Etica e religione nei platonici di Cambridge. L’autonomia partecipata

In questo saggio mi propongo di verificare in che misura si possa applicare ai platonici di Cambridge, con tutti gli adattamenti ovviamente resi necessari da un’appropriata contestualizzazione storica, una nozione legittima di autonomia, specificamente quella nozione di «autonomia personale come autonomia partecipata», che Martin Rhonheimer ha sviluppato su basi tomistiche. Rhonheimer ha criticato infatti l’autonomia kantiana interpretata come autoaffermazione della ragione nei confronti di una possibile eteronomia, impostale dal di fuori, una prospettiva che si fonda su quella contrapposizione tra autonomia ed eteronomia, da cui deriva, come lascito ereditario di Kant, una colorazione essenzialmente negativa dell’autonomia, come libertà dall’eteronomia, da tutto quello che non ha la sua origine soltanto nella ragione come tale. Un aspetto fondamentale di quella contrapposizione è la necessaria indipendenza dell’etica da qualsiasi determinazione antropologica. Nella prospettiva kantiana l’antropologia appartiene all’empiria, ed è perciò eteronoma nei confronti della ragione pratica: l’idea kantiana di una razionalità trascendentale rischia tuttavia di diventare essa stessa un’antropologia, strutturalmente incapace di sostenere un’etica appropriata degli atti umani.1 Sullo sfondo del mio contributo c’è la convinzione che l’autonomizzazione dell’etica, così intesa, connessa strettamente con l’abbandono di qualsiasi prospettiva teleologica,2 è in definitiva lo stesso processo che porta al suo svuotamento e che la valutazione dei tratti del carattere e dell’agire umano non possa prescindere dalle caratteristiche essenziali di una vita specificamente umana. Naturalmente, sono convinto anche che una concezione individualistica, non-kantiana, dell’autonomia,3 oggi così diffusa, abbia implicazioni ancora più rovinose.

Etica, religione e antropologia sono strettamente congiunte nella visione filosofica elaborata dai platonici di Cambridge agli albori della modernità, con modalità che presuppongono un’autonomia umana personale non disgiunta tuttavia da un significativo riferimento all’antropologia, al bene per l’uomo, e quindi a Dio.

1. La capacità religiosa come funzione umana essenziale per i Cambridge Platonists e accidentale per Bayle

Ci sono momenti nella storia del pensiero che risultano rivelativi di una svolta o cesura drammatica. Riflettendo sui platonici di Cambridge e sull’incidenza del loro pensiero etico-religioso sono giunto a considerare una svolta di quel genere, per lo più trascurata, una posizione assunta in un luogo specifico da un pensatore che appare sempre più cruciale nella storia della modernità, Pierre Bayle. Nei miei scritti avevo dato finora molto rilievo a un testo di Bayle, di cui avevo mostrato la sicura influenza nell’indirizzare la riflessione di Hume sulla religione naturale verso la tesi interpretativa della disputa teismo-ateismo come una «disputa verbale» e quindi verso la tesi della sostanziale irrilevanza del teismo, una tesi che si è rivelata assai più insidiosa di qualsiasi forma di ateismo positivo.4 Più recentemente sono giunto alla conclusione che un passo che si trova nella seconda parte della Réponse aux Questions d’un Provincial (1705), cap. XCVI, segna analogamente un punto di rottura rispetto a quel tipo fondamentale di antropologia, teleologicamente strutturata e orientata più o meno esplicitamente verso il Bene sommo,5 nella prospettiva cristiana quindi verso Dio, che nel secolo XVII aveva trovato la definitiva formulazione nella concezione dell’uomo dei platonici di Cambridge (specialmente Whichcote, Smith e More) e di taluni latitudinari (particolarmente Wilkins, Barrow e Leighton, ma l’eco arriva fino a Locke), come animal religiosum o animal capax religionis. Questa caratterizzazione non era presentata come alternativa alla classica definizione dell’uomo come animal rationale, ma come una sua specificazione e articolazione, dato il presupposto che la capacità religiosa implica la capacità razionale e l’attività religiosa è l’operazione più elevata, prettamente umana, di quella ragione che è sì specifica dell’uomo, ma in talune sue operazioni inferiori non è priva di imitazione nell’ambito dei bruti.

Di questa concezione ho raccontato la storia e la persistenza fino al secolo XVII, nel mio libro Animal capax religionis. Da Benjamin Whichcote a Shaftesbury, mostrandone la rilevanza soprattutto nei platonici di Cambridge, per lo più consapevoli, con la loro erudizione, di quella storia significativa.6 La critica di Bayle a questa tradizione di pensiero si sviluppa all’interno di una critica all’argomento del consensus omnium riguardo alla realtà divina, con la consapevolezza peraltro, presente anche nei platonici di Cambridge nella misura in cui riconoscevano che anche l’errore e la superstizione potevano talvolta appellarsi a quell’argomento, che l’induzione che stabilisce la generalità del fenomeno religioso non sarebbe necessaria nel caso in cui la religione appartenesse all’essenza umana. Rigorizzando una tradizione di pensiero, cui consapevolmente si riallacciano, Whichcote, Smith, ma anche in forme diverse Cudworth e More, attribuiscono appunto alla religione, o più specificamente alla capacità di religione, la caratteristica di una funzione essenziale dell’uomo.7 Alla luce di questa definizione dell’uomo appare allora drammaticamente significativa la prospettiva critica di Bayle. Se la religione fosse un attributo essenziale alla specie umana, osserva Bayle, «non ci sarebbe bisogno di viaggi, né di relazioni di viaggi, per poter dire con verità che tutti i popoli del mondo riconoscono la Divinità, l’hanno sempre riconosciuta, e la riconosceranno sempre». Basterebbe, per essere ben certi di questa proposizione universale, considerare l’idea che si ha dell’uomo. «Si vedrebbe chiaramente questa verità, senza essersi serviti dell’induzione, come si vede senza questa via che tutti gli uomini sono animali ragionevoli». Ma poiché la religione è «accidentale alla nostra specie», nel senso che a un uomo privo di religione converrebbe comunque l’essenza o la definizione di uomo, non si può essere sicuri, senza servirsi dell’induzione, che tutti i popoli della terra «danno il loro consenso all’esistenza divina» (con un argomento peraltro le cui premesse e la cui conclusione sono per Bayle contestabili e dubbie).8 La religione è accidentale. Così Bayle.

