Dall’arcadia all’elisio: indagine concettuale intorno alla categoria poietica della grazia a scopo trascendentale

“Alle Anmuth ist schön, aber nicht alles Schöne ist Anmuth”1

1. Una premessa metodologica

Lo scopo di questo studio non è di natura storica: non desidero cioè chiarire in alcun modo il ruolo preciso che il concetto di grazia ricopre nella filosofia di Schiller, né indagare la genesi che la nozione ha poi conosciuto lungo lo sviluppo della storia della filosofia. L’indagine che segue vorrebbe piuttosto porsi come esercizio squisitamente teoretico per far luce sul ruolo che la grazia ricopre nelle dinamiche di formazione della comprensione dell’esperienza per noi a partire da un’analisi concettuale della nozione in questione; è proprio questa apertura di significato in senso fortemente trascendentale che mi pare la nozione della grazia legittimamente conquisti muovendo dallo studio che Schiller originariamente vi dedica. Tale lavoro, tuttavia, non si configura semplicemente come un esperimento ludico: io credo vi siano davvero buone ragioni per riscontrare nella ricchezza di questo meraviglioso concetto una categoria più ampia rispetto alla funzione riconosciutale in origine da Schiller nei sui scritti estetici e credo che questo ampliamento di senso possa essere concesso, configurato e giustificato proprio in virtù delle premesse poste dallo stesso Schiller. Il gesto, la scelta cioè di utilizzare il passato per provare a ragionare funzionalmente sulla nostra cultura e sulle tematiche che la attraversano, appartiene ad un modo di occuparsi di filosofia che, senza il timore di violare autorità, mostra di avere a cuore l’indagine delle leggi e delle condizioni di possibilità che regolano il nostro pensiero anziché la reverenza verso collezioni di risposte erudite che soddisfano forse la nostra sete di conoscenza (quid facti) ma non nutrono né appagano la logica del domandare (quid juris) che caratterizza propriamente il metodo filosofico ed il senso di meraviglia che lo muove. È certo che, come osserva Leibniz, è fondamentale prendere bene la rincorsa per spiccare un bel salto in avanti: è cioè necessario avere una consapevolezza appropriata del passato e della profondità genetica delle questioni che in esso si pongono per procedere oltre. Tuttavia, è proprio questa dimensione prospettica del pensare che Leibniz coglie bene nella sua considerazione a dover condurre l’indagine filosofica specialmente in un’epoca, come è la nostra, sempre più impaurita e circospetta di fronte all’autonomia di pensiero ed alla responsabilità che sempre segue la complessità e la problematizzazione.

2. Oltre la cintura di Venere: caratterizzazione trascendentale della funzione estetica della grazia

Sebbene questo studio non voglia giustificare una storia -nemmeno una storia tanto bella e profonda come è in effetti quella della grazia- tuttavia, lo abbiamo osservato, dal passato non si può prescindere. Proviamo dunque a prendere in considerazione per un momento le osservazioni che Schiller dedica al concetto della grazia nei suoi scritti estetici per svolgere da qui possibili sviluppi. Schiller, nei saggi estetici che compose tra il 1791 ed il 1795 – il cosiddetto periodo kantiano –, ci spiega chiaramente in quale modo la categoria estetica della grazia differisca dalla categoria estetica della bellezza. La grazia differisce dalla bellezza, spiega Schiller, poiché ha in sé un movimento casuale che spezza la staticità del bello e si configura come elemento esterno, estraneo alla struttura del fenomeno, una qualità particolare per così dire aggiunta interamente dal soggetto. È «bellezza mobile» intesa come una qualità che agisce sull’oggetto stesso e lo interpreta allungandone il senso. Schiller porta come esempio l’integrazione di significato che apporta la cintura della statua di Venere alla stessa dea della bellezza: Venere è bella ma la cintura le conferisce una qualità estetica diversa ancora, indicibile, tanto che Giunone quando intenderà sedurre Giove sul monte Ida dovrà chiederle in prestito proprio questa sua cintura. Grazia, così, è il nome con cui la tradizione estetica ha chiamato la totalità dell’opera d’arte, connettendola al movimento delle passioni, ciò che indica il permanere di un’unità del significato pur nella varietà di senso2. La grazia sin da questo suo piano estetico evidenzia così una natura ambigua; è una qualità che, aggiunta nel corso del processo sintetico, diviene oggettiva (significante per il fenomeno: senza la cintura, Venere perderebbe il suo significato perspicuo) ma comunque casuale (senza la sua cintura, tuttavia, Venere non cesserebbe di essere Venere) poiché potrebbe esserci oppure no: non è in altre parole essenziale alla definizione della struttura del fenomeno di cui fa parte. Scrive Schiller:

Certo una cintura, che non è più di un casuale ornamento esteriore, non sembra un’immagine veramente adatta a designare la qualità personale della grazia; ma una qualità personale, pensata al tempo stesso come separabile dal soggetto, non poteva forse essere raffigurata in altro modo che mediante un ornamento casuale, il quale si può separare dalla persona senza che essa ne risenta danno. La cintura della grazia non agisce dunque naturalmente, perché in questo caso non potrebbe mutare nulla nella persona stessa, ma agisce magicamente, cioè il suo potere viene allargato oltre ogni condizione naturale.3

L’esempio che Schiller propone della cintura di Venere è appunto un esempio e neppur pienamente soddisfacente per il suo stesso autore. Ma è quanto basta per rendere conto di una caratteristica importante che proveremo ad isolare: la grazia, a me sembra, rende conto di uno spostamento indicibile di significato che sfugge propriamente alle leggi della causalità e del logos e si manifesta attraverso quella che Ernst Cassirer definisce una logica di natura mitica, un insieme di figurali matrici di senso irriducibili alla scrittura che le rappresenta o alla storia in cui sono inserite.

È proprio questa intersezione tra Schiller e Cassirer offertaci dal nostro ragionamento ad indicarci un passaggio importante che ci aiuta a trasportare il discorso da un piano propriamente estetico e solo tangenzialmente trascendentale, ad uno pienamente trascendentale. Per comprendere meglio questo slittamento di piano è necessario ricordare il modo in cui Cassirer caratterizza le leggi proprie della logica mitica che, egli sostiene, affiancano legittimamente quelle proprie di altre forme simboliche nella costituzione dell’esperienza per noi. Anche la logica mitica, come quella propriamente teoretica, intende rappresentare la totalità del reale ed è responsabile di una vera e propria attività formatrice, dotata di una legge intrinseca differente dalle altre forme simboliche e caratterizzata tuttavia da pari dignità: tali leggi non scaturiscono dall’arbitrio sfrenato dell’immaginazione ma si muovono lungo le strade ben determinate del sentimento e dell’attività raffiguratrice del pensiero. In questo senso la mitologia si occupa di una vera e propria morfologia delle forme poietiche4 per mezzo di una contrazione intensiva dell’intuizione5. Scrive Cassirer:

Mentre il pensiero teoretico tende all’ampliamento, al collegamento, alla connessione sistematica, l’attività mitica, al contrario, tende alla densità, alla concentrazione, al rilievo che isola. Là, l’intuizione singola viene ricondotta alla totalità dell’essere e dell’accadere e ad essa collegata con fili sempre più fini sempre più solidi; qui l’intuizione singola viene colta e materializzata nel puro presente, vien presa non per quello che mediatamente significa ma per quello che è nel suo immediato apparire6.

