La filosofia e il suo altro. Adorno lettore di Hegel

1. Contro il metodo. Logik des Zerfalls

La filosofia e il suo altro. Questa frase esprime, in sintesi e in tutta la sua paradossalità, il contributo più importante di Adorno alla filosofia come disciplina. La filosofia e il suo altro: pensare, attraverso il pensiero, ciò che pensiero non è. Per Adorno il compito più importante che la filosofia deve prefiggersi è certo quello di pensare l’alterità e la differenza; tale assunto, per altro oggi pacifico ai più, assume in Adorno un aspetto tragico. All’interno della prospettiva adorniana, infatti, sembra quasi impossibile pensare radicalmente l’altro, sfuggire all’incantesimo che chiude il pensiero in se stesso. Ciò che venne visto come il carattere infinitamente positivo del pensiero dall’idealismo, il suo radicarsi nell’Identità, diviene in Adorno condanna, incapacità di uscire dalla gabbia che il pensiero tesse attorno alle cose. E tuttavia, questa la scommessa di Adorno, al pensiero, e solo al pensiero, è affidato il compito di salvare l’alterità radicale e, alla fine, di renderla possibile. Lo schema di questa possibile salvezza è curiosamente custodito tra le pagine del pensatore moderno che più di ogni altro è stato accusato di assoggettare la differenza ad un ordine violento ed onnipervasivo: Hegel.

Se si volesse riassumere drasticamente il debito di Adorno nei confronti di Hegel si avrebbe a disposizione una sola parola: quella “dialettica” che accompagnò il pensiero di Adorno dal libro sull’Aufklärung del 1941 fino alla fine della sua vita. Se ora volessimo illuminare in parte il modello adorniano di dialettica saremmo costretti a prendere in esame l’interpretazione che Adorno dà di Hegel in tutta la sua portata. Altrettanto importante, infatti, dell’eredità hegeliana nel linguaggio e nel modo di concepire la filosofia per Adorno è comprendere come e perché Adorno si distacca da Hegel proponendo uno schema alternativo di dialettica. Da un punto di vista strettamente gnoseologico la concezione adorniana della dialettica manifesta un profondo debito anche nei confronti di Kant, la sua teoria della conoscenza si muove costantemente tra questi due poli, riconoscendo — con Hegel — l’intreccio costitutivo di soggetto e oggetto e — con Kant — la persistente presenza di un residuo che impedisce al soggetto di ridurre a sé l’oggetto.

Il punto di fuga della lettura adorniana di Hegel sta senz’altro nel tentativo di leggere marxianamente la filosofia come prodotto sociale e non come un in sé; non si tratta, tuttavia, — sottolinea spesso Adorno — di una volgare sociologia della conoscenza, di un’applicazione estrinseca di categorie sociologiche al pensiero di questo o quel filosofo.1 Per Adorno è possibile decifrare i prodotti dello spirito come configurazioni di forze sociali oggettive, al di là, certo, dell’intenzione del loro autore ma sempre seguendo la logica ad essi immanente.

Tema cardine per comprendere il pensiero di Adorno è quello del passaggio (Übergang) dalla filosofia come ricostruzione del mondo alla critica sociale come autoriflessione radicale del pensiero su se stesso; l’idea di questo passaggio dalla filosofia al suo altro rappresenta, detto per inciso, il contributo originale di Adorno alla critica marxista nella misura in cui non si adagia sulla statica e comoda contrapposizione tra struttura materiale e sovrastruttura ma pretende di decifrare il testo a partire dalle sue premesse e leggere in esso la discrepanza tra autorappresentazione ideologica e Realtà.

2. Logica dialettica e logica della disgregazione

Non è difficile rintracciare nel lessico adorniano l’influenza di testi molto amati come la Fenomenologia dello Spirito o la Scienza della logica. Un rapido sguardo ai saggi di Adorno rivela un’abbondanza di termini come Negative, Widerspruch, Ganze e Prozess, termini che rimandano inequivocabilmente all’orizzonte speculativo hegeliano. Capire come questi concetti modellino e guidino il pensiero di Adorno è, tuttavia, ben più difficile. Com’è da interpretare, ad esempio, il rifiuto di Adorno di fornire una definizione positiva della dialettica?

