Tempo e libertà nell’Essai sur les données immédiates de la conscience di Henri Bergson

Nel 1889 Henri Bergson presentò alla Sorbona la tesi di dottorato dal titolo Essai sur les données immédiates de la conscience,1 assieme alla dissertazione in latino Quid Aristoteles de loco senserit. Il saggio, pubblicato nello stesso anno, costituisce la prima opera di rilevo del filosofo francese: agli anni precedenti risalgono soltanto alcuni scritti minori di carattere pedagogico. In esso vengono anticipati alcuni dei temi fondamentali del pensiero bergsoniano, ed in particolare quella nozione che, a ragione, Bergson riteneva rappresentasse la sua idea più originale e feconda, e che di fatto costituirà un riferimento costante del suo percorso filosofico: il concetto di durata. Come è stato scritto, «la durata reale è il vero centro di tutta la filosofia di Bergson, il “nodo della questione”, da cui si irradiano tutti gli altri aspetti del suo pensiero».2 In questa nuova nozione Bergson faceva convergere alcuni temi classici dello spiritualismo francese, cui il filosofo si richiamava (mantenendo, tuttavia, una certa distanza critica3), come l’irriducibilità della coscienza alla conoscenza matematico-scientifica e la priorità concessa all’intuizione immediata di se stessi attraverso l’introspezione, sublimandoli però in un nuovo concetto di tempo, alternativo al tempo misurabile delle scienze positive.4

Oggetto del saggio, che consta di tre capitoli, è un altro tema caro alla tradizione spiritualistica: la libertà. Al fine di riformulare correttamente la questione, eliminando preliminarmente i falsi problemi che ne compromettono la comprensione, il giovane Bergson propone di rimettere in discussione i presupposti nascosti dell’idea di libertà, comuni sia ai deterministi che ai difensori del libero arbitrio. Per questa ragione, il terzo capitolo, dedicato specificatamente alla libertà, è preceduto dal capitolo in cui viene introdotta la nozione di durata pura, che avrebbe sgomberato il campo dagli equivoci sulla natura dell’interiorità, e quindi sul significato della libertà. A questi due capitoli se ne aggiunge un terzo, che apre il libro, volto ad intraprendere un confronto con le scienze psicologiche ufficiali di quel tempo, ossia la psicofisica, la psicologia fisiologica, l’associazionismo. Confronto obbligato, si direbbe: Bergson che si addottorava sulla natura della coscienza, non poteva esimersi da quella discussione. Egli stesso afferma di aver scritto questa parte della tesi per garantire la comprensibilità della sua posizione. C’è però un’occasione che farebbe pensare a qualcos’altro. L’esame di dottorato sostenuto da Bergson si concentrò quasi esclusivamente sulle tesi di questo primo capitolo, non degnando della considerazione che meritava il capitolo centrale, quello in cui era introdotta l’idea di durata. Ciò rese il giovane dottorando «furioso», come ammise egli stesso. Bergson era stato lungimirante: si era reso conto che la parte migliore del suo studio consisteva proprio in quella nozione, destinata a sopravvivere alle ben più effimere analisi psicologiche. C’è da sospettare, dunque, che l’aggiunta del primo capitolo volesse garantire non solo la chiarezza ma anche l’accoglienza delle sue tesi. Ciò, tuttavia, non significò uno snaturamento della sua posizione filosofica. C’è una singolare corrispondenza tra quanto Bergson afferma nel libro a proposito della libertà e la situazione nella quale egli avrebbe dovuto presentare la sua tesi, e dunque tra la teoria e il vissuto. Nel terzo capitolo Bergson sostiene che la libertà si manifesta fondamentalmente nelle situazioni solenni, in cui ne va dell’immagine che noi offriamo agli altri e a noi stessi, e consiste essenzialmente nell’essere fedeli a se stessi. Ora, il riferimento alle circostanze solenni fa pensare proprio alla discussione di dottorato. Ma per comprendere a fondo questa teoria della libertà all’apparenza lineare, è necessario esplorare la complessa geografia della coscienza composta nel Saggio, partendo da quel nuovo concetto di tempo interiore immaginato dall’autore.

1. La melodia del vissuto. La durata tra materia e spazio

Il secondo capitolo del Saggio si intitola De la multiplicité des états de conscience. L’idée de durée. Qui Bergson sostiene che il tempo reale sia solo il tempo interiore, la successione del vissuto, cui dà il nome di durata, probabilmente perché il termine «tempo» si espone più facilmente all’equivoco, essendo rappresentativo del tempo misurabile, la t dei fisici, che secondo il filosofo è nozione affatto diversa da quella della durata interiore.5 L’assunzione implicita e intuitiva che si trova alla base della tesi bergsoniana è che la temporalità reale implichi la successione.6 A ben vedere, afferma Bergson, fuori di noi, ossia fuori della nostra coscienza, non c’è mai successione reale. Ogni stato del mondo, infatti, è sempre e soltanto uno stato presente, e questo perché degli stati passati e futuri non c’è alcuna traccia. Certo, questi stati mutano, non sono mai gli stessi. Ma possiamo dire che si succedano realmente? È solo per una coscienza che ha memoria degli eventi passati e trattiene ciò che è avvenuto, che può dirsi esista successione. La memoria infatti non è solo ciò che ci permette di cogliere il passaggio tra gli stati: essa di fatto struttura la dinamica della successione, poiché conserva e al tempo stesso trasfigura gli stati passati. Essa conserva, cioè mantiene presenti gli eventi che non sono più, e trasfigura, perché li muta, non li confonde con lo stato del presente attuale, ma ne trattiene solo l’essenza virtuale.7 Per questa ragione, ritenere che la successione sia una realtà esterna a noi, vuol dire montare la dinamica della successione attraverso la memoria, e poi, una volta formato questo oggetto, farne a meno, come se la memoria non ci fosse. Ma per il mondo ogni stato basta a se stesso, non ha alcun rapporto con lo stato precedente, proprio perché questo non esiste più. Non c’è successione, e dunque non c’è tempo, ma un eterno presente.

Che cosa esiste della durata fuori di noi? Solo il presente, o, se si preferisce, la simultaneità. Le cose esterne cambiano, senza dubbio, ma i loro momenti si succedono solo per una coscienza che li ricordi. Al di fuori di noi, in un momento dato, osserviamo un insieme di posizioni simultanee: delle simultaneità precedenti non è rimasto più nulla. Porre la durata nello spazio, significa, con una vera e propria contraddizione, collocare la successione all’interno della simultaneità. E quindi non si deve dire che le cose esterne durano, ma piuttosto che in esse c’è una qualche inesprimibile ragione in virtù della quale non potremmo considerarle in momenti successivi della nostra durata senza constatare che sono cambiate. Questo cambiamento non implica, d’altronde, una successione, a meno che non si prenda il termine in una nuova accezione […].8

La distanza che il giovane Bergson, allo stadio aurorale del suo percorso filosofico, vuol porre tra noi e il mondo è tale che persino l’ovvietà del mutamento reale, agli occhi del pensatore sembra possedere una «inesprimibile ragione». Ciò, evidentemente, ha un riflesso sulla stessa idea del movimento delle cose. Non è solo la struttura temporale del divenire ad essere intaccata dall’assenza di memoria nella realtà, ma il divenire stesso. Che cos’è infatti il movimento? Bergson sostiene che esso sia una «sintesi mentale».9 Il senso comune ritiene che i movimenti fisici avvengano nello spazio: in realtà, avverte il filosofo, l’operazione con la quale si passa da una posizione nello spazio all’altra, occupa una certa durata, e dunque ha realtà solo per una coscienza che ricordi il passato, che abbia cioè spessore temporale e non sia schiacciata nel presente, come avviene per gli stati della materia. Nello spazio fuori di noi vi sarà sempre una sola posizione del mobile. È solo per un essere cosciente che le posizioni si susseguono in modo armonico, costituendo un tragitto, un farsi che impiega un certo tempo e non si sbriciola nello spazio.

Il tempo e il divenire, così, hanno realtà solo per la coscienza. È all’interno di quest’ultima che va, dunque, ricercata la temporalità reale. Ciò che la struttura della memoria consente, come si è visto, è l’organizzazione in un unico «progresso dinamico»10 di ciò che nella realtà si disarticola in una serie di stati esterni gli uni agli altri. La coscienza dispone armonicamente questi momenti in un processo unitario. Ma questo avviene perché è essa stessa una forma di organizzazione dinamica, che Bergson chiama per l’appunto durata. La durata è un’eterogeneità di stati di coscienza (percezioni, sensazioni, immaginazioni, idee…), la cui caratteristica essenziale è quella di non disporsi nella forma di una molteplicità distinta, ma in quella molto più sfuggente di una molteplicità confusa. La molteplicità distinta è quella formata da elementi giustapposti e numerabili, che si allineano su di un mezzo omogeneo, creando una fila intermittente di unità separate le une dalle altre. Ma come potrebbero disporsi in questo modo gli stati di coscienza? Innanzitutto, in che modo andrebbe sancito l’inizio e la fine di uno stato? Come riconoscerne gli estremi temporali, e quindi separarli gli uni dagli altri? E poi, in quale mezzo omogeneo verrebbero a disporsi questi stati, come le perle variopinte di una collana che sono tenute insieme da un unico filo?11 In verità gli stati di coscienza, afferma Bergson, non potrebbero mai disporsi secondo giustapposizione, perché sono elementi di un divenire radicale, che sconfinano l’uno nell’altro, garantendo così quella continuità temporale che ognuno di noi riconosce immediatamente.

La caratteristiche essenziali della molteplicità degli stati interiori sono due: la compenetrazione e l’eterogeneità. Il primo aspetto è quello che consente la continuità del divenire coscienziale. Sono gli oggetti ad essere impenetrabili: ma «gli stati di coscienza sono progressi, e non cose».12 Gli stati sono parti di un divenire, e dunque non si dispongono nello spazio, ma si dispiegano nel tempo. In quanto tali possono confondersi, compenetrarsi, sconfinare l’uno nell’altro, darsi asilo vicendevolmente, sfumare. Lo spettro dei colori offre certamente l’immagine migliore di questa condizione. Bergson, che in questo saggio più volte denuncia l’insufficienza del linguaggio nell’esprimere ciò che è per sua natura ineffabile, ricorre spesso ad immagini e similitudini che possano suggerire le idee più complesse e refrattarie alla parola, ma sempre con grande efficacia teorica. Tra le varie espressioni con cui Bergson tenta di rendere la ricchezza confusa degli stati interiori, troviamo anche il riferimento al colore.13 Come i colori dello spettro sconfinano gli uni negli altri, così gli stati di coscienza si succedono nella durata. L’immagine, come si diceva, ha una grande pertinenza filosofica poiché riesce a rendere il senso dell’analisi bergsoniana. Lo stato di coscienza non si definisce in base alla nettezza della sua durata, come se il suo inizio e la sua fine potessero essere determinati con precisione. È la tonalità emotiva, la colorazione dello stato di coscienza, ciò che ne definisce la personalità: ogni stato ha un suo colore. Un colore però che non finisce bruscamente, ma sfuma in quello successivo, imbevendosi della nuova tonalità. In realtà, dovremmo dire «si trasforma» in quello successivo, poiché la separazione tra i due stati diversi è solo un’operazione retrospettiva. In questo senso vi è compenetrazione e continuità.14

Come abbiamo detto, la durata è caratterizzata oltre che dalla compenetrazione, anche dall’eterogeneità. L’immagine dello spettro di colori si rivela ancora una volta efficace: la continuità entro la quale sono organizzati gli stati di coscienza non si tramuta in una asettica omogeneità, che renda indistinguibili i vari stati. Se non è possibile una distinzione temporale, poiché essi si compenetrano e si trasformano l’uno nell’altro, va tuttavia riconosciuta la ricchezza cromatica dell’interiorità, che non assomiglia ad un monotono prolungamento dello Stesso, ma ad una evoluzione, un accrescimento. Ciò è possibile proprio perché gli stati durano nel loro insieme, ossia si conservano anche quando sfumano. Si conservano perché sono sorretti dalla memoria. È la memoria che rende possibile l’eterogeneità, ossia il mutamento radicale. Infatti la memoria, che, come Bergson chiarirà nell’opera successiva, Matière et mémoire, non è una semplice facoltà di archiviazione del passato, ma una sorta di proprietà degli stessi stati di coscienza di conservarsi, impedisce che uno stadio psicologico possa ripetersi: e questo perché la ripetizione avverrebbe comunque in un momento diverso del tempo. Solo una realtà che non si autoconserva può ripetersi. La coscienza, invece, è memoria: consiste in un accrescimento costante. Ciò vuol dire che uno stato interiore non può mai riproporsi realmente, poiché ogni volta che compare differisce dalla sua precedente apparizione per almeno un aspetto: e cioè l’essere più vecchio.15 Per questa ragione, «lo stesso momento non si presenta due volte».16 In sintesi: «la nostra concezione della durata tende proprio ad affermare l’eterogeneità radicale dei fatti psicologici profondi, e l’impossibilità che due di essi si assomiglino completamente, poiché costituiscono due momenti differenti di una storia».17

La durata continua ed eterogenea si costituisce, in questo modo, come un divenire radicale che non conosce pause, e che attraversa momenti sempre nuovi e dunque imprevedibili: nel fiume incessante della coscienza non ci si può bagnare due volte. Il fluire interiore ha la stessa temporalità della vita, la cui cifra è lo sviluppo irreversibile: «il sentimento è un essere che vive, che si sviluppa, e che di conseguenza cambia continuamente».18 O ancora:

[…] anche gli elementi psicologici più semplici, per quanto poco profondi, hanno una loro personalità e una loro vita propria; sono in perpetuo divenire e uno stesso sentimento, per il solo fatto di ripetersi, è già un sentimento nuovo. E anzi, manteniamo il suo vecchio nome solo perché corrisponde alla medesima causa esterna o si traduce all’esterno con segni analoghi.19

Si aggiunge così un terzo carattere ai due tratti fondamentali della durata interiore, ossia l’irreversibilità. Il nesso vita-coscienza (gli stati interiori come esseri viventi) rimarrà un elemento centrale nello sviluppo del pensiero bergsoniano, e troverà la sua massima espressione in L’évolution créatrice, allorché la vita sarà espressione di un principio di natura psicologica. Nel Saggio, questo nesso si svilupperà nel senso di un comune destino temporale, appunto la necessaria irreversibilità della durata.