A me sembra importante notare che quella concezione antropologica, che poneva la capacità religiosa, in quanto determinazione specifica della capacità razionale, come essenziale nella definizione dell’uomo, non impediva ai Cambridge Platonists di sviluppare una teoria etica di tipo oggettivistico, opposta a ogni forma di volontarismo etico, lontana quindi dal volontarismo teologico, e tuttavia teisticamente fondata. La possibilità sul piano epistemico di accedere ai principi morali fondamentali senza affidarsi direttamente alla credenza religiosa non esclude la loro dipendenza, sul piano logico e ontologico, dalla realtà divina. Per i platonici cantabrigensi, nella modernità forse i più tenaci assertori di tale posizione filosofica, in accordo del resto con la tradizione scolastica di tipo non-volontaristico o avversa al nominalismo, come osserva Darwall, «se la volontà di Dio fosse totalmente arbitraria, senza una determinazione specifica, non potrebbe esserci alcuna moralità». Naturalmente, per questi pensatori, «si può dire che Dio è moralmente buono, non perché si conformi a qualche modello esterno, ma perché la Sua volontà effettiva è di per sé un modello di mente perfetta».9 In questo senso non si tratta di subordinare «Dio a un remoto modello o forma di bontà, perché la natura stessa di Dio è bontà».10 Quando si parla dell’etica a proposito dei platonici di Cambridge, si insiste generalmente sul ruolo da loro avuto, soprattutto per merito di Cudworth, nel proporre agli albori della modernità una forma di razionalismo etico capace di determinare una forma di autonomia dell’etica. Si trascura tuttavia che la loro etica è metafisicamente fondata sulla realtà divina e su una consapevole soluzione in termini rigorosamente oggettivistici, non volontaristici, del dilemma di Eutifrone, nella convinzione che l’argomento di Eutifrone, per usare le parole di uno studioso recente, «non scardina la connessione fra Dio e i beni morali oggettivi».11 Si trascura inoltre che essa è radicata in una struttura antropologica che rende la realizzazione umana sul piano etico-religioso una forma di autorealizzazione, di piena fioritura umana, nel senso dell’eudemonismo classico, non il risultato di un’imposizione estrinseca, contraria a ogni forma di autonomia umana. In particolare, se, per Whichcote, «essere se stesso è, per un uomo, la principale delle cose buone», allora, nella sua prospettiva eudemonistica, l’autorealizzazione umana non solo non esclude la religione, ma ne esige la presenza e il pieno svolgimento, in quanto «la religione è il più alto conseguimento della natura umana, e la natura umana senza religione è deformata e depravata». All’accostamento progressivo a Dio corrisponde «una più intensa realizzazione di noi stessi», e viceversa «ogni grado di separazione è un grado di alienazione».12

2. Etica e religione nei platonici di Cambridge

Ripropongo qui in sintesi le tesi da me espresse nei miei scritti sui platonici di Cambridge circa il rapporto da loro delineato fra etica e religione. Ho sempre messo in discussione il rilievo esclusivo attribuito nella letteratura critica al razionalismo etico. Dal punto di vista storico i platonici di Cambridge sono all’origine delle due principali scuole di etica sviluppatesi in Inghilterra nel secolo XVIII, tramite l’influsso di Samuel Clarke e di Shaftesbury, che accentuarono, il primo col suo realismo e razionalismo etico, l’altro con l’importanza attribuita al ruolo della sensibilità e delle inclinazioni accanto alla facoltà razionale, aspetti diversi della complessa e organica concezione platonico-cantabrigense (e tuttavia non necessariamente contrastanti: il realismo etico è difeso da Shaftesbury contro le impostazioni etiche di Hobbes con vigore non minore di quello dei platonici di Cambridge, e la rivalutazione della dimensione affettiva è anch’essa un aspetto dell’eredità cantabrigense).

