Sintesi e unità nel De mente di Cusano. Note su un dibattito gnoseologico

Per quanto alcuni autorevoli interpreti siano decisi a lasciar cadere la questione armati di «scepsi nominalistica»,1 la letteratura cusaniana non si è ancora emancipata dal problema della «modernità» di Cusano. Definito da alcuni un geniale precursore (di Leibniz, Kant o Hegel), Cusano è stato fatto oggetto sempre più spesso di ricostruzioni storiche che tentano di collocarne il pensiero nel contesto storico che gli è proprio. Inutile sottolineare come anche il tentativo di sottrarre Cusano a paragoni con pensatori successivi collocandolo interamente nel suo secolo, sia destinato a fallire. Il pensiero e la terminologia cusaniani, ad uno sguardo superficiale così coerenti pur nella molteplicità delle fonti da cui attingono, rischiano di sgretolarsi ad una disamina filologica eccessivamente analitica.

Un problema su cui la critica si è soffermata con particolare interesse è il tentativo di definire la posizione gnoseologica di Cusano rispetto alla tradizione medievale e a quella post-cartesiana. Qui, i differenti approcci e le coordinate filosofiche di riferimento dei diversi interpreti hanno prodotto una serie inconciliabile di interpretazioni.2 Particolarmente sospetta agli storici della filosofia è l’interpretazione kantiana della scuola tedesca, sempre più spesso sottoposta a critica da parte di chi vede il pensiero di Cusano ancora essenzialmente radicato negli schemi del realismo scolastico. Benché la riconduzione di Cusano agli schemi soggettivistici della filosofia moderna possa essere discutibile, la nozione cusaniana di mens non si lascia facilmente ricondurre alla scolastica e, dunque, il dibattito critico rimane aperto. Sperando di offrire un contributo utile almeno alla soluzione di quest’annosa querelle gnoseologica, il presente articolo leggerà alcune pagine cusaniane, partendo da un concetto centrale nell’orizzonte kantiano — il concetto di «sintesi» — e tentando di determinare possibilità e limiti della sua applicazione al pensiero del filosofo di Kues.

Certo, affrontare il problema della sintesi in un linguaggio e in un orizzonte di pensiero come quello di Cusano va incontro a due difficoltà di segno opposto. Se si assume il concetto in un’accezione troppo moderna e lo si determina in base a una qualche prospettiva filosofica specifica (Kant o, addirittura, Husserl, ad es.) si rischia una palese forzatura interpretativa del testo. Se lo si lascia nell’indeterminatezza, però, c’è il rischio di cadere nella vaghezza e nella gratuità. Una certa pre-comprensione interpretativa del termine, quindi, sembra essere necessaria ad indirizzare l’indagine nel momento in cui la «sintesi» non figura come termine specifico nel lessico cusaniano. Non che la terminologia filosofica possa offrire in questo caso una comoda soluzione ad un problema squisitamente teoretico. Come vedremo subito, infatti, nemmeno il tentativo di cercare una traduzione letterale risolve la questione bensì o la lascia cadere miseramente oppure conduce in una direzione del tutto opposta a quanto il concetto di «sintesi» sembra suggerire ad una sensibilità moderna.

Il presente intervento è diviso in due parti. Nell’introduzione verranno mostrati brevemente alcuni nodi concettuali che se sembrano a prima vista prefigurare anch’essi una «sintesi» di qualche tipo, risultano però — una volta collocati nel contesto proprio della filosofia cusaniana — del tutto eccentrici e incommensurabili ad essa. Nella seconda, il problema della sintesi verrà collocato nel contesto che sembra esserle più proprio, cioè quello gnoseologico, discutendo un tema specifico su cui la critica si è ampiamente soffermata: il problema della originaria produttività della mens nella filosofia cusaniana.

1. Limiti dell’analogia terminologica

Da un punto di vista strettamente terminologico, il corrispettivo latino del termine synthesis sarebbe compositio. Appare subito evidente, però, come in questo caso ci troviamo in una dimensione propriamente ontologica e non gnoseologica. Le occorrenze del termine compositio all’interno del testo cusaniano non lasciano adito a dubbi. E ciò per una ragione assai semplice. L’orizzonte speculativo di Cusano è chiaramente neoplatonico ed esso risulta essere costitutivamente eccentrico rispetto alla terminologia post-kantiana. Il pensiero cusaniano delinea un campo teorico in cui l’attività unificante propria della sintesi sembra a prima vista scindersi in due diverse coppie di concetti. Compositio/contractio da un lato, coincidentia/complicatio dall’altro. Risulta però immediatamente evidente che se la prima coppia di concetti sembra dire troppo poco rispetto al nostro concetto di sintesi — in quanto entrambi i termini definiscono la caratteristica dispersività del molteplice, l’indebolimento del reale mano a mano che si allontana dall’Uno —, la seconda coppia sembra invece dire troppo, poiché qui l’attività unificante giunge fino all’identificazione di ogni opposizione nell’Assoluto. Ciò è dovuto al fatto che per un pensatore neoplatonico l’Uno è l’elemento unificante, originariamente sintetico; al di fuori dell’Uno non v’è alcuna forza sintetica autonoma. L’Uno è, infatti, essenzialmente vis unitiva, il potere di unificare che è in azione in ogni realtà. Ciò determina una curiosa inversione terminologica. Se la simplicitas è l’espressione massima di questa forza unificante, la compositio non indica un’attività ma una passività, indica l’incapacità di ciò che è ontologicamente posteriore all’Uno di accogliere adeguatamente l’unità.

La specificità del linguaggio neoplatonico di Cusano è, come noto, quella di concepire l’Uno come il Massimo (ciò di cui nulla può essere più grande: quo nihil maius esse potest) e come l’assoluta, precisa verità. Ciò implica che il mondo, il molteplice è il regno del «più e del meno» (dove non si giunge mai né al massimo, né al minimo ma ci sono infiniti gradi di realtà) e dove ogni cosa è saputa in modo congetturale e impreciso. Da ciò deriva che l’Uno è ciò che non può essere più unito. Ora, quando si segue l’attività unificante dell’Uno oltrepassando la soglia della differenza ontologica (cioè quando si passa dalla considerazione del mondo a Dio) l’elemento sintetico-unificante dell’Uno assume una strana e paradossale veste. Nell’Uno infatti ciò che è unito coincide con ciò che unifica. Già così è posto il problema della coincidentia oppositorum che costituisce il nodo di tutto il pensiero cusaniano, il suo fascino ma anche il suo aspetto certamente più scoperto e aporetico. È certo comunque che, proprio per questo, tale coincidentia ben difficilmente potrebbe configurarsi come sintesi di un moltelpice, poiché essa di fatto non risulta essere un terzo rispetto agli opposti, bensì mostra come l’opposizione, trasposta all’infinito, sia apparente. Lo stesso dicasi per quel concetto di complicatio che Cusano utilizza, mutuandolo da Teodorico di Chartres, per spiegare in che modo l’infinito strutturi/produca/generi il finito.