Qui [scil. nell’ambito della vita], sembra proprio che la durata agisca come una causa, e l’idea di riportare le cose al loro posto al termine di un certo tempo, implica una sorta di assurdità, poiché in un essere vivente non si è mai verificato un simile ritorno all’indietro. Ma ammettiamo pure che l’assurdità sia solo apparente, e che derivi dal fatto che, essendo infinitamente complessi, i fenomeni fisico-chimici che hanno luogo nei corpi viventi non abbiano mai alcuna possibilità di riprodursi tutti insieme: si dovrà per lo meno riconoscere che l’ipotesi di un ritorno all’indietro diviene inintelligibile nell’ambito dei fatti di coscienza. Per il solo fatto di prolungarsi, una sensazione si modifica al punto di divenire insopportabile. In questo caso, lo stesso non permane come tale, ma si rinforza ed accresce di tutto il suo passato. In breve, se così come lo concepisce la meccanica, il punto materiale permane in un eterno presente, il passato, che è forse una realtà per gli esseri viventi, lo è sicuramente per gli esseri coscienti. Mentre per un sistema che si suppone di conservazione il tempo trascorso non costituisce né un guadagno né una perdita, certamente per l’essere vivente, e incontestabilmente per l’essere cosciente, esso costituisce un guadagno.20

Ecco dunque presentate due realtà contrapposte: la durata reale dentro di noi, e la realtà intemporale fuori di noi. Il punto di discrimine tra questi due piani è dato dal lavoro della memoria. È così che Bergson riassume questa opposizione: «Così, nel nostro io, vi è successione senza esteriorità reciproca; al di fuori dell’io, esteriorità reciproca senza successione».21 E questo perché gli stati del mondo sono esterni gli uni agli altri, ma non si succedono realmente, mentre gli stati di coscienza si compenetrano, e dunque tra loro non vi è esteriorità,22 ma si succedono perché gli stati passati non si annullano, come avviene nel mondo fisico, sebbene vengano sostituiti come immagini virtuali da nuovi stati attuali. Dunque, l’unico divenire reale è quello dello spirito, che fluisce e crea novità impreviste, sorte in forza di quel crescere su se stesso proprio della memoria. La durata è una storia che si svolge, un vita che si accresce, un maturare.

Tuttavia, Bergson aggiunge che tra questi due poli si crea una sorta di endosmosi: la durata cede la sua temporalità al mondo, acquistando in cambio quella separazione tra i momenti che nella realtà fisica raggiunge il suo massimo grado. Più precisamente, per un verso contraiamo l’abitudine a separare i momenti della nostra durata corrispondenti agli stati del mondo; per l’altro creiamo un tempo omogeneo, in cui si allineano i momenti del mondo fisico, in virtù di quella memoria che il mondo non ha.

Il tempo creato dall’incontro tra questi due piani è un mezzo che perde la compenetrazione della durata e l’annullamento degli stati passati del mondo. È questo però un tempo fittizio, immaginario, concepito più che vissuto. A ben vedere, più che di tempo si tratta di spazio: è un tempo spazializzato.23 Che cos’è lo spazio, per Bergson? Il filosofo ritiene che lo spazio sia un mezzo vuoto omogeneo, e seguendo l’esempio di Kant, ne fa una forma della sensibilità umana. È improbabile che anche gli animali si rappresentino un mezzo omogeneo in cui si dispongono gli oggetti materiali (si pensi alle correnti magnetiche che permettono ad alcuni animali di tornare in luoghi molto distanti). Ora, se lo spazio è un mezzo omogeneo, reciprocamente ogni mezzo omogeneo è spazio. Non esistono due tipi di omogeneità, uno della coesistenza e l’altro della successione: il tempo caratterizzato dalla omogeneità è in realtà spazio.

Questo mezzo omogeneo, che è la forma in cui ci rappresentiamo le cose, viene creato dalla coscienza per scopi pratici: lo spazio ci serve. Esso è un prodotto dell’intelligenza umana, che ci consente di distinguere tra le cose, astrarre, contare, e forse, dice Bergson, anche parlare. Lo spazio, e quindi la forma omogenea che ci permette di separare le cose, considerandole nella loro esteriorità reciproca, è il prodotto della nostra stessa natura sociale e linguistica. Il mondo dell’interiorità, della coscienza pura, è un mondo confuso, in cui gli stati si accavallano e si fondono. L’intersoggettività, invece, richiede precisione, divisioni, ruoli. Lo stesso linguaggio è incompatibile con la durata reale, poiché questa costituisce un divenire radicale che impedisce ogni ripetizione, mentre la parola è di per sé una forma di generalizzazione che implica la ripetizione. La parola indica sempre la stessa cosa: ma nel profondo della coscienza l’identità pura non esiste (se non per quell’intero che è l’io, ossia l’insieme degli stati). Abbiamo visto che ogni elemento della coscienza muta radicalmente. Dunque, esprimibile a parole non è ciò che appartiene solo a noi, che in quanto tale è ineffabile, ma sono «le impressioni provate dalla società intera in un caso determinato».24 Per questa ragione Bergson parla di «parola brutale».25 Tutto ciò rientra in quella forma in cui si concretizzano le nostre esigenze pratiche sulle cose che è lo spazio: «La tendenza in virtù della quale ci raffiguriamo chiaramente questa esteriorità delle cose e l’omogeneità del loro mezzo è la stessa che ci porta a vivere in comune e a parlare».26

La spazializzazione del tempo è, allora, un tradimento della durata. Il tempo spazializzato è infatti un tempo omogeneo, discontinuo, reversibile: i momenti stagliati su di uno sfondo omogeneo non si compenetrano, ma vengono allineati in una serie in cui è impossibile riconoscere una ragione intrinseca che ne impedisca l’inversione. La durata eterogenea, continua e irreversibile è così perduta. Ma come abbiamo ricordato, mentre quest’ultima è il tempo concreto vissuto dalla coscienza,27 il tempo spazializzato è solo una rappresentazione degli eventi: insomma, un tempo derivato. La raffigurazione migliore di questo mezzo omogeneo è la linea, in quanto serie di punti. Un’immagine, questa, che non potrebbe adattarsi al tempo originario.

Ma, familiarizzati con l’idea dello spazio, addirittura ossessionati da essa, l’introduciamo a nostra insaputa nella rappresentazione della pura successione; giustapponiamo i nostri stati di coscienza in modo da percepire simultaneamente, non più l’uno nell’altro, ma l’uno accanto all’altro; in breve, proiettiamo il tempo nello spazio, esprimiamo la durata attraverso l’estensione, e la successione assume per noi la forma di una linea continua o di una catena, le cui parti si toccano senza penetrarsi. Segnaliamo inoltre che quest’ultima immagine implica la percezione, non più successiva, ma simultanea, del prima e del dopo, e che sarebbe contraddittorio ipotizzare una successione che al tempo stesso fosse una pura successione e che si mantenesse in un solo e medesimo istante.28

Il tempo reale va allora riguadagnato, riscoperto dentro se stessi: esso è una conquista, che, come vedremo, ha a che fare con la libertà. L’ossessione dello spazio, alimentata dalla sua utilità pratica, copre la nostra reale natura irriducibile ad ogni generalizzazione, la nostra radicale e inafferrabile differenza. È per questo che siamo incapaci di rappresentarci la durata, e tendiamo a distenderla in un rassicurante spazio ideale, quel mezzo intemporale in cui ogni cosa è quella che è.

Come appare evidente, solo il tempo spazializzato può essere misurato. La durata reale è infatti refrattaria ad ogni misura,29 e questo perché, come Bergson aveva mostrato all’inizio del capitolo, il numero è legato strettamente allo spazio. Ogni numerazione implica una giustapposizione di elementi, di cui si trascurano le differenze: essi si distinguono solo per lo spazio (ideale) occupato. Ciò indica l’estraneità della durata, la cui natura è priva di spazio, ad ogni numerazione: i momenti della durata non sono allineati, e non sono nemmeno radicalmente esterni gli uni agli altri, come le unità di un numero.30

Com’è possibile, allora, la misurazione del tempo, se l’unico tempo reale si riduce alla durata, che di per sé non è misurabile? Troviamo qui una delle analisi più famose di Bergson, sulla quale sarebbe tornato più avanti nella sua discussione della relatività einsteiniana.31 Bergson è consapevole di essere di fronte ad un problema insidioso: la misurazione del tempo e la sua efficacia pratica sembrerebbero dimostrare, infatti, l’esistenza di un tempo alternativo a quello della coscienza. Lo scopo di Bergson è allora quello di impedire che la durata venga in qualche modo marginalizzata, attraverso l’idea che essa rappresenti il modo in cui ogni coscienza vive il tempo. In altri termini, egli sventa il possibile fraintendimento secondo cui la durata costituirebbe il tempo vissuto accanto al tempo oggettivo, indipendente dalla coscienza. Bergson vuol mantenere così la centralità della durata nella costituzione dell’idea di tempo fisico.

Ora, secondo il filosofo, il tempo misurato non esprime né la durata né un ipotetico tempo oggettivo. Ciò che noi contiamo è in realtà un’intersezione tra la durata e lo spazio: la simultaneità. È un certo numero di simultaneità tra la nostra coscienza e le posizioni nello spazio di un misuratore (orologio, pendolo, ecc.) che noi contiamo effettivamente. Teniamo dunque conto soltanto degli estremi di alcuni intervalli di tempo, mentre la durata reale di questi stessi intervalli ci sfugge del tutto: e questo perché essa è di fatto incalcolabile. Bergson fa un esempio illuminante in proposito, che mostra con chiarezza il senso del suo ragionamento:

Che dal punto di vista della scienza l’intervallo di durata non conti è dimostrato molto bene dal fatto che, se tutti i movimenti dell’universo si producessero due o tre volte più velocemente, non dovremmo affatto modificare né le nostre formule né i numeri che vi introduciamo. La coscienza avrebbe un’impressione indefinibile e in qualche modo qualitativa di questo cambiamento, che però non apparirebbe al di fuori di essa, poiché nello spazio si produrrebbe ancora lo stesso numero di simultaneità.32

Bergson torna più avanti sullo stesso esperimento mentale:

[…] supponiamo, per un istante, che un genio maligno, ancora più potente di quello di Descartes, abbia ordinato a tutti i movimenti dell’universo di raddoppiare la loro velocità. I fenomeni astronomici, o per lo meno le equazioni che ci permettono di prevederli, non cambierebbero affatto, poiché in queste equazioni il simbolo t non designa una durata, ma un rapporto tra due durate, un certo numero di unità di tempo, o, infine, in ultima analisi, un certo numero di simultaneità; e queste simultaneità, queste coincidenze, si produrrebbero ancora nello stesso numero; solamente, sarebbero diminuiti gli intervalli che le separano, ma tali intervalli non entrano affatto nei calcoli. Ora, questi intervalli sono proprio la durata vissuta, quella che percepisce la coscienza: se tra il sorgere e il tramontare del sole noi fossimo durati di meno, ben presto la nostra coscienza ci avvertirebbe che la nostra giornata è diminuita. Non ci darebbe certo la misura di questa diminuzione, e forse non la percepirebbe neppure subito come un cambiamento di quantità; constaterebbe però, in questa o in quella forma, una diminuzione dell’arricchimento quotidiano dell’essere, e che il progresso che tale essere realizza tra il sorgere e il tramontare del sole ha subito una modificazione.33

Di fatto, i calcoli esprimono relazioni che rimarrebbero immutate se tutti i movimenti dell’universo (dal più piccolo al più grande) subissero un’unica accelerazione. È importante sottolineare il carattere di generalità di questo esperimento. Basterebbe che un solo movimento non partecipasse all’accelerazione, perché i calcoli mutassero del tutto. Rispetto a questo movimento che conserva la sua antica velocità, tutti gli altri rivelerebbero la loro accelerazione. Ciò non accadrebbe, invece, se ogni movimento fosse coinvolto nell’aumento di velocità. Già così, Bergson coglie un elemento importante, e cioè che la misurazione del tempo riguarda solo la struttura delle relazioni (il numero di simultaneità), che resta immutata anche in caso di accelerazione. Quest’accelerazione può essere riconosciuta solo dal di fuori; una coscienza che vivesse in un mondo più veloce, partecipando a questa velocità come tutto il resto, non coglierebbe alcuna differenza. Ed è invece proprio qui che Bergson aggiunge un dato essenziale. A differenza del tempo misurato, che è un tempo fatto di relazioni, un tempo relativo, la durata è un assoluto. Essa è incomprimibile, ha un ritmo e una velocità che non possono essere aumentati o ridotti a piacere. Anche questa resistenza, questa pienezza temporale, giustificano forse la scelta del termine «durata» da parte di Bergson.

Questo carattere si manifesta, ad esempio, nel caso della previsione degli eventi futuri, che è una pratica scientifica tutt’altro che secondaria. Bergson pensa alla previsione di eventi astronomici come le eclissi. Lo scienziato anticipa questi avvenimenti, e ciò sembrerebbe negare la natura imprevedibile e durazionale del tempo reale. Se la durata è incomprimibile, come può l’astronomo prevedere il futuro?