Io credo che le parole di Cassirer comincino ad offrire alcuni strumenti interessanti per comprendere la specificità dell’orizzonte entro cui si situa la questione che la grazia pone all’attività di comprensione dell’uomo da un punto di vista generale e ci parla di fatto della possibilità di raccogliere ed organizzare le nostre conoscenze sull’esperienza secondo una direzione affine, per un verso, a quella che si pone nella logica mitica. Se le parole di Cassirer hanno però senz’altro il merito di descrivere una certa modalità di pervenire alla sintesi del molteplice – quella appunto descritta dalle leggi della logica mitica –, non mi sembra si possa tuttavia affermare che la grazia appartenga pienamente a questo orizzonte. Non mi pare cioè possibile sostenere sensatamente che la grazia, al pari del pensiero mitico, comporti che

lo spontaneo divenga un puro ricettivo e che tutto ciò che è prodotto con la cooperazione dell’uomo divenga qualche cosa di puramente ricevuto.7

Ad un’analogia si affianca ora una differenza. L’attività della grazia nel processo sintetico a cui prende parte, pur coinvolgendo -al pari della logica mitica- una certa «contrazione intensiva dell’intuizione», mi pare insieme conservare una funzione di natura fondamentalmente mediativa che, in quanto tale, non può darsi nell’immediato ed a prescindere da un’attività riflessiva. Sappiamo che nei saggi estetici Schiller approfondisce sempre più l’incontro con il kantismo, ponendo l’attenzione a temi come il sublime ed il dovere etico che attestano inequivocabilmente la lacerazione entro cui l’uomo si trova a vivere. Il discorso schilleriano assume così la connotazione duale che gli è tipica e sembra privilegiare i temi che, per la loro stessa intima struttura, accentuano più la separazione e la differenza che l’unità. E tuttavia sarebbe errato volere isolare queste ricerche, trascurando che esse non sono che parte di un disegno più ampio e che mira a ricostruire l’unità dei processi di comprensione dell’uomo. Ed è proprio a questo respiro più generale dell’opera schilleriana a cui vorrei ricondurre la funzione complessiva della grazia. In tale prospettiva, la grazia si profila come un compito trascendentale e generalissimo e non un fatto della cultura, nemmeno appartenente ad una prospettiva mitica. La grazia allora, seguendo Schiller, si profila come una vera e propria funzione unificatrice del fenomeno in generale frutto di una mediazione le cui leggi di funzionamento, come spiegato da Cassirer, sembrano tuttavia incorporare, analogamente a quanto avviene nelle leggi che presiedono alla logica mitica, una certa contrazione intensiva di significato connessa all’intuizione.

3. W. v. Humboldt e A. Schweitzer: buone ragioni a favore dell’interpretazione trascendentale

Cassirer non si occupa della nozione di grazia così come Schiller non ha interesse a qualificare come affini alla logica mitica -nemmeno nell’opera d’arte- le leggi che descrivono la funzione unificatrice della grazia, questo è fuori da ogni dubbio. Il dialogo che abbiamo aperto mi sembra tuttavia importante, proficuo e non del tutto arbitrario: Schiller e Cassirer rispetto alla nozione di grazia offrono alcuni strumenti teorici che ci consentono di mettere a fuoco l’importanza della sua funzione in un’ottica trascendentale, dunque rispetto al problema della costituzione del significato dell’esperienza per noi, portando ad un’espansione massima le potenzialità teoriche implicite a questo concetto. Dalle argomentazioni di Schiller, abbiamo visto, un solo aspetto appare chiarissimo: quella della grazia è innanzitutto una categoria estetica, dunque funzionale alla descrizione delle modalità interpretative sensibili nell’arte. Tuttavia: la definizione di un’eccedenza di significato connessa alla contrazione intensiva dell’intuizione e l’aggancio, per questa via, alla logica mitica a cui ci ha dato accesso il richiamo a Cassirer, ci indicano una direzione possibile per continuare ad approfondire questa direzione di senso.

In una lettera del 1795 W. v. Humboldt dovette cogliere l’importanza dello scritto schilleriano dedicato alla grazia poiché scrive proprio a Schiller:

L’importanza massima di questo lavoro sta senza dubbio nel fatto che esso apre alla critica una strada assolutamente nuova, finora sconosciuta: esso stabilisce leggi là dove finora si è giudicato solo secondo strumenti soggettivi […]. Questa strada non può non essere presto battuta e continuata, e questa nuova concezione rende necessaria una revisione di quasi tutti i giudizi dati fino ad oggi.8

Anche Albert Schweitzer valorizzò l’apertura trascendentale posta in nuce alla trattazione schilleriana della grazia, scorgendo tra il piano etico ed il piano estetico coinvolti nel processo mediativo, una connessione ricca di senso da un punto di vista costitutivo:

Nelle Lettere sull’educazione estetica dell’uomo (1795) Schiller spiega che estetica ed etica sono intrecciate tra loro in quanto in entrambe l’uomo si comporta in modo libero e creativo nei confronti della costituzione del mondo sensibile. Il passaggio dallo stato passivo della percezione a quello attivo del pensiero si compie solo attraverso lo stato intermediario, la condizione di possibilità della Grazia (intesa come libertà poietica). Per rendere razionale l’uomo, dunque per rendere l’uomo davvero capace di perseguire l’unità delle sue conoscenze non vi è altro modo che accettare ed integrare in esse l’uomo estetico. Questa interessantissima posizione si perde un poco tuttavia nella retorica e non riesce precisamente a spiegare il problema della relazione tra l’estetico e l’etico.9

Secondo Schweitzer, Schiller si perde un poco nella retorica ed è questo che non gli consente di rendere ragione in modo esauriente della relazione che ha luogo nella funzione unificatrice a cui presiede la grazia tra estetico ed etico (e tra cui gli sembra porsi una sorta di schematismo trascendentale della poiesis). Schweitzer evidenzia obiettivamente un problema: in Schiller la funzione trascendentale della grazia non è del tutto evidente perché nella funzione unificatrice che assolve non risulta essere chiaro il meccanismo della mediazione tra i vari fronti coinvolti. Ma, lo ripetiamo, Schiller tratta la grazia prevalentemente come categoria estetica e non si pone problemi che in effetti non si danno ai suoi intenti. Sulla scorta di questa bella considerazione di Schweitzer e coerentemente con l’invito di Humboldt, proviamo allora a capire perché la categoria della grazia, a partire dalla ricchezza riconosciutale da Schiller ed attraverso la funzione che egli ne descrive, si rivela a ragione uno strumento interpretativo che caratterizza più in generale il nostro modo di relazionarci all’esperienza ed ai suoi fenomeni. Ciò ci darà inoltre l’occasione per provare a colmare la mancanza argomentativa riscontrata da Schweitzer nelle considerazioni di Schiller.