2. L’attività sintetica della mente

È solo nella dimensione propriamente gnoseologica che la struttura complicatio/explicatio viene vista in azione nell’atto del conoscere e diviene in qualche modo commensurabile all’orizzonte di pensiero moderno. Nelle Congetture Cusano scrive:

Coniecturas a mente nostra, uti realis mundus a divina infinita ratione, prodire oportet. Dum enim humana mens, alta dei similitudo, fecunditatem creatricis naturae, ut potest, participat, ex se ipsa, ut imagine omnipotentis formae, in realium entium similitudine rationalia exserit. Coniecturalis itaque mundi humana mens forma exsistit uti realis divina. Quapropter ut absoluta illa divina entitas est omne id quod est in quolibet quod est, ita et mentis humanae unitas est coniecturarum suarum entitas.

Le congetture devono scaturire dalla nostra mente, come il mondo reale dalla ragione divina infinita. Quando infatti la mente umana, nobile similitudine di Dio, partecipa come può della fecondità della natura creatrice, produce da sé medesima, come immagine della forma onnipotente, gli enti razionali a similitudine di quelli reali. La mente umana è allora la forma congetturale del mondo come quella divina ne è la forma reale, sicché come quella assoluta entità divina è tutto ciò che è in ogni cosa che è, allo stesso modo l’unità della mente umana è l’entità delle proprie congetture.3

Lo spirito umano è l’immagine della semplicità complicante di Dio; c’è, in altri termini, un’analogia tra la mente umana e quella divina che sembra essere fondata sulla rispettiva capacità creatitrice. Certo, il concetto sorge dalla mente di Dio come productio, mentre nasce dalla mente umana come notio e un abisso sembra separare le due attività. Cusano distingue accuratamentela vis formativa divina e la vis conformativa (chiamata anche vis configurativa) della nostra mente, e sottolinea dunque la differenza tra gli exemplaria (i modelli originali delle cose) pensati da Dio e le nostre similitudines. Dio crea le creature, la mente solo i concetti. Eppure il modo in cui questi si rapportano a quelle non pare totalmente descrivibile nella forma dell’adaequatio. In alcuni passi Cusano sembra voler suggerire che solo grazie alla propria creatività — la propria vis configurativa — la mente possa rispecchiare veracemente il mondo, possa, cioè, porre in atto efficacemente la propria vis conformativa. Come se il rapporto tra mondo e mente fosse mediato e indiretto e passasse attraverso l’esplicazione di un’attività creatrice originaria che trova in quella divina il proprio modello e la propria misura. Per quanto suggestivo questo rapporto va chiarito più da vicino.

Si tratta di un nodo teorico che ha provocato non pochi problemi interpretativi. A partire dalla storica interpretazione di Cassirer4 si è sviluppato un filone ermeneutico che tende a interpretare la gnoseologia di Cusano in senso «kantianizzante» o addirittura idealistico. Lo studioso americano Jasper Hopkins ha messo bene in luce quali interpretazioni «assurde» conseguano da questa impostazione:

  1. La natura «soggettiva» del tempo
  2. Il ruolo attivo della mente nell’ordinare e strutturare l’esperienza in senso «fenomenico»
  3. La creatività o produttività della mente nella costruzione dei concetti non solo matematici e geometrici, noti a priori, ma anche di quelli empirici
  4. L’idealismo assoluto che consegue dal ritenere che la mente conoscendo non conosca altro che se stessa.5

Se queste interpretazioni della mens in Cusano fossero giuste, si potrebbe tranquillamente dire che nel suo complicare le nozioni di tutte le cose avremmo un concetto già moderno e forte di «sintesi». Hopkins ha criticato in modo puntuale queste interpretazioni. Occorre tuttavia dire che, nel suo eccessivo zelo anti-modernista, Hopkins rischia di appiattire troppo la gnoseologia di Cusano su Tommaso soprattutto riguardo al concetto di «astrazione».6 Rimane infatti aperta la questione se al potere attivo-produttivo della mens debba essere assegnato un senso forte (come vuole la lettura «kantiana») o uno debole (come vuole chi, in generale, sottolinea i debiti del pensiero di Cusano verso il pensiero medioevale). Più che risolvere la questione, questo intervento intende chiarire alcuni presupposti spesso sottaciuti che agiscono, per così dire, «alle spalle» della discussione e che, forse, ne rendono più difficile la soluzione.

3. Immagine e complicazione

Il modus operandi della mente è spiegato da Cusano in modo più analitico nel De mente; risulta essenziale, quindi, fare riferimento a questo testo ed è saggio il consiglio di Hopkins di non cercare soluzioni gnoseologiche in testi di intento prevalentemente teologico.7 Il De mente ruota attorno alla definizione cusaniana della mente come misura: «La mente è ciò da cui è il termine e la misura di tutte le cose. Ritengo che la mente si chiami così dal misurare». (Mentem esse, ex qua omnium rerum terminus et mensura. Mentem quidem a mensurando dici conicio). Questa definizione si adatta, indifferentemente, alla mente divina quanto alla nostra; in questo passo, infatti, Cusano non distingue tra le due, ma si limita a dare una definizione generale della mens. Ciò ingenera immediatamente confusione nell’interpretazione del passo ed ha ragione, dunque, Hopkins nel richiamare l’analogia tra questo e analoghi passi di Tommaso.8 Nel De mente viene però ribadita incessantemente la natura privilegiata della mens rispetto agli altri enti, con un’enfasi che non si lascia ricondurre facilmente al tomismo. Cusano ribadisce come solo la mente può e deve essere chiamata imago dei piuttosto che explicatio dei.

Attende aliam esse imaginem, aliam explicationem. Nam aequalitas est unitatis imago; ex unitate enim semel oritur aequalitas. Unde unitatis imago est aequalitas; et non est aequalitas unitatis explicatio, sed pluralitas complicationis. Igitur unitatis aequalitas est imago, non explicatio. Sic volo mentem esse imaginem divinae mentis simplicissimam inter omnes imagines divinae mentis complicationis. Et ita mens est imago complicationis divinae prima omnes imagines complicationis sua semplicitate et virtute complicantis. Sicut enim Deus est complicationum complicatio, sic mens, quae est Dei imago, est imago complicationis complicationum.

