Fondamenti scientifici per un’etica nella medicina. Eredità e ripensamento del neocriticismo da Baden a Marburgo

1. Posizione del problema

Il percorso che ho pensato di proporre non ha preso avvio da una lettura, da uno studio specifico, ma piuttosto da un problema, un problema su cui mi è capitato di riflettere di taglio nel corso di questi anni e che quest’occasione mi ha aiutata, se non ha risolvere, quando meno ad ordinare.

Il nodo centrale ha riguardato il rapporto tra scienza (nello specifico quella medica) ed etica, nel tentativo di provare a capire lo spazio che nei sempre più attuali dibattiti concernenti tematiche di bioetica, spetta alle ragioni dell’una e dell’altra, di fronte ad uno scenario in cui spesso ideologie, politica e senso comune contribuiscono a confondere i termini.

Lo strumento a mia disposizione è stata, va da sé, la riflessione filosofica anche se non sono affatto sicura che spetti ai filosofi, in questo caso almeno, trovare risposte. Credo comunque che essa rimanga un buon mezzo per provare a far luce sulle parti in gioco nel tentativo di evidenziarne i caratteri perspicui.

2. Uno sguardo indietro

Questo percorso comincia con uno sguardo indietro, uno sguardo verso la riflessione che alcuni filosofi neokantiani dedicarono al tema dell’etica dei valori nella quale, credo, si possa trovare qualche idea suggestiva per affrontare le questioni che qui ci competono.

La scuola neokantiana del Baden, in particolare con Windelband e Rickert, aveva tentato di estendere l’insegnamento kantiano, dunque la ricerca di una fondazione trascendentale a priori per la conoscenza, anche alla sfera dei valori, tentando in tal modo di ancorare la morale, allo stesso modo della gnoseologia, a criteri universali e necessari. Si tentava di costruire un unico dominio, che in sé avrebbe dovuto comprendere, da un lato, le attività dell’uomo (nello specifico quella scientifica, tradizione della scuola marburghese) e, dall’altro, un carattere di ordine normativo che ne avrebbe dovuto condurre gli scopi. Capiamo così la considerazione di Windelband quando osserva come debba essere la filosofia, in quanto teoria della conoscenza, a determinare i valori (universali) che stanno a fondamento della conoscenza scientifica.

Questa soluzione sarebbe stata forse risolutiva oggi, davanti ai problemi di natura etica di cui spesso i dibattiti intorno alle continue scoperte scientifiche e tecnologiche in campo medico, ci chiamano a rendere ragione. Stabilire l’universalità di un valore morale, così come proponeva la proposta neokantiana, implicava l’assenza di alternative e, dunque, di conflitti. Ma questa proposta non poteva avere successo: e lo notò innanzitutto Max Weber, il quale, pur rifacendosi alla teoria rickertiana dei valori, ne criticò l’impostazione metafisica ed ontologica, dunque l’astrattezza e la conseguente incapacità di rendere ragione, ad un livello concreto di considerazione, delle problematiche etiche e morali sollevate dal progresso scientifico. I problemi che la filosofia neokantiana poneva a Weber, erano principalmente due:

  • Da un lato, a parere di Weber, Windelband e Rickert continuavano a non risolvere davvero il problema del fondamento: nella misura in cui i valori a cui la scienza doveva rispondere fossero stati davvero necessari ed universali, chi avrebbe dovuto stabilirne l’identità? Ed in quale luogo avrebbe dovuto radicarsi? Nella riflessione filosofica come pretendevano Windelband e Rickert?
  • Dall’altro Weber si cominciò a domandare se davvero fosse la scienza, tramite le prescrizioni delle costruzioni teoriche della filosofia come accadeva in Windelband, a doversi porre tale problema. Dunque egli si chiedeva se davvero il progresso scientifico dovesse essere condotto da valori, piuttosto che da ragioni sue proprie. Tutto ciò, con grande eco attuale, significava domandarsi se doveva — deve — essere la scienza ad essere intrinsecamente etica, oppure se etico era — è — semplicemente ogni suo uso, lasciando in tal modo al progresso teorico la libertà di procedere senza indicazioni di sorta.

3. Etica è la scienza o etico è l’uomo?

Potremmo cominciare da questo secondo punto. La sua attualità torna quando notiamo come il dibattito intorno alla discutibilità delle conquiste scientifiche abbia spinto oggi a chiedersi se davvero tutto quello che si propone come scientificamente possibile, sia anche eticamente legittimo: tale questione ha facilmente indotto i luoghi in cui le ideologie fioriscono (la religione, le filosofie, eccetera), dunque le riflessioni di natura teorica, a colpire — nel tentativo di gestirne il controllo —, l’origine delle tensioni legate a queste applicazioni problematiche, nello specifico l’elaborazione teorica delle teorie scientifiche. Potremmo obiettare che, almeno in medicina, la linea tra formulazione teorica e sperimentazione è davvero sottile e questa potrebbe essere una valida ragione per essere dunque più severi sin da principio; ma ciò non dissolve il problema e semmai lo rende ancora più pericoloso poiché questa generale tendenza, più che cercare di rendere responsabile l’uso dei risultati della ricerca, tenta di porne limiti intrinseci, con il grave risultato di rallentare, come nota Demetrio Neri nel libro «La bioetica in laboratorio», lo sviluppo delle acquisizioni scientifiche in diversi campi.