3.1. Il giardino di Adone: l’ampliamento del significato del fenomeno

C’è un testo, molto bello, che credo possa aiutarci a far luce sulla nostra questione offrendo una formulazione più chiara alla difficoltà evidenziata da Schweitzer. L’Elogio della follia è un testo medioevale, in cui Erasmo da Rotterdam ci invita, tra tante altre cose, a leggere la vita umana come «gioco della follia»: gioco qui è inteso in senso costruttivo, come attività che prende forma dai controsensi, che accoppia l’acqua col fuoco e che, con questo suo radicarsi nelle contraddizioni e nelle eccedenze qualitative del vissuto, acquista una saggezza che libera dai due principali ostacoli alla conoscenza delle cose: la vergogna e la paura. Il sapiente è, in barba a Seneca e agli stoici, colui che ha passioni, che vive nei giardini di Adone e non in quelli di Tantalo, che vive dunque secondo natura, utilizzando le forze che sotto forma di passioni la natura stessa in lui ripone, per interpretarne i misteri, le qualità, le contraddizioni, i dolori. Su questa forma di follia si fonda l’accordo estetico tra gli uomini: un accordo che richiede un atto di volontà, una scelta poiché non ogni follia è produttiva. Il movimento della follia non è dunque esteticità giocosa e irriflessiva, fine a sé stessa, poiché mette in campo il problema del libero arbitrio, attraverso il quale soltanto l’uomo sceglie quella folle saggezza che può accettare il paradosso ed il controsenso.

Potremmo domandarci ora cosa c’entra tutto questo con la grazia. Il potere della scelta e della volontà dell’uomo è tradizionalmente connesso (in particolare nell’epoca della riforma) a quello della grazia quale origine della salvezza. Ma la questione teologica non è in Erasmo centrale. La prima grazia, viziata ma non spenta dal peccato, è data con la natura umana. La seconda grazia, definita particolare ed operante, permette al peccatore di disprezzarsi e di cercare il riscatto attraverso le azioni. La follia è grazia di secondo ordine, dunque scelta, che rende possibile un percorso poietico: apre all’uomo la libertà dell’azione e gli dischiude quel sapere che gli permette di scegliere, tramite il libero arbitrio ed all’interno della sfera passionale, i sentimenti non istantanei ma che sono superamento del sensibile e tendono verso un altro livello, la sfera dei valori10. Le leggi del libero arbitrio sono dunque leggi del fare, pongono il passaggio dalle passioni alla grazia non come «dono» ma come conquista e attività costruttiva del senso dei fenomeni per noi (la loro sintesi in un’unità dotata di significato): sono apertura e dialogo, inserimento della passione nei progetti dell’azione, costruzione di verità e non sua passiva accettazione. La passione da componente afferente al piano del disordine diviene così progetto dialogico, intenzionalità del sentimento verso al grazia. La follia è la possibilità che esistano strade diverse verso la verità delle cose, strade che nell’uomo hanno l’apparenza di passioni e che, nel loro dialogare ed agire, conducono ad un altro livello di senso: qui sta il valore della grazia. La passione è dialogo perché pone affianco alla voce del pensiero, la polifonia del sentire, irriducibile al discorso, viva in primo luogo nel suo stesso movimento: tale movimento impone di decostruire l’ordine dell’opposizione poiché nella molteplicità dei suoi vissuti conosce strati di senso non riproducibili da alcuna verbalizzazione. Interpretare la passione significa dunque in primo luogo, cogliere la passione come forza interpretante.

La lettura che della grazia ci offre questo bellissimo testo mi pare andare nella direzione che stiamo tratteggiando, offrendo alle nostre argomentazioni un margine meglio definito. Le considerazioni a cui apre il testo di Erasmo ci ha aiutato a mostrare meglio questo, io credo: la nostra comprensione dei fenomeni, sembra coinvolgere strutturalmente una componente eccedente, quella comportata dalle passioni, ovvero un elemento indicibile che pur avendo un aggancio nell’esperienza conosce tematizzazioni nella direzione (sebbene nella differenza che ricordavamo) della logica mitica descritta da Cassirer; tali tematizzazioni collaborano ad una figurazione possibile dei fenomeni, valida per noi, e tuttavia sfuggente poiché non obiettivamente presente nella struttura percettiva del fenomeno (come era stata la cintura di Venere rispetto a Venere). Tale sintesi si configura propriamente come poietica ed evidenzia una valenza etica, quella che consegue alla buona follia e conduce propriamente alla grazia comportata dalla capacità, dalla responsabilità e dalla la scelta di armonizzare la polifonia del sentire integrandola in una totalità, nell’unità di un significato.

In qualche misura Cassirer nella Filosofia delle forme simboliche aveva spiegato, e molto bene, che nelle dinamiche di costituzione delle nostre conoscenze, questo particolare fatto ha luogo normalmente: i fenomeni non si identificano mai con le loro descrizioni ma si appoggiano essenzialmente alle narrazioni simboliche che ne offriamo e a questo fatto la nostra cultura, banalmente, non può proprio rinunciare. E Kant, qualche secolo prima, ci aveva spiegato le leggi e le modalità di funzionamento della ragion pratica, evidenziandone tuttavia il ruolo regolativo e la sua alterità rispetto all’attività conoscitiva vera e propria. Quello a cui mi pare dare accesso (ed in modo molto interessate) la riflessione che Schiller dedica alla grazia e l’estensione della nozione ai processi di comprensione dell’uomo in generale -dunque oltre l’orizzonte estetico che le è propriamente riconosciuto-, sono due integrazioni di senso importanti alla modalità di costruzione del fenomeno: da un lato, rispetto all’apporto di Cassirer, una valorizzazione della dimensione poietica nel problema della costituzione del fenomeno in generale -non solo nella sua descrizione mitica- e conseguente alla ineludibile relazione tra la rappresentazione del fenomeno e le passioni: per meglio dire, una valorizzazione trascendentale di questo orizzonte; dall’altro -ma fortemente connessa a questa prima- un’integrazione nei processi costitutivi veri e propri di una componente propriamente etica che oltrepassa dunque la dimensione regolativa riconosciuta alla ragion pratica da Kant conservandone tuttavia un senso profondo. L’inserzione di un piano etico accanto al piano estetico nei nostri processi di costituzione del fenomeno ha la funzione fondamentale di indicare come la totalità del fenomeno, la sua unità -la cui natura complessivamente non può essere che poietica-, sia prodotto del soggetto trascendentale, ovvero quella regola prima che fa si che le nostre conoscenze si diano necessariamente «da qui» e non possano prescindere da questa loro funzionalità prospettica.

