non è un dovere, ma un bisogno). Ad esempio, riguardo all’esistenza di Dio, Kant scrive:

Qui si deve notare bene che siffatta necessità morale è soggettiva, ossia è un bisogno, e non è obiettiva, e cioè un dovere; poiché non ci può essere affatto il dovere di ammettere l’esistenza di una cosa (giacché questo concerne meramente l’uso teoretico della ragione). E non si intende nemmeno che l’assunzione dell’esistenza di Dio sia necessaria per stabilire un fondamento di ogni obbligatorietà […]. Qui al dovere appartiene solo il lavoro assiduo per produrre e promuovere il sommo bene nel mondo, di cui può dunque venire postulata la possibilità.54

Un postulato è dunque diverso sia da una proposizione teoretica, sia da una legge apodittica pratica, e la sua definizione come bisogno pratico è sufficientemente precisa per escludere l’una e l’altra possibilità; ma trattandosi inoltre di un bisogno della ragion pura pratica, esso perde qualunque tratto di arbitrarietà (o, come direbbe Kant, di «fantasticheria») e, pur non essendo un dovere, intrattiene una relazione necessaria con l’oggetto del dovere (è solo da questo punto di vista che si può parlare, qui, di «validità oggettiva»55). Questa relazione, come il passo kantiano appena letto mostra in modo chiaro, è una promozione incessante dell’impegno morale, un’intenzionalità pratica tesa al lavoro assiduo, che la volontà deve rappresentarsi, e adottare come schema operativo, nella sua dinamica concreta; in altri termini, il postulato dell’esistenza di Dio ha principalmente l’obiettivo di fornire al soggetto dell’agire morale un’universale garanzia che il suo sforzo non può essere sistematicamente frustrato o vanificato da condizioni avverse (fisiche o metafisiche), non può cadere costantemente nel vuoto, perché ciò equivarrebbe, in fondo, a dichiarare «vuota» o «chimerica» (almeno per il mondo dell’uomo) la moralità stessa. Senza questa garanzia, la legge morale continuerebbe certo a manifestare la sua luminosa evidenza, ché essa non dipende né dall’uomo né da Dio; ma, secondo Kant, sarebbe molto difficile fondare l’impegno dell’uomo per il sommo bene nel mondo, se non presupponendo che la natura non si opponga per principio e in maniera sistematica alle ragioni della moralità; se non postulando che il mondo stesso sia in qualche misura «permeabile» alla volontà del bene. In tal senso, «Dio esiste» vuol dire che Dio è il garante (non l’autore) della moralità; ma ciò, ridotto al nucleo essenziale che risulta indispensabile per la ragion pratica, significa che l’impegno (non la perfezione) morale dell’uomo nel mondo è realmente possibile, perché la natura non vi si oppone.56 Bisogna perciò ammettere un qualche ordinamento finalistico del mondo (e l’idea di una saggezza divina qui ci soccorre in modo sufficiente), affinché il concetto stesso del sommo bene non riveli i tratti inequivocabili dell’utopia e l’azione morale non ceda subito il passo alla rassegnazione e al quietismo. Per un singolare rovesciamento, «Dio esiste» significa che la moralità può abitare nel mondo, che i frutti dell’impegno etico sono reali e tangibili, che il sommo bene è il termine ideale di un progetto di vita bisognoso di verifica. Idealità del sommo bene che proietta l’agire all’infinito e possibilità di verificare il progetto universale nelle situazioni che di volta in volta ci sono date, in altre parole «trascendenza» e «immanenza», danno luogo ad una tensione che costituisce la stessa «positività» dell’etica kantiana. La trascendenza del bene esige l’immanenza dello sforzo, del lavoro, dell’intenzionalità positiva e produttiva. L’esistenza di Dio fornisce un sostrato non alla pretesa di sapere, ma alla volontà di agire,57 in quanto un essere la cui razionalità rimane interna all’orizzonte della finitezza non può evitare di riferire la stessa esigenza dell’incondizionato alle condizioni di un esercizio possibile.

Naturalmente nell’argomentare kantiano sulla necessità di «postulare» un ente supremo, e anche di «determinarne» alcuni attributi in corrispondenza di esigenze pratiche, un ruolo significativo è giocato dal desiderio di felicità, che Kant ritiene costitutivo dell’uomo e dunque ineliminabile almeno come «speranza». La felicità, che è moralmente «non pura» in quanto dipendente dalla materia del volere, dalle inclinazioni del soggetto, ritrova una certa «purezza» e legittimità presentandosi come conseguenza (in un mondo possibile) della moralità. Si tratta di un passaggio estremamente delicato, poiché la prospettiva di una felicità futura può esercitare sull’uomo una forza persuasiva tale da surrogare il vero movente morale, cioè il rispetto della legge, l’adozione del bene in quanto bene. D’altra parte, se nella Critica della ragion pratica il riferimento alla felicità dell’io finito è ancora centrale per la dottrina dei postulati, nella Critica della facoltà di giudizio l’argomento morale per l’esistenza di Dio viene più chiaramente separato da tutto ciò che può apparire una concessione, diretta o indiretta, all’«egoismo». In una pagina che è opportuno citare diffusamente, Kant ricollega in modo esplicito l’assunzione trascendente di un supremo legislatore morale alla struttura teleologica immanente della ragione umana, che considera se stessa sotto l’angolo visuale dello scopo finale:

È dunque almeno possibile, e il fondamento di ciò è anzi posto nel modo di pensare morale, rappresentarsi un puro bisogno morale dell’esistenza di un essere sotto il quale la nostra moralità guadagna più forza oppure (almeno secondo la nostra rappresentazione) un più ampio orizzonte, cioè un nuovo oggetto per il proprio esercizio, vale a dire, assumere un essere moralmente legislatore fuori del mondo, senza nessun riguardo a una prova teoretica e ancor meno a un interesse egoistico, a partire da un motivo morale puro, libero da ogni influenza estranea (certo, qui solo soggettivo), sulla base della semplice raccomandazione di una ragione pura pratica che è legislatrice per sé sola. E, seppure una tale disposizione dell’animo occorresse di rado oppure non durasse a lungo, ma passasse fugace e senza effetto durevole, o anche senza una qualche riflessione sull’oggetto rappresentato in tale simulacro e senza uno sforzo di portarlo sotto concetti distinti, tuttavia non è disconoscibile il fondamento di questa disposizione, l’attitudine morale in noi, come principio soggettivo del non accontentarsi, nella considerazione del mondo, della sua conformità a scopi secondo cause naturali, ma del porgli alla base una causa suprema che domina la natura secondo principi morali. — A ciò si aggiunge che ci sentiamo spinti dalla legge morale a tendere a un sommo scopo universale e che però noi e l’intera natura ci sentiamo incapaci di raggiungerlo; che possiamo giudicare di essere conformi allo scopo finale di una causa intelligente del mondo (se ci fosse una tale causa) solo nella misura in cui tendiamo ad esso; e che così è presente un puro motivo morale della ragione pratica per assumere questa causa (dato che può accadere senza contraddizione), se non altro per non correre il rischio di considerare del tutto vana quella tensione e con ciò di lasciarla svanire.58

È in questo punto della possibilità dell’impegno che etica, teleologia e teologia si incontrano e connettono, e talvolta sembrano perdere il loro profilo specifico in un pervasivo contesto di giustificazione. È anche il luogo di un equilibrio problematico, in cui coesistono ragioni epistemologiche ed istanze esistenziali, non sempre separabili con nettezza; non è certamente casuale che un’etica tutta incentrata sul discorso dell’autonomia come quella kantiana non abbia poi mai potuto e, forse, voluto sottrarsi fino in fondo all’accusa di un ripiegamento sul terreno teologico. Il fatto è che Kant (almeno il Kant della Critica della ragion pratica, ma anche della Critica della facoltà di giudizio) assegna all’idea di Dio un peso determinante in sede morale, ovviamente non sul piano dei fondamenti, bensì per le «motivazioni soggettive» che possono derivarne in vista della prassi. Se è vero che la legge morale comanda incondizionatamente e dunque è contraddittorio (oltre che moralmente inaccettabile) cercare dei moventi al di fuori della legge stessa, Kant ritiene però che l’idea di Dio sia in grado di promuovere e stabilizzare nel soggetto finito quella polarizzazione della volontà che è richiesta dalla legge e che, dal punto di vista del finito, può essere rappresentata solo come infinito perfezionamento: «Infatti la ragione ha bisogno per la possibilità del suo scopo, che in ogni modo ci è assegnato come compito mediante la sua propria legislazione, di una idea mediante cui venga tolto […] l’ostacolo che proviene dalla incapacità della sua osservanza secondo il semplice concetto naturale del mondo».59 A questa idea restano sottesi fondamentalmente due aspetti del pensiero etico kantiano: 1) la speranza legittima in una felicità ultraterrena come correlato della virtù (un mondo in cui l’uomo virtuoso non soccomba, ma ottenga il giusto riconoscimento della sua condotta, deve essere un mondo possibile); 2) la conformità delle strutture del mondo naturale alle esigenze morali (poiché la moralità deve attuarsi innanzitutto nel mondo, il mondo non può essere pensato come un «deserto» in cui l’azione morale dell’uomo non produce alcun frutto reale).

L’io, che deve agire moralmente, può agire «come se» (als ob) Dio esistesse e si interessasse della condotta morale dell’uomo, senza che da ciò si possa ricavare nulla di certo; ma già presupporre questa possibilità come sensata, e adottarla come propria convinzione, ha per Kant un effetto estremamente positivo sulla vita morale, che non può essere sottaciuto o minimizzato (considerazioni analoghe e complementari possono essere fatte, come abbiamo visto, a proposito dell’immortalità dell’anima). Ciò sembra infatti rispondere ad un bisogno reale, se non per tutti gli uomini, almeno per la maggior parte di essi. Quando Kant parla di un bisogno della ragione, sembra pensare soprattutto all’indubbia efficacia pratica che scaturisce dalla fede nelle realtà intelligibili, beninteso se la fede si nutre di concetti puramente morali e non di rappresentazioni esaltate e fantastiche; in particolare, questa opzione consentirebbe di evitare lo scoglio dello scetticismo pratico, sempre in agguato quando si contempla la possibilità che, in questo mondo, non vi siano affatto le condizioni per l’esercizio della moralità. Ciò rientra nello spirito della filosofia kantiana, ed è una testimonianza di quel vivo interesse per il concreto che in Kant traspare persino dalle più serrate argomentazioni trascendentali; ma non è da escludere che nel passaggio dalla fenomenologia della legge morale come «fatto della ragione» alla dottrina dei postulati si sia insinuata una transizione dal pratico al pragmatico, con le ricadute immaginabili.

Ora, si può senz’altro discutere se Kant venga meno alla purezza del metodo trascendentale nell’etica introducendo considerazioni estranee, tutt’al più valide in chiave psicologico-antropologica, come gli rimproverava per esempio Cohen, che rifiutava apertamente la dottrina dei postulati.60 Va però detto che Kant si sforza in tutti i modi di chiarire, da un lato, l’impossibilità che il dovere si fondi su una qualsiasi forma di sapere teoretico o conduca ad essa, dall’altro, l’incapacità dei postulati della ragion pratica di attingere ad un piano cognitivo diverso da quello della convinzione soggettiva («fede»). La de-costruzione teoretica delle idee della metafisica non prelude ad una ri-costruzione morale, se con quest’ultimo termine si intende una pura e semplice restituzione, su un altro fondamento, delle antiche certezze;61 a ben vedere, la nuova definizione dei concetti metafisici in forma di postulati pratici non riguarda più l’esistenza degli oggetti corrispondenti, ma solo la volontà del soggetto, nella misura in cui esso fa del sommo bene il centro stabile del suo interesse.62 Anche come soggetto morale, l’uomo non abbandona l’orizzonte della finitezza, in relazione a Dio, libertà e immortalità egli non può dire io so, ma io voglio:

Ammesso che la legge morale pura obblighi ciascuno quale comando (e non quale regola di prudenza), inderogabilmente, alla persona retta è lecito dire: io voglio che ci sia un Dio, che la mia esistenza in questo mondo sia anche un’esistenza in un mondo intellettuale puro, al di fuori della connessione naturale, infine voglio anche che la mia durata sia infinita, io vi tengo fermo e non mi lascio privare di questa fede; infatti è l’unica cosa dove il mio interesse — poiché non mi è lecito abbandonarlo minimamente — determini inevitabilmente il mio giudizio, senza badare a sofisticherie, e per quanto poco io sarei in grado di replicare ad esse, o di contrapporne altre più illusorie.63

I postulati non «completano» la ragione teoretica là dove essa è destinata a fallire, non operano un passaggio dal finito all’infinito con pretese oggettivanti, ma si risolvono interamente in condizioni di una vita morale autentica nell’orizzonte del finito. Come tali, sono oggetto di una fede che, pur radicandosi in un bisogno della soggettività morale, rimane «problematica»: tradurla in una forma di certezza dogmatica significa svuotarla del suo senso più proprio, privarla di quel rapporto con l’«esperienza possibile» che anche in campo etico non viene mai da Kant totalmente interrotto. Sotto questo aspetto, come le idee trascendentali teoretiche rendono possibile la ricerca scientifica di cui costituiscono lo sfondo indisponibile, così i postulati pratici rendono possibile l’impegno morale di cui costituiscono la premessa soggettiva. In termini «negativi», ma perfettamente equivalenti, la funzione metodologica dei postulati si esaurisce nell’escludere — come prospettive non seriamente percorribili — tanto il dogmatismo quanto lo scetticismo morale, tanto il fanatismo quanto l’utopia del discorso etico. Lo spazio che dunque occupa in Kant la ri-definizione pratica dei concetti della metafisica non è quello dei fondamenti, del formalismo etico, bensì soprattutto quello dell’applicazione, dell’etica concreta. Ciò permette di comprendere la caratterizzazione in senso esistenziale-concreto di alcuni passaggi del testo kantiano, e anche le oscillazioni ed ambiguità della dottrina dei postulati nella Critica della ragion pratica.

5. La libertà come «postulato» e come «fondamento»

Una parziale eccezione è qui rappresentata dalla libertà del volere, che Kant talora considera un postulato pratico come gli altri, ma che nell’impianto generale della Critica della ragion pratica possiede un grado di certezza superiore e fondante rispetto a quello che si può concedere all’immortalità e all’esistenza di Dio. Anzi si può dire che per Kant soltanto l’immortalità e Dio sono in tutto e per tutto dei «postulati», mentre la libertà appare come l’unica idea della ragione che si trova in un rapporto diretto e strettissimo con la legge morale. Sotto questo profilo, poiché dall’universalità del dovere che si manifesta nella legge morale discende immediatamente la coscienza della libertà, Kant attribuisce alla libertà addirittura il ruolo di chiave di volta di tutto il sistema della ragion pura:

Il concetto della libertà — in quanto la sua realtà è stata dimostrata con una legge apodittica della ragione pratica — costituisce ora la chiave di volta dell’intero edificio di un sistema della ragione pura, e persino di quella speculativa; e tutti gli altri concetti (quelli di Dio e dell’immortalità) che, in tale ragione speculativa, restano mere idee prive di sostegno, ora si legano ad esso, e ricevono, con esso e da parte sua, consistenza e realtà obiettiva, — ossia la loro possibilità viene dimostrata con la realtà in atto della libertà; infatti tale idea si rivela con la legge morale.64

In altre parole, l’innegabile esistenza in atto della legge morale dimostra l’esistenza della nostra libertà e la possibilità dell’esistenza di Dio e dell’immortalità; in questo difficile ma decisivo passaggio kantiano, la libertà gode di un primato assolutamente chiaro rispetto alle altre idee della ragione, la «simmetria» che governava le idee nel campo teoretico viene rotta nel campo pratico dal riconoscimento di un legame del tutto peculiare tra il dato di fatto incontestabile del dovere e la libertà come suo fondamento esplicativo. Mentre cioè l’esistenza di un imperativo categorico per la mia ragione implica immediatamente la mia libertà (non potrei essere interpellato dalla legge morale se non fossi libero), per quanto riguarda invece Dio e un’anima immortale non posso far conto su un’identica capacità dimostrativa. Ma ciò significa che, almeno nel caso della libertà del volere, Kant autorizzi un’estensione della conoscenza umana dal pratico al teoretico? Dal fatto che debba pensarmi come libero per potermi considerare un essere morale segue forse che sono libero e che la mia libertà si trasforma in un oggetto positivo del conoscere?