Nei platonici di Cambridge il realismo e razionalismo etico è stato sviluppato soprattutto da Cudworth nel True Intellectual System of the Universe e nel postumo Treatise Concerning Eternal and Immutable Morality, ma è presente in varie forme in Whichcote, More e Smith. Whichcote mette continuamente in evidenza quelli che chiama «aeterna jura, i diritti eterni, le verità immutabili, indispensabili e immutabili» e sostiene che «le leggi morali sono leggi di per se stesse, senza una sanzione della volontà; la loro necessità deriva dalle cose stesse»; Smith a sua volta insiste che c’è una giustizia «eterna e immutabile per sua natura», e le regole con cui Dio governa il mondo non sono il risultato di una volontà arbitraria, ma sono «i sacri decreti della ragione e della bontà», la «legge di natura» essendo nell’anima umana una partecipazione della «natura di Dio»; e More parla di una «moralità eterna e immutabile», le cui norme si impongono chiaramente alla coscienza come comandi divini.13 Tali norme non sono tuttavia avvertite come intellettualmente estrinseche, ma come razionalmente apprezzabili e consone alle facoltà umane più elevate. Ho sempre sostenuto che questa concezione etica è nei platonici strettamente connessa con una visione della moralità come intimamente costitutiva della dimensione personale, sia nel senso che la norma morale è da loro concepita come intrinseca alla persona, e non si giustappone né si impone dall’esterno e il male morale non è considerato quindi un’offesa a Dio perché rechi in qualche modo danno a Lui o violi un ordine superiore arbitrario, ma perché c’è qualcosa di intrinsecamente autodistruttivo nella violazione della legge morale fondata nella natura divina, sia nel senso che la dimensione normativa non può essere scissa, nella considerazione etica, dalla formazione nella persona di disposizioni virtuose, implicanti una caratteristica motivazione a realizzare fini apprezzabili. Una caratteristica cruciale di questa prospettiva, che conserva aspetti fondamentali di un’etica che è sì teleologica, ma non consequenzialistica, è che la positiva autorealizzazione ha il suo corrispettivo negativo nell’autonegazione, nella necessaria degradazione inerente all’orientamento contrario all’esercizio delle virtù e alla realizzazione di ciò che costituisce il bene per l’uomo. In questa prospettiva l’autonomia delle scelte è una condizione necessaria della moralità, ma ovviamente non sufficiente. Una scelta individuale può essere autonoma e tuttavia sbagliata, con implicazioni antropologiche significative. Le virtù sono abiti, o disposizioni stabili, acquisite mediante l’impegno personale dell’agente perché si crei un principio operativo naturale mediante una continua riorganizzazione delle scelte e delle tendenze verso uno sviluppo armonico e felicitante della vita, essendo quelle disposizioni specificate moralmente secondo il loro rapporto di convenienza o di non convenienza con la natura dell’agente, e misurandosi la bontà o la malizia degli atti e degli abiti operativi in riferimento alla promozione o alla degradazione che essi imprimono all’essere del soggetto, mettendolo nella condizione di compiere bene o male le sue funzioni specifiche.14 D’altra parte, l’allontanamento da Dio significa l’allontanamento dalla legge morale, il sovvertimento del proprio essere, lo sconvolgimento della propria natura, nel linguaggio di Whichcote una forma di «alienazione». La colpa morale implica un allontanamento della persona umana da se stessa, dalla propria essenziale struttura normativa. Nasce di qui il tema, tipico soprattutto di Whichcote, dell’»autocondanna» e dell’interpretazione degli stessi concetti di inferno e paradiso anzitutto come dimensioni di esperienza, stati interni sperimentati già a partire dalla vita terrena.15

In questa prospettiva Dio è legislatore morale non per il fatto che egli, come «uno che comanda» o un «dominatore», impone una legge alla creatura con interventi e riserve giuridiche. In questo senso, per i Cambridge Platonists, come per Tommaso d’Aquino, si può dire che offendiamo Dio solo quando agiamo contro il nostro proprio bene.16 Per Whichcote il peccatore innazitutto «offende se stesso».17

Nell’importante volume The British Moralists and the Internal Ought. 1640-1740 Darwall ha mostrato come sia sbagliato interpretare Cudworth semplicemente come un precursore di Samuel Clarke e Richard Price, del loro intuizionismo razionale. L’etica di Cudworth è «fondamentalmente un’etica della motivazione e del carattere piuttosto che un’etica del dovere e della legge». Come Cudworth sottolinea nel sermone tenuto dinanzi al parlamento, un’etica del dovere non ispirata dall’amore è solo «una legge morta di opere esteriori, che, se rimanesse sola, ci ridurrebbe a uno stato di schiavitù».18 Cudworth è presentato quindi come sostenitore di una versione di «internalismo autonomistico». Gill ha osservato a sua volta che, connettendo strettamente giustificazione e motivazione morale, sia Whichcote sia Cudworth aprirono la strada a quella concezione della moralità nota nel ventesimo secolo come internalistica.19

L’internalismo dei platonici di Cambridge, tuttavia, a mio avviso, non può essere facilmente dissociato dal ruolo fondamentale da loro attribuito alla capacità religiosa. Anche se certamente non con la stessa penetrazione di Cudworth, anche More e Smith si muovono nella stessa direzione, secondo una concezione dell’autonomia che non esclude, ma ingloba, la disposizione religiosa rettamente intesa. Nel mio libro sul pensiero etico-religioso dei Cambridge Platonists ho mostrato inoltre come nell’Enchiridion Ethicum anche Henry More vada molto di là da una semplice deduzione razionale dei doveri dai cosiddetti noemata moralia e come, pur riconoscendo (diversamente da quel che farà poi Hume) il ruolo motivante della ragione, ne indichi anche l’insufficienza, ove la ragione non sia sostenuta da un’appropriata struttura passionale, dallo sviluppo di disposizioni virtuose e dalla capacità di far valere motivi morali nel ragionamento pratico orientato verso la piena realizzazione umana. Il realismo etico è presente nel riferimento a ciò che è «semplicemente e assolutamente ottimo», che presuppone la distinzione fra ciò che è buono in assoluto e ciò che è buono per un dato individuo, e ad esso corrisponde sul piano epistemologico il riferimento alla «retta ragione», che, partecipando della «eterna ragione o legge inscritta nella mente divina», lascia trasparire, attraverso passaggi certi e necessari, i «principi intellettuali». D’altra parte More riconosce che, se è vero che l’eccesso passionale può turbare e ostacolare l’esercizio della ragione, tuttavia senza le passioni non possiamo pervenire alla virtù, quantunque sollecitati dalla ragione, «non più di quanto si possa camminare senza piedi, o volare senza ali», e criticando il razionalismo stoico, osserva che l’impassibilità toglie ogni impeto all’anima, ogni sano entusiasmo verso ciò che è bello. Le virtù per More sono disposizioni non solo ad agire, ma anche a provare emozioni nel modo appropriato, nelle situazioni appropriate: la loro funzione è quella di mettere le facoltà operative in grado di produrre le scelte moralmente eccellenti, non solo quella di renderle più facili e piacevoli. More chiama significativamente «facoltà boniforme dell’anima» la facoltà con cui «gustiamo» ciò che è semplicemente e assolutamente ottimo e ne «godiamo»; questa facoltà è mossa da affetto grandissimo per il suo oggetto e prova un godimento ineffabile nel conseguirlo (nell’amore «intellettuale» si manifesta quella che per More è l’intenzionalità più profonda dell’intera dimensione morale, e siccome l’amore di Dio è l’espressione più alta dell’amore intellettuale, l’amore vero e sincero di Dio diventa il principio cui tutta la moralità può ricondursi). In questa prospettiva, lo scopo dell’etica è allora la trasformazione della persona, il suo perfezionamento morale come aspetto essenziale dell’integrale realizzazione umana, essendo la virtù morale intrinseca alla natura umana, perché scaturisce dalla natura stessa dell’uomo come essere razionale, ed è nel contempo obiettiva partecipazione della natura divina.20