Ora, quando l’astronomo predice un’eclissi di luna, per esempio, non fa altro che esercitare, a suo modo, quel potere che abbiamo attribuito al nostro genio maligno. Ordina al tempo di scorrere dieci, cento, mille volte più veloce, e ne ha tutti i diritti. […] l’astronomo può prevedere un fenomeno futuro solo a condizione di farne, fino a un certo punto, un fenomeno presente, o per lo meno di ridurre enormemente l’intervallo che ci separa da esso. In breve, il tempo di cui si parla in astronomia è un numero. […] in seguito, basterà restituire a tali unità la loro natura psichica per allontanare l’avvenimento nel futuro e dire che lo si è previsto, mentre in realtà lo si è visto.34

La natura reale del tempo consiste dunque in quella stoffa resistente con cui siamo fatti noi stessi. È il tempo delle nostre vite, che coincide con le nostre storie personali. Un tempo pieno, dunque, incalcolabile, che è l’opposto di ogni tempo spazializzato e che dona temporalità al mondo fisico, schiacciato nell’eterno presente. Abbiamo così tre possibilità temporali: il tempo spazializzato da noi immaginato; l’intemporalità della materia fuori di noi; la durata reale da noi vissuta. Bergson riprende queste tre possibilità nell’esempio del pendolo:

Quando per esempio dico che è appena trascorso un minuto, intendo con ciò che un pendolo, che batte i secondi, ha eseguito sessanta oscillazioni. Se mi rappresento queste sessanta oscillazioni in un sol colpo e grazie ad un’unica appercezione dello spirito, escludo per ipotesi l’idea di una successione: in questo caso non penso ai sessanta battiti che si succedono, ma a sessanta punti di una linea fissa, ciascuno dei quali simbolizza, per così dire, una oscillazione del pendolo. — Se invece voglio rappresentarmi queste sessanta oscillazioni in successione, senza modificare in nulla il loro modo di prodursi nello spazio, dovrò pensare a ciascuna oscillazione escludendo il ricordo della precedente, poiché lo spazio non ne ha conservato alcuna traccia: ma con ciò stesso mi condannerò a rimanere senza posa nel presente; rinuncerò a immaginare una successione o una durata. E se infine conservo, insieme all’immagine dell’oscillazione presente, il ricordo dell’oscillazione che la precedeva, accadrà o che avrò giustapposto le due immagini, e allora ricadiamo nella nostra prima ipotesi; oppure che le avrò percepite l’una nell’altra, compenetrate e organizzate fra loro come le note di una melodia, in modo da formare ciò che chiameremo una molteplicità indistinta o qualitativa, senza alcuna somiglianza con il numero: avrò allora ottenuto l’immagine della durata pura, ma al tempo stesso avrò completamente abbandonato l’idea di un mezzo omogeneo o di una quantità misurabile.35

Di queste tre possibilità, quella della durata è la più autentica. C’è una similitudine che torna più volte nel Saggio, ed è quella che meglio sintetizza la concezione bergsoniana della durata: è la melodia.36 Come la musica, la nostra durata interiore si sviluppa nel tempo, non è data tutta in una volta. Anzi, la sua stessa essenza è temporale. Una nota non è la stessa se dura pochi attimi o se si prolunga considerevolmente: allo stesso modo, la durata muta gli stati di coscienza. Come la musica, il nostro tempo interiore è invisibile ed è definito essenzialmente dalla tonalità emotiva: gli stati che si accavallano come note e si strutturano in alti e bassi, nel loro insieme si organizzano armonicamente creando un’unica sinfonia, ossia la nostra storia personale.37

2. I due volti del passato: memoria personale e spazio sociale

Bergson ritraduce in termini temporali il dualismo spiritualista che oppone l’anima alla materia, giungendo così ad un esito radicalmente soggettivista (che troverà una parziale correzione di tiro nelle opere più mature). È in questo contesto che si inserisce la teoria della libertà. Tuttavia, per coglierne appieno il senso, è necessario, secondo noi, comprendere meglio uno dei punti cruciali di tutto il pensiero di Bergson: la concezione del passato. Il passato è una nozione centrale del bergsonismo, peraltro dai significati molteplici. Abbiamo visto che la durata si presenta come un crescere su se stessa, un’evoluzione in cui ciò che è stato non viene abbandonato ma contribuisce a sostenere ciò che è adesso, creando un unico insieme dalle forme sempre diverse. Lo abbiamo letto: il tempo è un guadagno,38 la durata è un arricchimento quotidiano dell’essere;39 e questo perché il passato è una realtà.40 L’immagine migliore a questo proposito la offre L’évolution créatrice: la durata è come una palla di neve che cresce su se stessa.41 Tutto questo perché, a ben vedere, il passato non passa. La coscienza è fondamentalmente memoria, ossia conservazione integrale del nostro vissuto. Non una facoltà o un archivio, dunque, ma il nostro stesso passato che si conserva da sé, cedendo la sua attualità. La sostanza di ciò che siamo è dunque racchiusa nella nostra storia personale, nella nostra maturazione interiore, che, come un frutto acerbo che cresce, nulla perde del proprio passato, ma lo arricchisce di nuova linfa.

Questo tratto della durata costituisce, leggendo le pagine di Bergson, l’aspetto produttivo del passato, la sua polarità positiva. Questo passato è ciò che in ultima analisi ci definisce. Tuttavia, in Bergson il passato, come un Giano bifronte, sembra possedere anche un altro volto, del tutto opposto al primo. Uno dei temi ricorrenti del Saggio è la contrapposizione tra il farsi e il fatto. Bergson riconosce nel primo, e in genere in tutto ciò che esprime divenire, dinamismo, evoluzione, svolgimento, la cifra propria della durata. Al contrario, il fatto appartiene alla sfera dello spazio: come ogni oggetto spaziale, il fatto può essere sezionato, misurato, condiviso, espresso. E questo perché ogni fatto è in fondo un evento ormai morto, concluso, e dunque incapace di opporre la sua vitalità alla spazializzazione. È una riproposizione di quell’idea che abbiamo già presentato: gli stati di coscienza (e la durata come organizzazione degli stessi) sono progressi e non cose. Ma qual è l’essenza del fatto, ossia ciò che lo distingue dal farsi, se non l’essere passato? Pare così che, accanto ad un passato che costituisce la durata dall’interno, vi è un passato che invece è solidale con quel mezzo omogeneo che è lo spazio.

Ci sono molti esempi nel Saggio e in tutta l’opera di Bergson che suffragano questa lettura. Si prenda ad esempio questo passo:

[…] si identifica inconsciamente il tempo delle scienze esatte, quello che si riduce a un numero, con la durata reale. […] E questa identificazione è certamente facilitata dal fatto che in un gran numero di casi abbiamo il diritto di operare sulla durata reale come sul tempo astronomico. Così, quando ci ricordiamo il passato, e cioè una serie di fatti compiuti, lo abbreviamo sempre, senza tuttavia alterare la natura dell’avvenimento che ci interessa. E ciò è dovuto al fatto che lo conosciamo già; che, giunto al termine del progresso che costituisce la sua stessa esistenza, il fatto psicologico diviene una cosa che ci si può rappresentare in un sol colpo. Qui, ci troviamo quindi nella stessa posizione in cui si pone l’astronomo quando, con una sola appercezione, abbraccia l’orbita che un pianeta impiegherà parecchi anni a percorrere. E, infatti, la previsione astronomica deve essere paragonata proprio a un fatto di coscienza passato, e non alla conoscenza anticipata di un fatto di coscienza futuro.42

Il tempo spazializzato dell’astronomo è dunque analogo a quella parte della durata che corrisponde al passato ed è estraneo allo svolgimento del presente. Entrambi (tempo spazializzato e durata passata) hanno in comune l’estraneità al farsi dell’attuale, che equivale ad uno snaturamento della loro temporalità reale. Questi eventi possono essere abbreviati a piacere, riassunti, perché riposano senza vita nello spazio e nel passato. In altre parole, essi non hanno (o non hanno più) durata.

Allo stesso modo, l’appartenenza al passato consente la rappresentazione degli eventi in figure spaziali, le quali, come sappiamo (si pensi alla linea), sono inadatte a raffigurare il tempo reale, se non del tutto fuorvianti, dal momento che trasformano surrettiziamente il tempo nello spazio. Così, quando disegniamo l’andamento delle nostre azioni come esitazioni tra possibilità diverse otteniamo una figura che «mi permette di vedere l’azione già compiuta, e non mentre si sta compiendo»;43 infatti «essa [scil. la figura] rappresenta una cosa, e non un progresso; nella sua inerzia corrisponde al ricordo in un certo modo irrigidito dell’intera deliberazione e della decisione finale che è stata presa».44 Bergson fa un altro esempio istruttivo: un punto A cosciente che si sposta su di una linea retta, non vede la successione delle sue posizioni come una linea; la vedrebbe solo se guardasse se stesso dall’alto e ponesse la sua successione nello spazio, esteriorizzando i momenti. Ora, ci chiediamo: che cos’è la retrospezione, lo sguardo che dal presente va al passato, se non un guardarsi dall’alto?

Per poter cogliere tutti i momenti di una successione in un solo sguardo atemporale, che li giustapponga come oggetti ideali disposti in uno spazio, è necessario che i momenti siano già passati. Il tempo passato è così a tutti gli effetti un tempo spazializzato:

Se percorro con gli occhi una strada tracciata sulla carta, nulla mi impedisce di invertire il cammino […]. Ma il tempo non è una linea che può essere ripercorsa. È vero che quand’esso è trascorso abbiamo il diritto di rappresentarci i momenti successivi come esterni gli uni agli altri, e di pensare, in tal modo, a una linea che attraversa lo spazio, dovrà però rimanere sottinteso che questa linea non simbolizza il tempo che scorre, ma quello già trascorso.45

E ancora:

In sintesi, ogni domanda di chiarimento per quanto concerne la libertà, ci porta senza che ce ne accorgiamo alla seguente domanda: “Il tempo può essere rappresentato adeguatamente mediante lo spazio? ” - Al che rispondiamo di sì, nel caso in cui si tratti del tempo trascorso, e di no se parlate del tempo che scorre.46

C’è da chiedersi, a questo punto, se passato e spazio non coincidano del tutto. A seguire gli sviluppi del pensiero bergsoniano parrebbe che le cose stiano effettivamente così.

Già in Matière et mémoire Bergson appare consapevole di questa dualità del passato tanto da inserirla in qualche modo nel titolo dell’opera: la materia e la memoria, infatti, non rappresentano solo gli elementi che distinguono il corpo e lo spirito (come indica, del resto, il sottotitolo: Essai sur la relation du corps à l’esprit), ma soprattutto costituiscono i due poli in cui si diversifica il passato. La memoria rappresenta infatti il passato che cresce su se stesso, il passato in sé, di contro alla materia che invece si dispone spazialmente e ripete il passato. Come dice chiaramente Bergson: «è necessario […] che il passato sia giocato dalla materia, immaginato dallo spirito».47 La caratteristica della materia è quella di non apportare alcuna novità, di non disegnare un futuro, ma di riconfigurare il passato. Essa è un attardarsi, un ripetere per forza d’inerzia. Nella coscienza, invece, il passato non è ripetuto o riconfigurato, ma mantenuto virtualmente. Questa virtualità si accresce di momento in momento.

Questa traccia sarà sviluppata e chiarita nell’opera metafisica di Bergson, L’évolution créatrice, che si propone di reinterpretare l’evoluzione del vivente come una manifestazione di un unico principio di natura sovracoscienziale, che investe la materia e crea nuove forme di vita, le quali riproducono lo slancio creatore originario, al fine di ottenere la libertà dalla materia; obiettivo questo che si realizzerà solo con gli uomini. L’uomo infatti è l’unico vivente che, utilizzando la materia, riesce in qualche modo a dominarla: e lo fa attraverso la tecnica, il prodotto della sua intelligenza che è forgiata sulla materia; il vero nome della specie dovrebbe allora essere homo faber. La creazione delle forme di vita avverrebbe a causa dell’incontro tra lo slancio vitale immateriale e coscienziale, che si sviluppa nel tempo ed è fonte di libertà,48 e la materia che invece è caratterizzata da inerzia e staticità. La materia, come insegna il primo principio della termodinamica, non aggiunge niente, non crea nulla. In questo senso è una ripetizione del passato, a differenza della vita che è invece creazione, e che apporta sempre novità imprevedibili. La vita attraversa la materia, appesantendosi e costringendosi in tal modo ad una ramificazione per linee divergenti, corrispondenti alle linee evolutive. Per aggirare l’ostacolo, la vita si separa, e crea diversi rivoli nel solco della materia. Ma ciò che appare una metafisica duale ha in realtà al fondo un’origine unica. La materia ha una genesi identica a quella dei viventi: essa procede da quello stesso slancio che frena con la sua gravità. Bergson la definisce un’inversione dello slancio, o comunque una sua interruzione (il che, in un contesto dinamico, è di fatto la stessa cosa). La materialità si costituisce così come una sorta di tempo congelato, concrezionato. Ora, questo che cosa vuol dire se non che la materia non segue il cammino verso il futuro proprio del tempo reale dello slancio (la realtà, infatti, «scorre dal passato verso il presente»49), ma procede lungo il percorso inverso, ossia tende al passato? Ancora una volta, la materia gioca il passato. Mentre tutto ciò che scorre nel tempo si diluisce nell’immateriale, la materia ripetendo il passato, in qualche modo lo solidifica, lo congela.

Il punto che, però, qui interessa notare è che nella stessa opera, Bergson, pur distinguendo la materia dallo spazio, ritenga che la prima tenda verso il secondo.50 Abbiamo così il seguente quadro concettuale: la materia tende contemporaneamente verso il passato e lo spazio. Considerare identico il termine di questa tensione, e quindi sovrapporre lo spazio al passato, ci pare a questo punto quanto meno legittimo.