Invero, per Kant la struttura deduttiva «sono un essere morale, dunque sono libero» è sì logicamente stringente, ma in questo modo non abbiamo realmente esteso il nostro sapere (teoretico). La certezza apodittica della libertà non mi autorizza a speculare sulla libertà, riconducendola ad un qualche organon metafisico di cui potrei conoscere il funzionamento; l’interesse di Kant è qui di evitare che la ragione, in luogo di esercitare la libertà per i fini ultimi che la legge morale prescrive, si perda in una speculazione sterile e incontrollata su presunti «fondamenti metafisici» della libertà. Ciò è comprensibile, e ben si accorda con l’orientamento critico di Kant e con la sua avversione radicale per le costruzioni teoretiche magari affascinanti, ma arbitrarie. Si può almeno affermare l’esistenza della libertà umana, anche se non conosciamo nulla della sua natura più profonda? La risposta di Kant è: sì, possiamo, anzi dobbiamo affermarla, ma soltanto dal punto di vista pratico; anche in questa misura «ridotta», per cui non pretendiamo di interrogarci sull’essenza della libertà, ma ci chiediamo solo se essa effettivamente si dia, il problema della libertà non può essere risolto dal punto vista teoretico. Più precisamente, anche dopo che dal punto di vista pratico si è mostrata chiaramente la necessità della libertà, non è lecito concludere che, a questo punto, l’affermazione «io sono libero» abbia ottenuto, sia pure indirettamente, una dimostrazione teoretica.65 Sotto questo aspetto, la stessa libertà viene allineata da Kant agli altri due postulati della ragion pratica.

L’irrappresentabilità della libertà al di fuori del terreno pratico, che ha come correlativo la necessità dell’assunzione della libertà all’interno di tale terreno, è dunque tesa chiaramente ad evitare il doppio errore del dogmatismo e dello scetticismo e a riconfermare l’atteggiamento di fondo della filosofia critica di Kant. Rimane però il fatto che il rapporto del tutto speciale che sussiste tra legge morale e libertà non ci consente di «allineare» la libertà umana su un unico piano con l’immortalità e Dio, proprio perché un analogo rapporto diretto non sussiste per Kant in questi ultimi casi. Inoltre, se Kant individua nella libertà addirittura la chiave di volta di tutto il sistema della ragion pura (tanto nella parte teoretica che pratica), appare difficile affermare che in campo teoretico non vi sia spazio per una trattazione «positiva» della libertà: almeno, occorrerebbe mostrare perché la libertà vada assunta come fondamento della stessa attività teoretica dell’uomo. Ovviamente non possiamo soffermarci a lungo sulle aporie della concezione kantiana, ci interessa invece rilevare come in Kant esista talora un nesso assai esplicito tra la libertà dell’uomo nel suo concreto esercizio e l’impossibilità di una conoscenza oggettiva e determinata del soprasensibile. È qui, in ultima analisi, che va situato il motivo dell’asimmetria tra le idee della ragione in campo pratico di cui parlavamo prima. Il famoso «primato della ragion pratica» va visto non tanto nell’ottica di una possibile integrazione e di un completamento della ragione teoretica, e neppure come enfatizzazione generica del problema morale; il nodo della questione è piuttosto nella necessità di individuare una forma di relazione con il soprasensibile che si accordi con la condizione umana finita e, soprattutto, con il riconoscimento della dignità dell’uomo in quanto essere morale. In un certo senso, il primato della ragione pratica configura in realtà un primato della libertà, per cui quest’ultima non può identificarsi semplicemente con un «postulato», ma deve essere «più di un postulato», deve avere una certezza diversa da quella che possiamo riporre nell’esistenza di Dio e nell’immortalità, anche se con ciò non abbiamo compiuto propriamente un passo nella conoscenza teoretica del mondo intelligibile. Correlativamente, si deve concedere che soltanto Dio e l’immortalità sono in tutto e per tutto dei postulati, e solo nell’ottica del primato della libertà si rivelano pienamente tali.

La questione della libertà è notoriamente tra le più complesse e spinose del pensiero kantiano, e proprio la sua ambigua collocazione nel disegno strutturale della Critica della ragion pratica ne rappresenta forse l’esempio emblematico. Mentre appare infatti chiarissimo fin dalle pagine iniziali dell’Analitica come l’evidenza della libertà risulti per Kant strettamente intessuta con il «fatto» della legge morale, con quell’autonomia della ragion pura pratica che in concreto si manifesta come capacità di autodeterminazione della volontà, e dunque il passaggio dalla coscienza della legge al darsi della libertà deve essere inteso come una vera e propria deduzione trascendentale,66 è altrettanto innegabile che nella Dialettica prevalga invece un’opposta tendenza alla «simmetrizzazione» dei concetti tradizionali della metafisica, trasformati in postulati pratici. È come se Kant ora ci dicesse: la libertà è analoga all’immortalità e all’esistenza di Dio, è analogamente strutturata dal punto di vista di quella che potrebbe chiamarsi una «logica della ragion pura pratica»; mentre prima egli ci aveva detto che solo la libertà è direttamente accessibile nel «fatto della ragione» (e, di conseguenza, nell’Analitica non troviamo e non possiamo trovare una «deduzione trascendentale» dell’esistenza di Dio e di una vita futura).

Questa ambiguità è stata costantemente rilevata dalla critica; nella fattispecie, va ribadito che l’accezione semantica della libertà in termini di «postulato» è del tutto insufficiente a render conto della posizione assolutamente centrale che viene ad assumere il concetto di libertà nella fondazione kantiana dell’etica.67 Come già ampiamente ravvisato, la libertà deve essere «più di un postulato», e dunque anche fondamento (ratio essendi, secondo l’icastica espressione di Kant): più precisamente, quel «fondamento» sul cui sfondo gli altri due concetti metafisici (Dio e immortalità) possono apparire unicamente come postulati (e, dunque, non come «fondamenti»). Mentre in campo teoretico le idee hanno tutte un uso regolativo legittimo, ma nessuna compare come condizione costitutiva, fondamento dell’attività del conoscere, nel campo pratico alla libertà va conferito per le ragioni già note un primato inequivocabile, uno statuto fondativo peculiare, e Dio e immortalità fungono correlativamente da postulati in vista dell’impegno. Ciò significa che, sul terreno della ragion pratica, Dio e immortalità appaiono come postulati senza mai poter figurare come fondamenti, laddove la libertà può apparire come postulato solo se, al tempo stesso, rimane salda e garantita la sua natura di fondamento. Se Kant non ha sempre posto il problema in questi termini, ci sembra che la coerenza complessiva del suo discorso richieda almeno tale distinzione, peraltro non priva di ulteriori difficoltà.

A questo punto possiamo ritornare alle considerazioni iniziali sulla metafisica come «destino» della ragione umana. Il confronto con la Critica della ragion pratica ci ha consentito di individuare i capisaldi della ri-definizione kantiana delle idee trascendentali, attraverso la dottrina dei postulati, gettando così un ponte per riprendere la discussione, a fronte dell’esito «decostruttivo» cui aveva condotto la prima Critica. Si è visto che questa ri-definizione, lungi dal riproporre sotto nuove spoglie le certezze del pensiero metafisico tradizionale, viene a confermare in ultima istanza il verdetto della Critica della ragion pura, e cioè la limitazione radicale della capacità conoscitiva del soggetto umano e la conseguente attestazione della finitezza. L’ulteriorità metafisica, espressa nelle idee di Dio, libertà e immortalità, ha trovato un luogo di positiva consistenza nella sfera della ragion pratica, ma proprio l’insistenza kantiana sulla ammissibilità esclusivamente pratica degli oggetti corrispondenti sbarra definitivamente la strada alla pretesa del sapere. Tuttavia la questione muta di segno, ed assume un aspetto meno disteso e lineare, quando si tiene presente che le ragioni per cui si caratterizzano Dio e l’immortalità come postulati non valgono nel caso della libertà: quest’ultima sembra scompigliare l’apparente simmetria che in campo teoretico vigeva tra le idee trascendentali, rivendicando un primato incontestabile.68 Di fatto, la libertà non può essere puramente un oggetto di «fede» morale, come certamente sono Dio e l’immortalità, ma va anche sempre esibita come fondamento. Se, per esempio, la fede in Dio non è di per sé un dovere, ma può solo stabilire un rapporto con l’oggetto del dovere (ed è dunque in tutto e per tutto un «postulato»), dal suo canto la libertà: a) non è un dovere (poiché è la condizione per cui si diano dei doveri), b) non è nemmeno solo un postulato (proprio perché l’evidenza del suo darsi deriva immediatamente dalla legge morale, in un nesso apodittico). Occorre pertanto riconoscere che, alla luce della ragion pratica, i problemi fondamentali della metafisica ricevono una «risposta» differenziata a seconda dell’oggetto di cui si tratta.69 Per quanto riguarda Dio e immortalità, Kant conferma sostanzialmente l’ottica della prima Critica: anche nel dominio della coscienza morale, queste due idee non possono ottenere una realtà oggettiva, «dimostrabile»; per quanto invece concerne la libertà, il discorso è più articolato, poiché in questo caso il nesso con la legge morale (che Kant ritiene data apoditticamente, nella sua struttura formale) è diretto e oggettivo, e non indiretto e soggettivo come negli altri due casi. Se dunque abbiamo sempre parlato di limiti che invariabilmente sottendono ogni tentativo umano di avventurarsi nella sfera del soprasensibile, nell’oceano della metafisica, ciò non sembra valere per la libertà, la cui «esistenza» risulta assicurata nello stesso atto di autoconfigurazione della moralità, come ratio essendi, fondamento. È questo, indubbiamente, un nodo assai arduo, e già i tentativi dei primi postkantiani di costruire una «metafisica della libertà» come sviluppo coerente del pensiero teoretico e morale di Kant ne radicalizzano nettamente il profilo.

Ci sembra però che proprio il fatto che Kant abbia inteso collocare la libertà tra i «postulati», se da un lato può prestare il fianco alla critica di incoerenza, d’altro canto è da interpretare ancora nel senso di una fedeltà rigorosa alla prospettiva del «limite», del finito. In particolare, questa opzione può essere vista come il necessario correttivo (in funzione antispeculativa) di quel «primato della libertà» affermato con tutta chiarezza nell’Analitica; in altre parole, l’interpretazione della libertà non solo come fondamento, ma anche come postulato, sembra servire a Kant per una più lucida esposizione di due aspetti rilevanti del suo pensiero: a) la necessaria e completa risoluzione del problema della libertà sul terreno della ragion pratica (il che consente di elaborare, o almeno di prefigurare, una «morale al di là del sapere»), b) la cautela critica di evitare che la libertà come problema della metafisica lasci il campo ad una metafisica della libertà, in cui la libertà dell’uomo, da esercizio concreto e condizionato qual è, diventa un organon infallibile, dato una volta per tutte, non sottoposto a limitazione alcuna. Anche nel caso della libertà, che non è propriamente postulato ma fondamento, sussiste il pericolo dell’ipostasi, della reificazione, dell’esaltazione dogmatica, e ciò avrebbe l’effetto di distogliere l’uomo da quella libertà reale che egli è, di volta in volta, fallibilmente, in grado di esercitare; la salvaguardia della finitezza, unitamente alla possibilità di un’etica concreta, adeguata alla condizione dell’uomo, spingono Kant a «porre tra parentesi» la libertà come fondamento e a risistemarla nell’ambito dei postulati. Ciò ha naturalmente un prezzo, perché la differenza di statuto tra la libertà come ratio essendi della legge (nell’Analitica della ragion pura pratica) e la libertà come postulato morale (nella Dialettica della ragion pura pratica) è palese e, se non viene intesa in senso lato, rischia di provocare il cortocircuito dell’etica di Kant. Da questa situazione aporetica, si può tentare di uscire riconoscendo che la definizione strutturale della libertà è e rimane quella di ratio essendi, fondamento, mentre quella di «postulato» è secondaria, costruita sullo sfondo della prima, ma con funzione limitatrice. In altri termini, la collocazione della libertà tra i postulati obbedisce a ragioni analogiche (così come l’immortalità e Dio, la libertà è inconoscibile fuori del rapporto pratico), ma non intacca la natura di fondamento: semmai, la rende comprensibile nei suoi limiti. In questo modo, spogliata delle più vistose ed ingombranti sovrastrutture che tradizionalmente l’accompagnano, la libertà dell’uomo viene restituita al ruolo più sobrio di possibilità finita, e dunque indirizzata ad un uso fecondo e concreto. Se dunque, come «fondamento», la libertà detiene a tutti gli effetti un primato sugli altri due Grundbegriffe della metafisica, la stessa libertà, come «postulato», viene chiaramente ricompresa nell’orizzonte della finitezza.70

6. Fede morale e dignità dell’uomo

Ci restano ora da vedere più dettagliatamente le ragioni, varie volte invocate, per cui in Kant l’impossibilità di penetrare a fondo nella sfera del soprasensibile è da porre in relazione con la dignità e la responsabilità dell’uomo in quanto essere morale. L’analisi della dottrina dei postulati, in cui le idee trascendentali si riconfigurano come condizioni di possibilità della ricerca del sommo bene nel mondo, ci ha permesso di constatare come la fedeltà al punto di vista del finito che costituiva la cifra più esplicita della Critica della ragion pura non sia annullata, ma anzi confermata nella Critica della ragion pratica: come tali, i postulati morali non incrementano in nessun modo la nostra conoscenza teoretica e, almeno in due casi, non possono esibire autentiche certezze neppure ai fini pratici.71 D’altra parte, la libertà del volere sembra costituire, in tale contesto, un’eccezione tanto singolare quanto inevitabile, ferme restando le premesse dell’etica kantiana; il nesso tra la libertà e la legge morale è infatti così stretto che l’interpretazione «analogizzante» della libertà come postulato implica la preliminare assunzione della stessa libertà come fondamento. Ci sembra dunque corretto parlare di un «primato della libertà» come dato più rilevante che emerge nella trasposizione kantiana dei problemi fondamentali della metafisica dall’orizzonte teoretico a quello pratico, e segnatamente nella dottrina dei postulati. Sebbene la libertà continui a rimanere per Kant indeterminabile sotto il profilo teoretico, dal punto di vista pratico l’esistenza della libertà è oggettivamente stabilita nel suo immediato riferirsi al «fatto della ragione» costituito dalla legge morale universale, e almeno qui le pretese della metafisica sembrano trovare piena soddisfazione. Solo qui, nel darsi della libertà come ratio essendi della legge, l’«abisso» della metafisica si traduce in certezza del fondamento, il non-sapere teoretico in intenzionalità morale e responsabilità. L’estrema attenzione con cui Kant cerca di evitare la deriva speculativa del concetto di libertà (al punto di offuscare talora la coerenza del sistema etico ponendo la libertà tra i postulati), non deve farci dimenticare la netta affermazione di questo primato, soprattutto nel confronto con le idee di Dio e dell’immortalità.