Davanti a questo problema che, in una forma analoga si poneva anche a Weber, egli non smette mai di sottolineare con forza come la scienza, di per sé, nemmeno la scienza medica, non abbia il compito di dirci cosa dobbiamo fare o dome dobbiamo vivere, poiché non è una metafisica: non conferisce senso, ossia non dà risposte teoriche sull’esistenza umana; solo possibilità.

Quest’idea è ben evidenziata da Karl Jaspers, medico prima che filosofo, il quale parlando di Weber scrive:

Egli vuole un sapere empirico necessariamente valido, e come studioso, insiste su distinzioni che pretende siano mantenute al servizio di un genuino conoscere. Perciò combatte per l’effettivo mantenimento della distinzione tra sapere empirico e giudizio valutativo.1

Tutto ciò cosa significa? Significa che la libertà che la scienza possiede di valutare, equivale alla possibilità di non pronunciare i propri giudizi per vedere, di fronte ai fatti graditi o magari scomodi, lo stato di fatto con chiarezza e da tutti i lati. Il dovere scientifico di vedere la verità dei fatti e quello pratico di far valere i propri ideali sono doveri di diversa natura. Questo è il punto.

4. Il fondamento del criterio di scelta

Sciolto questo primo nodo, potremmo ora domandarci, dopo avere sottolineato come la responsabilità non siano intrinseche alla ricerca scientifica ma piuttosto dell’uomo, nell’uso che di essa promuove, come e da cosa tale uso venga orientato. Torniamo allora alla prima domanda che ci ponevamo; perché la proposta di Rickert e di Windelband non pare, in ultima analisi, reggere? Essi, lo ricordiamo, intendevano i valori morali come principi a priori, fondati, come scrive Rickert, su una coscienza giudicante in genere e perciò anche su un soggetto gnoseologico super-individuale che valuta la verità.2 Questa soluzione, l’abbiamo accennato, aveva un merito: esibiva una garanzia che non era necessario fondare ulteriormente. Essi, detto in altro modo, riposando su un terreno di natura trascendentale e non sottostando ad alcuna delimitazione spazio-temporale, consegnavano valori dotati di una validità universale e necessaria in modo analogo alle scienze naturali. Questi principi avevano allora una giustificazione prettamente teoretica, aderente ad un particolare sistema filosofico piuttosto che ad un aspetto obiettivo dell’esperienza dell’uomo; in ultima analisi, sembravano essere davvero poco utili, come notò Weber, nel momento in cui si abbandonava la prospettiva ontologica e metafisica in cui erano inscritti, per il darsi concreto della realtà: piuttosto che presupposti e fondati, questi principi avrebbero dovuto essere, in una dimensione pratica, spiegati e fondati. Le cose non stanno allora così come credevano Rickert e Windelband, e lo scopriamo non appena proviamo a considerare la realtà: la scienza, nota Weber, si trova, rispetto alle sue applicazioni, di fronte alla scena della lotta insanabile e mortale (dunque inconciliabile) tra i diversi ordini valoriali del mondo, davanti ad un inevitabile ‘politeismo di valori’. La domanda che Weber avrebbe posto a Rickert, sarebbe allora stata: viste come effettivamente le cose si danno, siamo davvero sicuri che anche per le questioni di natura pratica, al pari che per le scienze naturali, si tratti di individuare come fondamento, principi a priori (i valori appunto) capaci di garantire una validità universale e necessaria (in quanto a loro volta universali e necessari), e non piuttosto cercare le ragioni di questi stessi principi nelle dinamiche concrete? Di questo Weber era perfettamente sicuro. Ma si poneva un altro problema. Da dove infatti arrivano quelle prescrizioni morali davanti a cui l’uomo obiettivamente si trova, nel momento in cui l’applicazione pratica delle conquiste scientifiche, specialmente in campo medico, ci inducono a problematizzarne l’uso? Weber, lo abbiamo visto, si limitava, contro le costruzioni dei neokantiani, ad una constatazione: nel mondo esistono gruppi divergenti ed incompatibili di valori, derivanti da diversi campi ideologici. Questa contrapposizione non può che risolversi in un insanabile conflitto.