In tal senso, si delinea nella costruzione del senso dei fenomeni un profilo di natura intrinsecamente valoriale. La grazia, ovvero il presidio vigile di un’unità poietica di riferimento per la realtà in cui le fratture siano poste in dialogo con la totalità, infatti sembra la condizione di possibilità per mezzo della quale coniugare insieme la dimensione estetica e la dimensione pratica caratteristica della nostra comprensione del mondo, convogliando tale relazione nella nostra attività sintetica complessiva. Questa prospettiva sembra accogliere e portare ad un’interessante svolgimento l’insegnamento kantiano secondo cui la Ragione dell’uomo, pur suddividendosi in specifiche modalità caratterizzate da un proprio e preciso funzionamento, sarebbe infine una ed unica e di questa unicità rende conto infine l’attività sintetica a cui fa capo la comprensione dell’uomo. Schiller ebbe del resto e senza dubbio particolarmente a cuore tale Totalità.

4. Grazia come condizione di possibilità di integrazione della frattura nella Totalità

La grazia, abbiamo affermato, è una qualità oggettiva -sebbene non necessaria alla definizione dell’oggetto- che qualifica nella costituzione del fenomeno, la presenza di un elemento eccedente, uno scarto di senso rispetto alla sua struttura oggettiva, che richiama la nostra attenzione e che ci consente di tematizzarne e di narrarne il senso in modo eccezionale. Così come accade per l’arte, potremmo affermare che la grazia, offrendo al fenomeno in generale percorsi poietici – non logici: basati invece su impulsi sensibili che eccedono il suo senso –, ne rende un’interpretazione speciale, una certa qualità architettonica della rappresentazione. Il compito etico che richiama ad un’integrazione di tale eccedenza nel significato del fenomeno possiede, dal punto di vista dell’analisi filosofica dei nostri meccanismi di comprensione del reale, un merito evidentissimo e cioè quello di legare in una relazione inscindibile soggetto fruente ed oggetto fruito: tale prospettiva enfatizza, attraverso la componente poietica, la tesi kantiana (insieme ai suoi sviluppi neokantiani) secondo cui non è in alcun modo possibile parlare del fenomeno in sé poiché esso si dà sempre in relazione all’attività conoscitiva del soggetto trascendentale.

Credo sia necessario a questo punto proporre qualche considerazione aggiuntiva in modo tale da evitare due possibili equivoci: il primo, è rappresentato dal pericolo del soggettivismo che, si potrebbe pensare, sembra annidarsi sotto le considerazioni svolte; il secondo, pare invitarci a legare alla funzione sintetica della grazia la responsabilità di delineare per le nostre conoscenze specifiche una configurazione intrinsecamente etica. In primo luogo, il richiamo alla componente poietica non credo ci costringa affatto ad identificarne la sorgente operativa nel soggetto empirico: il piano della trattazione, come abbiamo provato ad argomentare, permane sempre connesso all’indagine riguardo la legittimazione delle nostre conoscenze e le sue condizioni di possibilità nell’ottica di una loro descrizione sempre più comprensiva ed approfondita. Il riferimento alla componente delle passioni nell’attività meditativa della grazia è un riferimento mai incarnato e coinvolge le passioni come funzioni interpretanti: si rivela in questo senso utile ad offrire accesso ad uno studio più ampio delle dinamiche simboliche che presiedono alla costituzione dei nostri discorsi sul mondo, cercando di rendere conto in primo luogo della loro complessità. In secondo luogo, sarebbe credo sbagliato assumere che tale prospettiva interpretativa costringa infine ad assegnare, a causa della mediazione offerta dalla grazia, un valore etico e poietico ad ogni nostra descrizione del mondo, dal punto di vista del suo contenuto: la presenza nell’attività sintetica dell’uomo della funzione mediatrice della grazia, non impone cioè di configurare «eticamente» il contenuto specifico delle forme simboliche determinate: la scienza per esempio non sarà mai buona o cattiva, perché buono o cattivo è solo l’uso che l’uomo può farne. La scienza in quanto tale è ricerca e nel suo progresso non deve essere disturbata dalle domande sul bene e sul male. Il nostro discorso desidererebbe porsi piuttosto su un piano di riflessione più generale senza disturbare i contenuti dei saperi particolari. Le riflessioni sviluppate a partire dal concetto di grazia, consentono di mettere a fuoco un fatto: nelle dinamiche che presiedono la costituzione del fenomeno per noi, da un punto di vista generale, la mediazione della poiesis è una modalità di comprensione che integra i processi sintetici in generale consentendo all’attività costitutiva di impegnare l’avvicinamento asintotico alla fondamentale nozione di Unità. Il perseguimento della totalità si profila per questa via non solo come compito sintetico e conoscitivo ma anche come dovere: questo dovere ha a che fare con la responsabilità che il soggetto trascendentale assume rispetto alla coerenza interna dell’Unità perseguita per mezzo della mediazione.

Una tale direzione di senso è stata coltivata per la costituzione della Filosofia della civiltà dal già citato Schweitzer. In essa l’eco della funzione della grazia come condizione di possibilità per una conoscenza fondata sull’interazione tra estetico ed etico è fortissima: la funzione che Schweitzer riconosce alla grazia è di natura fortemente politica e dunque troppo incarnata per presentare un riferimento dialogico strutturato nel nostro discorso che, invece, si pone su un piano più generale. Tuttavia, porre la grazia come condizione di possibilità a presidio di una concezione del reale come totalità, unità, ha certamente, come abbiamo osservato, conseguenze che hanno fortemente a che fare con l’essere dell’uomo un soggetto etico inserito all’interno di una certa logica dei fenomeni: ma l’intento non è tuttavia, come accade in Schweitzer, giustificare questo fatto; l’obiettivo è piuttosto rendere ragione della complessità costitutiva dei suoi processi di comprensione, di cui poi questo fatto è una (a mio parere ancor più grandiosa) conseguenza. Emerge così di nuovo ed in modo evidentissimo l’orizzonte trascendentale delle nostre considerazioni.

5. Figure della grazia

Per meglio comprendere il senso del percorso compiuto, vorrei ora provare ad offrire esemplificazioni utili a rappresentare alcune possibili modalità d’espressione della funzione meditativa della grazia, nel significato trascendentale che abbiamo provato a mettere a fuoco. L’utilità di tali esempi è solo di tipo esplicativa: gli esempi hanno cioè il merito di evidenziare in re il processo di attività sintetica a cui presiede la grazia come condizione di possibilità funzionale alla costituzione di un’unità poietica possibile e di portare alla luce il modo in cui questa specifica funzione poietica sia accompagnata da un indissolubile controcanto etico.