In Kant, il primato della libertà è naturalmente l’opposto di un attivismo generico che costruisce arbitrariamente i suoi fini, poiché la stessa possibilità per l’uomo di dare senso alla sua esistenza nel mondo è fondata sulla legge morale, del cui «senso» ci dobbiamo appropriare in un’adesione libera e disinteressata. È sempre nell’ottica della realizzazione e dell’impegno per il sommo bene nel mondo che la volontà del soggetto si scontra con i suoi limiti interni e deve aprirsi alla possibilità di un’integrazione del suo sforzo da parte di un essere supremo. I postulati di Dio e dell’immortalità radicalizzano la finitezza del soggetto nell’atto stesso in cui rinsaldano la fiducia nel compimento di senso dell’esistenza. Questo «compimento», cui dobbiamo tendere con tutte le forze, non può essere fondato su alcun sapere disponibile, ma costituisce l’oggetto della fede morale e come tale è offerto alla nostra libertà. Il non-sapere teoretico rende possibile la fede. Nella Critica della facoltà di giudizio, troviamo la seguente definizione:

Fede (come habitus non come actus) è il modo di pensare morale della ragione nel tener per vero ciò che per la conoscenza teoretica è inaccessibile. […] La fede (detta così assolutamente) è una fiducia nel raggiungimento di un intento che è dovere favorire, la possibilità della cui esecuzione però non può essere compresa da noi (e quindi non può essere compresa neanche la possibilità delle uniche condizioni per noi pensabili). Dunque la fede che si riferisce a speciali oggetti, che non sono oggetti del sapere o dell’opinare possibile […], è interamente morale. È un libero tener per vero, non di ciò per cui si possono trovare prove dogmatiche per la facoltà teoreticamente determinante di giudizio, né di ciò a cui ci riteniamo vincolati, ma di ciò che ammettiamo a vantaggio di un intento secondo le leggi della libertà.72

La fede morale che dà origine ai postulati è dunque per Kant un «libero tener-per-vero» (freies Fürwahrhalten), riferito ad oggetti che oltrepassano il campo dell’esperienza possibile. Come l’espressione kantiana lascia intuire, si tratta qui di un’apertura sul soprasensibile fatta interamente dal soggetto per il soggetto, ed è nell’interesse dell’etica che il teoreticamente inaccessibile può diventare tema di una convinzione ragionevole, tramite la libertà. Ritroviamo perciò lo stesso quadro della Critica della ragion pratica, ma con una maggiore sottolineatura del momento esistenziale della «decisione»: l’accento cade sulla libertà di un assenso che il conoscere teoretico non autorizza né incoraggia, ma che per il soggetto posto sotto la legge morale costituisce l’unico modo di pensare come «perseguibile» ciò per la cui realizzazione nel mondo egli deve impegnarsi. Il tener-per-vero è per così dire res subjecti, è una questione che riguarda l’io nella sua totalità esistenziale, dunque non è oggettivamente cogente, proprio perché non ha altro riferimento che la decisione per l’interesse pratico, e solo in questa chiave può ottenere il riconoscimento intersoggettivo delle sue istanze e una qualche «universalità».73 Se ci è comandata la realizzazione (mediante la libertà) del sommo bene nel mondo, l’esistenza di Dio e l’immortalità dell’anima, in quanto «uniche condizioni della sua possibilità per noi pensabili», sono «cose del credere (res fidei), e propriamente le uniche tra tutti gli oggetti che possono essere chiamate così».74

Naturalmente, in un’ottica diversa da quella kantiana, appare del tutto legittimo chiedersi se l’esistenza di Dio e l’immortalità dell’anima, anche come semplici res fidei, siano davvero premesse indispensabili per promuovere l’impegno morale dell’uomo. Questo punto non può certo essere discusso qui, ma Kant ha avuto presente il problema e, pur riservando a tali res un ruolo importante nell’etica, ha inteso evitare qualsiasi soluzione dogmatica, che sarebbe stata in diretta contraddizione con la sua concezione dell’autonomia. Nella Critica della ragion pratica, Kant tiene a distinguere la necessità oggettiva (secondo la ragion pratica) di promuovere il sommo bene (in quanto comandato dalla legge morale) dalle condizioni soggettive attraverso cui pensiamo quel compito come possibile; di fatto, «il modo, la maniera in cui vogliamo pensarlo come possibile dipende dalla nostra scelta»,75 e ciò che fa inclinare la decisione a favore dell’esistenza di Dio è un libero interesse della ragion pura pratica, che non può essere messo da parte. Se una fede «comandata», e non liberamente scelta dalla volontà morale, sarebbe per Kant un controsenso e in ogni caso sfocerebbe nel fanatismo, la fede razionale pura «può oscillare abbastanza spesso, talvolta persino in chi abbia buone intenzioni, ma non mai cadere nella miscredenza».76

La domanda che si deve porre al margine di queste considerazioni è allora: come possa un uomo che non crede in Dio e in un’anima immortale, pensare la possibilità del sommo bene e «argomentare» il suo impegno etico nel mondo. Kant non sembra mai ritenere l’ateismo una posizione seriamente sostenibile nel campo morale, ma in una pagina della Critica della facoltà di giudizio egli tratteggia proprio la classica figura dell’«ateo virtuoso», ben rappresentata da Spinoza:

Possiamo dunque ammettere il caso di un uomo retto (come per esempio Spinoza) che si ritenga fermamente persuaso che non c’è un Dio e che (dato che la conseguenza è identica rispetto all’oggetto della moralità) non c’è neanche una vita futura: come giudicherà costui la sua propria interna determinazione di scopi mediante la legge morale che egli onora attivamente? Egli non pretende, per il fatto di osservarla, nessun vantaggio per sé, né in questo né in un altro mondo; vuole piuttosto fare disinteressatamente solo il bene, per cui quella sacra legge dà a tutte le sue forze la direzione.77

Il limite della posizione ateistica non è da rintracciare per Kant nel fatto che il soggetto non riconosca in Dio il fondamento della legge morale, poiché quest’ultima vincola la volontà del soggetto indipendentemente dalla questione se Dio esista o meno (in astratto, Dio è così poco il «fondamento» della legge che essa appare invece come quella struttura intrinsecamente razionale cui l’esistenza di Dio non potrebbe aggiungere o togliere nulla in validità). Piuttosto, ancora una volta, in discussione non è il fondamento dell’etica, ma la possibilità dell’impegno di un essere razionale sì, ma finito, moralmente obbligato a tendere al sommo bene, ma al tempo stesso sovrastato da una natura che lo limita in tutte le direzioni e sembra indifferente alla sua esistenza individuale, al dramma che vi si consuma. Sotto questo aspetto, Kant ha buon gioco nel descrivere lo sgomento che dovrebbe colpire l’uomo retto, se davanti ai suoi occhi si aprisse improvvisamente lo spettacolo terribile del «baratro del caos senza scopo della materia»,78 nel quale tutte le vite saranno inghiottite e tutte le differenze annullate in un’unica notte: la differenza tra l’uomo e gli altri animali, tra l’onesto e il criminale, insomma tutto ciò che può far ritenere all’umanità di essere lo scopo finale della creazione.79 Qui si mostra una diversa immagine dinamica dell’abissalità del pensare metafisico: non si tratta più dell’«oceano», del mare aperto in cui la ragione umana si avventura affascinata dalla possibilità di nuove scoperte, ma di un vero e proprio «baratro», un assentarsi del senso che getta l’uomo nell’angoscia. Non si tratta neppure di una semplice riduzione della «metafisica» alla «fisica», in primo luogo perché la libertà dell’uomo non è necessariamente eliminata dalla negazione di Dio e dell’immortalità, ma soprattutto perché questa negazione è pur sempre uno «sguardo sulla totalità» e dunque è ancora all’interno dell’esigenza metafisica. In ogni caso, Kant fa notare che questo spettacolo del nichilismo o del «non-senso» non può non rappresentare un problema e un enigma per qualsiasi persona moralmente ben disposta; poiché c’è il rischio che la stessa destinazione morale dell’uomo ne possa uscire ridimensionata e l’impegno radicalmente indebolito, è auspicabile anche per un «ateo» non chiudersi aprioristicamente alla possibilità dell’esistenza di un autore morale del mondo, «per farsi un concetto almeno della possibilità dello scopo finale prescrittogli moralmente, ciò che può fare senz’altro, essendo in sé almeno non contraddittorio».80

Ma, a prescindere dalle opinioni personali di Kant in proposito, da questo discorso non emerge alcuna necessità che l’ateo abbandoni la propria posizione di fondo, almeno se egli si mostra capace di assolvere al compito morale, per quanto gli è possibile, anche di fronte allo spettacolo dell’insensatezza ultima del mondo naturale. È chiaro come Kant considerasse questa soluzione «impraticabile», non avendo mai completamente rinunciato alla prospettiva di una conciliazione perfetta tra etica e natura, non solo come idea regolativa nella storia, ma anche come realtà sovrastorica. Tuttavia, nel passaggio appena esaminato, l’interesse di Kant si rivolge alla possibilità dell’impegno per il sommo bene in questo mondo ed è in tale ottica che la sua «apologia» della fede razionale va inquadrata e compresa: è come se Kant raccomandasse caldamente al suo potenziale interlocutore non-credente (per esempio, Spinoza) di riconoscere se non altro la fecondità dell’idea morale di Dio e i vantaggi che possono derivarne in chiave di stabilità emotiva della persona, che è la condizione di una volontà saldamente indirizzata al bene e di una vita morale operosa (al contrario, lo spettacolo desolante del «baratro» che inghiotte indifferentemente tutti gli esseri viventi non può fornire alcun incentivo alla volontà morale). Con ciò il discorso assumerebbe certamente qualche venatura pragmatica, forse più di quanto Kant sarebbe disposto a concedere; ma il punto cruciale che occorre rilevare con chiarezza, in un’etica dell’autonomia, è che un legame universalmente vincolante con l’esistenza di Dio non può essere affermato senza pregiudicare la struttura autoreferenziale della legge morale e introdurre un elemento di determinazione della volontà diverso dal rispetto della legge.81 Dal punto di vista dei fondamenti dell’etica, la persuasione che Dio esista non è moralmente più «pura» e rispettabile di quella contraria. Nella Critica della facoltà del giudizio Kant lo dice chiaramente, subito prima di iniziare la sua difesa dell’«argomento morale» dinanzi alla pungente provocazione dell’ateismo.82 Un uomo persuaso che Dio non ci sia dovrebbe considerarsi moralmente indegno se per questa ragione volesse ritenere immaginarie e non valide le leggi del dovere, ma sarebbe altrettanto inaccettabile legare il comportamento morale all’esistenza di un Dio, che suscita timore o speranza; «viceversa» — aggiunge Kant — «se come credente segue lealmente e disinteressatamente, secondo la sua coscienza, le leggi del dovere e tuttavia si credesse subito libero da ogni vincolo morale ogni volta che, a titolo di esperimento, ipotizzasse di poter un giorno essere convinto che non c’è un Dio, allora però sarebbe malmesso con la sua propria interna intenzione morale».83

La dignità dell’uomo non può fondarsi su una tesi a favore della quale (o contro la quale) non possono prodursi argomenti oggettivamente conclusivi, non in campo teoretico, per le ragioni ben note, ma neppure in campo pratico, poiché l’esistenza di un autore morale del mondo rimane accessibile solo soggettivamente (sebbene ciò non significhi: «arbitrariamente» — è la «soggettività» del bisogno razionale puro o postulato, nel linguaggio tecnico e ambizioso della Critica della ragion pratica, o della «decisione inverante», Fürwahrhalten, che Kant introduce nella Critica della facoltà di giudizio). Anche dal punto di vista terminologico, il passaggio dalla seconda alla terza Critica riflette un’evoluzione, se non un mutamento interno, della dottrina kantiana dei postulati e della fede morale: Kant utilizza con meno frequenza il termine «postulati» e per riferirsi a Dio ed immortalità preferisce parlare di libero tener-per-vero (riguardo all’atto) e di cose del credere (riguardo a ciò verso cui l’atto è diretto), accentuando quindi quei tratti esistenziali che avevamo già scorto chiaramente nella Critica della ragion pratica. Ma una novità significativa e sostanziale è che la ragione sufficiente della fede non ha più una relazione diretta con il bisogno di felicità degli uomini; senza il tener-per-vero della fede, «il modo di pensare morale […] non ha una ferma costanza, ma oscilla tra comandamenti pratici e dubbi teoretici»,84 i limiti della conoscenza teoretica potrebbero sostenere surrettiziamente la causa dello scetticismo pratico, in un’ibrida mescolanza di motivi, rendendo incerta e oscillante la volontà. A questo punto Kant fa alcune importanti precisazioni circa la fede e il suo «altro» nel modo seguente:

Essere increduli significa seguire la massima di non credere assolutamente a testimonianze, ma un miscredente è chi nega ogni validità a quelle idee della ragione perché ad esse manca una fondazione teoretica della loro realtà. Egli quindi giudica dogmaticamente. Una miscredenza dogmatica però non può coesistere con una massima morale dominante nel modo di pensare (perché la ragione non può comandare di perseguire uno scopo che è riconosciuto essere nient’altro che una fantasticheria); ma lo può una fede dubitante, per la quale la mancanza di convinzione mediante ragioni della ragione speculativa è soltanto un ostacolo a cui la comprensione critica dei limiti di quest’ultima può sottrarre influenza sul comportamento, proponendo a questo come sostituto un tener per vero pratico che ha maggior peso.85

La distinzione tra incredulità e miscredenza non è qui una semplice sfumatura; mentre infatti non credere a testimonianze storiche (ad esempio quelle che fondano una religione rivelata) non è di per sé in contrasto con l’interesse pratico, negare qualsiasi valore morale alle idee di Dio e dell’immortalità solo perché esse sono prive di fondamenti teoretici della loro realtà significherebbe confondere il piano dell’essere con quello del dover essere, ma anche rendere più vulnerabile la volontà del soggetto finito di fronte agli attacchi dello scetticismo. Il «miscredente» non è soltanto «incredulo» rispetto ad eventi che non è (più) possibile verificare, né si limita a «dubitare» dell’esistenza di Dio e di un’anima immortale, ma è altresì convinto che queste idee non abbiano alcun senso e alcun uso legittimo nella vita morale dell’uomo. Ciò, per Kant, significa giudicare dogmaticamente, laddove qualsiasi persona moralmente ben disposta e non prevenuta potrebbe almeno riconoscere la funzione regolativa esercitata dalle «cose del credere», l’effetto positivo e stabilizzante sulla volontà come garanzia della continuità dell’impegno, che è poi il punto centrale di un’etica concreta. Come Kant ha cercato di mostrare lungo tutto l’arco della costruzione del criticismo, tra l’istanza dogmatica e l’istanza scettica c’è una solidarietà di fondo e una naturale dinamica di capovolgimento; nel caso della ragion pratica, non una fede monolitica né un dubbio sistematico, ma una fede problematica («dubitante») gli è apparsa l’unica possibilità adeguata alla condizione dell’uomo e rispettosa della sua libertà. I limiti della conoscenza teoretica (il non-sapere di Dio e dell’immortalità) recuperano qui il loro significato positivo per l’etica, senza venire realmente oltrepassati. Una fede monolitica, totalmente al riparo dal dubbio anche solo riguardo all’esistenza dei suoi oggetti, non sarebbe che speculazione mascherata, e non quell’«apertura fiduciosa» che impegna l’esistenza e presuppone la libertà; in questa maniera, in una situazione in cui la fede si confonde con il sapere, il soggetto non sarebbe minimamente in grado di discernere il vero movente delle sue azioni, se esso sia il rispetto disinteressato per la legge morale in se stesso e negli altri, oppure la speranza di felicità riposta in Dio e nella vita futura, della cui realtà il soggetto è assolutamente certo. Una tale certezza farebbe però apparire dubbia o insincera proprio l’intenzione morale dell’azione. In modo analogo, una miscredenza dogmatica è ancora «speculativa», e se la negazione della realtà di Dio e dell’immortalità potrebbe in alcuni casi favorire il rispetto disinteressato della legge, in altri avrebbe invece come conseguenza il cinismo o, forse, la rassegnazione. Non rimane dunque che una fede dubitante, in cui l’assenso dato alle «cose del credere» è completamente sprovvisto di fondazione teoretica, moralmente non vincolante ma ragionevole, capace di rinnovarsi e consolidarsi, di volta in volta, nella «decisione inverante» (Fürwahrhalten),86 ma senza irrigidimenti dogmatici.

Per una soggettività finita come Kant la descrive, solo la coscienza morale è fondata su una struttura cui compete il carattere dell’apoditticità; la fede morale rimane invece, in ultima analisi, una questione di volontà e di scelta, non riguarda direttamente la moralità, ma il modo in cui vogliamo pensare come perseguibile, nel mondo, il compito che la legge morale ci assegna. Puntualizzare lo statuto della fede, cioè il suo ambito di legittimità e la tipologia specifica del suo riferimento ad «oggetti», appare importante sotto un doppio profilo per l’interpretazione di Kant: non bisogna infatti soltanto distinguere il sapere teoretico dalla fede morale, ma anche, altrettanto nettamente, la legge (e la sua ratio essendi: la libertà) dalla fede (e i postulati o «cose del credere»: Dio e l’immortalità). La Critica della ragion pratica, quando presenta i tre postulati morali come l’esatto analogon, per l’etica, di ciò che le idee trascendentali rappresentavano sul terreno della ragione teoretica, rischia di lasciare sullo sfondo un’«analogia» diversa e decisiva: quella tra la libertà e la legge. In realtà, il loro rapporto è così stretto che parlare di analogia è del tutto fuorviante; si tratta piuttosto di un’implicazione trascendentale reciproca, che Kant esprime nei termini noti di ratio cognoscendi (della legge per la libertà) e ratio essendi (della libertà per la legge). Se dunque, da un lato, l’equiparazione kantiana della libertà a Dio e all’immortalità in quanto «postulati» potrebbe indurci a considerare la libertà come puro oggetto di fede morale, è anche vero che quest’ultima tende talora ad assumere tratti «oggettivi» e vincolanti in campo etico, fin quasi a confondersi, se non con la legge stessa, con le «condizioni» dell’adesione ad essa. Il modo non sempre coerente in cui Kant disegna il rapporto e, per così dire, l’intreccio problematico tra legge, libertà e postulati è in effetti un punto di seria difficoltà per il lettore della Critica della ragion pratica. Ciononostante, due aspetti si impongono con una certa chiarezza: 1) il primato della libertà come «fondamento» rispetto alla libertà come «postulato»; 2) l’insistenza di Kant sul carattere «soggettivo» (nel senso spiegato) della fede in Dio e nell’immortalità è tale da far pensare che le ragioni che lo hanno spinto a sottolinearlo sempre di nuovo fossero per lui assolutamente preminenti. Ne va della sua concezione dell’autonomia morale come fondamento della dignità dell’uomo.