3. Si può parlare di un contributo dei platonici di Cambridge all’etica secolare?

C’è, a mio avviso, la presenza di un condizionamento kantiano in quegli interpreti che, sottolineando l’autonomia della morale nei platonici di Cambridge, tendono a vedere in questi pensatori una qualche anticipazione di una lettura della religione in chiave strettamente etica, se non addirittura un loro influsso decisivo in questa direzione, o ad attribuire loro un’esplicita propensione verso una forma di etica secolare. In una forma più raffinata, questa tendenza interpretativa era in qualche modo presente nello stesso suggerimento di Cassirer di interpretare il razionalismo dei platonici di Cambridge e il giusto posto di tale razionalismo nella storia del pensiero con le categorie della ragione pratica come fondamento della fede, nonché dell’apriori della pura moralità come punto di partenza delle loro dottrine religiose e metafisiche.21

A proposito di Smith, già Austin osservò che nel discorso Of the Excellency and Nobleness of True Religion, più che in ogni altro, emerge con chiarezza «la predominanza dell’elemento morale nella vita religiosa come Smith la concepisce».22 A me sembra che ci sia in Smith, in effetti, come in tutti i platonici cantabrigensi, una stretta connessione fra morale e religione e una forte connotazione etica della religione, ma al tempo stesso, senza circolarità, una forte connotazione religiosa della morale: la reciproca compenetrazione delle due dimensioni non suppone la riduzione di una delle due all’altra, ma si spiega mediante il comune fondamento in Dio, come può essere conosciuto attraverso il lume naturale e, senza contrasto con questo, attraverso la divina rivelazione. La vita buona è la necessaria prolessi alla conoscenza di Dio, ma è Dio stesso il fondamento metafisico della morale e della vera religione.

La tesi dell’autonomia dell’etica assume sfumature diverse quando è prospettata come un aspetto del declino della religione in se stessa, oppure in rapporto al declino della fede cristiana a vantaggio della religione naturale. Entrambi gli aspetti sono presenti nella letteratura critica. Ad esempio Watkin sostenne che la «riduzione» latitudinaria del contenuto teologico del cristianesimo era destinata a svilupparsi in quella religione «moralistica e non soprannaturale» che dai deisti in poi finì con l’umanizzare la fede protestante fino a ridurla ad etica, anche se questo, riconosce Watkin, non era certo l’intento dei platonici di Cambridge. «Essi non miravano a un umanismo, neppure del tipo morale più nobile. Avevano in mente un umanesimo cristiano, in cui la ragione fosse illuminata e integrata dalla rivelazione cristiana».23 Jordan espresse una convinzione ancora più radicale: Whichcote riduce la religione a un sistema morale, restringendola per giunta all’ambito dell’esperienza individuale, e la prospettiva indicata dai platonici di Cambridge è «completamente secolare».24 Nella sua monografia su Cudworth Passmore definì l’etica dei platonici di Cambridge un’etica «umanistica» e «secolare», una caratteristica resa più evidente, secondo lui, dallo sviluppo impresso da Shaftesbury, considerato in stretta relazione con i platonici.25 Per von Leyden ciò che del platonismo di Cambridge risultò particolarmente attraente ai pionieri dell’illuminismo settecentesco fu la difesa della validità intrinseca dei giudizi morali e delle «verità eterne» in contrasto con la tesi della loro derivazione dai «decreti divini», e quindi con l’insegnamento di Calvino e di Descartes. «Questo approccio platonico all’etica fu il contributo più importante dato alla filosofia morale nel secolo diciassettesimo».26 Per Lichtenstein i platonici di Cambridge contribuirono indirettamente alla perdita del mistero e del numinoso e al declino della religione con la loro insistenza sulla moralità pratica e sul primato della ragione, il disprezzo del dogma, la tesi dell’affinità fra uomo e Dio.27 Beiser ha sostenuto, con particolare riferimento ai platonici di Cambridge e in generale ai latitudinari, che «le principali fonti di secolarizzazione erano interne alla Chiesa stessa, connesse con lo sviluppo della sua teologia e della sua politica«: addirittura i platonici impressero una svolta decisiva verso il razionalismo assoluto.28 Dando rilievo in particolare alla dimensione morale, Gill a sua volta sostiene che Whichcote e Cudworth collocarono le loro convinzioni morali a fondamento della loro concezione della religione, come a priori rispetto ad essa. In particolare, per Gill, ci sono dei passi in Whichcote in cui il pensatore cantabrigense accantona gli aspetti peculiarmente cristiani della religione, suggerendo che la moralità naturale da sola, senza l’aggiunta della rivelazione cristiana, è sufficiente per la vera religione.29