Un’ulteriore conferma ci è data dalla concezione dell’intelligenza, che troviamo sempre in quest’opera. Com’è noto, Bergson distingue l’intelligenza dall’intuizione, ritenendo la prima la capacità di elaborare i concetti in analogia con gli oggetti materiali, e la seconda la facoltà che coglie dall’interno la vita. L’intelligenza ha un’utilità pratica, e si muove con disinvoltura tra gli oggetti del mondo fisico: questo perché è per natura fabbricatrice. Essa utilizza strumenti inorganici ai fini dell’azione. Ciò vuol dire che l’intelligenza, nonostante la sua precisione, è caratterizzata da una fondamentale incomprensione della vita. Essa è modellata sulla materia, e tende dunque alla spazializzazione. Bergson scrive: «la stessa inversione dello stesso movimento crea a un tempo l’intellettualità dello spirito e la materialità delle cose».51 Allo stesso modo della materia, l’intelligenza è diretta verso il passato (segue infatti il movimento di inversione, che non va dal passato al presente, ma dal presente al passato). Il suo sguardo non è rivolto nella direzione della vita; essa è fondamentalmente retrospettiva, coglie il fatto, il dato, il trascorso. In altre parole, l’intelligenza guarda all’indietro. Anche qui, dunque, abbiamo un riconferma dell’identità tra passato e spazio. La spazializzazione corrisponde alla tendenza dell’intelligenza a ragionare su ciò che è già passato, e dunque a razionalizzarlo geometricamente. Ciò avviene, come sappiamo, perché il passato non oppone all’intelligenza retrospettiva la dinamicità del presente aperto al futuro, l’attualità del presente inafferrabile fino a che non è trascorso, coglibile dalla sola intuizione, che segue la direzione della vita.

Sul tema della spazialità del passato, Bergson scrive in L’évolution créatrice un passo inequivocabile:

[…] l’idea di leggere in uno stato presente dell’universo materiale il futuro delle forme viventi, e di dispiegare d’un tratto la loro storia futura, non può che racchiudere una vera e propria assurdità. Ma è un’assurdità di cui è difficile sbarazzarsi, perché la nostra memoria suole allineare in uno spazio ideale i termini che percepisce in successione, perché si rappresenta sempre la successione passata sotto forma di giustapposizione. Del resto, essa può farlo proprio perché il passato è qualcosa di già inventato, di morto, non è più creazione, non è più vita. Allora, siccome la successione futura finirà per diventare una successione passata, noi ci persuadiamo che la durata futura richieda il medesimo trattamento della durata passata […].52

L’essenza del passato è quindi lo spazio: reciprocamente ogni spazializzazione è una proiezione del passato nel futuro.53

A questo quadro vanno aggiunti due degli obiettivi polemici più frequenti del Saggio, ossia il linguaggio e la società. Lo si è visto: entrambi questi ambiti sono ricollegati da Bergson alla nostra attitudine spazializzante: «l’intuizione di uno spazio omogeneo è già una via verso la vita sociale».54 Ma anche questi due piani dello spazio mostrano la loro naturale affinità con il passato. La parola è infatti una generalizzazione che accomuna le irriducibili impressioni presenti a fatti già vissuti. La società, poi, si organizza secondo la ripetizione di gesti, cerimonie, riti, costumi, che non possono che provenire dal passato: un passato comune, oggettivo, che si colloca nell’intersezione tra i coni di luce mnemonici di più soggetti. È come se questi momenti del nostro passato fossero ancora più luminosi e chiari, perché rinforzati dalla luce delle altre memorie che li hanno vissuti. Sono memorie comuni che generano ricordi parziali e irrigiditi.

Il passato mostra così i suoi due volti: da un lato la memoria personale, il fondamento di quell’arricchimento quotidiano dell’essere, che rende ogni nostro momento unico e irripetibile; dall’altro lo spazio sociale, il passato in cui i ricordi si dispongono a pezzi, come oggetti di uno sguardo impersonale e spazializzante. Qual è, dunque, la differenza tra questi due aspetti del passato? Ebbene, in un caso il passato nel suo insieme appartiene ancora alla durata presente, cui resta legato in maniera indissolubile; nell’altro il passato si pone autonomamente, come cosa a sé, separata dal presente e in sé divisibile. Il punto di differenza consiste, allora, nell’estensione: quando è colto nella generalità, come un tutto, allora il passato è la memoria del tempo vissuto che si autoconserva e consente il divenire della durata, poiché impedisce che i momenti possano ripetersi; quando invece il passato si risolve in «una serie di fatti compiuti» o di «ricordi irrigiditi», e dunque allorché si frantuma in atomi di memoria utili alla situazione presente, ma che con essa non fanno corpo, allora esso si spazializza. Ora, è proprio questa dialettica tra l’intero e i frammenti del passato al fondo della teoria bergsoniana della libertà.

3. L’intero e i suoi frammenti. Teoria della libertà

Nel terzo capitolo, De l’organisation des états de conscience. La liberté, Bergson discute per prima cosa le assunzioni del determinismo, mostrando però come, non solo i deterministi, ma anche i difensori del libero arbitrio condividano una visione spazializzante della deliberazione. In particolare, Bergson affronta quella forma di determinismo radicale che prevedeva la possibilità della conoscenza del passato e del futuro, a partire da quella dello stato presente del mondo. Bergson illustra questa posizione in un brano in cui riecheggiano le parole di Laplace:

[…] il matematico che conoscesse la posizione delle molecole o atomi di un organismo umano in un momento dato, insieme alla posizione e ai movimenti di tutti gli atomi dell’universo in grado di influenzarlo, calcolerebbe con infallibile precisione le azioni passate, presenti e future della persona a cui appartiene questo organismo, così come si prevede con precisione un fenomeno astronomico.55

Alla base di questa idea vi è il principio di conservazione dell’energia, che impedisce ogni reale creazione nel tempo. Se nulla si crea (e nulla si distrugge) nel mondo fisico, tutto ciò che accadrà è deducibile dallo stato attuale, sulla base delle leggi che governano il moto delle particelle elementari.

Ora, Bergson intanto osserva come l’idea di una rigida determinazione dei corpi non significhi ancora un compiuto determinismo psicologico, poiché ciò implicherebbe una corrispondenza esatta tra gli stati fisici e quelli psichici, che secondo il filosofo è tutta da dimostrare. Egli ammette, tuttavia, che anche in questo caso, e cioè in assenza di una tale corrispondenza tra il fisico e il mentale, la libertà che resterebbe all’uomo sarebbe ben poca cosa, giacché i suoi movimenti corporei sarebbero meccanicamente determinati. In altre parole, egli non si distinguerebbe per nulla da un automatismo. È per questo che il filosofo sceglie di colpire al cuore il principio di conservazione dell’energia, da cui discendono queste conseguenze paradossali, ammettendone un’eccezione: «Ma se il movimento molecolare può generare sensazione con un nulla di coscienza, per quale motivo la coscienza non potrebbe generare a sua volta movimento, sia mediante un nulla di energia cinetica e potenziale, sia utilizzando a suo modo questa energia? ».56

Condotta alle estreme conseguenze la legge di conservazione, si dovrebbe ammettere la possibilità teorica dell’inversione del tempo: in linea teorica, infatti, ogni corpo può tornare al suo stato iniziale. Ma come abbiamo visto, ciò non ha alcun senso per gli esseri viventi e soprattutto per gli esseri coscienti. In particolare, nella coscienza la durata immagazzina il passato, crescendo su se stessa come una valanga e dunque sfuggendo di fatto alla legge di conservazione dell’energia, che impedisce ogni reale aumento dell’essere. Secondo quel principio, la quantità totale dell’essere è data, non aumenta: tutto ciò che esiste può solo trasformarsi. Secondo Bergson, invece, c’è qualcosa in natura che si crea dal nulla, e questa è appunto la nostra memoria, che corrisponde alla nostra storia personale, che s’incrementa senza sosta. Non siamo schiacciati nel presente, ma avanziamo nel tempo trascinando il passato come una rete sempre più piena. Mentre il presente può essere un passato trasformato, in noi, accanto al presente, c’è lo sviluppo di una memoria personale che non c’era, una virtualità interiore che sfugge all’equazione universale. La nostra vita accumula fatti, esperienze vissute, e ne fa un’unica totalità aperta, un intero che cresce, muta e si gonfia di tempo.

Abbiamo così una prima garanzia metafisica della nostra libertà: noi sfuggiamo al rigido determinismo delle leggi fisiche;57 essendo noi stessi una creazione dal nulla (creazione di memoria), possiamo creare a nostra volta. Tuttavia, secondo Bergson, la libertà non si riduce solo a questo svincolamento della nostra volontà dalle leggi della materia. Anche al nostro interno la libertà è minacciata. Abbiamo già visto che la reale natura della nostra interiorità, ossia la durata, è falsificata dalla spazializzazione. In questo terzo capitolo, Bergson approfondisce la questione, mostrando con più precisione i lineamenti della nostra soggettività. Egli riconosce due modalità dell’io, che distingue in io profondo (o fondamentale) ed io superficiale. Il primo rappresenta l’essenza di ciò che siamo, e per Bergson corrisponde in un certo senso alla stessa durata, ossia a quella memoria che si autoconserva e che traccia la nostra storia. Il secondo io è, invece, la parte di noi in contatto con il mondo esterno, e dunque non rivolta verso se stessa. In quanto tale, questo io di superficie subisce (o riproduce in sé) quell’esteriorità che caratterizza la materia, e che è la negazione della compenetrazione propria della durata; l’io superficiale solidifica così nostri ricordi utili, quelli che meno ci rappresentano, come le abitudini o i ricordi che non si conservano del tutto. Abbiamo così, da un lato la massa dei nostri stati profondi, dall’altro una crosta solidificata e impersonale che ci separa e al tempo stesso ci mette a contatto col mondo.

Ora, in questa descrizione (che però, va notato, nel testo non ha alcuna sistematicità) parrebbe annidarsi una nuova e insidiosa ambiguità. Infatti, se è vero che la memoria conserva tutto, come possono formare la crosta quelle parti del passato, le nostre passate esperienze, che non conserviamo? Va detto intanto che l’io superficiale non costituisce soltanto il ricettacolo dei ricordi la cui permanenza è precaria, ma il luogo della nostra coscienza in cui si posano stati che provengono dall’esterno e che non ci appartengono, cioè non sono creati da noi. Bergson parla di un «io parassita».58 È questo ad esempio il caso dell’educazione fondata solo sulla memoria e sulle nozioni, e che non assorbiamo del tutto. Questo io parassita può durare, ma non incorporarsi nella massa degli stati profondi. Inoltre, la stessa crosta che subisce la spazializzazione dall’esterno, non resta sempre la stessa, ma muta, poiché anch’essa appartiene alla durata.

Tuttavia, l’obiezione continua ad avere senso. Per di più Bergson non rinnega l’importanza dei dettagli nella nostra vita, e cioè i piccoli stati che nel contesto della nostra interiorità appaiono insignificanti, ma che non possono essere eliminati dalla nostra storia senza mutare i tratti di quella totalità che noi siamo. Lo dimostra un passaggio importante della sua analisi, allorché intende mostrare l’impossibilità di prevedere i nostri atti futuri. Bergson fa l’esempio di un filosofo, Paolo, che volesse operare una simile previsione sulle azioni di un altro uomo, Pietro, conoscendo tutte le condizioni in cui questi agisce. Per poterlo fare, scrive Bergson, Paolo dovrebbe vivere le stesse cose vissute da Pietro, anche le esperienze più insignificanti (perché anche quelle contribuiscono a definire una storia). Non potendo distinguersi né per il corpo (perché un corpo diverso, vive esperienze diverse), né per il tempo, e dovendo dunque vivere la stessa vita, Paolo dovrebbe di fatto identificarsi con Pietro: dovrebbero essere la stessa persona. Il punto che però a noi qui interessa è il riferimento ai dettagli della vita. Se essi sono dettagli, pur essendo importanti, non dovrebbero annettersi alla massa profonda. Che fine fanno, se tutto si conserva? Come sciogliere questo nodo?

Il profondo e la superficie costituiscono senza dubbio un unico io, ma Bergson sembra ammettere l’esistenza di un certo numero di gradi tra i due piani. Si tratta di una sorta di stratificazione sincronica che taglia o attraversa la diacronia della durata.59 Ma come si distinguono i piani, e perché il profondo dovrebbe rappresentare la durata, se la durata attraversa tutto, tutto conserva e dunque anche i diversi piani dell’io? Il punto centrale di tutta l’analisi bergsoniana consiste, ancora una volta, nel richiamo all’interezza. È evidente che l’io tutto intero si dispone dal profondo alla superficie. Tuttavia, mentre in superficie galleggiano gli stati dell’io impersonale (l’io pratico, spazializzato, linguistico, sociale) che dunque ci esprimono solo parzialmente, nel fondo si depositano gli stati che chiameremmo prelinguistici, che poi sono quelli che più ci rappresentano. E questo perché essi ci rappresentano per intero. Noi ci riflettiamo anche negli stati più insignificanti, nei dettagli della nostra vita, ma mentre questi ultimi rappresentano solo un pezzo della nostra storia, gli stati profondi esprimono tutto ciò che siamo e siamo stati, inclusa la stessa superficie. E siccome la durata è una valanga temporale, che coincide con la nostra totalità, è chiaro che il suo coglimento reale si collocherà nel profondo.

