Recensione a Massimo Donà, Di un’ingannevole bellezza. Le «cose» dell’arte

Massimo Donà, Di un’ingannevole bellezza. Le «cose» dell’arte, Bompiani-Giunti, Milano-Firenze 2018, pp. 272, € 11,00.

Il variopinto orizzonte di interessi che Massimo Donà ha dimostrato nella sua ricchissima produzione saggistica lo ha spesso condotto verso ambiti non facilmente rinserrabili nelle strette maglie del discorso filosofico-accademico, ma sconfinanti in un «oltre» che insieme indica il fondamento dello stesso logos filosofico. Nella direzione del riconoscimento di un logos intrinsecamente delirante (in senso etimologico, beninteso) va letta anche l’ultima sua fatica, edita per i tipi di Bompiani, Di un’ingannevole bellezza. Le «cose» dell’arte. L’opera si presenta come un’indagine intorno ad autori ed opere difficilmente riconducibili ad un «canone», ad una corrente o scuola. Cosa possono avere in comune, infatti, il Don Chisciotte di Cervantes e il surrealismo di Breton, La Tempesta di Shakespeare e la metafisica dechirichiana? La risposta di Donà viene progressivamente definendosi nelle dense pagine del testo, secondo una ritmica cadenzata dal continuo riproporsi della domanda intorno all’«essenza» dell’arte che, non meno della risposta, costituisce il cuore pulsante del libro. Due direttrici fondamentali possono essere rintracciate nell’opera. Da un lato, l’attraversamento di alcune tra le più originali esperienze artistiche dell’evo moderno e contemporaneo conduce a ravvisare nella «cosa» artistica l’indice di un’individualità che nessun significato potrà mai esaurire, negando essa di essere ciò che d’altro canto non può non essere (in questo senso il riferimento caro a Donà è alla «pipa non-pipa» di René Magritte). Se letta sotto questa lente, la riflessione di Donà si riannoda, oltre che al suo poderoso sistema di estetica (Teomorfica, Bompiani, 2015), alla speculazione più che decennale intorno al senso della negazione. L’arte ci inviterebbe infatti a fare esperienza di quell’inquietante ni-ente che la riflessione filosofica a partire da Platone ha sacrificato sull’altare di una ben più rassicurante affermazione di alterità.

La seconda direttrice, forse più carsica ma indubbiamente presente nel testo, evoca il fondo «magico» di buona parte della filosofia e dell’arte contemporanea, quel magico che già Novalis aveva riconosciuto nel «semplice distinguersi, come tali, da parte di un soggetto e di un oggetto, il distinguersi di un Io da un non-Io» (p. 161). L’«ingannevolezza» artistica si rivela dunque in grado di dischiudere l’orizzonte della potenza autenticamente magica dell’individuale, ciò che per Donà è stato compreso da Breton più che da chiunque altro, in quanto consapevole che il «bello» «non è realizzabile in virtù di alcuna “disciplina”; ma richiede piuttosto una capacità immaginativa che ha sicuramente a che fare con il coraggio di situarsi in prossimità dell’inizio» (p. 181). A parziale integrazione di queste riflessioni, si potrebbe notare che a livello squisitamente speculativo, tale strettissima connessione tra origine, individuo e magia è stata compresa e sistematizzata da uno dei più grandi filosofi italiani del ’900 nonché più importante esponente del dadaismo in Italia, Julius Evola (autore ben noto a Donà e non a caso evocato in chiusura del libro, segnatamente nella terzultima nota). La caratteristica di questo libro è che quando la riflessione sembra potersi finalmente acquietare nel solido terreno di un’ultimativa definizione, ecco nuovamente fare irruzione la domanda intorno a «che cosa è arte?», «che cosa è bello?». Interrogazione e risposta, dunque, si profilano come la trama e l’ordito di una tela mai definitivamente terminata, sistole e diastole di un mai quieto anelito verso la definizione del «bello», la cui dimensione a-logica era ben stata portata alla luce da Platone (d’altronde, è nella città retta dai filosofi, quale viene prospettata dalla Politeia platonica, che gli artisti non possono trovare posto).

Senonché il carattere artistico dell’opera d’arte può essere intravisto proprio nel nulla di significato cui da ultimo essa sempre riconduce. In questa direzione Donà reinterpreta la «provocazione» duchampiana: se il grande dadaista francese ha riconosciuto che lo statuto artistico è dettato dal puro esser collocato in una cornice o in un contesto museale, Donà integra tale prospettiva sostenendo che «l’elemento dell’artisticità è dato, ossia è rinvenibile, solo là dove lo sguardo da esso reclamato riesce a farsi puro e incontaminato theorein, diretto a qualcosa di semplicemente dato, o meglio alla pura “datità” di quel che è dato» (p. 218). Su queste basi si innesta quella che può essere indicata come la vera e propria pars costruens della riflessione di Donà, volta a recuperare il carattere eminentemente artistico di uno sguardo in grado di afferrare il puro e semplice presente, quale paradossale orizzonte intrascendibile eppur sempre trasceso e dunque finalmente slegato dai vincoli del possibile (di un possibile che non può non esser tale, che è dunque proiezione del soggetto verso l’altrimenti rappresentato da ciò che può ancora essere o che avrebbe pur potuto non essere). Uno sguardo capace dunque di cogliere la ««vera», nonché «sacra» imperfezione» (p. 207) della cosa artistica che, sola, può reggere il peso dell’infinità di significati che sulle sue spalle vengono caricati.

Ecco dunque che le «inconcludenti conclusioni» che chiudono l’opera squadernano le grandi questioni che da sempre animano la riflessione filosofica, in primis il rapporto tra verità ed errore. Cosa meglio dell’arte può testimoniare l’inizio extrafilosofico di un discorso che anela al ricongiungimento con la sua vera origine? Ma come può un tale discorso non farsi portavoce anche del fondo errante della stessa verità? Il dettato, come abitudine nei testi di Donà, è alleggerito da uno stile tendente all’«orale» più che alla – certe volte esageratamente presuntuosa – concettosità dei testi specialistici. Ciò non inficia, è bene sottolinearlo, il grado di approfondimento speculativo né la linearità dimostrativa, piuttosto contribuisce a far meglio scivolare il lettore lungo la pur inevitabilmente complessa trama del testo. Le tappe dell’incedere, rappresentate dalla decina di capitoli che costituiscono il volume, tutti più o meno riconducibili ad un autore o ad un preciso orizzonte semantico, ben consentono di orientarsi in un cammino che a tratti non può non provocare una sorta di vertigine, salvo subito constatare che tale vertigine è dovuta all’intuizione, che non si fa mai completa visione, di un fondo che per dirla con Nietzsche «è così profondo, che anche la più chiara delle acque non lo tradisce».