Occorre subito dire che tale rifiuto non implica una fuga dall’urgenza di chiarezza e rigore metodologico, né vuole indicare una definizione di carattere superiore, sulla modello heideggeriano di una indicibilità originaria dell’Essere. Se non è un escamotage di un pensiero non scientifico, non per questo il rifiuto di chiudersi in una definizione diviene una definizione “particolarmente sublime”. Non è con domande generiche e formali che va impostata la domanda sullo status scientifico e filosofico della dialettica. Per Adorno la non definibilità della dialettica si basa invece su una questione di contenuto a cui il pensiero è condotto dalla propria logica immanente. Poiché la dialettica concerne il rapporto di soggetto e oggetto, il confronto insistito tra la cosa e il concetto, essa va ad intaccare il procedimento definitorio alla sua origine e ne svela i limiti.2 La dialettica, che certo non si identifica con categorie specifiche, non vuole essere nemmeno un metodo.

Di fatto la dialettica non è né soltanto metodo né qualcosa di reale nel senso dell’intelletto ingenuo. Non un metodo: infatti la cosa inconciliata, cui manca proprio quell’identità, che il pensiero surroga, è contraddittoria e si chiude ad ogni tentativo di una sua interpretazione. Essa, e non l’impulso organizzativo del pensiero, spinge verso la dialettica. Non un semplicemente reale: infatti la contraddizione è una categoria della riflessione, il confronto pensante tra concetto e cosa. Dialettica come procedimento significa pensare in contraddizioni in forza della contraddizione esperita nella cosa e contro di essa. Contraddizione nella realtà, essa è contraddizione contro questa. Ma tale dialettica non si può conciliare con Hegel. Il suo movimento non tende all’identità nella differenza di ogni oggetto dal suo concetto; piuttosto essa ha in sospetto l’identico. La sua logica è logica della disgregazione, nella forma costruita e oggettivizzata dei concetti, che il soggetto conoscente ha immediatamente di fronte a sé. La loro identità con il soggetto è la non verità. Con essa la preformazione soggettiva del fenomeno si insinua davanti al non identico, all’individuum ineffabile.3

In questo passaggio vengono sviluppati, seppure in forma sintetica, alcuni punti cardine di tutta la filosofia adorniana. Adorno sottolinea l’imprendibilità della dialettica («né metodo né qualcosa di semplicemente reale») e ribadisce la differenza tra la propria concezione della dialettica e quella hegeliana, insistendo sulla necessità di contrapporre all’identità la capacità di accogliere senza forzature il non identico. La definizione positiva, alquanto sorprendente, che Adorno fornisce del proprio pensiero è quella di Logik des Zerfalls, logica della disgregazione, una logica che, a differenza della logica dialettica — che procede identificando l’altro, rimuovendo costantemente la differenza attraverso il ritmico procedere di estraneazione e conciliazione —, riesce a pensare contro se stessa senza rinunciare a sé e, in tal modo, preserva la non identità. Pur tuttavia, tale logica è solidale con Hegel e ne raccoglie in più punti l’eredità tanto da definirsi essa stessa dialettica, organon, se ci è lecito dir così, di una dialettica negativa. Il modo in cui è articolato il rapporto tra logica della disgregazione e non identità genera la differenza specifica dalla logica dialettica hegeliana. Se in questo la dialettica di Adorno differisce da quella di Hegel, che cosa invece le accomuna?

Non sembra possibile, al di là dei cauti distinguo operati da Adorno, eludere la domanda sulla dialettica, sulla sua essenza, se ne ha una, e sul suo ruolo rispetto al pensiero in generale, alla filosofia e alla scienza in particolare. Se non vuole essere metodo in senso stretto, certo la dialettica è un modo di pensare, di articolare il pensato in modo difforme, ad esempio, dalla logica formale, vituperata da Hegel come pensiero “astratto”, intellettuale. Anzi, a voler cercare uno specifico della dialettica dovremmo cercarlo, probabilmente, nella negazione del principio di non contraddizione, il pilastro portante della logica classica. La dialettica è una logica sui generis che proprio nel confronto critico con la logica formale si determina. Adorno, che condusse una critica spietata al positivismo, alla filosofia analitica e al formalismo delle scienze della natura, fece di questa relazione il perno della sua concezione della dialettica.4 Tale relazione non è di natura oppositiva ma “correttiva”; proprio in quanto nega l’universalità del principio di contraddizione la logica dialettica non può semplicemente contrapporsi alla logica formale in modo esteriore. Ecco allora che l’apparizione di categorie dialettiche nel pensiero di Adorno non significa la presa di partito per una visione del mondo precostituita né per un metodo a priori. Fino a questo punto la concezione della dialettica adorniana non si distingue da quella di Hegel per il quale era già un compito immanente del pensiero quello di autocorreggersi nel corso del proprio sviluppo; proprio su questa capacità del pensiero Hegel fondava la pretesa di togliere e conservare la logica formale, di renderla parte del proprio sistema. Questo però fa sorgere immediatamente un problema rispetto al valore posizionale che le categorie dialettiche assumono all’interno del pensiero di Adorno e di quello hegeliano.