Su questo punto Bergson è inequivoco in più passaggi: «pur essendo successivi, i fatti di coscienza si compenetrano, e nel più semplice di essi si può riflettere l’anima intera»;60 «un’idea che sia veramente nostra riempie interamente il nostro io»;61 «Ognuno di questi sentimenti, a condizione che abbiano raggiunto una sufficiente profondità, rappresenta l’anima intera, nel senso che tutto il contenuto dell’anima si riflette in ognuno di essi»;62 la nostra persona «è tutta intera in uno solo» dei fatti di coscienza, «a condizione che lo si sappia scegliere»,63 cioè che lo si scelga tra quelli profondi; i fatti di coscienza riflettono «l’intera storia della persona».64

È all’interno di questo intreccio tra profondità ed interezza che si situa l’essenza della libertà. Essa infatti consiste nell’espressione della totalità della persona, attuata attraverso la manifestazione esteriore degli stati profondi, i quali, come si è detto, condensano la durata intera. Bergson, lo abbiamo visto, accanto all’io fa spesso riferimento all’anima: a questo punto ci sembra chiaro che tale nozione abbia poco a che fare con l’idea tradizionale di sostanza invisibile e immutabile, regista nascosto dei nostri pensieri e delle nostre deliberazioni (oltre che centro dei nostri sentimenti). L’anima bergsoniana, nel Saggio, è un prodotto storico: coincide con il percorso esistenziale dei singoli, il carico di tempo e di vissuto che ognuno di noi porta in sé e che ci definisce istante dopo istante. Bergson tuttavia sembra ammettere l’esistenza di un nucleo forte in ognuno di noi, un punto inaccessibile in cui gli stati più autentici si nascondono, contenendo come in una sintesi tutta la nostra storia. È quel profondo di cui dicevamo, e che riflette l’intera persona. La libertà è allora l’espressione dell’anima intesa in questo senso. «La decisione libera emana infatti dall’anima intera; e l’atto sarà tanto più libero quanto più la serie dinamica a cui si ricollega si identificherà con l’io fondamentale. Così concepiti, gli atti liberi sono rari».65 E ancora: «gli stati profondi della nostra anima, quelli che si traducono in atti liberi, esprimono e riassumono l’insieme della nostra storia passata».66

Per cominciare a trarre i primi risultati dalla nostra analisi, diciamo che gli elementi costitutivi della libertà sono allora la totalità della vita trascorsa, la profondità degli stati di coscienza e l’espressione di questi stati in atti concreti. Essi stanno tra di loro in questo rapporto di implicazione: l’atto libero esprime ed esteriorizza lo stato profondo che a sua volta riassume ed interiorizza l’intera storia personale. Uno stato profondo (ma, come abbiamo letto, «a condizione che lo si sappia scegliere» e dunque che non lo si scambi con uno stato superficiale) è come una monade che contiene tutto ciò che esiste ed è esistito nell’universo interiore: «E la manifestazione esterna di questo stato interno sarà proprio ciò che si chiama un atto libero, poiché solo l’io ne sarà stato l’autore, poiché esso esprimerà l’io tutto intero».67 Bergson ad un certo punto cita l’espressione platonica tratta da Repubblica VII 518 c, «con tutta quanta l’anima». E questo pare il carattere proprio di ogni atto libero: l’essere compiuto con tutto se stessi.

Ora, la libertà è dunque connessa con ciò che siamo stati, con il nostro passato. Abbiamo concluso nel precedente paragrafo che tra i due volti del passato, quello personale e quello spazializzato, il punto di differenza è dato dalla categoria di interezza. Ciò vuol dire che tra le due forme, la libertà si pone evidentemente sul versante del passato personale e integrale. Essa non può dunque che confliggere con il volto spazializzato del passato, il che significa che non sono liberi quegli atti che esprimono o provengono solo da una parte di noi, ovvero dal nostro passato parziale. La ripetizione di alcuni momenti di ciò che siamo stati, l’oblio e la rimozione di settori scomodi della nostra memoria, l’abitudine, la reiterazione cerimoniale di gesti nevrotici così come la replica rituale di gesti sociali, la ripetizione insita nello stesso linguaggio, sono tutti aspetti di quella impersonalità che Bergson denuncia come elemento di negazione della libertà. La stessa quotidianità ci inchioda in una sorta di passato spazializzato. E questo perché i singoli problemi, i singoli affanni periodici, richiedono da noi uno sforzo che proviene solo da un lato della nostra personalità, implicano un bagaglio di precomprensioni, di ricordi utili all’interpretazione della situazione attuale.68 Siamo così schiacciati in un piccolo cono di luce, che mette in ombra tutto il resto di noi. La libertà, al contrario, non lascia nulla, non esclude niente di ciò che siamo; essa si sottrae soltanto a ciò che non proviene da noi (o da tutto noi stessi). La libertà non ammette idee preconcette o atti non nostri.

La divaricazione tra le due forme del passato, rilette attraverso l’esperienza della libertà, pone da un lato un passato parziale, la cui espressione non corrisponde a ciò che definiremmo un atto libero, ma che in ogni caso ci torna utile, ci serve, e che, in quanto passato spazializzato, non solo ci rappresentiamo ma è oggetto di attenzione della nostra intelligenza retrospettiva, la quale solo a cose fatte è capace di ricostruire le articolazioni interne, e dunque comprendere e spiegare; dall’altro il nostro passato integrale, che in quanto tale è irrappresentabile, perché solo dei singoli ricordi abbiamo immagini, e mai del passato in generale, ma che tutto insieme definisce chi siamo realmente e allorché si esprime in atti, diviene il nucleo essenziale della nostra libertà. Così, ancora, in L’évolution créatrice:

E infatti, cos’altro siamo, cos’è il nostro carattere, se non la condensazione della storia che abbiamo vissuto da quando siamo nati […]? È vero che pensiamo soltanto con una piccola parte del nostro passato; ma è con tutto il nostro passato, compresa l’inclinazione originaria del nostro animo, che desideriamo, vogliamo, agiamo. Dunque il nostro passato ci si rivela integralmente attraverso la spinta che su di noi esercita e sotto forma di tendenza, sebbene solo una piccola parte di esso possa venir rappresentato.69

Oltre alla libertà metafisica dovuta allo svincolamento dal determinismo delle leggi fisiche, vi è allora una libertà esistenziale, che rappresenta solo una possibilità di vita. Noi possiamo esprimere la totalità di ciò che siamo, ma possiamo anche ripetere pezzi del nostro passato (ed è ciò per lo più facciamo). Questo significa che lo spettro delle nostre possibilità va dalla creazione libera alla sterile ripetizione. Solo ciò che esprime tutto il passato, di fatto inventa qualcosa di nuovo, perché si accresce di quella totalità che prima non c’era: appunto un nuovo giro di neve per la nostra valanga. Al contrario, il passato a pezzi che emerge dai nostri atti, sebbene metafisicamente consista comunque in un’innovazione (la durata non ammette eccezioni), dal punto di vista esistenziale ci inchioda nel tempo spazializzato e intermittente degli attimi giustapposti, senza rapporto gli uni con gli altri, in cui l’inversione e la ripetizione pura sono ammessi: quella ripetizione e quella inversione che la durata di fatto esclude. Libertà vuol dire esprimere ciò di cui siamo fatti: e noi siamo fatti di durata, cioè di un tempo creatore e irreversibile; non essere liberi vuol dire scimmiottare il tempo omogeneo, che è solo un prodotto utile della nostra mente. C’è così nell’ambito della nostra esistenza una riproduzione della dualità tra durata e spazio, la copia di un dissidio metafisico. Se quest’ultimo è risolto con la vittoria della durata, resta comunque il dissidio al nostro interno che lo ripropone mettendo in discussione la nostra stessa libertà.

Si disegna in tal modo un conflitto interiore tra il profondo e la superficie. Nel primo, abbiamo detto, c’è tutto ciò che siamo, nella seconda c’è invece il nostro essere nel mondo, e dunque i nostri fatti, i nostri accadimenti, separati gli uni dagli altri. E Bergson sostiene che quando i fatti si staccano tra di loro, si staccano anche dall’io.70 Il filosofo, in alcuni passaggi, rende questa opposizione con due termini a cui abbiamo già fatto ricorso: la massa e la crosta. La massa è il profondo in cui gli stati sono tutti insieme, compenetrati, appunti ammassati, confusi, impregnati ognuno del colore dell’altro, ma tutti caratterizzati da una tonalità di fondo comune, che poi rappresenta chi siamo realmente; la crosta è invece la solidificazione superficiale dei fatti, dei pezzi del nostro passato, che subisce l’esteriorità propria degli oggetti del mondo. Questa crosta copre, comprime, soffoca la massa fluida profonda. Ma questo soffocamento è per noi, in fondo, utile. La crosta rappresenta infatti una certa ragionevolezza pratica: «il nostro io concreto, il nostro io vivente, si ricopre di una crosta esterna di fatti di coscienza nettamente disegnati, separati gli uni dagli altri, e di conseguenza, fissati», ma noi «abbiamo tutto l’interesse a non rompere questa crosta».71 La massa ha invece il solo vantaggio di corrispondere a chi siamo, e non a chi ci converrebbe essere. La libertà emerge in questo conflitto tra il profondo e la superficie.

Quando i nostri amici più fidati sono d’accordo nel consigliarci un atto importante, i sentimenti che esprimono con tanta insistenza vengono a posarsi sulla superficie del nostro io, e lì si solidificano proprio come le idee di cui parlavo poco fa. Un po’ alla volta essi formeranno una crosta spessa che ricoprirà i nostri sentimenti personali; crederemo di agire liberamente e solo più tardi, riflettendoci, riconosceremo il nostro errore. Ma non è neppure raro che, nel momento in cui l’atto sta per compiersi, avvenga una rivolta. L’io dal basso risale alla superficie. La crosta esterna scoppia, sotto una spinta irresistibile. Nelle profondità di questo io, e al di sotto di quegli argomenti molto ragionevolmente giustapposti, stava dunque avvenendo un ribollimento e, con ciò stesso, una tensione crescente di sentimenti e di idee, niente affatto inconsci, ma ai quali non volevamo dar retta.72

Il riferimento alla fluidità ribollente del profondo e alla crosta superficiale fanno pensare ad una sorta di visione magmatica della durata: l’immagine che viene in mente è quella della lava che nel mare cresce su se stessa disegnando strane sculture, e al raffreddamento e alla solidificazione esterna oppone la spinta della massa infuocata dall’interno. E così, l’inquietudine della massa profonda, insofferente ad ogni ipocrita sopportazione, preme dal basso e apre falle, finendo per distruggere la crosta del quieto vivere e di una ragionevolezza male interpretata. Ciò vuol dire, però, che gli atti liberi acquistano senso solo nella prospettiva di una evoluzione personale, e sono dunque per certi versi incomprensibili agli altri. Abbiamo già citato il caso del filosofo che deve prevedere l’azione di un uomo: per poterlo fare, dice Bergson, il filosofo dev’essere quell’uomo, e più che prevedere, deve agire. Ora, l’imprevedibilità dei gesti altrui è ancora più valida nel caso degli atti liberi, che non ripetono nulla, ma, emergendo dalla totalità del passato, creano un nuovo presente. Essi appaiono fuori di noi del tutto irragionevoli, e in fondo lo sono anche ai nostri occhi, allorché ripensiamo a quegli atti retrospettivamente: «Vogliamo sapere in base a quale ragione ci siamo decisi, e scopriamo che l’abbiamo fatto senza ragione, e forse persino contro ogni ragione. Ma, in alcuni casi, è proprio questa la miglior ragione».73 Ci capita, però, a volte di aggiungere ragioni (vale a dire motivi oggettivi, validi per chiunque) ad una scelta che ha come unica ragione quella di esprimere chi siamo: «Interrogando scrupolosamente noi stessi, vedremo che, a volte, ci capita di soppesare dei motivi, di interrogarci, mentre in realtà la nostra risoluzione è già stata presa. […] Il brusco intervento della volontà è come un colpo di stato di cui la nostra intelligenza avesse il presentimento, e che volesse legittimare in anticipo mediante una deliberazione regolare».74 E così, il conflitto interiore, l’interna lotta per la libertà, si rivela cruento e prevede in alcuni casi rivolte e colpi di stato.

In breve, la libertà vuol dire fedeltà a se stessi, a ciò che siamo realmente: «E il suo nome è allora sincerità».75 Si potrebbe sintetizzare la concezione bergsoniana della libertà con il motto nietzscheano «divieni ciò che sei». La vita pratica ci conduce a ritornare sui singoli percorsi della nostra memoria, ma tende ad occultare il fondo di ciò che siamo, ossia chi siamo integralmente. È una forma di oblio, di distrazione. La libertà invece vuol dire ri-assumere se stessi, nel doppio senso di riappropriarci di ciò che siamo, ma anche di comprendere in sintesi o come in uno sguardo panoramico, la totalità della nostra vita. Questa assunzione di se stessi è anche assunzione di responsabilità verso ciò che si è realmente: e il segno della libertà sarà la cifra di questa fedeltà alla propria identità interiore, culturale, esistenziale. Espressione di tutto ciò, secondo Bergson, sarà un atto che nessun’altro poteva compiere, se non noi: «In breve, siamo liberi quando i nostri atti emanano dalla nostra intera personalità, quando la esprimono, quando con essa hanno quell’indefinibile somiglianza che talvolta si riscontra tra l’opera e l’artista».76 Dunque, l’irragionevolezza apparente dei nostri atti esterni trova la sua ragione più profonda in questa parentela tra l’identità personale e l’atto; una ragione che smette di essere tale proprio perché non è generalizzabile:

[…] l’ardore irriflesso con cui prendiamo partito su alcune questioni, prova sufficientemente che la nostra intelligenza ha i suoi istinti: e come possiamo rappresentarci questi istinti, se non attraverso uno slancio comune a tutte le nostre idee, e cioè attraverso una loro mutua compenetrazione? Le opinioni a cui teniamo di più sono quelle di cui ci sarebbe più difficile rendere conto, e raramente le ragioni con cui le giustifichiamo corrispondono a quelle che ci hanno spinto ad adottarle. In un certo senso, le abbiamo adottate senza ragione, poiché ciò che ai nostri occhi costituisce il loro valore risiede nel fatto che la loro sfumatura corrisponde alla colorazione comune a tutte le nostre idee, nel fatto che, fin dall’inizio, vi abbiamo visto qualcosa di noi. Così, nel nostro spirito, esse non assumono quella forma banale che avranno non appena le faremo uscire per esprimerle in parole; e sebbene anche altri spiriti le chiamino con questo nome, non sono affatto la medesima cosa.77

E ancora:

Ma via via che si scava al di sotto di questa superficie, via via che l’io ridiviene se stesso, anche i suoi stati di coscienza smettono di giustapporsi per compenetrarsi, fondersi insieme, e tingersi ognuno della colorazione di tutti gli altri. Così, ognuno di noi ha il proprio modo d’amare e di odiare, e quest’amore e quest’odio riflettono la sua intera possibilità. Tuttavia il linguaggio designa, per tutti, questi stati con le stesse parole; di modo che dell’amore, dell’odio e dei mille sentimenti che agitano l’anima, esso è riuscito a fissare solo l’aspetto oggettivo e impersonale.78

Vengono alla mente alcuni momenti dell’analisi dell’esistenza che Heidegger ha condotto in Sein und Zeit. La libertà bergsoniana in effetti è la negazione dell’inautenticità del Si dice e del Si fa. Quello che a Bergson non serve è una decisione anticipatrice che totalizzi l’esistenza umana, dissipata com’è in una necessaria apertura. Per Bergson, ogni durata personale è già una totalità. L’apertura al futuro non si attua in un aver-ancora-da-essere, in una mancanza che va colmata, ma nell’accrescimento della totalità stessa.