Nella letteratura la dimensione trascendentale di tale mediazione mi sembra emerga in modo chiarissimo e ne propone tematizzazioni possibili: potremmo affermare che, a livello generale, la letteratura abbia proprio la funzione di esibire, in una narrazione, la possibilità di integrare fratture, eccedenze e disequilibri, necessari alla definizione unitaria di processi di comprensione coerenti di esperienze possibili. Le narrazioni che prenderò in considerazione appartengono ad alcuni suoi luoghi classici e mostrano tutte come la funzione della grazia si dia necessariamente in dialogo ad indicare il «movimento» continuo connaturato alla mediazione: mi soffermerò sulla storia di Antigone e di Creonte, sull’incontro tra Ulisse ed i Feaci di cui ci narra Omero e su una vicenda collaterale a quelle letterarie, ovvero la vicenda che contrappone Don Giovanni ed il Commendatore. In tutti questi tre casi mi pare sia evidente il ruolo sintetico che la grazia ricopre in funzione del quale si definisce una determinata forma del reale in relazione ad una Totalità; emerge qui inoltre il delicato equilibrio che essa tesse tra le polarità in gioco, esplicitando per tale via la condizione che essa esercita nel determinare possibilità di senso per l’esperienza.

Tutte le storie che prenderemo ad esempio, ci mostreranno di dovere fare i conti con eccedenze di senso dovute a fratture che in prima istanza appaiono inconciliabili con un significato unitario dell’esperienza, con la sua armonia11. In questa affermazione non si limita ad echeggiare una tesi filosofica importante: non stiamo qui semplicemente ricordando, cioè, che l’esperienza si identifica sempre le sue interpretazioni12. L’eccedenza a partire da cui si genera un’interpretazione speciale è ciò che di fatto comporta la qualità obiettiva della grazia ed è, al tempo stesso, accidentale, separabile dal fenomeno: non ne altera la struttura ma solo il suo significato, le sue narrazioni specifiche. Di qui il carattere casuale dato dal «movimento» caratteristico della grazia13, dalla relazione innescata tra l’eccedenza ed il significato del fenomeno14 che determina l’allargamento del concetto. La grazia instaura una logica figurale che ha nel mito – cioè in una narrazione verosimile in cui la libertà dell’uomo si scontra con la libertà della natura da piegare alle proprie forze poietiche, alle proprie scelte –, la sua forza originaria (ed in ciò la logica figurale della grazia si rivela del tutto simile alla logica che presiede la tragedia). La scelta scaturisce da uno stato sublime (passione) che l’azione plasma in opera, in grazia: non ha, direbbe forse Cassirer, necessità logica ma mitica (si parla in questo luogo di leggi plurivoche e dialogiche). La necessità mitica descrive quella forma di mutevolezza qualitativa data dal sentire che avvertendo una mancanza del logos, cerca altri criteri per organizzare e misurare l’esperienza. La grazia è allora sì interpretazione, scriveva Schiller, ma intesa come mediazione dialogica ed appartiene all’anima bella che riesce a porre nell’unità, la presenza di una frattura. L’anima bella tollera l’ambiguità e la integra nel proprio discorso unitario15, determinando attraverso una certa densità intensiva di significato, una specifica qualità del fenomeno: ciò è più che stabilire tra l’esperienza ed le sue interpretazione un nesso imprescindibile.

Già nella contestualizzazione estetica della categoria della grazia, emerge allora una precisa sfumatura etica (politica nel senso di Schweitzer) che coinvolge la capacità dell’uomo di relazionarsi e stare nella storia (la propria ed, insieme, quella che condivide con altri uomini). Scrive Schiller:

Io chiamo la bellezza un dovere dei fenomeni, perché la corrispondente esigenza nel soggetto è fondata nella ragione stessa, è perciò universale e necessaria. La chiamo un dovere primitivo, perché il senso ha già giudicato prima che l’intelletto cominci l’opera sua.

La libertà dunque governa ora la bellezza. La natura diede la bellezza della struttura, l’anima dà la bellezza del gioco16. Ed ora sappiamo anche che cosa dobbiamo intendere per grazia. Grazia è la bellezza della figura sotto l’influenza della sua libertà; la bellezza di quei fenomeni che sono determinati dalla persona. La bellezza architettonica fa onore all’autore della natura, la grazia a chi la possiede. Quella è un talento, questa un merito personale.17

La grazia evidenzia nella sua funzione sintetica una ricaduta propriamente etica ed è proprio questo ribaltamento di significato nella sua controparte a potersi rilevare in tutte e tre le esemplificazioni letterarie su cui ci soffermeremo. La dimensione della grazia pare in questa mediazione raccogliere sotto di sé una parte delle leggi poste alla base dei discorsi sensati, che si riferiscono cioè all’oggettività dell’esperienza per noi e delle sue manifestazioni qualitative. Fra le possibilità di riempimento di senso, vi sono piani che sfuggono alla logica e vanno alla ricerca di una verità che è dialogo tra differenti dimensioni veritative. Tale dialogo ha le sue leggi e ci parlano della capacità di integrare in un unità sintetica, le instabilità che percorrono il suo significato. La dimensione della grazia qualifica un piano di tipo più generalmente interpretativo e che, in quanto tale, ha a che fare con la comprensione dei fenomeni da parte del soggetto trascendentale secondo un profilo valoriale. La vicenda di Ulisse e dei Feaci, il confronto tra Don Giovanni ed il Commendatore, le ragioni di Antigone e quelle di Creonte rappresentano in modi diversi proprio questo: mostrano come il processo di comprensione del mondo incontri il piano della grazia nel momento in cui l’attività sintetica dell’uomo viene percorsa da un’eccedenza alla luce della quale la messa in forma del fenomeno richiede di compiere, sulle sue stesse basi, scelte da cui prenderanno poi vita nuovi percorsi interpretativi. È a questo punto che le funzioni operative di quel piano poietico, che ha le sue radici nella dimensione del sentire, entrano in gioco. Si parla di funzioni operative poiché la specificità del loro senso non è radicata nella profondità ontologica di un essere o di un ente, ma deriva dal processo e dal progetto della loro attiva genesi di senso, della poiesis che li rende strumenti interpretativi. Per mezzo di questa eccedenza è possibile accedere ad un certo spessore qualitativo dell’esperienza che interseca l’attività di giudizio con una componente etica, a partire da stati sublimi (appunto, le passioni). Tale eccesso può comportare nell’attività sintetica l’emergere di un controsenso tra l’ordine dei fenomeni nell’esperienza e la sua direzione di senso per noi. La dimensione della grazia, nel suo respiro più generalmente conoscitivo, è la condizione a partire dalla quale la percezione di quest’aporia, del controsenso, viene inserito nella linearità di una narrazione ed in cui è la poiesis a descriverne la legge. Emerge qui un preciso legame tra sentimento e rappresentazione e rivela un nuovo livello della relazione conoscitiva tra soggetto ed oggetto in cui il piano estetico, etico e quello conoscitivo si rivelano profondamente connessi. La storia di Ulisse, di Don Giovanni e di Antigone è la storia di un tentativo, quello di provare a costruire una relazione dialogante tra impulso sensibile e moralità ed in ciò configura una più precisa modalità della nostra conoscenza: l’eccedenza comportata dalle passioni, il suo controsenso, la libertà cioè che esse prescrivono in contrasto con la libertà della natura, diviene oggetto di un’integrazione entro l’unità sintetica, perché la totalità, sebbene incrinata, possa essere ricostituita. La grazia, allora, ci parla di un percorso di interpretazione della natura in cui la totalità del fenomeno è garantita unicamente per messo di integrazioni poietiche. Esse non risolvono le differenze, le fratture, ma le pongono, entro un’unità, in dialogo, perseguendo in tal modo l’esplicitazione poietica dei nessi tra le parti. Costruire la sfera di senso del passionale a partire da un altro atteggiamento (da un’attività sintetica che pone un rapporto genetico tra il giudizio e la passione), insomma ciò che abbiamo definito come atteggiamento poietico, significa di fatto trasportare il piano dell’estetico e del sentire, su un piano propriamente costitutivo, vale a dire all’interno di un discorso che riguarda il modo in cui costruiamo il senso dei fenomeni. Le figure della grazia ci aiutano ad approfondire il movimento gnoseologico qui implicito, inteso come costruzione di dialogo, relazione tra i nessi, integrazione di unità e frattura: in una parola, mediazione. E tuttavia sarebbe sbagliato credere che queste esemplificazione abbiano in qualche modo una rilevanza specifica e particolare: Antigone, Don Giovanni, Ulisse hanno un certo interesse per noi solo nella misura in cui le loro vicende ci consentono di mettere a fuoco il processo di mediazione operato dalla grazia, il suo significato perspicuo e le leggi generali che rendono ragione del processo sintetico a cui essa mette capo. Il piano del discorso filosofico, dunque, permane necessariamente a livello della metariflessione.