In questa ottica, è notevole che nella Critica della facoltà di giudizio la libertà non compaia mai in forma di postulato, accanto all’esistenza di Dio e all’immortalità dell’anima; ad essa viene invece riconosciuta apertamente un’evidenza di tipo fattuale, da cui l’unicità che la separa radicalmente dalle altre idee della ragione. Kant distingue le «cose del credere (mere credibile)» dalle «cose di fatto (scibile)», queste ultime definite come segue: «Oggetti per concetti la cui realtà oggettiva può essere provata (sia mediante la ragione pura, sia mediante l’esperienza, e nel primo caso a partire da suoi dati teoretici o pratici, in ogni caso però per mezzo di un’intuizione a essi corrispondente)».87 Tra le cose di fatto rientrano ovviamente tutti gli oggetti attestati dall’esperienza (attuale o possibile, propria o altrui), ma anche le proprietà matematiche delle grandezze in geometria. Kant non menziona qui la legge morale, che pure rappresenta per lui un «fatto della ragione» (si tratta tuttavia di un «fatto» sui generis, che si risolve interamente in un «dovere»), bensì la libertà. Sebbene l’idea della libertà non possa essere esibita in un’intuizione possibile e dunque rimanga teoreticamente trascendente, nondimeno essa «si può attestare mediante leggi pratiche della ragione pura e, conformemente a queste, nelle azioni reali e quindi nell’esperienza. — È l’unica tra tutte le idee della ragione pura il cui oggetto è una cosa di fatto e deve essere annoverato tra gli scibilia».88

L’apparente simmetria tra le idee della ragione nella dottrina dei postulati, che ricalcava la struttura del campo teoretico, è esplicitamente ricusata, con la nitida affermazione del primato della libertà; e, a ben vedere, non solo di questo si tratta, poiché nello stesso passaggio testuale sembrerebbe affacciarsi addirittura una nuova concezione della libertà, almeno in parte diversa da quella della Critica della ragion pratica.89

Certo Kant parla qui della libertà come oggetto di un sapere, come termine di una cognizione evidente, ma ciò non provoca particolare sorpresa, perché l’interna connessione con il «fatto» della legge morale rende la libertà non meno certa della legge e dunque, da questo punto di vista, «effettiva», operante, reale.90 È forse l’unico caso in cui il dover essere implica chiaramente un essere come premessa condizionante, l’essere della libertà. Io non ho il dovere di essere libero, io sono libero: la libertà, che mi è accessibile solo muovendo da ciò che debbo fare (ratio cognoscendi), non è un dovere, ma un fatto e un fondamento (ratio essendi). Io non credo di essere libero, io sono libero: la libertà, che pure può ragionevolmente aprirsi alle «cose del credere» e dar loro l’assenso, non è essa stessa qualcosa di semplicemente «creduto», ma è ciò che sta alla radice della fede morale e permette di comprenderne la possibilità. Ma questo «sapere» della libertà come si configura esattamente? Come si concilia con la dottrina kantiana dei limiti della conoscenza teoretica? Di sicuro, per Kant si tratta di un sapere pratico; lo stesso passaggio della Critica della facoltà di giudizio conferma che non esiste una intuizione della libertà, un organon per la sua conoscenza diretta: la «pietra di paragone» è sempre la legge morale, ma ora Kant sembra sottolineare con maggiore chiarezza il rapporto della libertà con l’esperienza, con il mondo dell’esperienza, in cui può essere in qualche modo attestata. Se la libertà rimane imperscrutabile da un punto di vista teoretico, dal punto di vista della prassi è un «fatto» di cui siamo immediatamente certi e che incide realmente sul mondo che ci circonda. Sotto questo aspetto, la libertà è per Kant non solo un’idea trascendentale teoretica, né un postulato pratico, ma il fatto stesso della metafisica come ragion pratica:91 nella libertà, e solo nella libertà, la metafisica si costituisce come fatto, anche se ciò riguarda esclusivamente l’essere della libertà. Come essa sia possibile, ci resta precluso.

È difficile stabilire fino a che punto l’esplicita assunzione della libertà come fatto rappresenti una novità sostanziale rispetto alla Critica della ragion pratica, oppure la semplice variazione di un tema già ampiamente sviluppato e meditato; è comunque significativo prendere atto, ancora una volta, che per Kant il primato della ragion pratica mette capo ad un primato della libertà. Essa appare sempre più chiaramente come l’unica delle tre idee della ragione la cui esistenza non è soltanto oggetto di fede, «postulata» (in funzione di un bisogno), ma è affermata come un fatto, pur con le limitazioni che abbiamo visto. Lasciamo ora da parte la questione se si possa parlare in proposito di una certezza, non meramente teoretica, ma almeno «teoretico-pratica» dell’esistenza della libertà, se dunque nel caso della libertà una separazione radicale tra le sfere della ragione sia davvero sostenibile. Vogliamo invece richiamarci ad una importante pagina kantiana, per mostrare come sussista un particolare interesse della ragione per cui solo la libertà possieda propriamente e a pieno diritto un valore oggettivo e costitutivo in campo pratico; come si è detto, questo interesse è la salvaguardia della dignità dell’uomo, che si manifesta essenzialmente nella sua capacità di autodeterminazione pratica (autonomia) che ne fa un ente il cui essere è dover essere, è essere-per-il-bene. Ciò permetterà di tirare le fila del nostro discorso ed avviarci ad una conclusione.

Nella Critica della ragion pratica, e precisamente nel paragrafo che chiude la prima parte dell’opera,92 Kant abbozza una breve riflessione sul «perché» la nostra facoltà teoretica sia incapace di risolvere quei compiti supremi che pure le vengono proposti con insistenza dalla sua stessa natura. Questa circostanza paradossale, considerata isolatamente, potrebbe gettare il più ampio discredito sulla ragione umana, o indurci persino a dubitare seriamente delle buone intenzioni della natura che ci ha dato origine: «Sembra dunque che qui la natura ci sia stata solo matrigna, procurandoci una facoltà occorrente allo scopo in maniera insufficiente».93 D’altra parte, le cose assumono un’atmosfera più favorevole non appena spostiamo lo sguardo dalla facoltà teoretica presa per sé al rapporto che essa deve intessere con le altre facoltà dell’uomo. Ciò che dal punto di vista puramente teoretico appare uno sforzo frustrante di raggiungere un incondizionato che sempre si sottrae, non è tale nella prospettiva di un equilibrio e armonia tra le diverse esigenze della ragione,94 che devono trovare il modo di convivere senza che l’una possa ostacolare o sopraffare l’altra. Per Kant, come abbiamo già detto, la ricerca di un «equilibrio» di questo genere è essenziale, altrimenti andrebbe perduta l’unità della ragione, o meglio la ragione si scoprirebbe in contraddizione con se stessa (e poiché l’unità della ragione è l’unità dell’uomo, l’uomo stesso non potrebbe pensarsi come «unità» e diventerebbe vittima della «contraddizione»). A questo punto, Kant avanza l’ipotesi di una proporzione adeguata delle facoltà umane come scopo di una disposizione naturale, nel modo seguente:

Ora, posto che [la natura] avesse compiaciuto questo nostro desiderio, e ci avesse assegnato quella capacità cognitiva o illuminazione [riguardo alla sfera del soprasensibile] che vorremmo possedere o che alcuni persino si illudono di possedere realmente, quale conseguenza ne sarebbe derivata, verosimilmente? […] Dio e l’eternità, nella loro terribile maestà, ci starebbero incessantemente davanti agli occhi (poiché ciò che possiamo pienamente dimostrare è per noi altrettanto certo quanto ciò di cui ci assicuriamo con la vista). La trasgressione della legge verrebbe bensì evitata, ciò che è comandato sarebbe fatto; ma poiché la convinzione in base a cui devono avere luogo le azioni non può essere infusa da nessun comando [esterno], mentre qui il pungolo dell’attività sarebbe insieme presentissimo ed esteriore […] ebbene, la maggior parte delle azioni conformi alla legge avverrebbero per timore, solo poche per speranza, e proprio nessuna per dovere; e non esisterebbe affatto un valore morale delle azioni, dal quale soltanto dipende il valore della persona e persino del mondo, agli occhi della somma Saviezza.95

In tale contesto, l’indagine sembra scivolare verso un esito teologico imprevisto e incoerente con l’impostazione precedente, ma il tenore delle affermazioni di Kant non fa che riaffermare puntualmente i limiti della ragione umana; in particolare, non si tratta di fondare teologicamente l’etica, ma, al contrario, di impedire che una (presunta) conoscenza dimostrativa di Dio e dell’eternità soffochi la dignità morale dell’uomo, rendendo impossibile un’adesione disinteressata alla legge morale. Potrebbe infatti essere veramente libero un uomo che avesse «davanti agli occhi» Dio e l’eternità, nella loro oggettiva presenza? E se l’uomo fosse altrettanto certo di avere un’anima immortale (e di dover sottostare, un giorno, al giudizio divino), la sua azione in questo mondo sarebbe ancora ispirata dalla ricerca del bene in quanto bene, oppure prevalentemente dal timore e dalla speranza che in lui suscitano le rappresentazioni dell’«aldilà»? La dignità dell’uomo come essere morale non consiste proprio nella libertà di porre la sua condotta sotto l’egida del bene, anche quando ciò si scontra con l’esigenza naturale della felicità? Vi è dunque per Kant un nesso preciso tra il non-sapere come impossibilità di conoscere il soprasensibile e quella libertà che ci caratterizza intimamente nel concreto orizzonte della vita morale. In caso contrario, se cioè fosse possibile una conoscenza certa dell’assoluto,

il comportamento degli uomini, qualora la loro natura rimanesse così com’è ora, sarebbe dunque trasformato in un semplice meccanismo, dove, come in un teatro di marionette, tutti gesticolerebbero bene, ma, nei personaggi, non si potrebbe cogliere nessuna vita affatto. Ora, poiché la nostra condizione è diversissima, poiché, con tutti gli sforzi della nostra ragione, abbiamo solo una visione molto oscura e ambigua del futuro, poiché colui che governa il mondo ci permette solo di congetturare la sua esistenza e la sua sovranità, non però di scorgerla e di dimostrarla chiaramente, mentre invece la legge morale in noi, senza prometterci o minacciarci alcunché con sicurezza, esige da noi un rispetto disinteressato, ma per il resto, una volta che questo rispetto sia diventato attivo ed egemonico, solo allora e solo a tale condizione ci permette di guardare un poco nel regno del soprasensibile, e sempre solo debolmente, ebbene, può così avere luogo una radicata convinzione morale autentica, consacrata immediatamente alla legge, e la creatura razionale può diventare degna di partecipare al sommo bene, che è adeguato al valore morale della sua persona e non soltanto alle sue azioni.96

Questo passaggio suggestivo è stato variamente commentato, ma raramente gli è stato attribuito un valore esemplare e centrale per l’interpretazione del problema della metafisica in Kant.97 Qui la questione dei limiti del sapere e della dialettica naturale della ragione umana strutturalmente tesa alla completezza delle proprie condizioni, mostra un risvolto etico essenziale e una più chiara articolazione. Vi si può cogliere, innanzitutto, una nota antinostalgica di fondo, una positiva sottolineatura della finitezza del nostro sapere: che Dio non si manifesti all’uomo in maniera diretta nel mondo, che la sua esistenza possa essere solo congetturata e non dimostrata chiaramente, che dunque la ragione umana sia destinata a rimanere «incompleta» sotto il profilo della fondazione ultima, non è qualcosa che debba suscitare rimpianto o nostalgia, poiché proprio dall’incompletezza della ragione teoretica, dai limiti del sapere, scaturisce per Kant la possibilità della vita morale. Non sarebbe vera vita morale quella di un essere che «percepisse» incessantemente la potenza di Dio, avendola per così dire «sotto gli occhi», in una certezza immediata e incontestabile; lo spettacolo dell’eternità di Dio e della vita futura (diversamente dall’altro spettacolo che Kant ci aveva prospettato, quello del non-senso e dell’abisso nullificante), rappresenterebbe un pungolo davvero efficace per la volontà dell’uomo, affinché segua puntualmente il dettato della legge morale. Ma in questo modo l’adeguazione della volontà alla legge sarebbe puramente esteriore, suggerita dal timore e della speranza, e non da un’intima convinzione del soggetto, che liberamente accoglie quanto gli si manifesta nella luce del bene. Se lo spettacolo maestoso dell’eternità non fosse un’ipotesi sensata bensì una conoscenza certa, l’uomo avrebbe in fondo solo due possibilità, al cospetto di Dio: la schiavitù o la ribellione, come di fronte ad un tiranno.98 Una vera libertà, un’appropriazione responsabile del bene, sarebbe impossibile. Ma così verrebbe meno quella dignità della persona umana che si può pensare costituisca un valore per lo stesso Dio, sebbene non possiamo dimostrarne l’esistenza. Kant ritiene addirittura che un Dio manifesto nella natura o nella storia, ridotto quindi ad oggetto del sapere, renderebbe meccanico ed inutile il comportamento degli uomini: quasi un «teatro delle marionette». Forse esasperando il concetto, Kant viene a dirci che una conoscenza reale di Dio avrebbe come conseguenza nientemeno che la morte dell’etica, il tramonto della coscienza morale e della libertà, e dunque di nuovo l’assentarsi del senso dell’esistenza finita dell’uomo. Ritorna qui in primo piano l’insistenza sull’intenzione dell’azione, come autentica sorgente della moralità, e se ciò è apparso a molti critici un ripiegamento interioristico e un’assenza di «sostanza etica», comunque un disinteresse per le conseguenze dell’azione, ci sembra che su questa linea argomentativa del pensiero kantiano si possa ravvisare un importante motivo di verità: il valore più alto per l’esistenza dell’uomo nel mondo non è semplicemente il bene «compiuto» (cioè la conformazione esteriore del comportamento umano alla legge morale), ma il bene liberamente scelto e voluto.