È necessario a questo punto fare un’osservazione che, probabilmente, permette di comprendere con più precisione la differenza esistente tra il passato integrale che emerge nell’atto libero e il passato spazializzato dei nostri gesti abituali. Si è detto che la totalità del passato corrisponde all’interezza della nostra vita vissuta, condensata in alcuni stati profondi. Ma come per ogni totalità, per poter abbracciare l’intera vita vissuta è necessario situarsi al limite di essa, e non al suo interno, come invece avviene nel caso del passato spazializzato. Ora, qual è il limite del passato se non il presente, o meglio questo presente, vale a dire «adesso»? Se il passato in realtà non passa e tutto si conserva, e se dunque io sono istante dopo istante una storia che cresce, si espande, allora questa storia passata in realtà si confonde con il mio presente. In altri termini, la totalità del passato equivale in tutto e per tutto alla pienezza del presente attuale: tutto il mio passato, dai primi istanti della mia vita ad un secondo fa, sono io adesso. Ciò vuol dire che, se la libertà esprime la totalità del mio passato, e questa coincide in tutto con il mio presente, allora essere liberi significa seguire l’inclinazione naturale del presente. Ma Bergson avverte in L’évolution créatrice che la libertà non va confusa con il capriccio: «Comportarsi seguendo il capriccio significa oscillare meccanicamente tra due o più alternative già date e risolversi infine per una delle due. Non è aver maturato una situazione interiore, non è essersi evoluti».79 Il capriccio ci pone di fronte ad alternative già date: non le crea, non le raggiunge attraverso la durata. E queste alternative, essendo già date, cioè essendo passate, non appartengono a quel passato integrale (ma a questo punto potremmo dire presente integrale) che non è mai concluso, perché in continua evoluzione ed ampliamento. Sono frammenti di passato, come i riti, le cerimonie, le parole, le nevrosi, le formalità sociali. Sono tempi circolari, che frantumano l’unità personale crescente.

Il presente pieno non è staccato dal passato, non ripete singoli percorsi della memoria, ma emerge dalla totalità. Abbiamo ripetuto più volte che la totalità del passato esprime ciò che siamo: adesso che cogliamo l’identità tra presente e totalità, questa frase ha ancora più senso. Si è visto altresì come questa totalità sia irrappresentabile. La domanda dunque che avremmo dovuto porci è: come esprimere un passato integrale che non conosciamo (poiché possiamo conoscere sempre i singoli pezzi, i singoli ricordi, le singole esperienze)? La risposta sta tutta nella volontà attuale: che cosa voglio davvero? La volontà presente è il prodotto di un’intera vita, di una evoluzione che porta fino ad essa, e dal passato integrale è sorretta. Questa, tuttavia, sembrerebbe la condizione di ogni atto: ogni azione infatti nasce nel presente ed è il prodotto di una volontà attuale. Ciò, seguendo Bergson, è tutt’altro che vero. La maggior parte delle volte seguiamo precetti che vengono da lontano, ripetiamo gesti e idee che abbiamo acquisito, seguiamo l’abitudine oppure la parzialità del capriccio, ci concentriamo su ciò che ci serve al momento, pescando dal nostro bagaglio mnemonico i ricordi più utili. In altre parole, il più delle volte il nostro presente è soltanto l’ombra del passato. Sono rare le volte in cui facciamo ciò che davvero ci esprime autenticamente; e qui il pensiero corre subito agli artisti, sui quali Bergson, lo si intuisce, ebbe una profonda influenza.

Pertanto, la differenza tra passato integrale e passato spaziale sta tutta in questo nucleo: e cioè che in realtà il primo non è un vero passato ma coincide in tutto con il presente, ossia il farsi; il secondo è invece una parte del passato, che in quanto tale, è staccato dalla totalità crescente, ed è quindi un fatto concluso, compiuto. L’alternativa è allora tra un presente pieno e reale, ossia il presente nuovo che disegna un inedito profilo della nostra vita (perché più vecchio, più carico di tempo), e un presente che invece ripete sterilmente il già fatto, senza assumerlo integralmente e crescere su di esso. La differenza tra la libertà e la sua negazione si risolve nella distinzione tra l’agire di chi crea e quello di chi si rifugia nel proprio passato. Questo ragionamento ci pare spieghi con sufficiente chiarezza le parole contenute nel passo conclusivo dell’ultimo capitolo del Saggio, che abbiamo già citato, ma a cui adesso aggiungiamo una frase che ci pare decisiva:

In sintesi, ogni domanda di chiarimento per quanto concerne la libertà, ci porta senza che ce ne accorgiamo alla seguente domanda: “Il tempo può essere rappresentato adeguatamente mediante lo spazio? ” - Al che rispondiamo di sì, nel caso in cui si tratti del tempo trascorso, e di no se parlate del tempo che scorre. Ora, l’atto libero si produce nel tempo che scorre, e non in quello trascorso.

La precisazione secondo cui gli atti liberi avvengono nel tempo che scorre sembrerebbe del tutto oziosa (ogni atto, infatti, avviene nel presente), se non si tenesse a mente il ragionamento che abbiamo cercato di mostrare.

La concentrazione del passato integrale nell’attimo presente si struttura come un’evoluzione che, più o meno lentamente, conduce alla manifestazione della libertà: il nostro è «un io che vive e si sviluppa per effetto delle sue stesse esitazioni, finché l’azione libera si stacca da esso come un frutto troppo maturo».80 La maturazione di un passato che cresce e si allarga come un frutto che s’ingrandisce, sfocia nell’attimo in cui il frutto cade e l’atto si compie.

Sembra tuttavia che si abbia ancora a che fare con un ragionamento del tutto formale, privo di contenuti. Invece, sebbene di sfuggita, Bergson dà un senso preciso al contenuto della libertà, come emerge da questo passo:

[…] l’azione compiuta non esprime più allora un’idea superficiale, distinta, facile da esprimere e che ci è quasi esteriore: risponde invece all’insieme dei nostri sentimenti, dei nostri pensieri e delle nostre più intime aspirazioni, a quella particolare concezione della vita che è l’equivalente di tutta la nostra esperienza passata, insomma, alla nostra idea personale di felicità e di onore.81

Le nostre storie personali, sebbene irrappresentabili, si concretizzano nelle nostre concezioni della vita, le quali hanno tutte pari dignità: ed è proprio la dignità che è qui in gioco, poiché queste concezioni si traducono nell’idea di onore, oltre che di felicità. Tutto questo esprime quella parentela che secondo Bergson unisce la libertà alla fedeltà a se stessi: l’onore è proprio questa sincerità radicale di chi trascende la paralisi del giudizio altrui e si costituisce felice perché libero di esprimersi. Torna l’immagine del frutto maturo: la libertà ha a che fare con il nostro personalissimo flourishing, il nostro realizzarci, in armonia con la nostra visione della vita, che poi coincide con la nostra storia.

Tutto questo spiega il passo ulteriore di Bergson. Il filosofo crede che la libertà sia un evento raro. Per necessità, comodità, abitudine, finitezza, o semplicemente per poter vivere, noi scendiamo a patti con la spazialità e rinneghiamo l’inquietudine della via che conduce alla nostra felicità:

[…] noi raramente siamo liberi. La maggior parte del tempo viviamo esteriormente a noi stessi e percepiamo soltanto il fantasma scolorito del nostro io, ombra che la pura durata proietta nello spazio omogeneo. La nostra esistenza si svolge quindi nello spazio più che nel tempo: viviamo per il mondo esterno piuttosto che per noi; parliamo piuttosto che pensare; “siamo agiti” piuttosto che agire noi stessi. Agire liberamente significa riprendere possesso di sé, ricollocarsi di nuovo nella pura durata.82

Ma in quali occasioni siamo liberi davvero? Bergson risponde: quando la pressione sociale su di noi è più forte. Quando, cioè, è seriamente minacciata la nostra fedeltà a noi stessi, che invece nelle faccende quotidiane parrebbe per buona parte tutelata. Ci siamo posti il problema della libertà in «quei momenti della nostra esistenza in cui abbiamo optato per qualche seria decisione, momenti unici nel loro genere».83 E così, proseguendo il passo in cui Bergson affermava che l’atto libero corrisponde alla nostra idea di onore e felicità, leggiamo:

Ha avuto dunque torto chi, per provare che l’uomo è capace di scegliere senza motivo, è andato a cercare esempi nelle circostanze comuni e anche indifferenti della vita. Non sarebbe difficile mostrare che queste azioni insignificanti sono legate a qualche motivo decisivo. La nostra scelta si discosta da quello che di solito chiamiamo un motivo, proprio nelle circostanze solenni, quando è in gioco l’immagine che daremo di noi agli altri, e soprattutto a noi stessi; quanto più profondamente siamo liberi, tanto più si manifesta l’assenza di ogni ragione tangibile.84

Come abbiamo suggerito aprendo questo studio, è probabile che la stessa discussione di dottorato fosse una di quelle «circostanze solenni» a cui Bergson pensava. Il senso del rapporto tra le situazioni serie, se non austere, e la libertà ci pare a questo punto chiaro: queste situazioni sono quelle in cui la spinta è massima affinché noi ripetiamo un certo passato, che in quanto tale non appartiene a nessuno, e appartiene a tutti. Solo il passato integrale ci fa diversi gli uni dagli altri. I pezzi di passato possono essere condivisi. E così, invece di trattarci come esseri che agiscono nel presente seguendo se stessi, o meglio l’evoluzione di se stessi, ci spazializziamo, ci rendiamo inerti, il che vuol dire che ci trattiamo come fatti passati, conclusi, chiusi al futuro. Come se nulla nella nostra vita potesse ancora accadere per causa nostra. La nostra pari dignità nasce da questa irriducibilità: nessuno equivale a qualcun altro. Ed è per questa ragione che l’equivalente universale, il denaro, non può entrare nei rapporti tra uomo e uomo, ma solo in quello tra uomini e cose, le quali invece nello spazio si collocano naturalmente e possono essere misurate. E quindi, allorché questa spinta all’omogeneità si fa più forte, alimentando la tensione interna, il processo della libertà si avvia, e la rottura della crosta diviene una possibilità. Ma Bergson lo ha detto con chiarezza: raramente siamo liberi. Spesso è la solennità a vincere su di noi.

Raccogliamo dunque i risultati di questa analisi, prima di fare alcune considerazioni conclusive. I termini che definiscono la libertà bergsoniana ci pare siano: 1) fedeltà: la libertà è un rispetto assoluto verso se stessi, verso tutti i momenti della propria storia, anche quelli più dolorosi; 2) sincerità: la libertà ci esprime per quello che siamo, e dunque corrisponde in tutto ad agire secondo ciò in cui crediamo e a sostenere ciò che pensiamo; 3) totalità: gli atti liberi provengono e dialetticamente difendono l’integrità della persona, impedendo le scissioni interne; ma Bergson, parlando di onore, lascia intendere che la libertà implichi anche una certa integrità morale; 4) apertura: nonostante sostenga la totalizzazione del passato, la concezione bergsoniana della durata prevede che la conservazione si converta in innovazione; la libertà asseconda questo aspetto, e ponendoci nel presente, ci fa aperti al futuro e dunque non conclusi, chiusi nella ripetizione di singoli percorsi passati; 5) immediatezza: la libertà non ammette mediazioni e ci realizza anche in un solo attimo; 6) liberazione: la libertà nasce da un conflitto interiore, e culmina nel momento in cui ci liberiamo da ciò che ci opprime, ossia ciò che interiorizziamo ma che non ci appartiene e che quindi galleggia in superficie; nel momento in cui la massa rompe la crosta, siamo liberi; 7) impertinenza: se la libertà è sincerità, essa è la negazione massima dell’ipocrisia, che si istituzionalizza spesso nelle circostanze solenni; 8) maturità: ma la libertà non decade nel capriccio, l’impertinente e irragionevole essere se stessi non trascende nell’irrazionale; il frutto maturo dell’atto libero, implica un’evoluzione interiore, che rende ogni rottura della solennità un atto dovuto al rispetto di sé e degli altri, più che una sterile trasgressione; 9) creazione: come il tempo, la vita e la stessa coscienza, la libertà è essenzialmente creazione, invenzione di forme nuove e imprevedibili; il presente libero segue il percorso della durata che non si ripete mai.85

Ci si potrebbe chiedere, a questo punto, se Bergson non dimentichi qui un carattere che ognuno di noi sarebbe disposto a riconoscere alla libertà intesa come fedeltà a se stessi, ossia il progetto di vita. Sembrerebbe, infatti, che la libertà bergsoniana, nonostante gli enfatici riferimenti all’azione creatrice, sia caratterizzata da un certo grado di passività. In altri termini, parrebbe che il senso di tutta la teoria fosse riducibile ad un tautologico e arrendevole: «siamo ciò che siamo». La libertà, declinata in questo senso, subisce più che creare. Anche qui si potrebbe avvertire una suggestione heideggeriana: la nostra possibilità più autentica è il nostro destino. Si può dire allora che, stando così le cose, nella libertà secondo Bergson, non c’è vero impegno o vera scelta. Ma ciò non è del tutto corretto, poiché ogni autentico progetto di vita è espressione di ciò che siamo realmente, e dunque la libertà non può che essere sulla stessa linea di questo progetto. Del resto, lo abbiamo visto, la libertà è tutt’altro che inattività. Non è quello che comunemente s’intende, ossia uno scegliere tra possibilità, che il più delle volte sono già date, e dunque inautentiche. È invece essa stessa una possibilità, che possiamo non realizzare. Essa si colloca al bivio tra l’intero e i suoi frammenti. Con ogni nostro atto dobbiamo rispondere a questa domanda: l’atto che sto per compiere proviene da tutto me stesso per quello che sono adesso, o è un atto parziale, che rappresenta solo qualcosa di me, alcuni frammenti di ciò che sono? delle forze in conflitto dentro di me, il mio atto parteggia per qualcuna di esse, oppure ne fa sintesi, unificandole in unico processo, un unico flusso, che corrisponde a tutto ciò che sono? Dobbiamo decidere, insomma, se restare degli interi e al tempo stesso crescere o se sbriciolarci in atti parziali, che nascondono sempre qualcosa di noi; decidere se essere persone complete ma aperte o persone fatte a pezzi, in frammenti che ricomposti non ricostruiranno mai perfettamente ciò che siamo, ciò che si manifesta tutto insieme in un solo atto, in un solo attimo.