Ho sempre sostenuto che un conto è notare l’influsso storico dei platonici di Cambridge sulla filosofia dei secoli XVII e XVIII, in particolare la connessione con sviluppi successivi del pensiero religioso inglese, risultanti spesso da un’interessante ma parziale utilizzazione e interpretazione del complesso pensiero platonico-cantabrigense (in passato mi sono cimentato io stesso nel compito di esaminare il problema del rapporto delle idee etico-religiose di Shaftesbury con quelle di Whichcote e degli altri platonici, sottolineando chiare connessioni storiche, analogie, ma anche ampie e radicali differenze),30 un altro è leggere il pensiero dei platonici principalmente alla luce di tali sviluppi, talvolta contrastanti con l’ispirazione di fondo della loro etica e filosofia della religione. Dal punto di vista storico, come osserva Davenport, non si deve confondere la critica che Whichcote, ad esempio, muove alla concezione calvinistico-puritana dell’alterità divina con la negazione tout court di tale alterità. Per Davenport, il declino del numinoso lamentato da Lichtenstein, non è una conseguenza del mancato riconoscimento della trascendenza divina da parte di Whichcote e dei suoi seguaci, bensì eventualmente dell’»incapacità dell’epoca di cogliere il livello più profondo del pensiero dei platonici», di comprendere pienamente «l’aspetto umile e ricettivo della loro ricca nozione di ragione».31 Neppure si deve, a mio avviso, confondere la critica platonico-cantabrigense al volontarismo teologico in ambito morale con l’affermazione di un’etica umanistica e secolare, la critica all’etica dei comandi divini con la negazione di un’etica teisticamente fondata. Cadere in questa confusione significa ignorare il fondamentale orientamento religioso e teistico in cui la nozione di una moralità «eterna ed immutabile» (condivisa da tutti i platonici di Cambridge, con talune importanti specificazioni e restrizioni in Culverwell) e la critica al nominalismo e al volontarismo sono inserite; significa inoltre trascurare la considerazione che, nello stesso Cudworth, l’indipendenza logica delle verità etiche dalla volontà di Dio (in quanto separata dalla sua sapienza, e, quindi, in questo senso arbitraria) non esclude, anzi necessariamente suppone, la loro dipendenza dall’eterna e immutabile sapienza nella mente di Dio (per Cudworth c’è un senso in cui «non è possibile che ci sia qualcosa come la moralità se non c’è un Dio»,32 e Whichcote e Smith, che pure considerano la parte morale la parte essenziale della religione, in ultima analisi non subordinano la religione alla morale, ma riconducono piuttosto entrambe al loro comune fondamento assoluto, Dio, e nella religione, in definitiva nella fede cristiana, individuano le condizioni di una moralità più profonda, non legalistica, e interiormente incisiva). Come osserva Darwall, «sebbene Cudworth non sia un volontarista teologico, tuttavia è un moralista teologico». Per Cudworth la moralità dipende dall’esistenza di Dio, fondandosi tuttavia non sulla volontà divina arbitraria, ma sulla natura di Dio.33 Inoltre, nonostante la forte insistenza sulla moralità naturale, che per loro del resto presuppone ovviamente il teismo, i platonici non ne affermano la sufficienza rendendo superflua la dimensione rivelata: questa è anzi capace per loro non solo di introdurre verità ulteriori, ma anche, e soprattutto, di illuminare in profondità l’intera esperienza morale umana, mediante le categorie di peccato e santità, alienazione da Dio, salvezza e redenzione.

4. Etica e autorealizzazione umana. Autonomia partecipata

Tra le fonti cui attinge John Smith, per la nozione di legge morale naturale, non casualmente c’è Tommaso d’Aquino. L’accento è posto sulla nozione di partecipazione, una nozione cruciale per i platonici di Cambridge, sotto diversi aspetti, a partire appunto dal ricorso di Smith alla partecipazione della legge divina nella creatura razionale.34 Per Whichcote, «la ragione non è una cosa di poco conto: è la prima partecipazione di Dio; perciò, chi osserva la ragione, osserva Dio».35 Cudworth insiste sulla partecipazione alla originaria verità e sapienza divina, una partecipazione alla mente divina, una partecipazione derivata, che rende conto dei limiti dell’intelligenza umana e dell’assurdità della pretesa umana di arrogarsi un’infallibilità ascrivibile a Dio soltanto, e tuttavia sostiene che non si sottrae nulla a Dio onnipotente, se si suppone che delle «menti create» mediante una «partecipazione alla mente divina» possano conoscere «con certezza» verità necessarie, nozioni comuni, princìpi innegabili da cui derivare ogni altra conoscenza.36 Un ruolo analogo svolge il concetto di partecipazione in ambito etico, come abbiamo visto in More a proposito della nozione di virtù e di recta ratio come partecipazione della natura divina. Per Whichcote poi è vero che «ci avviciniamo sempre più a Dio mediante l’imitazione di Lui e la partecipazione alla sua natura, e divenendo simili a Lui in santità, purezza e giustizia».37 Essendo la religione concepita come l’attualizzazione della più specifica e più elevata capacità umana, in essa per Smith deve radicarsi anche la perfezione morale e la perfetta felicità. «Ogni vera felicità consiste in una partecipazione di Dio, che nasce dall’assimilazione e conformità della nostra anima a Lui; la più reale infelicità deriva dall’apostasia dell’anima da Dio».38