Come noto, le categorie della logica dialettica vengono elaborate da Hegel come momenti del procedere complessivo della Scienza della logica, solo all’interno di questo processo ricevono il loro significato specifico. A sua volta la Scienza della logica non è che una parte dell’intero sistema hegeliano, esposto in compendio dallo stesso Hegel nell’Enciclopedia delle scienze filosofiche del 1817. Il fatto che, a detta di Hegel, i singoli momenti del pensiero ricevano il loro senso solo alla luce dell’intero comporta, a rigore, l’impossibilità di strappare quei momenti al sistema in cui non sono semplicemente incastonati ma che ne genera, dall’interno, il meccanismo e il valore posizionale rispetto agli altri. Di questo avviso era, ad esempio, Horkheimer, senz’altro più cauto di Adorno nel riabilitare la filosofia hegeliana.5 Entrambi, tuttavia, sono convinti che proprio perché l’assunto di fondo dell’idealismo è falso — il mondo non si risolve interamente nella coscienza — il sistema che di quella identità di soggetto e oggetto è garante, si frantuma nelle sue componenti le quali costituiscono, pur ridotte allo stato di frammenti, delle analisi coraggiose e penetranti di fenomeni particolari (la dialettica servo-padrone, la critica della certezza sensibile, l’identità di essere e nulla astratti etc.).

Dovremmo però, a questo punto, distinguere i diversi livelli in cui è stratificata la logica dialettica hegeliana a seconda che le singole categorie vengano a comporre architettonicamente l’insieme del procedere logico-speculativo del sistema oppure operino ad un livello più generale diremmo, per ora impropriamente, metodologico. La logica è tripartita, come noto, nelle diverse dottrine dell’Essere, dell’Essenza e del Concetto. L’articolazione interna di queste dottrine, così come il sorgere di figure specifiche come la quantità, il fenomeno etc., è inscindibilmente legata al movimento del pensiero puro che, spinto dalla necessità del proprio procedere, costruisce l’intera impalcatura della logica di Hegel. All’interno di questo movimento complessivo operano concetti più generali come contraddizione, totalità e processo, che ricevono solo dall’intero una determinazione definitiva seppure compaiano all’interno del movimento speculativo fin dal suo sorgere, non però come presupposti inindagati ma come anticipazioni, la cui estraneità al movimento complessivo viene successivamente tolta dal compiersi del movimento stesso. Questo aspetto circolare del pensiero hegeliano fu presto criticato come inconseguenza rispetto all’esigenza espressa da Hegel di muoversi nel pensiero puro, privo di presupposti.6 Lo stesso dicasi per i concetti, fondamentali per il modo stesso in cui si articola il pensiero hegeliano, di mediazione e immediatezza. Anzi, si potrebbe considerare la distinzione tra Vermittlung e Unmittelbarkeit l’unico vero principio generale del pensiero hegeliano tanto che l’autore ne pose una trattazione preliminare all’inizio della sua logica, sia nella Wissenschaft der Logik quanto nell’Enzyclopädie. Seppure, tuttavia, il concetto di mediazione è talmente costitutivo per il filosofare hegeliano che è quasi un presupposto della sua comprensione, non per questo si riduce ad un principio ontologico e metafisico semplicemente dato, né si identifica con una astratta ed esteriore prescrizione metodologica. Mediazione è l’esigenza di pensare A e non A in unità, di pensare congiuntamente i poli della contraddizione.

Mediazione dunque non significa mai, in Hegel, come dopo Kierkegaard usa dipingersela il più fatale dei malintesi, qualcosa di mezzo fra gli estremi, perché la mediazione si raggiunge attraverso il passaggio fra gli estremi stessi come tali; questo è l’aspetto radicale di Hegel, incompatibile con ogni moderatismo. Ciò che la filosofia tradizionale spera di cristallizzare come stati ontologici fondamentali, non è — come egli dimostra — un deposito di idee discretamente contrapposte, bensì ognuna richiede il suo opposto, e il rapporto di tutte e ciascuna, l’una all’altra è il processo. Con ciò però il significato di ontologia si muta così radicalmente che sembra ozioso applicarlo più a lungo […] ad una cosiddetta struttura fondamentale, la cui essenza è appunto di non essere struttura fondamentale, di non essere hypokéimenon.7