La libertà implica dunque un progetto, una tensione. Certo, il frutto maturo dall’albero cade da sé, senza sforzo. Ma il nostro sforzo consiste appunto nel riacquistare quella naturalezza nella gravità. Come Bergson dirà magistralmente in L’évolution créatrice:

È necessario che, con una violenta concentrazione della nostra personalità su se stessa, raccogliamo il nostro passato che ci sfugge, per sospingerlo, compatto e indiviso, in un presente cui esso darà origine introducendovisi. Sono assai rari i momenti in cui riprendiamo possesso di noi stessi sino a questo punto: e coincidono pienamente con le nostre azioni veramente libere».

La libertà implica una sorta di violenza. È dunque il contrario della passività. E invece, è il tempo spazializzato ad essere comodo, un vero lasciarsi andare. Ciò vuol dire che la negazione della libertà sta tutta in questo rilasciarsi, questo lasciarsi guidare da altro o da altri, un continuo divergere da se stessi, un letterale divertimento. E che Bergson non fosse il fautore di una frivolezza esistenziale ma di un impegno profondo, radicale, nei confronti di se stessi, lo testimonia quel saggio «affascinante e vitale» (Freud) che è Le Rire.86

La libertà, come per Platone tutte le cose che possiedono bellezza, è difficile. Noi siamo frammentati da noi stessi e dalle esigenze dovute alla nostra finitezza. Per questa ragione gli atti liberi sono rari. Emergono a volte nei momenti di crisi, allorché il conflitto in noi è più cruento; si manifestano nelle circostanze importanti, quando la pressione della società su di noi si fa più forte. La società ci chiede di ripetere gesti, ci fa ridere degli altri malignamente (si veda Le Rire), ci trasforma in un formicaio (si veda Les deux sources). Bergson non lo dice, e questa sembra essere una significativa mancanza in un saggio dedicato alla libertà, ma la società può essere ancora più crudele, e impedirci di essere chi siamo nella maniera più brutale. Pensiamo alle donne e agli uomini che non conosceranno mai «circostanze solenni», oppressi dalla miseria, l’ignoranza e le dittature. Anche qui, la dignità che manca loro, è quella libertà di essere se stessi, di seguire il proprio senso dell’onore e la propria idea di felicità.

Dicevamo, una mancanza significativa. Da un lato, la società è presentata in questo saggio giovanile costantemente in termini negativi, come punto massimo della spersonalizzazione, accomunata all’omogeneità vuota dello spazio e alla fissità del passato; dall’altro, il negativo della società non è assunto fino in fondo, lasciando così scomparire gli aspetti più disumani. Il conflitto è tutto tra l’individuo e la società, la quale si presenta come un blocco unico, senza alcuna dialettica interna, senza conflitto, che è poi l’origine delle privazioni della libertà più scandalose. Non solo. La libertà sembra consistere soltanto nella rottura sociale e nel monologo interiore che si fa parola. La domanda a questo punto è: come entra l’Altro nella nostra libertà? Sembra che l’intersoggettivo non abbia alcun ruolo nella costituzione di persone complete e libere. La nostra libertà non si realizza nell’Altro, ma a tratti, verrebbe da pensare, contro l’Altro. E così la stessa avversione nei confronti del linguaggio, colpisce alle fondamenta la possibilità di ogni dialogo, ossia la sfera in cui si realizza pienamente il rapporto intersoggettivo. Il linguaggio è sempre spazializzante, non può esprimere compiutamente ciò che siamo. L’unico esempio in cui Bergson concede qualcosa alla parola, è quello del romanziere che riesce a farci intuire il vissuto interiore.87 Si avvertono in tutti questi vicoli ciechi, i limiti dell’individualismo spiritualista da cui Bergson prende le mosse. Va tuttavia ricordato che non abbiamo qui ancora a che fare con il Bergson maturo, di cui nuove suggestioni arricchiranno il profilo concettuale. La stessa durata che nel Saggio si confonde con l’intimità di ognuno, in Durée et simultaneité strutturerà la realtà del Tempo Unico attraverso la simultaneità delle percezioni tra le varie coscienze, che di fatto disegna una rete di faccia-a-faccia, in cui la dimensione privatissima del profondo sembra superata. E così in L’évolution créatrice la stessa filosofia non sarà più quasi del tutto coincidente con l’introspezione, ma si realizzerà pienamente nel dialogo tra filosofi (e scienziati), divenendo una vera opera collettiva.88

E tuttavia, anche in questa posizione giovanile si può trovare una traccia interessante nel senso del dialogo autentico. È evidente infatti che ogni relazione dialogica, ogni apertura all’Altro, richiede una preventiva apertura di se stessi, un’espressione piena di ciò che si è a partire dalla propria storia. Il dialogo si struttura come negazione di ogni ipocrisia, ogni formulare ripetizione di idee e parole, e come incontro tra espressioni sincere, che coincide con la creazione di nuovi contenuti e legami. La libertà bergsoniana, che all’affrancamento dall’inautentico unisce la franchezza dell’espressione, sembra porsi come condizione preliminare di ogni dialogo. In altri termini, il dialogo presuppone la libertà, nel senso bergsoniano. E questo paradigma sembrerebbe valere anche per il dialogo nel senso dell’interculturalità: l’idea che ogni espressione piena di ciò che si è, si realizzi a partire dalla propria storia, in questo caso non più personale, ma collettiva; l’idea che la storia valga come presupposto per una innovazione e non come mera conservazione, ossia che la memoria dia un senso alla storia; lo stesso principio secondo cui il dialogo presuppone la reciproca libertà, ci pare siano tutti elementi essenziali per le teorie del dialogo interculturale. Tuttavia, questi sono sviluppi teoretici che superano l’orizzonte bergsoniano, perlomeno del Bergson autore del Saggio. Questi sviluppi contribuiscono, semmai, a marcare con più precisione i limiti teorici della concezione bergsoniana, pur nella necessaria contestualizzazione della teoria.

Resta nondimeno la suggestione dell’idea di una relazione intrinseca tra tempo e libertà. Il carattere, a nostro avviso, più interessante della teoria bergsoniana sta nell’intuizione secondo cui la corrispondenza tra il profondo e l’atto che lo esprime non sia garantita una volta per tutte. L’immagine del frutto maturo si offre ancora nella sua ricchezza di significati: l’atto libero, come il frutto maturo, si stacca da noi al momento giusto. E invece, la maggior parte delle volte il contesto sociale o quella parte di noi stessi in cui non ci riconosciamo, ci chiedono di staccarlo troppo presto oppure di farlo marcire dentro di noi. Ma quello stesso atto, come un frutto che sta maturando o che sta già marcendo, colto al momento sbagliato, non è più un atto libero. Tale atto non solo, dunque, rappresenta me stesso, ma lo fa al momento opportuno. La mia attuale libertà si manifesta in un atto che, certo, non avrebbe avuto senso quando ero bambino, oppure dieci anni fa, o ieri, o ancora, seguendo il Bergson più radicale, un istante fa. E questo perché il mio presente muta continuamente, perché il «me» bambino, o di dieci anni fa, di ieri, di un istante fa, li porto dentro come le statuine di una matrioska, ma li ho superati: adesso sono qualcosa di più. La libertà, dunque, mi pone questioni sempre nuove; ed è per questo che non ha senso risponderle sempre allo stesso modo. La libertà bergsoniana non ammette risposte prestabilite, va riguadagnata situazione per situazione, giorno per giorno. Niente la garantisce: è un conquista che va rinnovata ogni attimo della nostra vita.


  1. Henri Bergson, Essai sur les données immédiates de la conscience, Alcan, Paris 1889, ora in Œuvres, textes annotés par A. Robinet, Introduction par H. Gouhier, Edition du Centenaire, PUF, Paris 1959, pp. 1-157; tr. it. di Federica Sossi, Saggio sui dati immediati della coscienza, Raffaello Cortina, Milano 2002. Della dissertazione in latino esiste una traduzione italiana a cura di Ferruccio Franco Repellini nel volume Henri Bergson, Opere 1889-1896, Mondadori, Milano 1986, pp. 345-399. ↩︎

  2. Carlo Migliaccio, Invito al pensiero di Bergson, Mursia, Milano 1994, p. 97. ↩︎

  3. L’opera è dedicata a Jules Lachelier, l’autore di Du fondement de l’induction (1871, ampliato nel 1883). Questa dedica, come scrive ancora Migliaccio, è forse «indicativa anche della volontà di Bergson di porsi, in questo momento, in continuità con la tradizione spiritualistica francese, risalente a Maine de Biran, che si proponeva una ricognizione interioristica dei fatti psichici, allo scopo di coglierne l’irriducibile specificità» (Carlo Migliaccio, Invito…, cit. alla nt. 2, pp. 32-33). Il pensiero di Bergson non si identificò mai del tutto con lo spiritualismo: la sua fisionomia originale, che risente certo dell’influenza di questa corrente, in modo particolare in questa prima opera, non è però riducibile ad una sola delle sue fonti storico-filosofiche (su questo punto si veda Armando Rigobello, Il tempo in Bergson e nello spiritualismo francese, in Giovanni Casertano, cur., Il concetto di tempo, Atti del XXXII Congresso Nazionale della Società Filosofica Italiana, Loffredo, Napoli 1997, pp. 71-83). Il Bergson più maturo accentuerà, infatti, aspetti prossimi alla filosofia della vita e soprattutto al pragmatismo. ↩︎

  4. L’idea bergsoniana di durata si inserisce nel solco della tradizione soggettivistica sul tempo, la cui prima formulazione organica, com’è noto, si deve a Sant’Agostino (Confessiones, XI). Essa, tuttavia, presenta alcune caratteristiche inedite che ne fanno il cuore di una teoria del tutto originale. Tra i vari studi che esaminano il pensiero bergsoniano a partire dalla concezione della durata si veda l’ormai classico André Robinet, Bergson et les metamorphoses de la durée, Seghers, Paris 1965. ↩︎

  5. Nelle opere successive Bergson sarà molto più disinvolto nei confronti della nozione e del termine «tempo», fino al punto che, dopo una parabola che a prima vista potrebbe apparire sorprendente, ma che in realtà nasconde uno sviluppo coerente, giungerà in Durée et simultaneité. A propos de la théorie d’Einstein, Alcan, Paris 1922 (2° ed. 1923); tr. it. di Paolo Taroni, Durata e simultaneità, Pitagora, Bologna 1997, a difendere la concezione del Tempo unico contro gli attacchi della vulgata relativistica. ↩︎

  6. In Durata e simultaneità Bergson affermerà esplicitamente che «le temps est succession» (Henri Bergson, Durée…, cit. alla nt. 5, p. 66). ↩︎

  7. Su questo punto si veda forse il libro maggiore di Bergson, Matière et mémoire. Essai sur la relation du corps à l’esprit, Alcan, Paris 1896, ora in Œuvres, cit. alla nt. 1, pp. 159-379; tr. it. di Adriano Pessina, Materia e memoria, Laterza, Roma-Bari 1996. ↩︎

  8. Henri Bergson, Saggio…, cit. alla nt. 1, p. 144. A p. 133 Bergson aveva scritto: «È vero che sentiamo che se le cose non durano come noi, in esse ci deve comunque essere un’incomprensibile ragione che fa sì che i fenomeni sembrino succedersi, e non dispiegarsi tutti in una volta». ↩︎

  9. Ivi, p. 73. A p. 78 il filosofo attribuirà l’espressione «sintesi mentale», non solo al movimento, ma alla stessa durata. ↩︎

  10. Ivi, p. 81. ↩︎

  11. Similitudine che troviamo in Henri Bergson, L’évolution créatrice, Alcan, Paris 1907, ora in Œuvres, cit. alla nt. 1, pp. 487-809; tr. it. di Fabio Polidori, L’evoluzione creatrice, Raffaello Cortina, Milano 2002, p. 9. ↩︎

  12. Henri Bergson, Saggio…, cit. alla nt. 1, p. 125. ↩︎

  13. A dire il vero, Bergson accenna ad una «colorazione comune» delle idee e degli stati di coscienza (H. Bergson, Saggio…, cit. alla nt. 1, p. 87; riprende il senso dell’immagine a p. 106), e questo perché, come diremo più avanti, egli riconosce una certa familiarità tra gli stati di coscienza, che si organizzano in un insieme. Ciò tuttavia presuppone una sorta di visione cromatica delle differenze di qualità tra i vari stati. È indicativo che il filosofo si riferisca alla parte meno autentica della coscienza, cioè quella più condizionata dallo spazio e dunque lontana dalla temporalità interiore, come ad un «fantasma scolorito del nostro io» (ivi, p. 146), e ancora, che nella sua critica del linguaggio, egli affermi che la parola, in grado di esprimere meglio la parte superficiale del nostro io (dunque, il fantasma scolorito) dia agli stati di coscienza profondi «la sua banale colorazione» (ivi, p. 85). Ugualmente significativa è l’affermazione secondo cui «la libertà deve essere cercata in una certa sfumatura o qualità dell’azione» (ivi, p. 117). ↩︎