Fa’ attenzione che una cosa è l’immagine, un’altra è l’esplicazione. Infatti l’uguaglianza è immagine dell’unità; dall’unità ripetuta una volta sola sorge l’uguaglianza. Perciò l’uguaglianza è l’immagine dell’unità e l’esplicazione dell’unità non è l’uguaglianza ma la pluralità della complicazione. Quindi, l’uguaglianza è immagine dell’unità e non esplicazione. Così considero la mente la più semplice immagine della mente divina tra tutte le immagini della mente e della complicazione divina. E così la mente è l’immagine prima della divina complicazione che complica attraverso la propria semplicità e virtù tutte le immagini della complicazione. Come, infatti, Dio è complicazione delle complicazioni, così la mente — che è immagine di Dio — è immagine della complicazione delle complicazioni.9

Come apparirà subito, la definizione cusaniana della mente «immagine di Dio» si spinge ben oltre Agostino (mens imago dei, imago trinitatis),10 in quanto qui Cusano pone non una analogia, una somiglianza basata sull’attività dello spirito in generale, ma definisce un rapporto strutturale tra la mente umana e Dio tale che l’intera struttura ontologica del reale ne risulta modificata. Occorre però anzitutto sottolineare come il termine imago non sia affatto univoco né qui né nel resto del dialogo. Esso sembra alludere ad una pluralità di sensi (almeno tre) tra loro connessi ma non esplicitatamente da Cusano.

  1. Anzitutto l’imago indica una realtà originaria rispetto alla explicatio. Ciò può essere inteso in due sensi:
    1. Essa ha, infatti, anzitutto una funzione «interna» all’Uno: si pensi al rapporto unitas/aequalitas in cui il secondo termine viene definito da Cusano «immagine» dell’unità.
    2. L’imago ha però anche un valore «esterno» rispetto all’Uno: si allude qui al rapporto tra l’aequalitas (che è momento dell’articolazione stessa dell’assoluto) e la mens umana che di essa è immagine. La mente umana sembra essere, in altri termini, «immagine dell’immagine dell’Uno».
  2. Il passo di Cusano appena letto, però, fa presagire anche una distinzione interna al concetto stesso di immagine, nel momento in cui distingue la mente dalle altre immagini della complicazione (qui ancora non definite).
  3. Infine — è un problema su cui occorrerà soffermarsi in seguito — questo passo del De mente pone la questione del rapporto tra le «forme» e le «immagini delle forme».

Per ora concentriamoci sullo stretto, immediato rapporto che sembra istaurarsi a livello ontologico tra la mente umana e quella divina: unde quae est proportio operum Dei ad Deum, illa operum mentis nostrae ad mentem ipsam, scrive Cusano.11 Affermare che la proporzione che c’è tra le opere di Dio e Dio, è la stessa che sussiste tra le opere della nostra mente e la mente stessa, sembra infatti dischiudere questioni enormi da un punto di vista gnoseologico. La domanda che si pone e che ha fatto nascere la discussione nella critica può essere formulata così: quanto e fino a che punto la mente ha bisogno dell’esperienza sensibile per produrre i concetti delle cose?

4. La formazione dei concetti

Anzitutto è vero che la mente per Cusano è tabula rasa, tranne che per la facoltà del giudizio (judicium) che preesiste al contatto con l’esperienza e che non potrebbe mai sorgere da essa. Questo potere di giudicare, distinguere, sintetizzare viene quindi attivato dall’incontro con gli oggetti sensibili e non potrebbe esercitarsi senza i phantasmata. Nel De mente, tuttavia, la formazione dei concetti obbedisce ad uno schema che, seppure debitore — come si vedrà — di una ben determinata tradizione, viene interpretato da Cusano in modo originale. È compito di un’analisi attenta quello di mostrare in quale punto della sua ricostruzione Cusano si discosti da questa tradizione e, ancor più importante, mostrare i motivi profondi di questo distacco. Per esplicitare i passaggi necessari e rendere evidente l’argomentazione occorrerà citare per esteso un lungo brano dal De mente.

Nostra vis mentis ex illis talibus notionibus sic per assimilationem elicitis facit mechanicas artes et physicas ac logicas coniecturas. […] Unde cum per has assimilationes non attingat nisi sensibilium notiones, ubi formae rerum non sunt verae, sed obumbratae variabilitatae materiae, tunc omnes notiones tale sunt potius coniecturae quam veritates. Sic itaque dico, quod notiones, quae per rationales assimilitationes attinguntur, sunt incertae, quia sunt secundum imagines potis formarum quam veritates. Post haec mens nostra, non ut immersa corpori, quod anima, sed ut est mens per se, unibilis tamen corpori, dum respicit ad suam immutabilitatem, facit assimilationes formarum, non ut sunt immersae materiae, sed ut sunt in se e per se, et immutabiles concipit rerum quidditates utens seipsa pro istrumento sine spiritu aliquo organico, sicut dum concipit circulum esse figuram, a cuius centro omnes lineae ad circumferentiam ductae sunt aequales, quo modo essendi circulus extra mentem in materia esse nequit. […] Sic dicimus: veritatem rerum in mente esse in necessitatae complexionis, scilicet modo, quo exigit veritas rei, ut de circulo dictum est. Et quia mens ut in se et a materia abstracta has facit assimilationes, tunc se assimilat formis abstractis. Et secundum hanc vim exserit scientias certas mathematicales, et comperit virtutem suam esse se rebus, prout in necessitate complexionis sunt, assimilandi et notiones faciendi. […] Et quia adhuc hoc modo mens non satiatur, quia non intuetur praecisam omnium veritatem, sed intuetur veritatem in necessitate quadam determinata cuilibet, prout una est sic, alia sic, et quaelibet ex suis partibus composita, et videt, quod hic modus essendi non est ipsa veritas, sed participatio veritatis, ut unum sic sit vere, et aliud aliter vere, quae quidem alteritas nequaquam convenire potest veritati in se, in sua infinita et absoluta praecisione considerata. Unde mens respiciendo ad suam simplicitatem, ut scilicet est non solum abstracta a materia, sed ut est materiae incommunicabilis seu modo formae inunibilis, tunc hac simplicitate utitur ut instrumento, ut non solum abstracte extra materiam, sed in simplicitate materiae incommunicabili se omnibus assimilet. Et hoc modo in simplicitate sua omnia intuetur, sicut si in puncto omnem magnitudinem et in centro circulum et ibi omnia intuetur absque omni compositione partium, et non ut unum est hoc et aliud illud, sed ut omnia unum et unum omnia. Et haec est intuitio veritatis absolutae: […] Et sic facit theologicas speculationes.