5.1. Don Giovanni e la fenomenologia del desiderio: una figura collaterale della grazia

La prima figura su cui vorrei soffermarmi è quella che prende forma nella relazione tra Don Giovanni ed il Commendatore, così come rappresentata nell’opera di Da Ponte composta da Mozart. Il Don Giovanni offre una rappresentazione del libero arbitrio condotto da scelte passionali, al di fuori di ogni mediazione: Don Giovanni eccede così la misura determinando un equilibrio instabile. Egli offre un esempio di come la grazia, quando fallisce la sintesi poietica smarrendo l’unità del senso, traduca il dialogo in discorso autoreferenziale e smarrisca il riferimento alla totalità. La sensualità, in lui, non è armonia ed accordo ma contrasto ed esclusione, dotate di una propria logica nella costruzione dei fenomeni: assistiamo cioè al trasferimento di nozioni originariamente mitiche, ignare quindi della logica dell’identità e della non contraddizione, piegate invece alle ragioni della spontaneità e dell’immediatezza, sul piano mediativo del logos e di qui muove l’azione. Si delinea così una fenomenologia del desiderio che si esaurisce in una ripetizione apparentemente fine a sé stessa, incapace per questo di trasformarsi in dialogo, mediazione ed interpretazione. La funzione conoscitiva che il desiderio esercita nella storia di Don Giovanni, è solo il punto di avvio di un’esteticità che vorrebbe porsi entro un progetto, costruendo così un rapporto dialogico fra il mondo ed il processo stesso del desiderare, pur non riuscendoci.

Il desiderio ripetitivo di Don Giovanni assume un carattere drammatico in crescendo, pur contenendo una certa potenzialità costruttiva d’apertura dialogica verso ciò che è strutturalmente diverso. Tale dimensione costruttiva emerge nel rapporto con la figura del Commendatore: quando infatti il desiderio ripetitivo chiude infine Don Giovanni in una solitudine inviolabile, compare la figura del Commendatore che, ormai morto e sotto le sembianza di una statua di pietra, lo invita a pentirsi, a riconoscere come inconcludente ed insana la sua forma di desiderare. Don Giovanni rifiuta di disconoscersi, l’autocitazione dell’aria del «farfallone amoroso» delle Nozze di Figaro, lo consacra come esteta in grado solo di sentire e non di convertire questo sentire in mediazione ed azione reale (poichè non veicolata da processi riflessivi). Vi è in Don Giovanni la tensione della passione, del desiderio verso una grandezza priva di misura, sublime in senso kantiano, moderno ed incessante contrasto fra sensibilità e ragione, fra sensi e moralità, che tuttavia rivela l’incapacità di risolversi su un nuovo piano interpretativo: Don Giovanni ne vede solo un lato, alludendo all’altro casualmente e solo in senso distruttivo. Allo stesso modo il Commendatore, nella sua formalità, non coglie la possibilità dell’estetico. Durante il contrasto finale i due personaggi, nella rigidità del loro spessore drammatico, rappresentano l’irriducibile distanza sancita da un certo modo di guardare alla realtà tra ragione e sentire e che determina l’impossibilità di costruire un’unità pacificata essendo preda di una passione unilaterale, etica o estetica che sia. Né Don Giovanni, né il Commendatore sanno spostare il loro baricentro, appoggiarsi all’altro da sè e vivere insieme gli inferi e la gioia. Non è sufficiente il valore così come non basta la frenesia estetica della passione. In entrambi i casi non si raggiunge un piano poieticamente costruttivo – la misura poietica della tragedia – in cui la passione trasforma il fenomeno in un’azione sintetica progettuale e densa di valore. È Da Ponte stesso a operare nel Don Giovanni una mediazione, non dialettica ma fortemente ironica, primo tentativo di controllo poietico delle passioni, di riempimento dialogico della logica del desiderio: Donna Anna, riconducendo il desiderio erotico e costruttivo di Don Ottavio a «buone regole formali», chiede un anno di lutto. Don Ottavio, cedevole, replica: «Al disio di chi m’adora/ ceder deve un fido amor». E questo «cedere» fa risaltare il carattere eroico di Don Giovanni, trasgressivo di fronte a una mediazione inconcludente, che sottomette la passione a forme vuote, a principi formali. Alla modernità regolata dal logos, dalla mediazione, dalla riflessione, dall’ordine è opposta nel Don Giovanni la modernità del plurale, del movimento, del disordine che deve mutarsi in confronto tra le differenze. È dalla passione come differenza, dunque, che si deve ripartire cercando di sottrarre Don Giovanni dagli Inferi per mostrare quindi come il desiderio di Don Giovanni, di per sé vuoto istante, possa riempirsi di senso una volta inserito in una dimensione dialogante, favorevole alla mediazione della riflessione, una volta dunque ricondotto alla condizione di possibilità della grazia come categoria che presiede un’interpretazione unitaria del reale e dunque chiede di sussumerne le fratture in una totalità sintetica e pregna di significato. Don Giovanni è allora l’invito all’avvio di una ricerca della misura, della forma, che trova una nuova unità tra sensibilità e riflessione, accettandone gli spostamenti ed in grado di esibire la forza costruttiva delle differenze rappresentabili o non rappresentabili.