Il concetto di mediazione viene espressamente definito da Adorno il “passaggio attraverso gli estremi”, in aperta polemica con l’interpretazione della dialettica come arte della mediazione in senso deteriore, capacità di tenere a bada le contraddizioni in una comoda, quanto impossibile, via mediana, mero prolungamento del buon senso.8 Solo quando il pensiero attraversa gli estremi può realizzarsi la mediazione. In tal senso, tuttavia, l’estremo viene attraversato dal pensiero come in sé, assoluto, chiuso in se stesso. “Per la coscienza” il sorgere delle figure dello Spirito è intrascendibile, l’orizzonte a cui si affaccia è, a tutta prima, insuperabile Questo riferimento alla coscienza trasforma totalmente il modo di intendere la contraddizione così come avveniva non solo nella logica formale ma anche nella metafisica prekantiana. L’assoluto contrapporsi delle idee e dei concetti non viene più automaticamente inteso come un contrapporsi di stati ontologici.

3. Ontologia, mediazione e processo

Se l’ontologia non ha mai saputo fare a meno del fondamento, risalendo fino all’universale, all’uno, al principio per un moto irresistibile in cui la differenza viene risolta, essa testimonia sempre, al contempo, la natura fallimentare di questa sua impresa. L’Assoluto deve essere assolutamente, altrimenti non è, ma in questa sua assoluta pretesa esso riproduce costantemente il finito e non riesce ad aver ragione di esso. «Aver ragione di x» qui sta a significare proprio sopprimere, annullare, rendere inesistente; ciò che l’Assoluto non è in grado di compiere e che costantemente lo rimanda al finito, come insegnò lo stesso Hegel parlando di “cattiva infinità”.9 “Quando si afferma un assolutamente primo, si parla sempre di un elemento — come suo correlato di senso — diseguale, assolutamente eterogeneo rispetto ad esso: prima philosophia e dualismo vanno insieme”.10

In Hegel l’intenctio obliqua, l’orientamento critico al soggetto proprio della filosofia moderna, è solo il punto di partenza di un’autoriflessione critica ancora più radicale. Come nella Fenomenologia la coscienza si trova di fronte e attraversa tutti gli stadi in cui la certezza del proprio oggetto viene da essa inconsapevolmente prodotta e articolata, così nell’Enciclopedia Hegel ripercorre le diverse “posizioni del pensiero rispetto all’oggettività”, ponendo vecchia metafisica, empirismo e criticismo come altrettanti stadi della coscienza filosofica, stadi di cui è necessario comprendere il senso di sviluppo e l’articolazione interna.11 La peculiarità del procedimento hegeliano è quella di porre di fronte alla coscienza contraddizioni che, in un primo momento, essa non riesce a risolvere e di indagare la natura di questo limite. Nel momento in cui il pensiero si trova di fronte la necessità di pensare così e non altrimenti, proprio lì esso si interroga sulla natura di questa coazione logica e ne spezza dall’interno l’apparente impenetrabilità. La domanda sulle condizioni di possibilità del sapere, sul trascendentale in senso kantiano, diviene domanda su limite del sapere, un domanda che oltrepassa costantemente questo limite. Le antinomie dialettiche che Hegel prende in considerazione vengono pensate, contrariamente a quanto avviene nella dialettica trascendentale kantiana, nel movimento del loro prodursi e smascherate come apparenti.12

Il processo diviene la parola d’ordine dell’idealismo. In Fichte, ad esempio, che mobilita l’io penso kantiano e il suo apparato categoriale nel movimento autoproduttivo dell’io puro. In Hegel, poi, che arriva a dinamizzare la stessa Wissenschaftlehre fichtiana iscrivendola nel movimento complessivo che abbraccia natura e storia nel farsi dello Spirito Assoluto. Questa vertiginosa vittoria della filosofia sui propri limiti o, se non altro, sui limiti che la riflessione kantiana aveva cercato di imporgli, si fonda — in Hegel — su un ripensamento radicale del rapporto tra forma e contenuto del sapere.