La forza della mente mediante le nozioni, così ricavate per assimilazione, costruisce le arti meccaniche e le congetture fisiche e logiche. […] Perciò, in quanto attraverso queste assimilazioni la mente non attinge le nozioni se non attraverso le cose sensibili, dove le forme delle cose non sono vere ma adombrate dalla variabilità della materia, tutte le nozioni in quanto tali sono più congetture che verità. Per questo dico che le nozioni, che sono attinte attraverso le assimilazioni razionali, sono incerte, in quanto sono secondo le immagini, piuttosto che secondo le verità delle forme. Dopo di ciò la nostra mente, non in quanto immersa nel corpo, come anima, ma in quanto è mente per sé (cioè unibile al corpo ma distinta da questo), allora guarda alla propria immutabilità, fa le assimilazioni delle forme, non come sono immerse nella materia, ma come sono in sé e per sé e concepisce le quiddità immutabili delle cose usando se stessa come strumento senza alcuno spirito organico. Così ora concepisce che cerchio è una figura a partire dal cui centro tutte le linee una volta condotte alla circonferenza sono uguali, nel modo d’essere in cui il cerchio fuori dalla nostra mente non può essere. […] Perciò diciamo: la verità delle cose si trova nella mente nella necessità della complessione, cioè nel modo in cui lo esige la verità della cosa, come si è detto a proposito del cerchio. E poiché la mente in sé (cioè astratta dalla materia) fa queste assimilazioni, così si assimila la forma astratta. E secondo questa forza produce le scienze matematiche che sono certe, e scopre che la propria virtù è assimilarsi alle cose, in quanto sono nella necessità della complessione, e farsi nozioni di esse. […] E inoltre in questo modo la mente non si sazia, poiché non intuisce la verità precisa di tutte le cose ma intuisce la verità secondo una certa necessità determinata (necessità determinata a qualcosa), come una è in un modo, l’altra in un altro, e ognuna è composta dalle sue parti, e vede che questo modo d’essere non è la verità stessa, ma la partecipazione alla verità, come se una cosa fosse vera in un modo e un’altra in un altro, alterità che non può convenire alla verità in sé, considerata nella sua infinita e assoluta precisione. Così la mente guardando alla propria semplicità, cioè come è non solo astratta dalla materia, ma come è in assoluta incomunicabilità rispetto alla materia e non unibile rispetto al modo della forma, usa questa semplicità come strumento e si assimila a tutte le cose (non solo in modo astratto, al di fuori dalla materia, ma nella semplicità incomunicabile alla materia). E in questo modo nella propria semplicità intuisce tutte le cose, come se nel punto intuisse ogni grandezza e nel centro la circonferenza e qui intuisce tutte le cose prive di ogni composizione di parti e non come se una fosse questo e un’altra un’altra, ma come se tutto fosse uno e uno tutto. E questa è l’intuizione della verità assoluta […] Così fa le speculazioni teologiche.12

Cominciamo col sottolineare come Cusano distingua (1) tre livelli dell’atto conoscitivo. Nel primo, la mente conosce le forme così come esse si trovano immerse nelle materia. Le forme colte nella materia vengono qui dette immagini (quia sunt secundum imagines potis formarum quam veritates), secondo la sistematizzazione del sapere che Cusano ha attinto evidentemente da Teodorico di Chartres, in particolare dalla Glossa al De Trinitate di Boezio.13 Si tratta di quel terzo significato del termine imago cui si è accennato in precedenza: immagine è la forma non colta nella sua purezza. Il concetto che nasce dalla considerazione di queste forme materiate è congettura (omnes notiones tale sunt potius coniecturae quam veritates) e la sua imprecisione è dovuta all’instabilità della materia. Nel secondo, guardando alla propria immutabilità la mente si assimila le forme nella loro verità (ut est mens per se, unibilis tamen corpori… respicit ad suam immutabilitatem). Ciò significa che la mente riesce a vedere le forme in sé e, a quanto pare, coglierle nei loro rapporti reciproci come esse sono al di fuori della materia. Si vedrà quali problemi dischiuderà il tentativo di capire in che senso vada intesa questa «esteriorità» rispetto alla materia. Infine, guardando alla propria semplicità (unde mens respiciendo ad suam simplicitatem, ut scilicet est non solum abstracta a materia, sed ut est materiae incommunicabilis), la mente coglie la verità delle forme, cioè quella che Cusano chiama la loro necessità assoluta. Qui le forme sono colte nell’indipendenza dalla materia e, dunque, anche da ogni pluralità (ut omnia unum et unum omnia); esse si trovano cioè nella semplicità assoluta della forma, cioè, della forma formarum: Dio.

A questa tripartizione gnoseologica sembra corrispondere (2) una tripartizione epistemologica. Cusano, cioè, sovrappone a questi tre livelli dell’atto conoscitivo altrettanti rami della scienza teoretica. Al primo livello corrisponde la fisica, al secondo la matematica e al terzo la teologia (physicas ac logicas coniecturas… / scientias certas mathematicales … / theologicas speculationes). Anche qui Cusano, pur riprendendo una ripartizione di chiara origine aristotelica, segue da vicino il commento di Teodorico a Boezio come è testimoniato dall’ordinamento gerarchico in cui vengono a disporsi le tre discipline teoretiche.14 La fisica considera le forme insieme alla materia e al movimento. La matematica le forme «astratte», ovvero come esse sono una volta separate dalla materia ma al di fuori di ogni movimento. La teologia considera le forme come esse sono assolutamente, cioè indipendentemente dalla materia e dal movimento. A differenza della matematica, quindi, in cui la forma viene estratta attivamente dal sensibile, la teologia intuisce le forme direttamente (et immutabiles concipit rerum quidditates).