Il ruolo che svolge in questo contesto il concetto di ‘autonomia partecipata’è particolarmente evidente in Whichcote, perché in modo significativo egli insiste sull’autonomia umana, personale, sul fatto che la legge morale è il «principio e la legge della sua natura», di modo che chi si allontana dalla legge morale si allontana «da se stesso», dalla propria natura e «offende se stesso»,39 e nel contempo sostiene che è la ragione nel suo esercizio religioso che costituisce l’essenza umana. Senza la capacità di discernere e scoprire Dio «la vita stessa non avrebbe un grande valore».40 Nei miei scritti ho richiamato l’attenzione su certe affinità non casuali del grande moralista inglese del ’700 Joseph Butler con i platonici cantabrigensi. Ho dato rilievo alla convinzione espressa da More negli Scholia aggiunti nell’Opera Omnia all’Enchiridion Ethicum, che preannuncia la famosa osservazione di Butler circa l’autorità della coscienza in quanto distinta dalla sua mera forza: More nota che, se la norma razionale non vincolasse la coscienza, non sarebbe più possibile distinguere fra turpitudine e bellezza morale, le virtù sarebbero altrettanto naturali dei vizi più vergognosi e l’unica misura o criterio dell’agire morale sarebbe quello consequenzialistico dei «vantaggi esterni comuni a noi e agli animali bruti» (More pone l’accento sul naturale diritto di superiorità dell’intelletto o della retta ragione, come Butler sulla coscienza) .41 In un senso normativo classico di natura, tacitamente invocato (ancora una volta anticipando Butler) contro il naturalismo hobbesiano (Hobbes è menzionato due volte nell’Enchiridion Ethicum,42 ma è sullo sfondo di molte osservazioni critiche moriane), le virtù sono considerate «più naturali» dei vizi nel senso che sono più confacenti alla natura razionale dell’uomo. La «ragione» di cui parla Whichcote, nella sua funzione pratica, ha un ruolo simile a quello che svolge il principio di riflessione o coscienza, un ruolo primario e autoritativo, nell’etica di Butler (il quale del resto chiama significativamente questo principio «a Candle of the Lord within», con riferimento a Prov. XX, 27, il testo preferito di Whichcote, utilizzato in particolare anche da Smith e Culverwell). Come per Butler «seguire la natura», come principio pratico, significa propriamente «seguire la natura umana», che a sua volta significa, nell’unico senso eticamente rilevante, non già seguire qualsiasi inclinazione umana, né quell’inclinazione che è momentaneamente più forte, bensì agire in conformità con la natura umana presa come un tutto, o un sistema (il che implica il riconoscimento della supremazia di diritto della coscienza o principio di riflessione, della sua autorità, distinta dalla mera forza), così, per Whichcote prima di lui, niente è più inerente alla natura dell’uomo che vivere in conformità dei dettami di una «sobria e imparziale ragione», e seguire la natura significa riconoscere il primato della ragione e raccordare ad essa, non annullare, le inclinazioni. «È l’uomo più pregevole quello che riesce a subordinare ogni cosa a sé, a subordinare tutte le inclinazioni e i desideri a tale governo». Whichcote sottolinea l’autonomia personale nel senso che la natura umana è dotata di «facoltà razionali autoriflessive» (self-reflecting), capaci di discernere le essenziali differenze di bene e male e di osservare «quali cose conducano alla sua felicità o miseria».43 Ma per Whichcote seguire la retta ragione non è diverso dal seguire Dio, perché la ragione è «la prima partecipazione di Dio» e «chi osserva la ragione osserva Dio» e vivere in difformità dalla propria ragione significa vivere in difformità dalla propria natura, «abusare di sé», «degradare» o «distruggere se stesso».44

Nei Cambridge Platonists svolge un ruolo importante il tema della possibile attualizzazione della costitutiva capacità religiosa dell’uomo, o anche del desiderio naturale di Dio, una visione essenzialmente dinamica della natura umana orientata verso la sua autorealizzazione e perfezione e verso il bene assoluto. Se tale capacità fosse strutturalmente destinata a restare una mera potenzialità, l’esistenza umana sarebbe inevitabilmente frustrata nella sua tendenza essenziale, si fonderebbe su una radicale illusione. Per Whichcote, se quella capacità non avesse un oggetto reale cui applicarsi (se non si desse la realtà divina), l’uomo sarebbe l’essere più infelice, l’esistenza umana sarebbe essenzialmente tragica, costitutivamente minata da un dissidio fondamentale, strutturale. Whichcote usa espressioni forti a questo proposito, parlando di «amarezza spirituale», «angoscia», «grande tormento», «dissidio interiore».45 In un contesto simile More osserva che se la propensione naturale al culto religioso fosse vana, allora «l’inclinazione religiosa, che la natura ha così evidentemente impiantato nell’anima dell’uomo, non avrebbe alcuno scopo, se non di rendere l’uomo ridicolo o miserabile».46 Sul piano etico, vivere fuori dal rispetto della ragione e di Dio significa per Whichcote precipitare al di sotto della natura umana, «non agire umanamente», dal momento che nulla è «più specifico» all’uomo che «la capacità di religione e un senso della divinità».47 Appare evidente allora che per Whichcote, l’autorealizzazione della persona implica tendenzialmente la perfezione umana, l’attuazione piena della sua natura, di ciò in cui consiste il suo valore più proprio, l’esercizio religioso della sua capacità razionale.48 L’autonomia non signiifica né implica l’autosufficienza. L’autonomia personale razionale è un’autonomia partecipata.

5. Conclusione

In un approccio più approfondito bisognerebbe esaminare la specifica posizione etica di ciascuno dei membri del cosiddetto «platonismo di Cambridge». In generale tuttavia si può dire che i platonici di Cambridge, agli albori della modernità, elaborano un’etica di tipo eudemonistico, un’etica telelologica, rigorosamente non consequenzialistica, e congruente con una forma di oggettivismo e realismo etico. L’autonomia etica è da loro difesa per lo più nel senso dell’esclusione di ogni forma di imposizione estrinseca, ma anche di arbitrarismo, sia di tipo convenzionalistico e soggettivistico (che essi criticano, muovendo obiezioni radicali a Hobbes e alla sua considerazione del carattere non naturale delle fondamentali distinzioni etiche), sia di tipo teologico, con riferimento alle forme radicali di volontarismo e di «etica dei comandi divini». L’etica è autonoma perché razionale, nel senso di conforme alle esigenze proprie di quella razionalità che è specifica dell’essere umano e alle esigenze strutturali della persona umana. L’etica non si impone in modo estrinseco e arbitrario. Il modo dei Cambridge Platonists di intendere la struttura razionale umana nei termini di un’antropologia essenzialmente religiosa conferisce alla loro etica in generale una necessaria connotazione religiosa, teistica, che non è contrastante per loro con quella autonomia, anche se ne mette in evidenza il carattere di «autonomia partecipata».