Potremmo allora chiederci se a questa risposta esiste un’alternativa. Forse sì e paradossalmente, nonostante i limiti che abbiamo evidenziato, è il passato neokantismo, integrato dalle basi teoriche proposte da Weber, ad indicarcene una. Potremmo allora domandarci se non esista un terreno ultimo a cui potere ricondurre e radicare questi parametri di valutazione: un terreno simile a quello di cui Rickert e Windelband erano andati alla ricerca, ma diversamente fondato. Qualche cosa di questa riflessione, credo quindi rimanga. In primo luogo, la concezione di valore, non come «criterio di valutazione», dunque intrinseco all’attività scientifica, ma piuttosto come «criterio di scelta», un criterio di scelta non super-individuale, come avrebbe voluto Rickert, quanto piuttosto individuale, dunque indipendente da prescrizioni predefinite e legato piuttosto alla percezione che di sé e della propria esistenza un individuo possiede. Da dove deriva, potremmo domandarci, questa percezione? È ancora una volta il neokantismo a soccorrerci attraverso l’articolata nozione di ‘cultura’: la scuola del Baden si era diffusamente soffermata su tale concetto e, anche se la piega metafisica ed ontologica è ancora una volta preponderante, un’osservazione può essere senz’altro ricordata: Rickert qui ricorda come, mentre la natura risulta essere in sé senza rapporto con i valori — wertfreies Sein — e priva di senso — sinnfreies Sein —, la cultura risulta essere in rapporto con i valori — wertvolles Sein — e dotata di senso — sinnvolles Sein —. Se per la natura allora, il problema del rapporto tra realtà e valori non ha ragione di presentarsi, in quanto la natura non ha alcuna relazione con il mondo dei valori, per la cultura tale problema assume un’ampia portata. Ma è soprattutto nell’accezione marburghese, in particolare nell’elaborazione che Ernst Cassirer ne fece che questa nozione ha mostrato tutta la sua attualità, riconoscendo come linguaggio, mito, religione, arte e scienza siano direzioni tipiche della vita umana in sé e per sé autonome, dotate quindi di ragioni proprie, convergenti verso una meta precisa: a capo del percorso sta il riconoscimento dell’autentico «soggetto» che è, in definitiva, l’uomo nella sua individualità, in quanto

Complesso di funzioni in base alle quali soltanto si costruisce per noi il fenomeno del mondo e di un suo determinato ordine di senso.3

Dunque, centro focale funzionale delle multiformi attività. In esse l’uomo scopre e dimostra un nuovo potere, ul potere di costruirsi un mondo proprio, un mondo ‘ideale’, dove anche le visioni del mondo più contrastanti non si escluderebbero ma mostrerebbero armonia in un’analoga origine in cui all’individuo rimane la libertà di scegliere per ciò che lo riguarda, secondo i propri criteri. È questo quello che intende Cassirer quando scrive:

[L’uomo] non può vivere la sua vita senza esprimere la sua vita.4

L’attualità di questa osservazione credo sia indiscutibile.

In questa libertà che l’idea di cultura consegna, lo spostamento di prospettiva in cui è l’uomo, secondo i suoi principi, a potere scegliere per la sua vita, restituisce all’individuo, accanto alla sua libertà ed alla sua autonomia, la propria responsabilità.

5. Conclusioni

Il discorso di Weber, nella sua parte più suggestiva ha proceduto per via negationis: egli, per meglio dire, si è preoccupato soprattutto di stabilire bene i limiti entro cui si snoda il procedere scientifico, zona a cui la riflessione etica, abbiamo visto, non ha accesso, pena una limitazione del progresso e delle sue potenzialità. Nel momento in cui, però, ci sarebbe stato bisogno di delineare la zona e la logica propria dell’eticità, egli si è limitato a parlare di conflitto, senza darci una risposta articolata. Ciò non significa però che Weber non contribuisca ad impostare in modo interessante le questioni. In fondo, il processo di razionalizzazione con cui la scienza stringe uno stretto e singolare rapporto è ciò che contribuisce a delineare il volto del mondo, un mondo antimetafisico e disincantato in cui ben si inserisce lo spazio della libertà dell’individuo, uno spazio acquistato attraverso il compromesso tra quello che scientificamente sappiamo e quello che dobbiamo fare, in un’ottica di reciproco rispetto e libertà: libertà che rimane, appunto, libera, fintanto che non invade la libertà altrui.


  1. K. Jaspers, Max Weber. Il politico, lo scienziato, il filosofo, Editori Riuniti, Roma 1998, p. 73. ↩︎

  2. P. Rossi, L’eredità del neocriticismo e la filosofia dei valori, in Lo storicismo tedesco contemporaneo, p. 147, cfr. Rickert, Die Grenzen der naturwissenshaftlichen Begriffsbildung (I ed.), pp. 669-670. ↩︎

  3. E. Cassirer, Filosofia delle forme simboliche, Vol. III (tomo primo), La Nuova Italia, pp. 65-66. ↩︎

  4. E. Cassirer, Saggio sull’uomo, Armando editore, Roma 2000, p. 368. ↩︎