Il discorso assume poi anche una tonalità religiosa che per certi versi ricorda i pensieri di Pascal sul «Dio che si nasconde», ed è una concezione creaturale dell’uomo quella che vividamente affiora nella pagina di Kant appena letta, così come in altri contesti della sua opera. Questa concezione è tuttavia filtrata costantemente dalla prospettiva dell’autonomia, il cui centro non è Dio, ma la ragione umana finita. Il riferimento kantiano ad un ritrarsi di Dio per rendere possibile l’impegno morale dell’uomo non è dunque un’allusione di tipo dogmatico a come potrebbero stare le cose nel disegno divino, bensì un’ipotesi filosoficamente rilevante attraverso la quale interpretare il significato complessivo della condizione umana. In ultima analisi, se «la Saviezza insondabile per cui noi esistiamo è degna di venerazione per ciò che ci ha precluso non meno che per quanto ci ha concesso»,99 ciò vuol dire che il non-sapere metafisico, nel senso spiegato, non solo dà risalto e piena legittimità al sapere (scientifico), ma è anche una condizione imprescindibile per l’etica. Se anche non possiamo sapere con certezza quale sia il fondamento dell’adeguata proporzione tra le nostre facoltà, se esso sia un Dio saggio, o una finalità naturale immanente, o qualcos’altro, dobbiamo però pensare questa proporzione come conforme ad uno scopo, e sotto questo aspetto non possiamo fare a meno di cogliere, in controluce, la nostra dignità di esseri morali. Quest’ultima non sarebbe che una parola vuota di senso se non fosse originariamente connessa con i limiti della conoscenza teoretica, e dunque con la nostra finitezza che traduce l’esigenza dell’incondizionato in impegno nel mondo e per il mondo. L’esistenza sensata del soggetto finito presuppone libertà e responsabilità, solo a tali condizioni possiamo onorare e promuovere quella umanità, in noi stessi e negli altri, cui la legge ci rimanda. Una scienza dell’assoluto ridurrebbe forse l’etica all’esecuzione puntuale di un programma, ma in quel caso non sarebbe più in questione la serietà del nostro impegno, il rischio che vi si connette, l’adesione libera ad una legge che rivela il bene in quanto bene, «senza prometterci o minacciarci alcunché con sicurezza». Kant intende mostrare che un’etica al di là del sapere, al di là della teologia,100 è non solo possibile, ma è l’unica autenticamente umana, l’unica in grado di sottrarsi al circolo economico-utilitario in cui il desiderio della felicità, commisto al timore di perderla per sempre, orienta più o meno segretamente tutte le nostre scelte. I limiti del sapere fondano la libertà e la dignità dell’uomo e mostrano che la ragione umana, teoreticamente incompleta, può essere sensata unicamente in quanto pratica, cioè nella tessitura di legge, libertà e fede morale, nel rapporto «asimmetrico», ma imprescindibile, che esse determinano.

7. La metafisica come donazione di senso e la positività del finito

Il percorso lungo i sentieri (in)interrotti della metafisica in Kant che abbiamo delineato fin qui e che si prefiggeva solo di cogliere alcuni nuclei essenziali del rapporto tra ragione teoretica e ragion pratica, ha adombrato a più riprese il problema della metafisica come problema del senso. Dapprima, nel campo teoretico, la questione del «senso» è emersa come distinzione rispetto al «sapere», nella misura in cui la genesi delle idee trascendentali non conduce ad oggetti conoscibili (Dio, libertà, immortalità), ma ci espone inevitabilmente all’illusione naturale, ad una sorta di naufragio delle pretese del sapere nell’oceano dell’indeterminabile. D’altra parte, la logica dell’illusione è ben più di un semplice impasse del dinamismo della ragione, poiché proprio l’esigenza dell’incondizionato orienta pur sempre l’attività conoscitiva umana e l’uso regolativo delle idee fonda la possibilità dell’unificazione sistematica dell’esperienza, in una processualità aperta. In quanto un’idea della ragione è una totalità assoluta, non può che sottrarsi ad una conoscenza determinata, ma in quanto questa totalità è strutturata, è scandita come una serie di condizioni, è un tessuto connettivo della ragione stessa, non può che costituire il «senso», la direzione di marcia della ricerca scientifica. Abbiamo poi visto come dietro l’illusione naturale e la dissociazione dell’ulteriorità metafisica dal sapere si celi, in realtà, un contesto problematico che appartiene ad una sfera differente, in cui non è più questione di conoscenza: la ragion pratica, con la dottrina del sommo bene e dei postulati morali, ci ha offerto una nuova ottica attraverso cui guardare a Dio, libertà e immortalità. Il «primato della ragion pratica», al di fuori delle più classiche interpretazioni che vi individuano un fattore integrativo della ragione teoretica e dunque un’accesso diretto nella sfera del noumeno, è in ultima analisi quella tensione tra libertà e fede morale che rinnova o «aggiorna» le risorse semantiche e le possibilità operative dei concetti tradizionali della metafisica, in una rigorosa fedeltà al punto di vista della finitezza umana.

Di fatto, è con il passaggio dalla ragione teoretica alla ragion pratica che il problema del senso in Kant assume tutta la sua pregnanza e manifesta una struttura di totalità esistenziale. In altri termini, il senso dell’uomo non è riducibile alla «teoria»,101 all’attività teoretica comunque intesa, alla progressiva «sistemazione» dell’esperienza tramite l’uso delle idee; per un essere finito, il senso non riguarda solo ciò che si può conoscere, ma sempre anche ciò che si deve fare, ed è muovendo da questa consapevolezza di fondo che occorre rileggere le pagine della Critica della ragion pura dedicate alla fenomenologia dell’illusione trascendentale. La richiesta di senso non è questione puramente scolastica, ma cosmica, e dunque mette necessariamente in luce quella che, con Scheler, potremmo definire la «posizione dell’uomo nel mondo», l’esistenza umana nel suo complesso. La prospettiva etico-metafisica aperta dalla dottrina del sommo bene è appunto la donazione di un senso globale, «integrale» dell’esistenza umana nel mondo; se anzi prendiamo sul serio un’indicazione di Eric Weil, secondo il quale solo sotto l’aspetto della ragion pratica e della libertà ragionevole il mondo acquista veramente un «senso» per l’uomo,102 un fondamento e orientamento, laddove la ragione teoretica può al più scoprire dei «significati», delle strutture e connessioni funzionali nei fenomeni, possiamo senz’altro affermare che il sommo bene è per Kant lo scopo ultimo dell’esistenza umana, è la totalità del senso dell’uomo come essere-nel-mondo.

Questa totalità è articolata come sintesi di virtù e felicità e dunque perfetta compenetrazione di fini, in cui la virtù costituisce il bene supremo e la felicità è pensabile solo come conseguenza dell’agire morale. Il sommo bene è il problema più importante della «metafisica» kantiana, se con questo termine si intende una prospettiva sul senso della totalità e sulla totalità del senso, nonché un’indagine volta a determinarne le implicazioni più generali. Ciò che tuttavia conferisce al problema una dimensione esistenziale radicale, e persino una nota drammatica, è che il sommo bene, in Kant, non è garantito da una teologia naturale, che coglie direttamente il fondo intelligibile della realtà, e neppure è chiaramente «promesso» dalla legge morale, la quale comanda invece di promuoverlo facendo appello alla libertà dell’uomo. Riprendendo una celebre formula neokantiana, si potrebbe dire che per l’uomo il sommo bene non è puramente «dato» (gegeben), ma «assegnato» (auf-gegeben) e dunque, come è anche possibile tradurre, «dato da realizzare» (= compito). Nella ragion pratica, come apertura della totalità del senso, l’esigenza metafisica deve incarnarsi nel tempo e nella storia, pur non potendosi esaurire in essi, ma tracciando la direzione del tempo e della storia nell’opera dell’uomo. Se totalità, orientamento, senso sono le dimensioni strutturali della metafisica, quest’ultima non è possibile che come ragion pratica, come «realizzazione» dell’esistenza umana nel mondo secondo le leggi della libertà, e ciò permetterebbe di comprendere l’esito cosmo-politico del pensiero di Kant al di là di riduttive consuetudini storiografiche.

A conclusione della nostra analisi, vogliamo ancora una volta sottolineare come l’unità di ragione teoretica e ragion pratica, nonché il «primato» della seconda, corrispondano in Kant ad una concezione realmente positiva della finitezza dell’uomo.103 Ciò appare già evidente nella Dialettica trascendentale della Critica della ragion pura, dove l’inoggettivabilità delle idee in quanto noumeni rende possibile un’articolazione sempre più estesa e una conoscenza sempre più penetrante della sfera fenomenica, ma risulta del tutto chiaro nella Critica della ragion pratica, dove l’impossibilità di giungere alla certezza dell’esistenza di Dio e dell’immortalità al di fuori di una pura fede morale non solo giustifica l’impegno dell’uomo nel mondo, ma fa anche emergere la libertà come l’unico «fatto» della metafisica: nella ragion pratica, come libertà-per-la-legge, la metafisica diventa concreta e i limiti del sapere sono il correlato indispensabile della dignità umana. Ciò, come abbiamo visto nel dettaglio, non implica la scomparsa di Dio e dell’immortalità dall’orizzonte morale, Kant ci ripete in continuazione che il bisogno di questi enti metafisici non è accidentale, né puramente storico, ma ha origine e legittimità nella ragione stessa; la rinuncia alla pretesa di conoscenza oggettiva non equivale alla perdita del significato, del «riferimento», almeno se un orientamento dell’esistenza è ancora possibile, nella ragion pratica e nella fede morale. Ma mentre la libertà, in quanto fatto, è per Kant anche una forma di «sapere» (nell’accezione e nei limiti che abbiamo visto), solo come orientamento, e non come sapere, Dio e l’immortalità rendono possibile quella donazione di senso per cui la vita nella finitezza è al tempo stesso la positività del tendere infinito dell’uomo. Un diverso configurarsi di questo rapporto distruggerebbe quell’equilibrio tra gli interessi della ragione che Kant ritiene essenziale per una corretta interpretazione della condizione umana.

Un’analisi approfondita della genesi e del significato della domanda metafisica in Kant, nella prospettiva di una filosofia positiva del finito, richiederebbe naturalmente ben altra trattazione ed anche un inquadramento storico-critico degli elementi in gioco. Qui dobbiamo limitarci ad avanzare delle suggestioni, che potrebbero convergere in una più precisa direzione di ricerca. Innanzitutto, la «positività» cui abbiamo più volte fatto cenno non può condurre ad una qualche assolutizzazione della finitezza, che oltre ad essere una contraddizione in termini appare un atteggiamento del tutto estraneo al pensiero di Kant. È in quanto finito che il finito è positivo, non in quanto infinitizzato; la «risoluzione» del finito nell’infinito è possibile solo in una concezione negativa del finito, per cui quest’ultimo non può essere tenuto fermo come tale, ma è sempre altro da sé e in altro da sé. Certo, il finito è per definizione rapporto-con-altro, cioè con la totalità, con l’infinito, ma Kant ha mostrato in tutta la sua opera critica che questo rapporto è tanto necessario quanto problematico, e che il trascendimento formale della ragione umana verso l’incondizionato non esce realmente dal finito, non autorizza un’identificazione speculativa del finito con l’infinito. Considerare il finito come positivo significa, invece, stabilire una connessione inscindibile tra limite e possibilità, nel senso che ad ogni rigorosa determinazione di un limite cui l’esistenza dell’uomo è invariabilmente sottoposta può sempre corrispondere (in modalità che andranno di volta in volta precisate) un campo di possibilità autentiche, che proprio quel limite fonda e garantisce. Questa dinamica può anche avere conseguenze drammatiche, poiché il rapporto dell’uomo con la totalità esprime pur sempre (e non può non esprimere) una preponderanza della totalità sull’uomo, una dipendenza dell’individuo dal mondo naturale e storico in cui è inserito. Ma ciò non rappresenta un’obiezione, se si considera che il discorso della «positività» implica tutt’altro che il riferimento ad un’esistenza umana pacificata e compiuta, «riposante» per così dire nei suoi limiti, e quindi priva di tensioni, contraddizioni, lacerazioni. La positività che qui abbiamo in mente non è una tonalità emotiva, sebbene possa diventarlo; il finito è «positivo» in quanto è originariamente senso, è il senso delle possibilità dell’uomo.

Proviamo ad indicare i luoghi kantiani che più facilmente confermano questa interpretazione della finitezza, tenendo presente l’itinerario che abbiamo compiuto e le conclusioni raggiunte. Ad esempio, nell’Analitica trascendentale della Critica della ragion pura, la chiusura del campo noumenico alla conoscenza dell’uomo non ci fa prendere atto che «non conosciamo le cose in sé», che «la nostra conoscenza si ferma ai fenomeni», se ciò dovesse significare una separazione irrimediabile dal cuore della realtà; è invece proprio perché non conosciamo le cose in sé (e, teoreticamente parlando, neppure siamo in grado di sapere se esse vi siano) che i fenomeni possono sottostare all’unità sintetica dell’appercezione e darci quindi una vera conoscenza del reale: la dottrina dei noumeni negativi toglie vigore argomentativo sia al dogmatismo metafisico che allo scetticismo fenomenistico, elaborando un concetto positivo, autonomo, della conoscenza finita dell’uomo. Nella Dialettica trascendentale, l’incompletezza della ragione sul piano teoretico non solo costituisce una permanente istanza di controllo critico della scienza empirica, facendo sì che essa spinga sempre più a fondo l’unificazione e la coordinazione legale dei fenomeni naturali, ma prepara e custodisce quello «spazio vuoto», quella dimensione meta-teoretica in cui la soggettività umana può trovare appagamento.104 Questo spazio viene riempito concretamente dalla ragion pratica, ma anche in questo caso non bisogna lasciarsi ingannare dall’ambigua definizione del «primato»: nonostante il parere di autorevoli interpreti, la tesi di una sostanziale congruenza tra il piano della legge morale universale e quello dei postulati (Dio e immortalità) ci sembra insostenibile per ragioni lucidamente esibite dallo stesso Kant, in alcuni passaggi molto significativi; anche qui si deve allora cogliere la connessione strutturale tra limite e possibilità, sottolineando come proprio la differenza radicale della fede morale dal sapere teoretico (da un lato) e dalla certezza pratica della legge e della libertà (dall’altro) sia la condizione di senso di un’etica del finito dai tratti decisamente mondani e moderni.105

Porre l’accento sul carattere «positivo» della finitezza non significa ovviamente sottacere gli aspetti del pensiero kantiano in cui maggiormente si avverte l’inquietante presenza del «negativo», del male, della lacerazione esistenziale e storica, e che hanno fatto intravedere in Kant addirittura un precursore del postmoderno.106 Ciò di cui in realtà abbiamo bisogno è un’interpretazione di tipo dialettico, che sappia cogliere entrambi i poli entro cui si muove l’esistenza umana finita, senza comporli in una prospettiva astratta e conciliatrice, ma anche senza esasperarne la tensione al punto di rendere inoperante e irriconoscibile, dietro il limite, la possibilità. Naturalmente questa polarità interna non offre una chiave ermeneutica generalizzata, ma andrebbe verificata, di volta in volta, nei diversi contesti problematici della filosofia di Kant, soprattutto nelle transizioni da un contesto all’altro, che talora possono essere lette come vere e proprie «riconversioni» di limiti in possibilità: «mutamenti di ottica» che fanno apparire in una luce nuova e operativamente più feconda ciò che sembrava lasciare il soggetto in una situazione di mera opacità, passività e insoddisfazione. È del resto caratteristica essenziale della nozione kantiana di «trascendentale» l’impossibilità di configurarsi come «sostanza»,107 come univocità ontologica, e dunque la necessità di risolversi funzionalmente in campi di validità distinti, anche se correlabili. La «trascendentalità» è la finitezza assunta come senso.

Ma quello che ci pare importante segnalare, al termine della nostra discussione, è che, da un lato, all’interno di ogni campo la dialettica di limite e possibilità assume forme specifiche che definiscono la stessa struttura di quel campo; d’altra parte, il passaggio da un campo all’altro è sì indicativo del «mutamento di ottica» che dicevamo, tuttavia non comporta affatto la «rimozione» (l’Aufhebung) dei limiti del campo precedente. È quanto abbiamo cercato di mostrare nel passaggio dalle idee ai postulati: la ragion pratica non sopprime i limiti della ragione teoretica, piuttosto li declina diversamente, esibendoli tra le condizioni di possibilità dell’articolazione e dell’autonomia del suo campo. Se è in qualche misura corretto affermare che la ragion pratica «risolve» quei problemi che la ragione teoretica sollevava necessariamente al proprio interno (senza poter decidere in un senso o nell’altro), è altrettanto vero che può risolverli esclusivamente nel suo linguaggio e nei suoi limiti. La ragion pratica non solo non oltrepassa i limiti della sfera teoretica, la finitezza del conoscere, ma può dare una nuova forma di senso e di validità ai concetti fondamentali della metafisica unicamente in quanto introduce altri limiti, altra finitezza. L’interrogazione sul senso della totalità che è all’origine dell’esigenza metafisica e che costituisce la destinazione necessaria della ragione umana, rimane dunque consegnata all’orizzonte del finito, e tale «consegna», positivamente considerata, è il fondamento stesso della dignità dell’uomo, dell’autenticità del suo essere-nel-mondo, della possibilità di una vita consapevole e responsabile. In Kant, il paradosso della metafisica, da cui siamo partiti, sembra condurre a questo approdo, che ovviamente dovrebbe aprirsi a nuove indagini e suscitare nuove domande.