5.2. Emone, Tiresia, il Coro: la grazia di Antigone

La seconda figura su cui vorrei soffermarmi è quella che si delinea nella relazione tra Antigone e Creonte. Antigone è figura di grande disposizione poietica e, grazie a Sofocle, è forse la prima espressione della grazia. La sua scelta, quella cioè di opporsi al nomos di Creonte e di scegliere come ultimo atto di libertà il suicidio, si profila come una necessità dettata da un ordine non comprensibile a tutti. Antigone, a differenza del Don Giovanni, è pienamente una figura della grazia perché piega la sua passione ad una necessità non contingente, ad un valore che non mira ad una salvezza momentanea, ad un’azione che non vuole essere «bella»: è armonia che, nel dolore, tende mediatamente ad un senso posto al disopra dei fenomeni e che dei fenomeni dovrebbe essere legge. Le leggi di Creonte, che si credono immutabili e vere, non possiedono la forza di una legge originaria, passionale in quanto radicata nella natura delle cose. Antigone per questo dichiara di non accettare i logoi di Creonte, consapevole di un’opposizione di cui vuol far venire alla luce la propria differenza. Lo scopo di Antigone è quello di mostrare altre leggi, quelle della tradizione, ma anche la dialogicità della ragione. Per quesa via ricostruisce un senso unitario dell’esperienza. Anche Emone promesso di Antigone, ammonisce il padre Creonte di non credere che sia retta soltanto la sua ragione. E, per affermare questa dialogicità dei logoi all’interno della phronesis, ricorre ad un’immagine carica di forza: chi crede di possedere l’interezza della verità e della legge, chi non persegue la mediazione, è un vuoto papiro, carta bianca, priva di senso. Quella di Creonte è dunque una passione davvero irriflessiva, rinchiusa in una dignità priva di grazia, incapace di dialogare. A ben vedere, la stessa Antigone, forse per la forza della maledizione della stirpe che incombe su di lei, non conosce dialogo con il suo antagonista, chiusa nella sua necessità naturale, priva delle possibilità di comprendere Creonte. A differenza di Creonte, tuttavia, Antigone coglie ed accoglie il serrato confronto di ragioni che si struttura intorno ai due personaggi, contrasto propriamente tragico tra passioni opposte: Emone, Tiresia ed il Coro sono infatti tutti portatori di istanze dialogiche, istanze proprie della ragione. Da qui deriva la grazia di Antigone, armonia di punti di vista. La scelta di Antigone si pone allora all’interno di un ordine: il suo dolore è parte di una misura rituale in cui l’eccedenza è ordinata e risolta grazie alla mediazione dei punti di vista. La grazia di Antigone è la condizione che legittima, nella sua libertà e dialogicità, nella sublime dignità delle sue espressioni, il significato di un ordine che integra dolore e passioni in funzione della costruzione del senso.

5.3. Ulisse e l’etica della narrazione

L’ultima figura su cui vorrei soffermarmi la troviamo nell’Odissea e prende forma a partire dalla relazione narrativa tra Ulisse ed il popolo dei Feaci. Nell’Odissea la funzione della grazia come strumento di mediazione emerge soprattutto per mezzo del ricordo. Il ricordo nell’Odissea è fondamentale per ricostruire la continuità che il tempo ha spezzato ed è sempre sollecitato da un evento presente. Il ricordo sa liberare la vita dalla sua stasi nel tempo perché il ricordare è innanzitutto una prassi che sa ritrovare l’unità del proprio percorso. La narrazione a cui dà accesso allora il ricordo è un modo per riappropriarsi della propria esperienza dove la memoria mostra di avere un compito molto preciso: serve per consentire a chi ricorda di ritrovarsi e di restituire il proprio presente all’unità di un progetto, liberandolo dal gioco della ripetizione, dell’aderenza all’attimo che di continuo si ripresenta uguale a sé stesso, come accadeva nel Don Giovanni. Questa particolare funzione mediativa del ricordo per mezzo del quale le fratture riescono ad essere integrate in una narrazione unitaria è presente in tutta l’Odissea ma è particolarmente evidente in un episodio in particolare e cioè quello che coinvolge Ulisse ed i Feaci. I Feaci non sono creature divine: non sono né Ninfe, né Dei e nemmeno creature sospese nel mondo più che umano della magia. I Feaci sono uomini come tutti gli altri. Eppure basta addentrarsi nel racconto per scoprire che nell’isola di Scheria si vive una vita serena ma esangue: una vita in cui non sembra esservi posto per nulla che possa sconvolgerla. I Feaci sono creature silenziose ed Atena avvisa subito Ulisse che si tratta di gente chiusa che se ne sta sempre sulle sue. Non amano d’altro canto nemmeno le passioni troppo forti: in tutto ci vuole misura, dice Alcinoo ad Ulisse (VII, v. 310). Persino la natura su quest’isola teme gli eccessi: in questo mondo così misurato non ci sono le mezze stagioni, e gli alberi producono frutti su frutti per tutto l’anno, senza costringerci a vivere lo spettacolo faticoso e prepotente della vita. Ai Feaci è risparmiato l’inverno perché Zefiro assicura una primavera perenne. I giorni seguono ai giorni, senza fratture, in una serena continuità che sembra cercare di tradurre nel tempo l’identica regola di quel che eternamente dura. Eppure i Feaci non sono creature divine, sono uomini e anzi sul loro futuro pesa una maledizione che deve strapparli dal loro giardino dell’Eden: la loro città sarà travolta da un gran monte che cancellerà per sempre la loro divina saggezza. Che quel futuro sia prossimo lo mostrano piccoli segni e lo dimostra anche la vicenda di Nausicaa. Nausicaa è l’anello debole nella storia dei Feaci: deve scegliere un giovane tra loro per sposarsi e continuare la stirpe, altrimenti non potrebbe essere. Nausicaa non può contaminare il popolo da un elemento esterno, differente, sconosciuto e pericoloso. Si reca un giorno al fiume per lavare le sue vesti e qui incontra Ulisse, uno straniero. La fanciulla si innamora di lui, così diverso dai tratti eleganti dei giovani Feaci: è un futuro diverso da quello che l’attende ma lo accetta subito perché quell’uomo le piace davvero. Inaspettatamente, anche Alcinoo, il padre di Nausicaa, acconsente al matrimonio ma una ragione c’è per questa stranezza, una ragione inattesa: Ulisse è un uomo che ha molto sofferto ed è questa la ragione del fascino che egli esercita sui Feaci. Egli mostra loro che se gli uomini soffrono, è perché sono saldamente ancorati alla loro vita: le sofferenze di Ulisse sono l’eco delle sue decisioni e delle decisioni che, di fronte a ciò che non ha potuto scegliere, ha compiuto per sé e per i suoi compagni. Alcinoo vedrà Ulisse piangere, per due volte, ed il pianto di Ulisse gli mostrerà un diverso radicamento rispetto alla vita ed alla sua narrazione. Ulisse narra vicenda dopo vicenda e il tempo passa, parola dopo parola. Egli racconta, i Feaci lo ascoltano e imparano a pensare a sè stessi ed alla forma della loro esperienza nella trama unitaria di una narrazione che ordina i giorni e vi cerca una senso accogliendo in essa la mancanza, il controsenso. Se i Feaci imparano pian piano a condividere l’esistenza dolorosa degli uomini, ciò è opera di un’arte nascosta di cui scoprono improvvisamente tutta la serietà: l’arte della narrazione in cui trova il suo posto la funzione meditativa del ricordo ed in cui luci ed ombre concorrono a definire una forma unitaria. Dal gesto di Ulisse emerge allora una vera e propria «etica della narrazione» in cui il controsenso chiede di essere riconosciuto ed incluso nella formazione dell’unità di un significato, di cui la grazia costituisce condizione di possibilità. Solo a partire da questo insegnamento i Feaci comprenderanno il valore della profezia che pende sulle loro teste: non potranno modificare il corso degli eventi -moriranno ed un masso coprirà le loro città- ma sapranno cogliere l’importanza della frattura, integrarla nella propria narrazione, e comprendere solo così che la descrizione della loro storia si nutre della mancanza di equilibrio e ne determina essenzialmente il punto di vista che rende il racconto, appunto, il «loro» racconto.