  14. È forse questo carattere di continuità temporale che giusitifica la scelta del termine «durata», il quale a prima vista parrebbe incompatibile con la tesi del divenire radicale che Bergson professa. È vero, come sostiene Vladimir Jankélévitch (Henri Bergson, P. U. F., Paris 1959; tr. it. di Giuliano Sansonetti, Morcelliana, Brescia 1991, p. 102 n. 38) che «durata», a differenza del termine «tempo», implica un verbo e dunque esprime meglio la natura transitiva del divenire, ma è anche vero, come nota lo stesso autore, che il significato immediato della parola è quello di permanenza, più che di innovazione. Tuttavia, come stiamo per dire, è proprio la conservazione (la memoria) che, secondo Bergson, paradossalmente consente l’innovazione. ↩︎

  15. Si legga questo passo tratto da L’évolution créatrice: «Consideriamo il più stabile degli stati interiori, la percezione visiva di un oggetto esterno immobile. Per quanto l’oggetto rimanga lo stesso, e per quanto io lo guardi sempre dallo stesso lato, sotto il medesimo angolo visuale, alla stessa luce, la visione che ne ho differisce tuttavia da quella di un attimo prima; quanto meno perché è invecchiata di un istante» (Henri Bergson, L’evoluzione…, cit. alla nt. 11, pp. 7-8). ↩︎

  16. Henri Bergson, Saggio…, cit. alla nt. 1, p. 128. A p. 139 Bergson dirà: «i fatti psichici si presentano alla coscienza una sola volta, per non riapparire mai più». ↩︎

  17. Ivi, p. 127. ↩︎

  18. Ivi, p. 86. ↩︎

  19. Ivi, p. 128. ↩︎

  20. Ivi, pp. 99-100. ↩︎

  21. Ivi, p. 71. ↩︎

  22. Bergson paragona la durata allo stato di sogno in cui persone e luoghi sono e non sono ciò che sembrano: nei sogni sentiamo la durata (Henri Bergson, Saggio…, cit. alla nt. 1, p. 82). In particolare i sogni più strani ci danno un’idea di quel lavoro che avviene nel profondo della nostra vita intellettuale (ivi, p. 88). ↩︎

  23. Bergson afferma che il tempo omogeneo è la quarta dimensione dello spazio (Henri Bergson, Saggio…, cit. alla nt. 1, p. 72). ↩︎

  24. Ivi, p. 86. ↩︎

  25. Ivi, p. 85. ↩︎

  26. Ivi, p. 89. ↩︎

  27. «La durata assolutamente pura è la forma assunta dalla successione dei nostri stati di coscienza quando il nostro io si lascia vivere, quando si astiene dallo stabilire una separazione fra lo stato presente e quello anteriore» (Henri Bergson, Saggio…, cit. alla nt. 1, p. 66). ↩︎

  28. Ivi, p. 67. ↩︎

  29. Già nel primo capitolo, De l’intensité des états psychologiques, Bergson aveva mostrato l’inadeguatezza del linguaggio quantitativo alla realtà della coscienza. Non ha senso parlare di uno stato psicologico più o meno intenso: i rapporti quantitativi, infatti, implicano il rapporto contenente-contenuto. Ma ciò non può valere per gli stati psicologici che sono inestesi e puramente qualitativi. ↩︎

  30. A ben vedere qui parrebbe insinuarsi un’ambiguità nell’analisi bergsoniana. Da un lato, la durata si oppone alla giustapposizione dei momenti, perché, come sappiamo, in essa i diversi stati si compenetrano; dall’altro, la durata nega la natura intemporale dello spazio, che allinea simultaneamente i momenti successivi, e questo perché essa è successione pura. Su questo secondo punto Bergson osserva che «un momento del tempo non potrebbe conservarsi per aggiungersi agli altri» (Henri Bergson, Saggio…, cit. alla nt. 1, p. 58). È proprio qui l’ambiguità: sembra che Bergson indichi come differenza tra durata e tempo spazializzato, il fatto che quest’ultimo non lasci passare realmente i momenti della successione, poiché li mantiene nella simultaneità e dunque li conserva. Il punto è che la conservazione è proprio la caratteristica della durata, e il passaggio radicale appartiene invece agli stati del mondo, in cui nulla resta del passato e non vi è vera successione. In realtà, la linea di pensiero che qui Bergson sta presentando è molto più complessa. Il tempo spazializzato, infatti, nasce da quel compromesso tra durata e mondo fisico di cui abbiamo parlato. Esso acquista dalla durata la capacità di conservare i momenti passati, che però mantiene separati ricalcando la divisione propria degli stati del mondo. Bergson, allora, afferma che ottenendo la conservazione senza la compenetrazione, il tempo omogeneo perde il carattere reale della successione pura, la quale, se non è condotta alle estreme e paradossali conseguenze dell’eterno presente fisico, può solo configurarsi come crescita, e non come intermittenza di momenti accostati l’uno all’altro. Osserviamo infine che, anche per questo stadio, non è del tutto corretto identificare la durata (che resta in ultima analisi una teoria della persona) con la nozione generale di tempo, la cui concezione in Bergson è molto più articolata, come del resto dimostrerà lo sviluppo del pensiero del filosofo. Su questo punto, ci sia consentito di rinviare a Massimo Pulpito, «Temps / Durée. Teoria del divenire e concezione del tempo unico nel pensiero di Henri Bergson», I castelli di Yale, 3 (1998), pp. 99-115. ↩︎

  31. Henri Bergson, Durée…, cit. alla nt. 5. Sulla questione della misurazione del tempo, si veda l’antologia di saggi di autori diversi, tra i quali due brani tratti dalle opere di Bergson, V. Fano, I. Tassani (cur.), L’orologio di Einstein. La riflessione filosofica sul tempo della fisica, CLUEB, Bologna 2002. ↩︎

  32. Henri Bergson, Saggio…, cit. alla nt. 1, p. 76. ↩︎

  33. Ivi, pp. 123-124. Bergson riprenderà lo stesso esempio in L’evoluzione…, cit. alla nt. 11, pp. 13, 275. ↩︎

  34. Henri Bergson, Saggio…, cit. alla nt. 1, pp. 124-125. ↩︎

  35. Ivi, p. 69. ↩︎

  36. L’organizzazione degli stati di coscienza è come quella delle note di una melodia (Henri Bergson, Saggio…, cit. alla nt. 1, pp. 66-67). La similitudine ritorna con il riferimento alla melodia da cui farsi cullare (ivi, p. 68), alla frase musicale (ivi, p. 70, 82), alla frase melodica (ivi, p. 73), alla melodia indivisibile in cui si organizzano le percezioni esterne (ivi, p. 81). ↩︎

  37. In L’evoluzione…, cit. alla nt. 11, p. 8, Bergson afferma che i momenti discontinui che vengono ricavati dalla continuità della durata, sono come i colpi di timpano in una sinfonia. ↩︎

  38. Henri Bergson, Saggio…, cit. alla nt. 1, p. 100. ↩︎

  39. Ivi, p. 124. ↩︎

  40. Ivi, pp. 99-100. ↩︎

  41. Henri Bergson, L’evoluzione…, cit. alla nt. 11, p. 8. ↩︎

  42. Henri Bergson, Saggio…, cit. alla nt. 1, pp. 126-127. ↩︎

  43. Ivi, p. 115. ↩︎

  44. Ivi, p. 116. ↩︎

  45. Ibid. ↩︎

  46. Ivi, p. 140. ↩︎

  47. Henri Bergson, Opere 1889-1896, cit. alla nt. 1, p. 314. ↩︎

  48. La coscienza di cui lo slancio è portatrice si assopisce in tutti i viventi eccetto che nell’uomo, nel quale si risveglia. ↩︎

  49. Henri Bergson, L’evoluzione…, cit. alla nt. 11, p. 240. L’idea secondo cui la realtà va dal passato al presente (e quindi al futuro), discende dalla visione che Bergson aveva della durata, come tempo crescente. Va detto, però, che Bergson non approfondì mai la complessa questione delle serie temporali, come invece fece con grande sottigliezza il filosofo idealista John Ellis McTaggart («The Unreality of Time», Mind, 17, 1908, pp. 456-473). Sull’analisi del filosofo inglese si veda Claudio Tugnoli, «Da Platone a McTaggart: le contraddizioni del tempo e gli usi linguistici», Dialegesthai, 2001, https://mondodomani.org/dialegesthai/claudio-tugnoli-01↩︎

  50. Cfr. Henri Bergson, L’evoluzione…, cit. alla nt. 11, p. 159. ↩︎

  51. Ivi, p. 171. ↩︎

  52. Ivi, p. 278. ↩︎

  53. È questo in fondo ciò che Bergson riprovera a Zenone: l’errore del paradosso della freccia consiste nel porre il passato davanti al presente, e quindi nel trattare il volo della freccia come se fosse già svolto e sezionabile in una serie di posizioni fisse: «In fondo, l’illusione deriva dal fatto che il movimento, una volta effettuato, ha deposto lungo il suo tragitto una traiettoria immobile sulla quale si possono contare un numero grande a piacere di immobilità. In base a ciò si conclude che il movimento, nel suo effettuarsi, ha deposto in ciascun istante sotto di sé una posizione con cui coinciderebbe. Non si riesce a vedere che la traiettoria si crea in un unico tratto, sebbene possa occorrere un certo tempo, e che se pure si può dividere a volontà la traiettoria una volta prodottasi, non è possibile dividere la sua produzione, che è un atto progressivo e non una cosa» (Henri Bergson, L’evoluzione…, cit. alla nt. 11, p. 252). ↩︎

  54. Henri Bergson, Saggio…, cit. alla nt. 1, p. 89. ↩︎

  55. Ivi, pp. 93-94. ↩︎

  56. Ivi, p. 99. ↩︎

  57. Si tenga conto che il Saggio è del 1889. Bergson non conosce gli sviluppi successivi della scienza fisica: egli fa qui i conti con lo scientismo positivista. ↩︎

  58. Henri Bergson, Saggio…, cit. alla nt. 1, p. 107. ↩︎

  59. Su questo punto, rimandiamo ad uno dei libri più importanti tra quelli dedicati al filosofo francese, ancora oggi imprescindibile per la comprensione del pensiero bergsoniano: Vittorio Mathieu, Bergson. Il profondo e la sua espressione, Guida, Napoli 1971. ↩︎

  60. Henri Bergson, Saggio…, cit. alla nt. 1, p. 65. ↩︎

  61. Ivi, p. 87. ↩︎

  62. Ivi, p. 106. ↩︎

  63. Ivi, p. 107. ↩︎

  64. Ibid. ↩︎

  65. Ivi, p. 108. ↩︎

  66. Ivi, p. 118. ↩︎

  67. Ivi, p. 107. ↩︎

  68. Sulla presenza di una traccia di pragmatismo ermeneutico nel pensiero bergsoniano, si legga l’interessante testo di Rocco Ronchi, Bergson, filosofo dell’interpretazione, Marietti, Genova 1990. ↩︎

  69. Henri Bergson, L’evoluzione…, cit. alla nt. 11, p. 10. ↩︎

  70. Cfr., Henri Bergson, Saggio…, cit. alla nt. 1, p. 89. ↩︎

  71. Ivi, p. 108. ↩︎

  72. Ivi, p. 109. ↩︎

  73. Ibid↩︎

  74. Ivi, p. 102. ↩︎

  75. Vladimir Jankélévitch, Henri Bergson, cit. alla nt. 14, p. 100. ↩︎

  76. Henri Bergson, Saggio…, cit. alla nt. 1, p. 110. ↩︎

  77. Ivi, p. 87. ↩︎

  78. Ivi, p. 106. ↩︎

  79. Henri Bergson, L’evoluzione…, cit. alla nt. 11, p. 44. ↩︎

  80. Henri Bergson, Saggio…, cit. alla nt. 1, p. 113. ↩︎

  81. Ivi, p. 109. ↩︎

  82. Ivi, p. 146-147. ↩︎

  83. Ivi, p. 151. ↩︎

  84. Ivi, pp. 109 -110. ↩︎

  85. Per questa essenza creatrice, più avanti Bergson riconoscerà nella libertà un tratto divino, ma secondo quella particolare concezione della divinità che il filosofo aveva: «Dio […] non ha niente di compiuto; è vita incessante, azione, libertà. La creazione, così concepita, non è un mistero, ma la sperimentiamo all’interno di noi stessi quando agiamo liberamente» (Henri Bergson, L’evoluzione…, cit. alla nt. 11, p. 204). Bergson era di origine ebraica. Verso la fine della sua vita era intenzionato a convertirsi al cristianesimo, cosa che però non fece, poiché, come dichiarò prima di morire, non voleva abbandonare coloro che erano allora perseguitati (il filosofo morì nel 1941). Va ricordato, inoltre, che nel 1914 la Chiesa Cattolica aveva deciso di inserire tutte le opere di Bergson nell’Indice dei libri proibiti, e questo in seguito alla pubblicazione di L’évolution créatrice, la cui metafisica appariva come una forma rinnovata di panteismo. ↩︎

  86. Henri Bergson, Le Rire. Essai sur la signification du comique, Alcan, Paris 1900; tr. it., Il Riso, Laterza, Roma-Bari 2003 (5a ed.). ↩︎

  87. Henri Bergson, Saggio…, cit. alla nt. 1, pp. 86, 106. Jean Beaufret avrebbe poi affermato: «Nulla assomiglia di più a Proust […] dell’“ardito romanziere” evocato da Bergson» (cit. in Henri Bergson, Saggio…, cit. alla nt. 1, p. 155 n. E). ↩︎

  88. Si legga questo brano esemplare: «una filosofia di questo genere [scil. la nuova filosofia dell’evoluzione e della vita] non potrà costruirsi in un giorno. A differenza di quelli che sono propriamente chiamati sistemi — ciascuno dei quali fu opera di un uomo di genio e proposto come un blocco unitario, da prendere o lasciare — essa potrà nascere solo dallo sforzo collettivo e progressivo di molti pensatori, e anche di molti scienziati, in un lavoro di reciproca integrazione, correzione e rettifica» (Henri Bergson, L’evoluzione…, cit. alla nt. 11, p. 5). ↩︎