  1. Un ampio studio condotto esplicitamente da questa prospettiva è quello di H. Konhardt, Die Einheit der Vernunft. Zum Verhältnis von theoretischer und praktischer Vernunft in der Philosophie Immanuel Kants, Hain, Meisenheim am Glan 1979. ↩︎

  2. I. Kant, Critica della ragion pura, tr. it. a cura di P. Chiodi, UTET, Torino 1986, p. 29. ↩︎

  3. «L’autentico scopo dell’indagine metafisica è costituito soltanto da tre idee: Dio, libertà, immortalità, secondo un ordine per cui il secondo concetto, connesso al primo, deve condurre al terzo, quale risultato necessario. Ogni altra cosa di cui questa scienza si occupa, non le serve che come mezzo per giungere a queste idee ed alla loro realtà. Le idee occorrono alla metafisica non già in vista della scienza della natura, ma per l’oltrepassamento della natura» (Critica della ragion pura, cit., p. 295, nota a). ↩︎

  4. Cfr., su questa linea interpretativa, O. Marquard, Skeptische Methode im Blick auf Kant, Alber, Freiburg/München 1958, pp. 30ss.; J. Mittelstrass, Neuzeit und Aufklärung, De Gruyter, Berlin/New York 1970, pp. 52ss. Sull’originarietà della domanda metafisica, in netto contrasto con l’indirizzo «empiristico» dell’esegesi kantiana, cfr. l’ampia ricerca di Marty, il quale ritiene che in Kant la metafisica, anziché la sua presunta fine, ritrovi piuttosto il suo autentico punto d’origine e la possibilità di un’organizzazione sistematica; soltanto la metafisica intesa come «dottrina costituita, e consegnata ad un manuale», cioè la metafisica razionalistica di stampo leibniziano-wolffiano, sarebbe con Kant giunta realmente alla «fine» (cfr. F. Marty, La naissance de la metaphysique chez Kant. Une étude sur la notion kantienne d’analogie, Paris, Beauchesne, 1980). ↩︎

  5. I. Kant, Prolegomeni ad ogni metafisica futura che vorrà presentarsi come scienza, tr. it. a cura di P. Martinetti (con testo tedesco a fronte), Rusconi, Milano 1995, p. 251. ↩︎

  6. Ibidem↩︎

  7. Sulla Dialettica trascendentale, l’opera di più ampio respiro ed impegno teoretico rimane quella, ormai classica, di Heinz Heimsoeth (cfr. H. Heimsoeth, Transzendentale Dialektik. Ein Kommentar zu Kants Kritik der reinen Vernunft, 4 voll., De Gruyter, Berlin, 1966-1971). Tra i lavori più recenti, il volume di Michelle Grier si segnala sia per l’attenta analisi del livello argomentativo generale della Dialettica, sia per la continua sottolineatura degli aspetti metodologici ed epistemologici della concezione kantiana dell’uso regolativo delle idee (cfr. M. Grier, Kant’s Doctrine of Transcendental Illusion, Cambridge University Press, Cambridge 2001). ↩︎

  8. Critica della ragion pura, cit., p. 288 ↩︎

  9. Il metodo con cui Kant «ricava» le tre idee della ragion pura dalle forme dell’inferenza sillogistica (categorica, ipotetica o disgiuntiva) è stato spesso criticato come «oscuro» ed «artificioso», non senza qualche fondamento. Per un’analisi delle obiezioni mosse a Kant su questo punto e un tentativo, se non di difesa, almeno di comprensione più approfondita dell’argomento kantiano, cfr. M. Grier, Kant’s Doctrine of Transcendental Illusion, cit., pp. 133-139. ↩︎

  10. Critica della ragion pura, cit., pp. 292-293. ↩︎

  11. I. Kant, I progressi della metafisica, tr. it. a cura di P. Manganaro, Bibliopolis, Napoli 1967, p. 97. ↩︎

  12. La differenza fondamentale tra conoscenza infinita e conoscenza finita è che mentre la prima è creatrice del suo oggetto, alla seconda, caratteristica dell’uomo, l’oggetto è originariamente «dato» (e solo in quanto «dato» ha bisogno di essere «pensato», determinato attraverso le categorie dell’intelletto). Scrive Heidegger: «Se la conoscenza finita è intuizione ricettiva, bisogna che il conoscibile si mostri da sé. Ciò che la conoscenza finita può render manifesto è dunque, in sostanza, l’ente che si mostra, quello che appare, il fenomeno (Erscheinung). Il termine “fenomeno” designa l’ente stesso in quanto oggetto della conoscenza finita» (M. Heidegger, Kant e il problema della metafisica, tr. it. a cura di M. E. Reina riveduta da V. Verra, Laterza, Roma-Bari 1985, p. 37). ↩︎

  13. Sottolineando l’ontologicità dell’intuizione pura, Heidegger ha liberato l’interpretazione dell’Estetica trascendentale da ogni residuo «sensualistico»: «L’Estetica trascendentale ha il compito di porre in evidenza l’aisthesis ontologica, grazie alla quale diviene possibile “scoprire a priori” l’essere dell’ente» (M. Heidegger, Kant e il problema della metafisica, cit. p. 52). ↩︎

  14. Quando Kant definisce necessaria e inevitabile l’illusione che ci spinge a considerare le idee come oggettive, ovviamente non vuol dire che sia impossibile sottrarvisi. Propriamente parlando, necessaria e inevitabile è unicamente la fenomenologia dell’illusione, la «materia» della rappresentazione illusoria, come risulta chiaro dall’esempio di Kant. Se infatti non posso non vedere il mare più alto dalla riva, e ciò non può essere modificato neppure dalla conoscenza delle leggi dell’ottica, questa conoscenza mi permette tuttavia di argomentare il carattere «illusorio» della percezione e di comprenderne la genesi. Sulla dinamica dell’illusione trascendentale, scrive Grier: «Sebbene Kant ritenga che il bisogno della ragione di passare dal “condizionato” alle idee dell’“incondizionato” sia inevitabile, […] egli nondimeno fa notare che il passaggio genera un’applicazione illegittima delle categorie — un’applicazione che è illegittima perché abbandona il terreno dell’esperienza possibile nel tentativo di determinare un mero “pseudo-oggetto”. Queste applicazioni illegittime delle categorie si manifestano nelle inferenze dialettiche della ragione» (M. Grier, op. cit., p. 139). ↩︎

  15. Critica della ragion pura, cit., p. 270. ↩︎

  16. Ivi, p. 296. ↩︎

  17. Ivi, p. 157. ↩︎

  18. Ivi, p. 162. ↩︎

  19. Si può parlare di un effetto «sospensivo» che caratterizza la totalità metafisica come tale, manifestando la strutturale finitezza della ragione nell’integrazione sintetica del condizionato: «La totalità metafisica è una sintesi impossibile, la modificazione radicale della sintesi sotto un’impossibilità che diviene lo specifico carattere fenomenologico della metafisica. L’idea della ragione infatti ha carattere presuntivo, contiene l’impossibilità di una esecuzione diretta. L’impossibilità è sospensione della sintesi, non annullamento dell’idea; questa perciò rimane nello stato di un perenne differimento» (F. Costa, La totalità differita. Metafisica ed esistenza in Kant, Angeli, Milano 1984). Costa individua chiaramente il nesso che sussiste, in Kant, tra l’impossibilità di una conoscenza oggettivante della totalità metafisica (che rimane quindi «differita») e l’emergere della dimensione esistenziale della «soggettività», nel senso più autentico del termine: la soggettività è infatti, nel suo fondo, «insoddisfazione», apertura infinita alla «trascendenza», al senso che oltrepassa l’esperienza («la ragione si rende presente all’uomo, in quanto tutte le spiegazioni scientifiche non bastano a soddisfarla»). Ciò consente di interpretare diversamente il significato dell’idea trascendentale e ri-definire la metafisica come «sapere», non più scientifico-oggettivo, ma teleologico-sistematico: «L’idea diviene ora “produttiva” […] in quanto rappresenta uno scopo della ragione. La struttura della totalità ora affermata è dunque essenzialmente teleologica. La ragione è finalità in senso proprio; questo vale del tutto a priori, prima e indipendentemente da ogni affermazione della finalità nella natura. S’intende che la finalità non è una categoria ma carattere d’atto della ragione come sistema» (Ivi, p. 186). ↩︎

  20. «La ragione che è, secondo Kant, la facoltà della sistemazione complessiva e definitiva dell’esperienza, insoddisfatta sempre dell’uso empirico dell’intelletto il quale non può mai darci la totalità assoluta dell’esperienza e perciò è come una trama senza fine, che ci rinvia sempre ad altri termini a noi non dati, ma condizionanti i termini a noi dati, si slancia per così dire al di là dell’esperienza, onde riattaccarsi a principi noumenici assoluti, che sono naturalmente non la totalità effettiva degli oggetti dell’esperienza, ma una specie di totalità virtuale, onde è determinata la serie intera degli oggetti possibili» (P. Martinetti, Introduzione alla metafisica. Teoria della conoscenza, Marietti, Torino 1987, p. 191). ↩︎

  21. «Il riferimento oggettivo del principio euristico è sempre un riferimento indiretto, ma in questa forma anche universalmente necessario, che “indica” compiti e “metodi” in ogni comprensione della natura» (H. Heimsoeth, Transzendentale Dialektik, cit., vol. III, p. 596). ↩︎

  22. Prolegomeni, cit., p. 215. ↩︎

  23. Critica della ragion pura, cit., p. 230. ↩︎

  24. Prolegomeni, cit., p. 225. ↩︎

  25. Ivi, p. 237. ↩︎

  26. Per alcune considerazioni generali sulla «dialettica» tra limite e possibilità, si veda l’ultimo paragrafo di questo saggio. ↩︎

  27. Critica della ragion pura, cit., p. 490. ↩︎

  28. Prolegomeni, cit., p. 241. ↩︎

  29. Critica della ragion pura, cit., p. 567. ↩︎

  30. I. Kant, Critica della ragione pratica, tr. it. a cura di A. M. Marietti (con testo tedesco a fronte), Rizzoli, Milano 1994, p. 371. Il concetto del sommo bene non compare nell’Analitica della ragion pura pratica (la parte dell’opera dedicata espressamente all’individuazione ed analisi del principio formale costitutivo della moralità), ma soltanto nella Dialettica della ragion pura pratica (in cui si affaccia invece l’esigenza di determinare l’oggetto della volontà morale). L’oggetto ultimo cui tende la ragion pura pratica è la totalità incondizionata, ma in questo modo, analogamente a quanto avviene nel campo teoretico, la ragione diventa «dialettica» ed entra in conflitto con se stessa (riprendendo il linguaggio della prima Critica, Kant parla qui di «antinomia» della ragion pratica). La tensione di fondo che genera la dialettica in campo pratico è quella tra la virtù, il rispetto scrupoloso e disinteressato della legge morale, che costituisce la condizione suprema dell’etica, e la felicità, che per un essere finito non può non entrare a far parte della «totalità» del senso dell’istanza pratica. La soluzione dell’antinomia non consiste nella semplice eliminazione della felicità dall’etica («stoicismo»), e neppure nell’identificazione immediata della virtù con la felicità («epicureismo»), bensì nella rigorosa subordinazione della felicità alla virtù: per avere un valore etico, la felicità deve essere pensata esclusivamente come conseguenza (in un mondo possibile) del rispetto della legge. Sull’antinomia della ragion pratica e il suo rapporto con la dottrina del sommo bene (se vi sia realmente un’«antinomia», come ritiene Kant; il ruolo effettivo svolto dai postulati nella sua soluzione; la differenza tra mondo sensibile e mondo intelligibile, ecc.), cfr. B. Milz, Der gesuchte Widerstreit. Die Antinomie in Kants Kritik der praktischen Vernunft, De Gruyter, Berlin/New York 2002. ↩︎

  31. Critica della ragione pratica, cit., pp. 373ss. ↩︎

  32. Che l’etica kantiana sia tenacemente e sistematicamente ostile alla felicità, che dunque quest’ultima non possa in nessun caso rappresentare un «bene», è opinione diffusa e trova riscontro in affermazioni assai nette di Kant al riguardo. Tuttavia ciò non corrisponde alla realtà, soprattutto se la questione della felicità viene analizzata non solo nella Critica della ragion pratica, ma anche per esempio nella Metafisica dei costumi, più attenta agli aspetti «applicativi» della riflessione morale. Recentemente, Allen Wood ha inteso mostrare come in Kant il valore «condizionale» della felicità (cioè il fatto che essa non possa essere, di per sé, un bene) non conduca ad una posizione antieudaimonistica di principio, e proprio il concetto del sommo bene nel mondo ne offre una chiara testimonianza: «Dal punto di vista umano, il valore condizionale della felicità significa che essa è buona solo nella misura in cui il suo scopo è moralmente permesso. La felicità di cui godo attraverso la violazione di diritti altrui o del mio dovere non è un bene. Ma, in conseguenza di ciò, ogni porzione di felicità che mi pongo come fine senza violare nessuno dei miei doveri diventa un bene e ha un diritto oggettivo su tutti gli esseri razionali» (A. Wood, Kant’s Ethical Thought, Cambridge University Press, Cambridge 1999, p. 409). La monografia di Wood è senz’altro tra le più aggiornate e complete uscite negli ultimi anni e ha soprattutto il pregio di sottolineare la «concretezza» del pensiero etico di Kant, spesso al di là delle sue formulazioni esplicite. ↩︎

  33. Critica della ragione pratica, cit., pp. 403-405. ↩︎

  34. Ivi, p. 405. ↩︎

  35. Muovendo da questo concetto kantiano-fichtiano dell’«infinità» del compito morale, Cohen stabilisce una distinzione rigorosa tra eternità ed immortalità, che in Kant ancora si intrecciavano e confondevano: «L’eternità non significa così null’altro che la prospettiva dell’incessante, infinito tendere ad andare avanti da parte della volontà pura. Di per sé, non significa affatto un tempo eterno o un luogo eterno, ma solo il lavoro eterno» (H. Cohen, Etica della volontà pura, tr. it. a cura di G. Gigliotti, ESI, Napoli 1994, p. 296). Al contrario, per Cohen, l’idea dell’immortalità individuale non è necessaria alla fondazione dell’autocoscienza etica e affonda le sue radici nel mito. ↩︎

  36. Un’interpretazione del postulato dell’immortalità in senso radicalmente immanentistico è stata riproposta recentemente da Alain Renaut: «La nozione tradizionale d’immortalità dell’anima è nient’altro che la versione ipostatizzata dell’idea di un miglioramento indefinito del reale, di un progresso all’infinito e di una vittoria riportata all’infinito sulla natura — cioè, chiaramente, l’idea di un progresso eterno del genere umano o dell’immortalità della specie, che l’idea di immortalità individuale esprime alla sua maniera, a condizione di significare soltanto la relazione dell’individuo con un progresso collettivo che lo oltrepassa, in cui egli muore senza morire veramente, poiché il progresso verso il bene continua» (A. Renaut, Kant aujourd’hui, Aubier, Paris 1997, p. 178). ↩︎

  37. Critica della ragione pratica, cit., p. 407. ↩︎

  38. Ivi, p. 411. ↩︎

  39. Il fatto che la realtà del sommo bene debba richiedere un intervento di Dio non vuol dire che la realizzazione di esso non costituisca lo scopo finale della ragion pratica finita, il termine ideale della progettualità e della prassi umana. Al contrario, il sommo bene è per Kant «l’unico fine in cui possiamo vedere unificati gli sforzi di tutti gli esseri razionali ben disposti, e perciò è l’unico fine concepibile che possa essere universalmente condiviso da tutti gli uomini e considerato da essi come un fine comune di tutti i loro sforzi (nella misura in cui questi sforzi si accordano con la moralità)» (A. Wood, Kant’s Ethical Thought, cit., p. 313). Tra il sommo bene totalmente compiuto, e il sommo bene puramente sognato ed atteso, c’è l’intenzionalità concreta del lavoro etico degli uomini, e in questo spazio operativo si situano quelle tensioni ed ambiguità della dottrina kantiana del sommo bene spesso rilevate dalla critica. Sulle diverse accezioni del sommo bene nell’opera di Kant, cfr. J. Silber, «Kant’s Conception of Highest Good as immanent and transcendent», in: Philosophical Review (1959), pp. 469-492. ↩︎