L’effettualità concreta stessa viene costruita mentre l’opposizione del contenuto alla forma viene afferrata dal pensiero e il contenuto contrapposto viene sviluppato, se così si vuole, dalla forma stessa. […] Così, appunto, le singole proposizioni fondamentali fichtiane perdono il loro significato ultimativo. L’insufficienza di un astratto principio fondamentale al di là della dialettica, donde tutto deve seguire, è riconosciuta da Hegel. Ciò che in Fichte costituisce l’impianto, ma non aveva svolgimento, diventa il motore del filosofare. La conseguenza della proposizione fondamentale nega contemporaneamente la proposizione e ne infrange la preminenza assoluta.13

L’impianto stesso della proposizione fondamentale — in questo caso A = A, l’identità assoluta — nega nella sua stessa forma il contenuto che intende veicolare. Il fatto che A compaia prima come soggetto e poi come predicato, che appartenga al senso stesso della proposizione la posizione della differenza anche nell’identità assoluta fa sì che la proposizione non stia quieta in se stessa ma si muova, procedendo incessantemente dal primo al secondo termine. Il vero contenuto della proposizione, che nel suo formalismo esasperato doveva essere il presupposto di ogni sapere, è la falsità della sua forma. Un contenuto, dunque, che rimuove la forma. In Hegel è la contraddizione a generare questo movimento di disvelamento il quale, a sua volta, toglie la contraddizione senza risolverla in un principio ultimo. Le determinazioni più astratte e vuote poste all’inizio della logica hegeliana (Essere, Nulla, Esserci etc.) sono anche le più generiche e formali che il pensiero possa produrre. È la loro stessa vuotezza a costringere il pensiero in contraddizioni e a produrre, in forza della contraddizione, un contenuto determinato. Di fronte ad Hegel, dice Adorno, porre la domanda dell’ontologicamente ultimo è un non senso o, al limite, un ricadere indietro rispetto al lavoro di “distruzione” dell’ontologia compiuto dallo stesso Hegel.14 Certo, è evidente in Hegel il tentativo di trasformare il fondamento non nel primum ma nel telos che sembra animare il pensiero verso un fine determinato. Il pensiero dialettico avanza costantemente, il rapporto tra forma e contenuto nel quale l’inadeguatezza della prima produce costantemente un avanzamento del secondo, fa in modo che il pensiero non possa fare a meno del decorso temporale per manifestare la propria verità. Non più, però, nella forma dell’inferenza logica che produce un risultato per il quale è indifferente il cammino compiuto. Adorno dice che, a rigore, non è possibile indicare in Hegel una distinzione tra “giudizi strettamente analitici e giudizi sintetici”15 poiché se è vero che il pensiero sembra possedere fin dall’inizio il risultato, è pur vero, che essendo la forma del pensiero nient’affatto accidentale, non si può strappare la forma in cui quello viene espresso dal senso di ciò che intende.

Il carattere dell’essere in sospeso le è intrinseco, in accordo con la dottrina che il vero non lo si afferra in nessuna tesi particolare, in nessun enunciato definitivamente positivo. In Hegel la forma è commisurata a questa sua intenzione. Niente si lascia comprendere isolatamente, tutto è solo nell’intero; con la penosa difficoltà che l’intero ha di nuovo la sua vita unicamente in quella dei suoi singoli momenti. Questa duplicità della dialettica si sottrae appunto all’esposizione letteraria: questa è di necessità finita, nella misura in cui asserisce in maniera univoca qualcosa di univoco.16

Questo genera l’inadeguatezza costitutiva dell’esposizione, la finitezza del testo rispetto all’intenzione. Ma l’intenzione stessa, verrebbe da dire, non trascende affatto il testo, non si costituisce oltre esso: gli è immanente. L’esposizione stessa è travaglio e corrisponde pienamente al contenuto.

Il processo, perciò, si costituisce come chiave di volta dell’intera metodologia idealista. Esso sembra capace di risolvere le contraddizioni accogliendole nel proprio seno, incorporandole al proprio movimento. Tuttavia la nozione di processo nell’idealismo e, soprattutto, in Hegel ha ben poco a che fare con le statiche dicotomie di vita e forma in Simmel. La natura peculiare del processo in cui si realizza l’Aufhebung delle contraddizioni non è pensabile nella forma del con-fluire ma in quella dell’intermittenza nella quale la continuità si realizza nella frattura. La natura del processo è intimamente aporetica;17 Hegel, lungi dall’accomodare l’aporia del divenire con formulazioni di comodo come l’istante metafisico platonico (l’exàiphnes) o il dinamismo vitalistico bergsoniano, riconosce nel succedersi logico di uno stadio all’altro, la vera natura del divenire. Ma fin dall’inizio questo procedere è intermittenza, rottura, improvviso rovesciamento; nient’affatto un comodo fluire. Come nelle melodie che sono un succedersi di stimoli sensibili che pur accadendo come eventi chiusi nei rispettivi intervalli spazio-temporali vengono colti come una totalità in divenire proprio in virtù della frattura che essi provocano nello spazio sonoro, il continuum e la rottura, non sono pensabili che nell’unità del loro reciproco rapportarsi.18