6. Conclusioni

Ciò che appare evidente in tutti e tre gli esempi è la funzione sintetica e mediatrice della grazia che emerge sempre a partire da una relazione. Questo fatto non dovrebbe risultare strano se è vero che connaturato e specifico del processo sintetico è il suo essere «movimento tra differenze», dunque essenzialmente dialogico. Nei nostri esempi, le passioni determinano l’eccedenza del senso e plasmano la direzione della narrazione (Bildung) a partire da questo spostamento. È la conservazione della dialogicità concessa dalla grazia a permettere un «uso» costruttivo delle differenze, dell’eccedenza, tale da consentire l’affermazione di ogni potenzialità interpretativa. Ciò che le esemplificazioni ugualmente ci mostrano, è come la funzione unificatrice della grazia si dia sempre nel momento in cui si pone una dimensione interrogante strutturata in senso dialogico e che consente, in tale movimento, di integrare (senza necessariamente risolvere) l’eccedenza di senso, la frattura, in un progetto coerente. Tale unificazione riguarda la forma per noi della nostra esperienza in generale e mostra di mettere uno di fronte all’altro, a confronto, stati sublimi ed oggetti d’esperienza -i fenomeni-. Questo evidenzia nel fenomeno in generale e per mezzo di una tale sintesi poietica, un suo profilo eminentemente valoriale. La grazia si configura in tal modo come una modalità di relazione caratteristica dei nostri processi di comprensione in cui il profilo estetico tematizzato da Schiller nei suoi scritti kantiani, sembra conoscere un respiro più ampiamente trascendentale. Grazie ad essa è infatti possibile rendere ragione di una sintesi costitutiva del significato del fenomeno entro la quale i processi sensibili concorrono a determinarne la forma dell’unità progettuale dotata di una certa qualità intensiva: così si dispiegano le nostre dinamiche conoscitive, provando a rendere ragione dello scontro che qui necessariamente sempre si pone tra natura e libertà.


  1. Anmuth und Schönheit aus den Misterien der Natur und Kunst. Ein Almanach aufs Jahr 1797 für ledige und verheiratete Frauenzimmer, Oehmigke, Berlin 1797, p. 23. ↩︎

  2. L’insistenza che Schiller propone qui sul piano del «sentire» tuttavia, non è da intendersi come connessa al soggetto empirico. Questa connessione ci parla di un orizzonte che è per Schiller evidentemente intersoggettivo, per nulla sottomesso ai vincoli deterministici dello storicismo, e dunque pienamente trascendentale. ↩︎

  3. F. Schiller, Grazia e dignità, in Saggi estetici, UTET, Torino 1951, pagg. 139-140. ↩︎

  4. Con il termine poieticos si intende qui far riferimento al significato più generale del concetto, senza ancora vincolarlo ad un’attività specifica della comprensione dell’uomo. Si desidera perciò indicare quella dimensione creativa e produttiva dei processi di comprensione dell’uomo in generale a partire da cui pende vita la forma simbolica dell’esperienza per noi. ↩︎

  5. Ovvero, ciò che Kant aveva indicato con l’espressione «stati sublimi», ovvero le passioni, i sentimenti. ↩︎

  6. E. Cassirer, Linguaggio e mito, SE edizioni, Milano 2006, p.72. ↩︎

  7. Ivi, p.76. ↩︎

  8. Lettera del 14 dicembre 1795, nel carteggio Schiller-W. v. Humboldt. ↩︎

  9. A. Schweitzer, Filosofia della civiltà, Fazi Editore, Roma 2014, p. 228. ↩︎

  10. In questo superamento del sensibile sta il motivo per cui la grazia, come dicevamo, non può identificarsi pienamente con la logica mitica descritta da Cassirer. ↩︎

  11. L’armonia non deve necessariamente essere pacificata. Armonica può essere una Totalità in cui la frattura, pur non trovando risoluzione, riesce tuttavia ad essere integrata e significata divenendo per questa via funzionale alla definizione della stessa Unità. ↩︎

  12. Grazie a Kant sappiamo che il senso di un fenomeno si identifica con i suo significati, e non vi è una vera ragione -se non di natura regolativa- per parlare del senso del fenomeno in sé per sé. ↩︎

  13. Schiller l’aveva appunto definita «bellezza in movimento». ↩︎

  14. Movimento qui inteso allora come dialogo↩︎

  15. Qualora l’integrazione non dovesse risultare possibile, la grazia diverrebbe dignità, che è dunque limite concettuale della nozione di grazia ed indica la capacità di mantenere la frattura in equilibrio nella Totalità senza perderne l’armonia. ↩︎

  16. La nozione di «gioco» ricorda qui senz’altro l’espressione che Erasmo da Rotterdam usava per caratterizzare il «gioco della follia» ed il compito meditativo caratteristico. ↩︎

  17. F. Schiller, Grazia e dignità, in Saggi estetici, UTET, Torino 1951, p. 152. ↩︎