Non ha molto senso, fuori di una precisa contestualizzazione storica, cercare di raffrontare queste tematiche con quelle che sono al centro dei dibattiti odierni. Mi limito a ricordare tuttavia che, non a caso, riferimenti a Cudworth sono presenti nelle discussione recenti sull’etica dei comandi divini.49 Per il tipo di etica teistica di Cudworth vale, ancor più che per qualsiasi etica dei comandi divini per quanto modificata, ciò che osserva Robert Adams, quando afferma che l’etica teologica non favorisce l’eteronomia, ma piuttosto la teonomia, inglobando alcuni aspetti del valore attribuito all’autonomia, nel senso che l’agente teonomo di certo agisce moralmente perché ama Dio, ma anche perché ama ciò che Dio ama (ha i beni motivazionali sia dell’obbedienza sia dell’autonomia). È ragionevole aspettarsi che Dio preferisca che noi siamo teonomi, cioè leali verso di lui, ma anche tali da agire per amore di ciò che egli ama.50

Anche i riferimenti recenti al dilemma di Eutifrone hanno a che fare con temi discussi da Cudworth. Adams ha presentato un’ulteriore diversa versione del suo argomento in Divine Command Metaethics Modified Again,51 in cui, sebbene la scorrettezza etica sia sempre identificata con la proprietà di essere in contrasto con i comandi di un Dio amante, questa identificazione tuttavia è proposta (sulla scia di Kripke) come una verità metafisicamente necessaria, ma non analitica o a priori. Il superamento del dilemma di Eutifrone nel noto saggio di Norman Kretzmann su questo argomento, che si avvale infine in modo originale del concetto di semplicità divina, in base al quale Dio, concepito come un essere assolutamente perfetto, è la stessa bontà perfetta,52 è formulato in termini tomistici, pur giovandosi della distinzione fregeana fra Sinn e Bedeutung, ma si riferisce a un concetto di oggettivismo, che, come quello di Cudworth, non rischia affatto di risolversi in una moralità non religiosa. In questa prospettiva c’è un criterio oggettivo di bontà, ma questo criterio è Dio stesso (una posizione in linea col tipo di superamento del dilemma di Eutifrone, presente anche in Cudworth, attraverso il ricorso alla natura di Dio come essenzialmente buona, o alla considerazione che Dio è la bontà stessa). Il tipo di oggettività e di universalità dei principi morali che Cudworth e in generale i platonici di Cambridge difendono, per la connessione che ho sottolineato con aspetti ontologici e antropologici fondamentali, è del resto maggiormente in linea con temi giusnaturalistici classici che con quelli che emergeranno con Kant e le posizioni odierne di matrice kantiana, che fanno consistere problematicamente l’oggettività nella circostanza che la razionalità, scissa peraltro da ogni radicamento antropologico, costituisce di per sé un vincolo alle pratiche e alle azioni che agenti razionali possono riflessivamente adottare, sganciando le nozioni di oggettività, conoscenza e verità da una metafisica realista, e riformulando in questo senso le questioni della normatività, dell’autorità, e della capacità motivazionale dei giudizi etici, l’oggettività essendo intesa come questione epistemica, non ontologica.53

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  1. Rhonheimer (2001), pp. 43, 85 ss., 186 ss., 214 ss., 291 ss., 309 ss., 500; Rhonheimer (1994), pp. 138-139, 155, 268-269. Naturalmente, bisognerebbe considerare quegli sviluppi recenti nell’interpretazione dell’etica kantiana, che sottolineano aspetti diversi, che emergono soprattutto nel contesto della tarda Die Metaphysik der Sitten. Cfr. Micheletti (2012a), pp. 153-161. Quanto agli atti umani, è notevole il fatto che Whichcote distingua, seguendo Tommaso, «the action of a man» da «a human action»: cfr. Whichcote (1751), vol. I, p. 318. ↩︎

  2. MacIntyre (1985²), p. 77. ↩︎

  3. Cfr. i saggi raccolti in Taylor (2005). ↩︎

  4. Micheletti (1997), pp. 267-305; Micheletti (2012b), pp. 107-109. Cfr. Hume (2013), pp. 376, 378, 380 (sull’influsso di Bayle, si veda anche l’Introduzione di G. Paganini, pp. 68-71); Hume (1948), p. 500; P. Bayle, Continuation des pensées diverses, in Œuvres diverses de Mr. Pierre Bayle, in Bayle (1737), tome 3, pp. 215-216. ↩︎

  5. Cfr. tuttavia anche, fortemente avversato dai platonici, Hobbes (1968), p. 160: «The Felicity of this life, consisteth not in the repose of a mind satisfied. For there is no such Finis ultimus, (utmost ayme,) nor Summum Bonum, (greatest Good,) as is spoken of in the Books of the old Morall Philosophers». Cfr. ivi, p. 168: «And this Feare of things invisible, is the naturall Seed of that, which every one in himself calleth Religion; and in them that worship, or feare that Power otherwise than they do, Superstition». ↩︎

  6. Micheletti (1984); cfr. Micheletti (2011a). ↩︎

  7. Cfr. soprattutto Smith (1660), p. 389, e inoltre Whichcote (1751), vol. I, p. 300; vol. III, p. 237; vol. IV, p. 140; More (1662), pp. 27-32, 82-85, 168. Fra i latitudinari, cfr. soprattutto Wilkins (1675), pp. 288, 293; Barrow (1859), vol. V, pp. 229-230. ↩︎