È certo che il passo del De mente ora analizzato descrive un procedere progressivo della mente, essa stessa prima immersa nel corpo (in corpore), poi assorta in sé, come «ritratta» dalla materia (in se et abstracta), infine completamente separata dal corpo (abstracta et incommunicabilis). Ci accorgiamo però subito che non c’è una perfetta corrispondenza tra il livello gnoseologico e quello epistemologico, che, insomma, i conti non tornano. È certo che, in questo schema, la matematica ha il compito di mediare tra la fisica e la teologia. Tuttavia, un punto rimane oscuro e rende difficile seguire l’argomentazione cusaniana: lo statuto ontologico degli enti matematici.15 È possibile mostrare questa ambiguità osservando l’uso che Cusano fa del termine abstractio. Con tale termine Cusano fa riferimento tanto alle «forme astratte» della matematica aristotelica, quanto alle «forme separate» della tradizione platonico-chartriana. In tal modo non è però più possibile distinguere l’ambito di riferimento del termine, segnatamente: il suo riferirsi alla sfera ontologica o gnoseologica. Esso sembra infatti alludere al tempo stesso (1) ad una condizione della mente, (2) ad un’azione che la mente opera sul proprio oggetto o (3) alla condizione di questo stesso oggetto. Nella frase: et quia mens ut in se et a materia abstracta has facit assimilationes, tunc se assimilat formis abstractis, è possibile notare il passaggio dalla prima (abstracta mens) alla terza valenza (formae abstractae) del termine abstractio. Non utilizzando il termine inabstracta che Boezio, ad es., usa per designare le forme astratte ma non separate dalla materia,16 Cusano fonde la prospettiva aristotelica e quella platonica in modo originale, lasciando tuttavia problemi teorici irrisolti che manifesteranno altrove il proprio effetto.

5. La necessitas complexionis e l’origine dei concetti matematici

Come è stato giustamente osservato da Michael Stadler,17 le difficoltà che spesso si incontrano nel comprendere il linguaggio cusaniano sono dovute alla sua particolare condizione di pensatore che, se da un lato rielabora e porta a compimento una tradizione filosofica millenaria, dall’altro si pensa come eccentrico rispetto a questo stesso linguaggio, come il teorico della docta ignorantia, ovvero dell’unico metodo in grado di superare le dispute teologiche e metafisiche e giungere ad una vera coincidentia philosophorum. Anche nella sistematizzazione delle scienze proposta nel De mente Cusano riprende il linguaggio di una tradizione che però, al tempo stesso, sottopone ad una critica radicale. Profondamente rielaborata risulta qui la corrente di pensiero che Cusano definisce genericamente «platonismo»18 e che gli deriva, in buona parte, dai trattati di Teodorico di Chartres. Il punto in cui, tuttavia, Cusano sembra discostarsi da questa corrente di pensiero determina non poche ambiguità nel suo stesso testo, così profondamente debitore nei confronti e dell’aristotelismo e del platonismo.

Il problema è che le cosiddette forme separate sebbene pre-esistano alla creazione delle cose, non hanno realtà che nella mente divina dove però si identificano con la forma formarum, cioè con Dio stesso. Pur riconoscendo il valore del platonismo, Cusano aveva condotto una critica all’anima del mondo nel De docta ignorantia, in cui negava che le forme potessero darsi in una molteplicità qualsiasi prima del contatto con la materia (un «prima» da intendersi, ovviamente, in senso ontologico). L’anima del mondo, che Cusano identifica col mondo intellegibile e che costituisce, per così dire, il «sistema delle idee», il luogo ontologico in cui le idee sono tra loro connesse secondo necessità, viene definito da Cusano, seguendo la terminologia chartriana, necessitas complexionis. La necessità della complessione, la concatenazione di cause e forme cui si eleva la mente prescindendo dai corpi, però, costituisce un cosmo noetico per noi inaccessibile quanto Dio stesso. Malgrado l’intellectus si volga ad essa per propria natura, quella non costituisce una sfera ontologica intermedia tra Dio e il mondo, ma Dio stesso nella sua seconda persona: l’aequalitas, il Verbum, la Sapienza. Partendo da un assunto trinitario rigoroso e identificando la mente divina (il verbo) con la necessitas complexionis, Cusano sospinge la necessitas complexionis nell’abisso del mistero divino e, con ciò, la sottrae agli sforzi dell’intelletto sovrasensibile.

Quest’osservazione non risolverà certo la disputa tra i sostenitori del Cusano «tutto moderno» e del Cusano «tutto medievale»; però aiuterà a capire perché la gnoseologia cusaniana è di difficile decifrazione. Il punto dirimente sembra essere proprio l’interpretazione dell’abstractio cusaniana e, dunque, dell’origine dei concetti matematici. Soprattutto qui, c’è chi vede in Cusano una teoria dell’astrazione di impianto ancora tomista, e chi invece trova germi di una concezione moderna, secondo cui i concetti matematici sarebbero prodotti esclusivi della mente umana. Ora, l’aver chiarito alcune difficoltà terminologiche che rimangono generalmente sottaciute da chi vede in Cusano una teoria ancora generalmente «ortodossa» dell’astrazione, non modifica certo radicalmente il senso del passo del De mente citato il quale, quindi, può ancora confortare quella che abbiamo chiamato l’interpretazione «debole» della gnoseologia cusaniana.

È chiaro, infatti, che per Cusano gli enti matematici non esistono come tali al di fuori della materia né costituiscono delle forme in sé. Tanto nel De mente quanto nel Complemento teologico Cusano sottoscrive la nozione aristotelica della natura «astratta e non separabile» degli enti matematici: Non enim curat geometre de lineis aut figuris aenis aut aureis aut ligneis, sed de ipsis ut in se sunt, licet extra materiam non reperiantur.19 La mente sembra infatti limitarsi ad astrarre dalla materia gli enti matematici e geometrici e risulta ben lontana dal crearli o originarli da sé:

PHIL: Explana, quomodo mens facit punctum.

IDIOTA: Nam punctus est iunctura lineae ad lineam vel lineae terminus. Cum ergo lineam cogitaveris, poterit mens iuncturam duarum medietatum eius secum considerare. Quod si fecerit, erit linea tripunctalis propter duos eius terminos et iuncturam duarum medietatum, quam sibi mens proposuit. Nec sunt diversa punctorum genera terminus lineae atque iunctura: nam duarum medietatum iuncutra terminus est ideoque linearum. Et si unicuique medietati mens proprium terminum tribuat, quadripunctalis linea erit. Ita per quotcumque partes pareexcogitata linea dividatur a mente, quot illarum partium termini fuerint, tot punctorum praecogitata linea esse iudicabitur.

PHIL: Quomodo facit lineam?

IDIOTA: Considerando longitudinem sine latitudine; et superficiem considerando latitudinem sine soliditate, licet sic actu nec punctus nec linea nec superificies esse possit, cum sola soliditas extra mentem actu existat. Sic omnis rei mensura vel terminus ex mente est; et ligna et lapides certam mensuram et terminos habent praeter mentem nostram, sed ex mente increata, a qua rerum omnis terminus descendit.