  40. Critica della ragione pratica, cit., p. 413. ↩︎

  41. Ivi, pp. 431-433 (il corsivo è nostro). ↩︎

  42. Cfr. l’importante nota della Prefazione: «La libertà è bensì la ratio essendi della legge morale, ma la legge morale è la ratio cognoscendi della libertà. Poiché, se la legge morale non fosse prima pensata chiaramente nella nostra ragione, noi non ci riterremmo mai autorizzati ad ammettere qualcosa come la libertà (sebbene quest’ultima non sia in sé contraddittoria). Ma se non ci fosse alcuna libertà, sarebbe impossibile incontrare la legge morale in noi» (Ivi, p. 95, nota a). ↩︎

  43. Ivi, p. 455. ↩︎

  44. Per una corretta interpretazione del «primato», in continuità essenziale con il punto di vista della finitezza stabilito da Kant nella Critica della ragion pura, rimangono tuttora illuminanti le indicazioni di Abbagnano (Cfr. N. Abbagnano, Storia della filosofia, TEA, Milano 1995, vol. IV, pp. 366-370). ↩︎

  45. Critica della ragione pratica, cit., p. 429. ↩︎

  46. Ivi, p. 437. ↩︎

  47. Ibidem↩︎

  48. Ivi, p. 401. ↩︎

  49. Ivi, p. 113. ↩︎

  50. Ivi, p. 97. ↩︎

  51. Su questo punto fondamentale della «soggettività», spesso trascurato dalla critica, ha giustamente insistito Mario Casula, in un saggio dedicato alla questione del «primato della ragion pratica» in Kant (cfr. La fondazione del trascendente su basi morali: il mito del primato della ragion pratica, in: M. Casula, Studi kantiani sul trascendente, Marzorati, Milano 1963, pp. 165-218). Questo saggio, sebbene discutibile in alcune sue conclusioni, costituisce un efficace correttivo per tutte quelle interpretazioni che «sovradeterminano» il significato e la funzione della ragion pratica, rispetto alla possibilità di un superamento dei limiti della ragione teoretica e, quindi, di un accesso diretto dell’uomo nella sfera del noumeno. Per Casula, proprio questo presunto «superamento» dei limiti del teoretico attraverso la via del pratico, in cui consisterebbe il celebre «primato», è nient’altro che un mito, una leggenda storiografica, probabilmente alimentata dallo stesso Kant con alcune formulazioni poco felici, tuttavia incapace di resistere ad un’analisi più approfondita dei testi. Per quanto riguarda il rapporto tra idee trascendentali e postulati, «il primato della ragion pratica, analizzato a fondo nel suo presunto sconfinamento in campo noumenico, si riduce quindi, ci pare, a una variazione non nel contenuto dell’oggetto, ma nell’atteggiamento del soggetto verso di esso. Il contenuto dell’oggetto, rappresentato dalle idee trascendentali della ragione, è rimasto sostanzialmente intatto, trasformandosi da pura ipotesi trascendentale in postulato della ragion pratica, perché è rimasto chiuso irrimediabilmente entro i confini ristretti del noumeno negativo. Né poteva essere altrimenti, pena il crollo delle tesi più fondamentali della Critica della ragion pura. Il mutamento è avvenuto invece nell’unica direzione possibile, ossia da parte del soggetto, in quanto quelle proposizioni — Dio esiste, l’anima è immortale, ecc. — che prima erano conosciute in modo problematico, adesso sono affermate in maniera assertoria» (Ivi, p. 207). ↩︎

  52. Critica della ragion pratica, cit., pp. 455-457. ↩︎

  53. Nel caso della libertà, Kant parla di «fondamento» (ratio essendi) della legge morale, ma può farlo solo perché la stessa legge morale (ratio cognoscendi) esige la libertà: nel contesto pratico puro, la «libertà» è la stessa autonomia della soggettività come autodeterminazione del volere conformemente alla legge. ↩︎

  54. Critica della ragion pratica, p. 413. ↩︎

  55. Tra l’altro, la formula della «validità oggettiva» o «realtà oggettiva» che ricorre nella Critica della ragion pratica a proposito dei postulati non ha, di per sé, un significato realistico-ontologico; essa configura semplicemente un riferimento ad oggetti, intenzionale, ontologicamente neutro, ma «valido» (anzi necessario) sul terreno pratico. Cfr. M. Casula, op. cit., pp. 202-203. ↩︎

  56. Cfr. A. Renaut, Kant aujourd’hui, cit., p. 179. ↩︎

  57. Del tutto condivisibile appare quindi il seguente rilievo di Landucci: «L’argomento morale per la ‘postulazione’ dell’esistenza di Dio, Kant l’ha sempre presentato come oggetto d’una sorta di ‘fede’ (se non proprio solo d’una speranza), e comunqe l’ha sempre rigorosamente confinato nell’ambito pratico, facendone derivare, semmai, il ‘primato’ che, proprio per questo, sarebbe da riconoscere alla ‘ragion pratica’ nei confronti di quella teoretica, ma anche in tal modo confermandone l’estraneità rispetto a quest’ultima» (S. Landucci, Sull’etica di Kant, Guerini, Milano 1994, p. 203). ↩︎

  58. I. Kant, Critica della facoltà di giudizio, tr. it. a cura di E. Garroni e H. Hohenegger, Einaudi, Torino 1999, pp. 278-279. ↩︎

  59. Ivi, p. 288. ↩︎

  60. Cohen è stato uno dei critici più radicali non solo della dottrina dei postulati, ma della stessa idea del sommo bene, in cui ha ravvisato un pericoloso cedimento dell’etica kantiana all’eudaimonismo e dunque l’offuscarsi di quella purezza del movente morale che lo stesso Kant aveva così energicamente affermato. Scrive infatti Cohen: «Per la certezza della realtà etica che è autonoma in sé, suprema e inattaccabile, per la fermezza dell’autonomia morale e per l’affermazione della sublimità della legge morale formale, nella quale la massima privata, mediante la sua unità con la comunità degli esseri autonomi, diventa scopo in sé, scopo finale; in base a questa idea fondamentale dell’etica kantiana noi rifiutiamo i postulati; essi differiscono lo scopo finale; la determinazione materiale che era stata evitata s’insinua di nuovo nella legge morale» (H. Cohen, La fondazione kantiana dell’etica, tr. it. a cura di G. Gigliotti, Milella, Lecce 1984, pp. 323-324). D’altra parte, questa conseguenza può essere evitata distinguendo accuratamente il fondamento universale dell’etica dalla struttura di una volontà finita, in cui la moralità si incarna in una dimensione progettuale teleologica: «La tarda dottrina kantiana del sommo bene presuppone […] proprio la teoria definitiva della moralità e la fondazione dei suoi principi indipendentemente dall’idea del sommo bene; quest’ultimo sorge solo dall’applicazione della pura morale alla teleologia di un volere finito; non è lo scopo supremo già dato, ma quello che deve essere dapprima progettato, del nostro agire morale nel mondo» (K. Düsing, Il problema del sommo bene nella filosofia pratica di Kant, in: AA. VV., Introduzione alla morale di Kant. Guida alla critica, a cura di G. Tognini, NIS, Roma 1993, p. 135). ↩︎

  61. Pietro Chiodi ha bene illustrato l’insostenibilità di questa tesi, nel modo seguente: «Nulla di più falsante che inserire la rigorosa sottrazione del mondo morale alle condizioni di validità del mondo della conoscenza nel presunto progetto di una riabilitazione della vecchia metafisica e dei suoi schemi fondativi […]. Il mondo morale, come ogni altro mondo dell’attività umana, risponde a specifiche e precise condizioni di validità. La sua incondizionatezza rispetto al mondo della conoscenza non è il risultato di una sottrazione a qualunque ordine e tipo di considerazione, ma il modo di essere di un particolare tipo di condizionamento. Fra mondo della conoscenza e mondo morale esiste un rapporto di compatibilità e non di riduzione delle rispettive condizioni di validità. Questo è il significato del celebre: “Ho dovuto delimitare il sapere per far posto alla fede” della Prefazione alla seconda edizione della Critica della ragion pura» (P. Chiodi, La deduzione nell’opera di Kant, Taylor, Torino 1961, p. 278). ↩︎

  62. Questo punto è in realtà piuttosto controverso, alcuni autori contestano vivacemente la riduzione «soggettiva» della validità dei postulati. Ad esempio, Lewis White Beck, nel suo commentario analitico alla Critica della ragion pratica, obietta che se la dottrina dei postulati si riferisse esclusivamente al «postulare» come atto pratico e non alla verità dei postulati stessi, non sarebbe possibile costruire una teoria unitaria della ragione umana (teoretica e pratica); Kant, al contrario, proprio per aver pensato l’unità dei due interessi della ragione in modo tale che l’«insufficienza della ragione teoretica» venga colmata dalla ragion pratica, «ha considerato l’argomento morale [come valido] per gli oggetti posti, e non solo come un argomento per la necessità di porre questi oggetti» (L. W. Beck, Kants «Kritik der praktischen Vernunft». Ein Kommentar, Finke, München 1974, p. 243). Il rilievo di Beck ci pare corretto solo nella misura in cui, per Kant, i postulati hanno effettivamente un «oggetto», una direzione intenzionale legittima, e in questa struttura l’oggetto è tanto necessario quanto l’atto. Questo però non significa che si esca dalla necessità soggettiva di porre un oggetto (per la volontà), come ritiene Beck, che non a caso per caratterizzare lo statuto gnoseologico dei postulati ricorre al termine impegnativo di «verità». Ora, prescindendo dal fatto che Kant non ha mai definito esplicitamente un postulato pratico come proposizione «vera», dovrà ovviamente trattarsi di verità non teoretica, ma pratica. Invece la distinzione tra «necessità soggettiva di ammettere determinati oggetti» (in funzione di un interesse pratico) e una più profonda «verità dei postulati», se non è pura questione di preferenze terminologiche, riflette forse inconsapevolemente quella tendenza a ritrovare il teoretico nel pratico (a dedurre, in qualche modo, asserti teoretici da esigenze pratiche), che opera in varie interpretazioni del «primato» kantiano. ↩︎

  63. Critica della ragion pratica, cit., pp. 455-457. ↩︎

  64. Ivi, p. 95. ↩︎

  65. «Come la libertà non può essere dedotta dalla legalità naturale, ma è tuttavia possibile e […] irrinunciabile per l’autocomprensione dell’uomo, cioè la libertà non “esiste”, ma deve essere, così anche nell’idea della ragione si articola in generale un’esigenza dell’uomo, non oggettivante e comunque necessaria, a considerare se stesso come homo noumenon» (H. Konhardt, Die Einheit der Vernunft, cit., pp. 110-111). ↩︎

  66. Se per Kant la legge morale non necessita di «deduzione» da un altro campo concettuale poiché costituisce in se stessa e da se stessa una dimensione di evidenza, la libertà ha invece bisogno del «fatto» della legge morale per essere riconosciuta come «reale» nell’uomo: «Al posto di questa deduzione del principio morale invano cercata, interviene una cosa diversa e del tutto paradossale: come, viceversa, esso stesso funga da principio per la deduzione di una facoltà insondabile, che non poté essere provata da nessuna esperienza, ma che la ragione speculativa dovette almeno accettare come possibile […]; si tratta della facoltà della libertà, di cui la legge morale — che a sua volta non abbisogna di nessun fondamento giustificante — dimostra non solo la possibilità, ma la realtà (in atto), in enti che conoscono e riconoscono questa legge come obbligatoria e vincolante per se stessi» (Critica della ragion pratica, cit., p. 209). ↩︎

  67. Cfr., per esempio, S. Landucci, Sull’etica di Kant, cit., pp. 105-106. ↩︎

  68. Cfr. V. Delbos, La philosophie pratique de Kant, PUF, Paris 1969, pp. 399-400. ↩︎

  69. Deleuze nota giustamente che la determinazione pratica, fornendo un «oggetto» alle idee problematiche della ragione teoretica, non si riferisce nello stesso modo a ciascuna di esse: «La libertà, perciò, è meno un postulato che “un fatto”, o l’oggetto di una proposizione categorica. Le altre due Idee, come “postulati” sono solamente condizioni dell’oggetto necessario di una volontà libera: “ossia la loro possibilità è dimostrata dal fatto che la libertà è reale”» (G. Deleuze, La filosofia critica di Kant, Cronopio, Napoli 1997, p. 75). ↩︎

  70. In un’ottica non molto diversa da quella presentata qui, Delbos distingue due significati della libertà: da un lato «la facoltà che ha la ragion pura di essere autonoma», «la potenza pratica in sé», quale si manifesta nella forma della legislazione universale, dall’altro la «potenza pratica umana, certa di poter fare tutto ciò che deve, se vuole, e di ricevere per la realizzazione del suo fine totale l’aiuto di Dio, per ciò che le viene a mancare» (V. Delbos, op. cit., pp. 400-401). ↩︎

  71. Su quest’ultimo punto, non siamo d’accordo con Marty, il quale sembrerebbe considerare il postulato dell’esistenza di Dio tanto «certo» quanto la legge morale stessa (cfr. F. Marty, La naissance de la métaphysique chez Kant, Beauchesne, Paris 1980, pp. 276ss.). È giusto precisare che il postulato è qualcosa di più di un’«opinione soggettiva», intesa come atto arbitrario e inargomentabile: la connessione con l’interesse pratico è infatti ciò che distingue una mera convinzione privata da una fede razionale o «ragionevole». Tuttavia Marty, mettendo in risalto il carattere costruttivo e sistematico della metafisica kantiana, non pare assegnare analogo peso specifico ai testi in cui Kant mostra chiaramente come una fede «problematica» sia l’unica compatibile con la finitezza umana e, parimenti, con un’articolazione coerente del concetto trascendentale dell’autonomia. ↩︎

  72. Critica della facoltà di giudizio, cit., pp. 303-304. ↩︎

  73. In questa prospettiva, non condividiamo le conclusioni «disfattiste» di Casula, secondo il quale i postulati pratici sarebbero del tutto inadeguati a fondare anche solo una fede soggettiva, personale, in quanto «affermazioni radicalmente incerte, il cui fondamento soggettivo, il sentimento morale, può venir meno» (M. Casula, op. cit., p. 218). Qui la «demitizzazione» del primato della ragion pratica, che l’autore aveva perseguito con successo, si è forse spinta troppo oltre, rischiando di far scomparire, insieme al «primato», la stessa ragion pratica. In ogni caso, l’incertezza (oggettiva) che caratterizza i postulati è sempre connessa in Kant ad una positiva considerazione della finitezza umana e del suo senso. Scrive Abbagnano: «Come condizioni dell’impegno morale, i postulati devono avere lo stesso carattere delle idee della ragion pura: devono valere problematicamente. Non possono cioè dare una certezza incrollabile che sarebbe direttamente contraria alla condizione dell’uomo e renderebbe impossibile la stessa vita morale» (N. Abbagnano, Storia della filosofia, cit., vol. IV, p. 369). ↩︎

  74. Critica della facoltà di giudizio, cit., p. 300. ↩︎

  75. Critica della ragion pratica, cit., p. 463. ↩︎

  76. Ivi, p. 465. ↩︎

  77. Critica della facoltà di giudizio, cit., p. 284. ↩︎

  78. Ivi, p. 284. ↩︎

  79. Ibidem↩︎

  80. Ivi, p. 285. ↩︎

  81. Molti interpreti, anche basandosi su affermazioni di Kant apparentemente inequivocabili, identificano, più o meno consapevolmente, il piano della fede con quello della legge, al punto di ritenere che un’eventuale assenza di fede renderebbe la legge non solo più difficile da seguire per l’uomo, ma addirittura «autocontraddittoria». Scrive per esempio Huber: «Senza Dio la legge morale sarebbe autocontraddittoria, poiché l’oggetto, cui essa deve tendere incondizionatamente, sarebbe impossibile» (M. Huber, “Die Gottesidee bei Immanuel Kant” in: Theologie und Philosophie, 55 (1980), pp. 1-43, p. 38). Anche Delbos aveva riscontrato un nesso logico-apodittico (e non pratico-motivante) tra la legge morale e l’esistenza di Dio, quasi che la prima «implichi» la seconda, sebbene non direttamente come nel caso della libertà, ma a fronte dell’analisi del concetto del sommo bene (cfr. V. Delbos, La philosophie pratique de Kant, cit., pp. 394-395). Per quanto la stessa Critica della ragion pratica possa oscillare nella definizione del rapporto tra la legge morale e i postulati, ci sembra opportuno segnalare come gli autori che vogliono sottolineare il ruolo centrale dell’esistenza di Dio nella filosofia pratica kantiana, ignorino spesso le limitazioni poste chiaramente da Kant alla validità dell’argomento morale. ↩︎