  8. Réponse aux Questions d’un Provincial, in Bayle (1737), tome 3, pp. 693-694. Cfr. Brogi (1998), pp. 83-122. ↩︎

  9. Darwall (1995), p. 128. ↩︎

  10. Taliaferro & Teply (1995), p. 8. ↩︎

  11. Copan (2003), p. 149. Per un riferimento esplicito in Cudworth all’Eutifrone di Platone: Cudworth (1980), p. 102. ↩︎

  12. Whichcote (1753), nn. 381, 416, 709, 745. ↩︎

  13. Whichcote (1751), vol. iv, p. 108; Whichcote (1753), n. 221; Smith (1660), pp. 154, 156, 160; per Smith l’amore, secondo l’insegnamento giovanneo, definisce essenzialmente la divinità, facendo tutt’uno con la sua illimitata perfezione. L’amore divino è la regola suprema in cielo e in terra. L’immutabile bontà di Dio è anche l’immutabile norma della sua volontà, da cui Dio non può distaccarsi più di quanto possa distaccarsi da se stesso. Dio è l’ipsum bonum. In questo senso anche la giustizia di Dio è da ricondurre alla bontà: è la «giustizia della bontà» (ivi, p. 153); More (1664), p. 528. ↩︎

  14. Cfr. Poppi (1993), p. 109. Cfr. Russell (2013), p. 20: «The need for autonomy depends not just on being an individual but on being an individual of a certain kind or species. That is why eudaimonism holds that even our need for individual fulfillment stems from our need for human fulfillment, which includes directing our own lives by our choices». ↩︎

  15. Whichcote (1751), vol. iii, pp. 140, 345; vol. iv, p. 238; Whichcote (1753), nn. 100, 394. Cfr. Cudworth (1980), pp. 113, 123; Smith (1660), pp. 442, 446, 467-468; More (1660), p. 41. ↩︎

  16. Tommaso d’Aquino, Summa contra Gentiles, III, cap. 122. Cfr. Rhonheimer (1994), p. 267. ↩︎

  17. Whichcote (1751), vol. IV, p. 262. ↩︎

  18. Darwall (1995), pp. 117, 121, 129. Cfr. Cudworth (1980), p. 123. ↩︎

  19. Gill (2006), p. 28. ↩︎

  20. More (1679), pp. 2-3, 12, 15, 25, 39, 61-62. Cfr. Taliaferro (2005), p. 31. ↩︎

  21. Cfr. Cassirer (1947), p. 43. Cfr. tuttavia ora la complessa interpretazione di Erdelack (2011). ↩︎

  22. Austin (1935), p. 46. ↩︎

  23. Watkin (1937), p. 304. ↩︎

  24. Jordan (1965), pp. 101, 105, 130. ↩︎

  25. Passmore (1951), pp. 89, 99-100. ↩︎

  26. von Leyden (1961), p. 90. ↩︎

  27. Lichtenstein (1962), pp. 25-30, 173, 177, 191. ↩︎

  28. Beiser (1996), pp. 19, 136. Recentemente Leech (2013), pp. 3, 233, ha sostenuto che la filosofia dello spirito di More contribuì, contro le sue intenzioni, a creare una situazione favorevole all’emergere dell’ateismo. ↩︎

  29. Gill (2006), pp. 22, 67-68. Cfr. Gill (1999); Gill (2004). ↩︎

  30. Micheletti (1984); Micheletti (2012c). ↩︎

  31. Davenport (1972), pp. 105, 175. ↩︎

  32. Cudworth (1996), p. 150. ↩︎

  33. Darwall (1995), p. 128. ↩︎

  34. Smith (1660), pp.62, 382. ↩︎

  35. Whichcote (1753), n. 460. ↩︎

  36. Cudworth (1678), pp. 720-721. Cfr. Gysi (1973), p. 10; Micheletti (2014). ↩︎

  37. Whichcote (1751), vol. i, p. 392. ↩︎

  38. Smith (1660), p. 147. ↩︎

  39. Whichcote (1751), vol. IV, p. 262. ↩︎

  40. Whichcote (1751), vol. IV, p. 261. ↩︎

  41. More (1679), pp. 17, 72. ↩︎

  42. More (1679), pp. 68, 72. Sulla naturalizzazione della natura umana, cfr. Martin & Barresi (2000), p. 64, e inoltre p. 79: «With Butler’s death came the end of an era in which religion had dominated the philosophy of human nature». ↩︎

  43. Whichcote (1751), vol. III, p. 193; vol. I, pp. 131, 293-294; Babolin (1993), pp. 12-14. ↩︎

  44. Whichcote (1753), nn. 460, 877; Whichcote (1751), vol. III, pp. 216, 305, 322ss., 336ss. ↩︎

  45. Whichcote (1751), vol. IV, p. 308. ↩︎

  46. More (1662), pp. 28-32. ↩︎

  47. Whichcote (1751), vol. III, pp. 198, 237. ↩︎

  48. Whichcote (1751), vol. I, pp. 298-300. ↩︎

  49. Cfr. Quinn (2000), pp. 69 ss.; Quinn (2006a), pp. 50-52; Quinn (2006b); Wainwright (2005), pp. 75 ss. Cfr. Micheletti (2010); Micheletti (2011b). ↩︎

  50. Adams (1987a), pp. 123-127. ↩︎

  51. Adams (1987), pp. 128-143. Cfr. Quinn (2000), p. 71: «God’s essential perfect goodness entails God’s essential justice. So though God is not under an obligation to be just, God is just by a necessity of the divine nature. It is the divine nature itself, and not divine commands or intentions, that constrains the antecedent intentions God can form». ↩︎

  52. Kretzmann (1999). Per una risposta al dilemma di Eutifrone, cfr. anche Alston (1989); Swinburne (1996); Mann (2005). ↩︎

  53. Bagnoli (2002); Bagnoli (2007), pp. 10, 20-21, 30; Bagnoli (2013), p. 129. Su autonomia kantiana e rispetto di sé, cfr. Hill (1991), pp. 29 ss. ↩︎