PHIL: Spiega come la mente fa il punto

IDIOTA: Il punto è congiunzione della linea con la linea o termine della linea. Quando dunque penserai la linea, la mente potrà considerare la congiunzione delle sue due metà. Se lo farà, la linea sarà di tre punti a causa dei due termini di essa e della congiunzione delle due metà che la mente si è proposta. I termini della linea e la congiunzione non sono diversi generi di punti. Infatti la congiunzione di due metà è anche il termine delle linee. E, se a ciascuna metà la mente attribuisce il suo termine, la linea sarà di quattro punti. Così, quante sono le parti in cui la linea pensata è divisa dalla mente, tanti saranno i termini di quelle parti, e di tanti punti sarà giudicata composta la linea pensata.

PHIL: In che modo la mente fa la linea?

IDIOTA: Considerando la lunghezza senza la larghezza; e la superficie considerando la larghezza senza la solidità; sebbene né il punto, né la linea, né la superficie possano essere così in atto, in quanto la solidità sola esiste in atto al di fuori della mente. Perciò la mente è misura e termine di ogni cosa; e il legno e la pietra hanno misura certa e termini, sì, al di fuori della nostra mente, ma li ricevono dalla mente increata, da cui discende ogni termine delle cose.20

Il ruolo attivo della mente sembra quello di costruire e ordinare le forme astratte procedendo dal corpo extramentale a isolare il solido, la superficie, la linea e il punto. Tuttavia nel quid pro quo della battuta finale, dove il discorso scivola dalla forza misurante estrinseca, conformativa della mens umana a quella intrinseca, formativa della mens divina, Cusano introduce un elemento che scompiglia progressivamente lo schema finora posto. Dopo aver parlato della mente divina che termina ogni cosa anche al di fuori della nostra mente attraverso il numero, Cusano inizia a suggerire quel rapporto intrinseco e produttivo tra la mente e gli enti matematici che va ben al di là della mera «astrazione di forme inseparabili». Nella necessitas complexionis, dice Cusano, è complicato anche il «numero divino» da cui origina la misura reale di tutte le cose e ciò induce Cusano a invertire — per similitudine — l’ordine ideale degli enti geometrici e con esso l’intera struttura del mondo matematico nella nostra mente: e a questo punto, secondo lui, è necessario dire che il punto complica la linea, la linea la superficie etc. Ecco che improvvisamente, il fatto che il punto sia «termine» della linea assume un significato speculativo ben diverso da quanto visto prima:

Linea itaque est puncti evolutio et superficies lineae et soliditas superficiei. Unde si tollis punctum, deficit omnis magnitudo; si tollis unitatem, deficit omnis multitudo. […] Punctare enim est rem ipsam terminare: ubi autem terminatur, ibidem perficitur. Perfectio vero eius est ipsius totalitas. Unde punctus est terminus lineae eius totalitas ac perfectio, quae ipsam lineam in se complicat, sicut linea puncutm explicat. […] Idem est […] in omnibus complicationibus. Nam motus est explicatio quietis, quia nihil reperitur in motu nisi quies. Sic nunc explicatur per tempus, quia nihil reperitur in tempore nisi nunc. […] Multum proficit, qui ad complicationes et earum explicationes attente advertit: maxime quomodo complicationes sunt imagines complicationis simplicitatis infinitae, et non explicationes eius, sed imagines, et sunt in necessitate complexionis. Et mens prima imago complicationis simplicitatis infinitae vim harum complicationum sua vi complectens est locus seu regio necessitatis complexionis, quia, quae vere sunt, abstracta sunt a variabilitate materiae, et non sunt materiatliter, sed mentaliter.

La linea è lo svolgimento del punto, la superficie della linea e la solidità della superficie. Perciò se togli il punto, vien meno ogni grandezza; se togli l’unità, viene meno ogni molteplicità […] Porre il punto significa terminare una cosa: ma dove qualcosa è terminato, lì giunge a perfezione. La sua perfezione è perciò la sua stessa totalità. Quindi il punto è il termine della linea, la sua totalità e perfezione, che complica in sé la linea stessa, così come la linea esplica il punto. […] E lo stesso è in tutte le complicazioni. Il moto, infatti, è l’esplicazione della quiete, perché nel moto non si trova niente altro che quiete. Così l’ora è esplicata dal tempo, perché niente si trova nel tempo che non è l’ora. […] Molto si avvantaggia colui che considera attentamente le complicazioni e le loro esplicazioni, e, massimamente chi considera come le complicazioni sono le immagini della complicazione della semplicità infinita — «immagini», quindi, non «esplicazioni» — e sono nella necessità della complessione. E la mente, immagine prima della complicazione della semplicità infinita, abbracciando con la sua forza, la forza di queste complicazioni, è il luogo o la regione della necessità della complessione, perché le cose che sono veramente, sono astratte dalla variabilità della materia, e non sono materialmente, ma mentalmente.21

Ciò fa sorgere tutt’un ordine di problemi di non facile soluzione: in che senso le complicazioni sono nella necessità della complessione se questa necessità è inaccessibilmente nascosta nell’essenza divina? L’immagine prima della complicazione della semplicità infinita è la mens umana o l’aequalitas, il verbo, esso stesso definito necessità della complessione? Il fatto che le cose che «sono veramente» siano «astratte» dalla variabilità della materia, indica il loro stato ontologico di forme nell’intelletto divino o lo stato di enti razionali nel nostro intelletto? Quale che sia l’interpretazione di questo passo, non si tratta certo di una semplice «svista», per cui si predica equivocamente della mente umana ciò che pertiene esclusivamente alla mente divina e quindi si scambiano gli enti matematici astratti dal reale con i numeri e le forme prodotti dall’intelletto divino. L’unità, il punto, l’ora, la quiete, etc. sono ora altrettante immagini della complessione che trovano nella mente il loro luogo originario. Essi hanno un potere di complicazione che non possiedono in quanto semplici forme astratte dal sensibile. A questo punto si può certo dire che sia la mente a creare da sé questi concetti in quanto concetti primordiali, queste immagini della complicazione e in un modo che sembra contraddire la dottrina dell’astrazione.