  82. Critica della facoltà di giudizio, cit., pp. 283-284. ↩︎

  83. Ivi, p. 284. ↩︎

  84. Ivi, p. 304. ↩︎

  85. Ibidem↩︎

  86. Abbiamo parlato, a proposito del tener-per-vero, di una «decisione» che impegna il soggetto nella sua totalità, disponendolo all’«assenso» nei confronti di oggetti di cui non può accertarsi teoreticamente. Senza ulteriori indicazioni, il discorso potrebbe accreditare l’immagine di un vago «decisionismo» o «soggettivismo» di stampo esistenzialistico e post-esistenzialistico, che certo non potrebbe essere attribuito a Kant, non tanto per ovvie considerazioni storiche, quanto per precise ragioni teoriche. In questa ottica, è estremamente utile un rilievo di Manfred Kuehn, il quale fa notare come in Kant non vi sia realmente spazio per la pura decisione individuale laddove è in gioco un valore morale o religioso; il motivo del «libero interesse» non deve essere interpretato come se si trattasse di un atto gratuito, arbitrario, poiché è pur sempre la ragione umana ad incarnare, nella fede, questo interesse (cfr. M. Kuehn, “Kant’s Transcendental Deduction of God’s Existence as a Postulate of Pure Practical Reason”, in: Kant-Studien, 76 (1985), pp. 152-169). Se dunque la fede morale di Kant è ben lontana da qualsiasi decisionismo, non assumendo mai la forma della scommessa o del salto mortale, non ponendo mai unilateralmente l’accento sull’individualità della scelta, ci sembra però che un certo spessore «esistenziale» dell’apertura alle «cose del credere» sia effettivamente presente e risulti peraltro in linea con l’impostazione generale del razionalismo critico kantiano. Questa apertura è infatti accessibile ad ogni essere razionale finito (in quanto strutturalmente interessato al compimento dell’istanza pratica), ma, non potendo essere «comandata» bensì solo «raccomandata», rimane res subjecti↩︎

  87. Critica della facoltà di giudizio, cit., pp. 299-300. ↩︎

  88. Ivi, p. 300. ↩︎

  89. Di questo avviso è Weil, che così commenta la prospettiva della Critica della facoltà di giudizio sulla libertà come «fatto»: «Il cambiamento è talmente importante da coinvolgere anche la concezione della libertà. Kant, è vero, aveva esitato. Nella Critica della ragion pura, almeno a volte, aveva presentato la libertà come un fatto immediato e direttamente conosciuto; nella Critica della ragion pratica la libertà era dedotta dall’esistenza della legge morale, essa sola immediatamente saputa; ora Kant le riconcilia […]. La libertà si prova nell’azione: in altre parole, vi sono azioni sensate» (E. Weil, op. cit., pp. 92-93). ↩︎

  90. Cfr., in proposito, F. Kaulbach, Immanuel Kant, De Gruyter, Berlin 1969, p. 247. ↩︎

  91. Uno dei limiti più palesi dell’interpretazione heideggeriana del problema della metafisica in Kant ci sembra proprio quello di non aver valorizzato fino in fondo la dimensione etico-pratica della finitezza umana, come terreno nativo di una metafisica concreta. Per la verità, lo stesso Heidegger aveva aperto la strada per questo genere di approfondimento, in un paragrafo del suo Kantbuch dedicato all’analisi del nesso tra immaginazione trascendentale e ragion pratica (cfr. M. Heidegger, op. cit., pp. 137ss.); qui Heidegger offre un frammento di lettura ontologico-esistenziale del «sentimento morale»: «Sottoponendomi alla legge, io mi sottopongo a me stesso in quanto ragion pura. In questo sottopor-mi-a-me-stesso, io mi elevo a me stesso, come a un essere libero che si autodetermina. Questo particolare elevar-si a se stesso, sottomettendosi a sé, manifesta l’Io nella sua “dignità”. E in un senso negativo: nel rispetto per la legge, che io stesso mi do in quanto essere libero, io non posso disprezzarmi. […] Il rispetto è il modo d’esser responsabile dell’essere di fronte a se stesso, l’autentico esser se stesso» (ivi, p. 137). È tuttavia evidente che in Heidegger gli accenti fondamentali sono spostati altrove, e precisamente confluiscono in quella «ripetizione» del problema della temporalità come orizzonte essenziale dell’esistenza finita, che Kant aveva in qualche modo individuato nella sua dottrina dello schematismo trascendentale senza poterne svolgere coerentemente le implicazioni. Naturalmente le analisi heideggeriane del rapporto tra temporalità, finitezza e metafisica rimangono un punto di riferimento imprescindibile per l’ermeneutica kantiana, ma ci si può domandare se l’interesse assolutamente dominante posto sulla Critica della ragion pura non tradisca un «teoreticismo» di fondo cui Heidegger è rimasto fermo anche nel periodo successivo della sua riflessione filosofica. Non è infatti possibile «ripetere» il problema della metafisica anche muovendo dalla Critica della ragion pratica? Kant non ha forse richiesto l’unità della ragione umana finita nei suoi diversi interessi (teoretico e pratico), conferendo un «primato» di senso alla ragion pratica intesa come libertà? Per Krüger, il cui libro del 1931 sulla morale kantiana è una sorta di «contrappunto» dell’interpretazione di Heidegger, l’autentico nucleo della finitezza umana non è da rintracciare nella temporalità e nell’essere-per-la-morte, bensì nel costituirsi della legge morale come «fatto della ragione» (cfr. G. Krüger, Philosophie und Moral in der kantischen Kritik, II ed., Mohr, Tübingen 1969, pp. 230-231). L’opera di Krüger è discutibile per la sottovalutazione sistematica degli aspetti più moderni dell’etica kantiana e per una lettura forse troppo «platonizzante» di Kant, ma metodologicamente ha aperto una valida prospettiva di ricerca. Sulla «praticità» della domanda metafisica come domanda di senso, si vedano i volumi di Weil e Marty già citati. ↩︎

  92. Come la proporzione delle facoltà conoscitive dell’uomo sia saviamente adeguata alla sua destinazione pratica (Critica della ragione pratica, cit., pp. 465-469). ↩︎

  93. Ivi, p. 465. ↩︎

  94. La stessa nozione del primato della ragion pratica non esprime un primato sulla ragione teoretica, se ciò deve significare che il fondamento ultimo della ragione teoretica si trova al di fuori di essa, cioè nella pratica. In realtà, tra le due sfere della ragione umana è possibile solo correlazione (in termini di «equilibrio» o «armonia»), ma non «riduzione» dell’una all’altra, né «riconduzione» di entrambe ad un contesto semantico omogeneo, originariamente indifferenziato. «Primato della ragion pratica» significa invece che, nella composizione armonica tra interessi diversi in cui consiste la strutturazione unitaria della ragione, l’interesse pratico è l’unico che dischiude propriamente un orizzonte di senso all’esistenza umana nel mondo (si veda, in proposito, l’ultimo paragrafo di questo lavoro). Sull’unità della ragione umana in quanto si «estrinseca» in due dimensioni co-originarie e irriducibili, cfr. D. Henrich, “Der Begriff der sittlichen Einsicht und Kant’s Lehre vom Faktum der Vernunft”, in: Kant, hrsg. von G. Prauss, Köln 1973, pp. 226-227. ↩︎

  95. Critica della ragion pratica, cit., p. 467. ↩︎

  96. Ivi, p. 469. ↩︎

  97. Una delle esegesi più penetranti del passo in questione è quella fornita da Weil (cfr. E. Weil, Problemi kantiani, tr. it. a cura di P. Venditti, Quattroventi, Urbino 1980, pp. 44-46). L’autore pone giustamente in connessione l’impossibilità di una conoscenza oggettiva di Dio con la stessa struttura finita, temporale, libera e responsabile dell’esistenza umana nel mondo, dunque con il senso autentico di questa esistenza. Cfr. anche P. Chiodi, La deduzione nell’opera di Kant, cit., p. 279; H. Konhardt, op. cit, pp. 272-273. ↩︎

  98. «Ogni conoscenza, ogni scienza oggettivante di Dio andrebbe contro l’interesse dell’uomo, su un punto decisivo, il punto decisivo: il possesso di una tale conoscenza trasformerebbe l’essere libero nella propria responsabilità, soggetto delle proprie decisioni e delle proprie scelte, nello schiavo obbediente o in rivolta di un signore la cui onnipotenza, continuamente davanti agli occhi dell’uomo, farebbe di lui tutt’al più un tecnico della felicità» (E. Weil, op. cit., p. 45). ↩︎

  99. Critica della ragione pratica, cit., p. 469. ↩︎

  100. C. Chalier, Pour une morale au-de-la du savoir. Kant et Levinas, Albin Michel, Paris 1998. Questo studio costituisce un articolato confronto tra due prospettive che vengono talora collocate, piuttosto genericamente, ai poli opposti del pensiero etico (Kant come il filosofo dell’«autonomia», Levinas come il sostenitore più radicale dell’«eteronomia»). L’autore ha giustamente individuato nella tematica dell’«al di là del sapere» l’autentico punto di intersezione ed affinità tra i due modelli di filosofia morale. Solo muovendo da questo nucleo tematico comune si potranno poi delineare con chiarezza le differenze di orientamento: «Kant e Levinas rinunciano all’illusione di fondare la morale sul sapere e cercano nel soggetto la fonte della moralità. Tuttavia i loro percorsi d’approccio a questo soggetto divergono; l’uno parte dal finito, l’altro dall’infinito. In effetti, Kant fa innanzitutto astrazione dall’infinito e dalla presenza concreta dell’altro uomo, per isolare l’elemento morale nella sua purezza e scoprire le sue condizioni a priori. […] Levinas pensa al contrario che la dimensione etica del soggetto si rivela solo a condizione di cominciare dall’infinito e in quanto richiede la presenza singolare dell’altro uomo di fronte a sé. Ora, questa modalità presuppone, per il soggetto, la rinuncia ad ogni ricerca del fondamento. Essa passa per una relazione con l’infinito irriducibile ad una conoscenza, una relazione paradossale con ciò che significa senza rivelarsi e che Levinas chiama volto» (Ivi., p. 32). ↩︎

  101. «Senza l’uomo l’intera creazione sarebbe un semplice deserto, gratuita e senza scopo finale. Però non è neanche la sua facoltà conoscitiva (ragione teoretica) ciò in riferimento a cui l’esistenza di tutto il resto nel mondo riceve, solo allora, il suo valore, per il fatto che, per così dire, c’è qualcuno che può considerare il mondo. Infatti, se questa considerazione del mondo non gli rendesse rappresentabili nient’altro che cose senza scopo finale, dal fatto che esso viene conosciuto la sua esistenza non ne deriverebbe in alcun modo un valore; si deve già presupporre un suo scopo finale in riferimento al quale la stessa considerazione del mondo abbia un valore» (Critica della facoltà di giudizio, cit., pp. 274-275). ↩︎

  102. «Sono io che colgo nella conversione alla libertà ragionevole, nella comprensione immediata del mio fondamento, la possibilità di dare un senso alla mia esistenza e quindi a quella del mondo […]. Il mondo possiede senso e valore nella misura e solo nella misura in cui l’uomo si pone nella sua azione e per sua scelta come senso rendendo sensata la propria vita» (E. Weil, Problemi kantiani, cit., p. 95). ↩︎

  103. Su Kant come «filosofo della possibilità positiva», cfr. N. Abbagnano, Esistenzialismo positivo. Due saggi (1948), in: Id., Scritti esistenzialisti (a cura di B. Maiorca), UTET, Torino 1988, pp. 501-533, pp. 522-523. ↩︎

  104. «La ragion pratica “occupa” certamente lo “spazio vuoto” creato e preservato dalla ragione teoretica, ma non nel modo oggettivo che “dissimula” l’uso teoretico della ragione, bensì nel modo della realizzazione pratica; e questa è l’“apertura nella libertà”» (G. Reibenschuh, Menschliches Denken. Eine systematische Studie am Boden der Kantischen Philosophie, De Gruyter, Berlin/New York 1997, p. 194). Il lavoro di Reibenschuh non è soltanto una ricerca monografica su Kant, ma un dialogo fitto e appassionato con i temi centrali della filosofia kantiana, nella prospettiva di una «metafisica concreta»: «La “metafisica concreta” non è sostanzialmente una “dottrina”, che in quanto dottrina sarebbe sempre eteronoma, ma rappresenta la compenetrazione per principio processuale del singolo uomo concreto nella dimensione morale-spirituale, in cui egli non può mai essere “al posto di altri”» (G. Reibenschuh, op. cit., p. 226). Il criterio generale che l’autore adotta per distinguere la «metafisica astratta» dalla «metafisica concreta» è che quest’ultima: 1) si configura come orizzonte di senso e processualità, non come dottrina statica (lo «spazio vuoto» della ragione teoretica rende possibile la dinamica concreta della libertà); 2) la sfera di autenticità del soggetto è quella dell’autonomia morale, che tuttavia non può realizzarsi nell’interiorità privata, ma deve fungere essenzialmente da condizione di riconoscimento reciproco, comunicazione e «tolleranza» (nella relazione io-tu). Certo si tratta di un Kant riletto alla luce dell’esperienza filosofica contemporanea (Buber e Jaspers in particolare) e del dibattito, ancora molto vivo, sulla «crisi delle ideologie», ma proprio in questo tentativo di «attualizzazione» della metafisica kantiana consiste l’originalità del contributo di Reibenschuh. ↩︎

  105. Sulla «modernità» dell’etica kantiana le opinioni sono tuttora piuttosto discordanti. Già Krüger aveva sostenuto, con buoni argomenti e notevole impegno filologico, che Kant in realtà non si trova all’origine del pensiero moderno, bensì alla fine della tradizionale metafisica teistica; proprio questo genere di metafisica egli avrebbe cercato di «salvare» dalla dissoluzione incombente, attraverso le esigenze della ragion pratica e la dottrina dei postulati (cfr. G. Krüger, Philosophie und Moral in der Kantischen Kritik, cit., pp. 5ss.). Ora, ci sembra fuor di dubbio la presenza nel pensiero morale di Kant di elementi che si inseriscono in un’organizzazione coerente solo presupponendo, alla loro base, una concezione creaturale dell’uomo e della sua ragione (la ragione umana, come afferma il Weil interprete di Kant, è «teomorfa», deve pensarsi come imago dei, anche se, paradossalmente, non può conoscere nulla della natura di Dio). È però altrettanto vero che l’aver ricondotto chiaramente almeno due concetti della metafisica tradizionale (Dio e l’immortalità) nell’ambito del «soggettivo», della fede (e non del fondamento) morale, non rappresenta un estremo tentativo di conservazione dell’ordine ontologico vigente, bensì una rottura radicale con esso, forse oltre le stesse intenzioni di Kant. In ogni caso, anche accogliendo parzialmente l’obiezione di Krüger, occorre prendere atto che nella Critica della ragion pratica si manifestano precise linee di tendenza che, nel loro insieme, «collaborano alla costruzione di una coscienza «moderna», in quanto rendono il passaggio dalla morale alla metafisica teistica sempre più debole e soggettivo» (B. Milz, Der Gesuchte Widerstreit, cit., p. 352). ↩︎

  106. Cfr. A. Caracciolo, Kant e il nichilismo contemporaneo, in: Id., Pensiero contemporaneo e nichilismo, Guida, Napoli 1976, pp. 7-35. L’autore, tentando di valutare «la presenza di Kant nella vicenda del nichilismo contemporaneo, considerato nella molteplicità delle dimensioni che esso investe», scorge non solo, nella dottrina del male radicale, una manifestazione ante litteram della crisi del moderno nel cuore stesso della modernità, ma anche, nell’insistenza di Kant sulla fede morale come donazione di senso, l’attivazione di un circolo «non vizioso» che conduce oltre il nichilismo. ↩︎

  107. Per un’analisi critica del concetto di «trascendentale» e una fenomenologia delle non poche oscillazioni semantiche cui Kant lo sottopone nella stessa Critica della ragion pura, cfr. A. Rigobello, I limiti del trascendentale in Kant, Silva, Milano 1963, in cui si mette bene in luce la singolare natura di «aggettivo insostantivabile» del trascendentale kantiano. ↩︎