Forse, però, prima di parlare di contraddizione bisogna riconoscere che nel testo cusaniano è in azione una struttura complessa (direi funzionante in due tempi) per cui il pensiero una volta giunto — a partire dai fantasmi attraverso le forme astratte — alla quiddità impenetrabile e semplicissima di Dio, opera una inversione e modifica l’ordine delle conoscenze muovendo da questo punto imprendibile che incessantemente lo genera. Come la mente vede attraverso la propria immutabilità l’immutabilità delle forme e trasferisce questa qualità alle immagini ricavate dal senso, così guardando alla propria semplicità originariamente complicante trasferisce ai propri concetti la forza della complicazione e ne muta intrinsecamente la natura.22 C’è quindi un piano dei concetti matematici «astratti» cui va sovrapposto però un piano ulteriore — cui la mente giunge discendendo dall’intuizione della coincidentia oppositorum — nel quale i medesimi concetti matematici sono come rigenerati dalla mente stessa, visti nella loro essenza dinamica e produttiva.

I sostenitori dell’interpretazione «forte» della gnoseologia cusaniana, non possono essere dunque accusati di distorcere il testo cusaniano. L’impianto stesso della filosofia di Cusano poggia su un concetto di creatività della mente che, per quanto concerne i fondamenti della matematica, eccede la teoria dell’astrazione aristotelica. La sintesi, la produttività della mens, però, andrebbe vista propriamente al livello appena descritto: come una discesa della mente dall’intuizione dell’infinito complicante, a partire dal quale i concetti di origine empirica ricevono un valore funzionale nuovo.

È però una sintesi ben strana quella che si esercita sulla via del ritorno dall’Uno. Essa solleva due ordini di problemi. (1) Il fatto che i concetti desunti dall’esperienza possano essere ordinati e sviluppati in forma sistematica secondo il nesso di complicazione (in una forma di corrispondenza non chiarita con la necessitas complexionis divina) non indica certo che la mente abbia originato quei concetti da sé; semmai essa produce la struttura stessa originaria della complicazione che precede e fonda tutti gli altri nessi di complicazione. (2) Per quanto contenutisticamente ricca e potenzialmente infinita questa attività sintetica della mente possa essere, essa non produce né la matematica né alcuna conoscenza più vera degli enti naturali, limitandosi ad offrire infinite variazioni sul tema della complicatio/esplicatio divina, variando cioè all’infinito quella che è l’unica certezza indiscussa della filosofia cusaniana: che Dio è altro dal mondo e che ogni realtà è complicata nell’essenza di Dio. Ciò è dimostrato dal fatto che le congetture fisiche e logiche che originano le arti liberali e il sapere «pratico» sul mondo non dipendono affatto da questo livello speculativo.

6. La mente conosce se stessa

È in tal senso, credo, che Cusano ritiene possibile riassumere questo discorso dicendo che astrarre significa «semplificare».23 Rispetto agli argomenti cosmologici e gnoseologici addotti occorre riconoscere l’ambiguità e la profonda stratificazione del concetto di «astrazione», una complessità irriducibile alla scolastica. Anche là dove la mente ha nominalmente ancora a che fare con le «specie intellegibili», Cusano non può che veder queste specie come prospetticamente tendenti all’unità e alla semplcità della forma formarum. Astrarre non significa in ultima istanza né tralasciare la materia per volgersi alla pura forma, né tralasciare in modo strumentale un qualche aspetto della cosa. L’astrazione è propriamente semplificazione perché la mente in ogni sua operazione (seppure con gradi diversi nel senso, nell’immaginazione, nella ragione e nell’intelletto) vede una semplicitas che è in azione tanto nelle cose quanto in lei stessa. L’Uno è ciò che è presupposto da ogni atto conoscitivo (finanche dalla semplice sensazione) ed è al contempo anche ciò verso cui ogni atto conoscitivo istintivamente si volge. Ciò detto, è anche chiaro che la sintesi di cui si parla nel caso della mens non è, e non potrebbe essere altrimenti, che il riflesso di una sintesi originaria che proviene da e torna all’Uno. In ogni suo atto la mente ritorna a se stessa, alla propria semplicità, solo per scoprire che questa semplicità non è sua. Questo ritorno a sé non può avvenire, infatti, che nella forma del misurare, ma la mente non può misurare sé: proprio per questo non si possiede

PHIL: Admiror, cum mens, ut ais idiota, a mensura dicatur, cur ad rerum mensuram tam avide feratur.

IDIOTA: Ut sui ipsius mensuram attingat. Nam mens est viva mensura, quae mensurando alia sui capacitatem attingit. Omnia enim agit, ut se cognoscat, sed sui mensuram in omnibus quaerens non invenit, nisi ubi sunt omnia unum; ibi est veritas praecisionis eius, quia ibi exemplar suum adaequatum.

PHIL: Mi meraviglio di come la mente, pur chiamandosi così dalla misura — come dici — sia spinta a misurare così avidamente le cose.

IDIOTA: Per attingere la misura di sé stessa. Infatti la mente è misura viva, che misurando le altre cose attinge la propria capacità [di misurare]. Tutto fa, infatti, al fine di conoscere sé, ma investigando non trova la propria misura nelle cose, se non dove esse sono uno; qui c’è la verità della sua precisione, trovandosi qui il suo esemplare adeguato.24

Ogni atto della mente è rivolta alla conoscenza di sé in quanto conoscenza dell’assoluto. Essa però si conosce muovendosi tra due poli: la dispersione infinita del mondo e la semplicità infinità dell’assoluto, senza che possa esaurire né l’uno né l’altro. Solo smisuratamente la mente può attingere la misura di sé, perché al di fuori di ogni misura e proporzione è ciò che l’ha originata: l’Uno. Ciò fa sì che il suo essere tabula rasa sia paradossalmente indice della sua perfezione piuttosto che di una sua costitutiva mancanza:

Mens est creata ab arte creatrice, quasi ars illa seipsam creare vellet, et, quia immultiplicabilis est infinita ars, quod tunc eius surgat imago […] Et quia imago numquam quantumcumque perfecta, si perfectior et conformior esse nequit exemplari, adeo perfecta est, sicut quaecumque imperfecta imago, quae potentiam habet se semper plus et plus sine limitatione inaccessibili exemplari conformandi — in hoc infinitatem imaginis modo, quo potest, imitatur.

La mente è stata creata dall’arte creatrice, come se questa volesse creare se stessa e, poiché l’arte infinita non è moltiplicabile, ne nascesse solo un’immagine […] Una immagine per quanto perfetta, se non può essere più perfetta e più conforme all’esemplare, è meno perfetta di una immagine imperfetta qualunque, che avendo la potenza di conformarsi sempre di più senza limitazione all’esemplare inaccessibile in questo imita l’infinità nel modo che le è possibile.25

Non si sottolinerà mai abbastanza come l’infinito, la pietra angolare di tutto il pensiero di Cusano, sia anche ciò che incessantemente ne mina le basi, che trasforma i suoi concetti, trasfigurandoli in una nuova luce. A questa nuova luce si volgeranno i suoi estimatori (tanto antichi quanto moderni: Bruno, Cassirer) e di fronte ad essa arretreranno i suoi detrattori. È questo carattere faustiano del pensiero cusaniano che lo avvicina tanto alla modernità e che risulta irriducibile all’orizzonte speculativo medievale. Solo se si riuscisse a darne una definizione rigorosa la disputa tra antichi e moderni nella critica cusaniana potrebbe trovare una soluzione. Ma è anche possibile che quel carattere, per sua intrinseca natura, si sottragga ad una tale definizione.


  1. K. Flasch, Nikolaus von Kues. Geschichte einer Entwicklung. Vorlesungen zur Einführung in seine Philosophie, Klostermann, Frankfurt a. M. 1998, p. 21. ↩︎

  2. Cfr. Michael Stadler, Rekonstruktion einer Philosophie der Ungegenstaendlichkeit. Zur Struktur des Cusanischen Denkens, Wilhelm Fink Verlag, Muenchen 1983, pp. 7 e sgg e, soprattutto, l’attenta ricostruzione di H. Benz, Individualität und Subjektivität: Interpretationstendenzen in der Cusanus-Forschung und das Selbstverstandnis des Nikolaus von Kues, Buchreihe der Cusanus-Gesellschaft, XIII, Aschendorff, Munster 1999. ↩︎

  3. N. Cusano, De coniecturis, in Nicolai de Cusa, Opera omnia. Iussu et auctoritate Academiae Litterarum Heidelbergensis ad codicum fidem editam, Meiner, Leipzig 1933 e sgg, vol. III, pp. 7-8. ↩︎

  4. »Der Gegenstand, auf den sie [die Anschauung] hinblickt, ist dem Geist immanent […] Der Charakter der Unendlichkeit ist von dem Gegenstand der Erkenntnis auf die Funktion der Erkenntnis übergegangen […] Das System der Erkenntnis löst sich in einen Inbegriff und eine Ordnung von Zeichen auf; die absolute Welt der Objekte bleibt ihm unzugänglich […] Intellekt als Modell und Musterbild alles empirischen Seins«. E. Cassirer, Das Erkenntnisproblem in der Philosophie und Wissenschaft der neueren Zeit, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt, 1923 (ristampa 1995), vol. I, pp. 28-37. ↩︎

  5. J. Hopkins, Nicholas Of Cusa On Wisdom And Knowledge, The Arthur J. Banning Press, Minneapolis, 1996, pp. 14 e sgg. ↩︎

  6. Cfr. Ibid., p. 19, p. 48 e p. 51: «Nicholas is both historically and intellectually closer to the epistemology of Albert Magnus and Thomas Aquinas than to that of Immanuel Kant and Georg Hegel. Nicholas’s thought is historically fascinating because of the fundamental real ways in which it veers from Thomas’s, not because of the fictively imagined ways in which it anticipates Kant’s». ↩︎

  7. Ibid., p. 47. ↩︎

  8. Cfr. ad esempio, Tommaso, S. Th., Iq a8. Qui Tommaso sottolinea come conoscere sia «misurare» ma anche come la cosa sia un ente intermedio tra il sapere di Dio che la crea e il nostro. Nessun idealismo, nessun fenomenismo, quindi. ↩︎

  9. N. Cusano, Idiota — De Mente, in Op. omnia, cit., Vol. V, p. 59. Per il modo in cui Cusano argomenta la «filiazione» dell’ uguaglianza dall’unità vedi: Teodorico di Chartres, Tractatus de sex dierum operibus, 35 e sgg. ↩︎

  10. Agostino, De trinitate, X 12; XII 14; XIV 8. ↩︎

  11. Cusano, Idiota — De mente, cit., p. 74 ↩︎

  12. Ibid., pp. 76-79. ↩︎

  13. Teodorico di Chartres, Glossa super librum Boethii de trinitate, II, 17-24. ↩︎

  14. Cfr. Aristotele, Metaph., E, 1, 1025b-1026 a 32. ↩︎

  15. Problema su cui invece insiste fortemente Aristotele. Cfr., ad es, Aristotele, Phys., B, 2, 193 b — 194 b; Metaph., B, 5, 1001 b 26 — 1002 b 11; M, 2-3, 1076 a 38- 1078 b 6 ↩︎

  16. Boezio, De trinitate, II. ↩︎

  17. Michael Stadler, Rekonstruktion, cit., p. 12. ↩︎

  18. Cfr. R. Klibansky, Corpus platonicum medii aevi, Londra, 1939. ↩︎

  19. N. Cusano, De theologicis complementis, in Op. Omnia, cit., Vol. X/2a, Opuscula II. Fasc. 2a, pp. 5-6. ↩︎

  20. N. Cusano, Idiota — De mente, cit., pp. 85-86. ↩︎

  21. Ibid., pp. 88-89. ↩︎

  22. E che sia davvero così è illustrato al meglio dal fatto che Cusano intendesse «rivoluzionare» la matematica a partire dal concetto di coincidentia oppositorum. Ad es. nei suoi tentativi di risolvere il problema della quadratura del cerchio la quadratura è considerata come possibile all’infinito e, a partire da questa possibilità già sempre data in atto, Cusano muove per trovare una soluzione rappresentabile attraverso il calcolo. Cfr. N. Cusano, De mathematica perfectione, 1-2, in Editio Argentoratensis 1488, vol. II pp. 490-498, nova editio: P. Wilpert, Berlino 1967, disponibile sul web all’indirizzo http://www.fh-augsburg.de/~harsch/Chronologia/Lspost15/Cusa/cus_math.html↩︎

  23. «Nota quomodo Albertus Magnus in libro suo de anima dicit quod abstrahere non sit nisi semplificare et in eodem libro et super Dionysio dicit mentem etiam a mettendo dici sicut et mihi videbatur, cum libellum de mente scriberem». N. Cusano, Sermo: «Non in solo pane», nota a margine (1455-1460), in Op. omnia, cit., Vol. XVIII/3, Sermones III. Fasc. 3, Praef., p. V. ↩︎

  24. N. Cusano, Idiota — De mente, cit., p. 89. ↩︎

  25. Ibid., p. 106. ↩︎