4. Aporie del sistema

Il desiderio d’identità è il principio motore della filosofia idealistica, e — secondo Adorno — di tutta la storia della filosofia. L’A = A che per gli idealisti era il cuore stesso di ogni sistema della ragione veniva, tuttavia, posto ancora da Fichte come principio primo, indubitabile e stabile di ogni riflessione. Il pensiero, riconoscendosi in quel principio, si fa forte del proprio potere di autoposizione e riceve da questa sua caratteristica immanente la propria apparenza di Assoluto. In quanto, però, il pensiero si autonomizza come atto puro, Tätigkeit, esso entra in contraddizione con la forma stessa del pensiero in generale che prevede l’incontro con l’alterità, nella forma dell’urto, della dissonanza, dell’inaspettato.19 L’idealismo che pure risolve tale alterità nel processo produttivo della coscienza non può però negare questo momento di immediatezza; esso, dall’interno del proprio presupposto dell’identità di soggetto e oggetto, accoglie tale momento come costitutivo dell’identità. Solo se l’identità riesce ad aver ragione della differenza può instaurarsi come tale e non sorvolando su ciò che le si oppone irriducibilmente. Ecco perché Adorno può ben dire che il “cominciamento” è del tutto indifferente al pensiero di Hegel.20 Tale sistema deve rendere conto dei particolari che lo costituiscono e non porsi al di sopra di essi. Leggendo attraverso questi particolari le fratture dell’intero è possibile opporre all’idealismo l’ipostasi dello Spirito. La critica immanente diviene, allora, capace di trascendere l’oggetto proprio perché e nella misura in cui questo oggetto si presenta come chiuso nella propria autarchia, fondato in sé e inattaccabile. La falsità di questa sua pretesa ne mostra costantemente i punti deboli.

Adorno non ha dubbi che la filosofia hegeliana, rettamente intesa, spinga oltre il sistema anche se questo appare, a tutta prima, una forzatura evidente rispetto alle intenzioni di Hegel. “Se si protesta, opponendo che così singole categorie e tesi dialettiche vengono preselezionate senza volerne sapere del sistema compiuto, che pure è per Hegel il solo a dover decidere di ogni singolo momento, si trascura che anche questo procedimento ha la copertura della sua intenzione”.21 L’alternativa, dunque, è tra un pensiero che “prepara” le contraddizioni in vista di una conciliazione finale già data e uno che, al contrario, affronta l’esperienza del pensare in tutta la sua lacerante contraddittorietà, senza alcun risultato garantito, senza nemmeno la certezza di giungere ad un risultato. Un’esperienza che le scienze trionfanti, con l’ossessione del cui bono, tentano continuamente di arginare e relegare a “letteratura”, gioco, chiacchiera non vincolante. Adorno rintraccia in Hegel un concetto di esperienza come Erfahrung — libera posizione del pensiero di fronte agli oggetti — ma è ben consapevole che Hegel non ha mai abbandonato l’idea che il pensiero possa cogliere il vero solo in un System der Wissenschaft. Esso deve oggettivarsi in un sistema scientifico della Verità. E questo è stato espresso a chiare lettere da Hegel a partire dall’importante scritto sulla Differenza tra i sistemi filosofici di Fichte e Schelling.

Solo in quanto la riflessione è in rapporto all’assoluto, è ragione, e la sua azione è sapere. Mediante questo rapporto scompare però l’opera della ragione, solo il rapporto sussiste ed è l’unica realtà della conoscenza; non c’è pertanto verità nella riflessione isolata, del pensiero puro, se non quella del loro annullarsi. Ma l’assoluto, poiché nel filosofare viene prodotto dalla riflessione per la coscienza, diviene con ciò totalità oggettiva, un intero del sapere, un’organizzazione di conoscenze. In tale organizzazione ogni parte è ad un tempo il tutto, poiché la parte sussiste in rapporto all’assoluto. In quanto parte, che ha fuori di sé le altre, è un limitato e limitato solo a mezzo degli altri; isolata come limitazione, essa è imperfetta, non ha senso e significato che mediante la sua connessione col tutto. Non si può quindi parlare di concetti singoli per sé, di singole conoscenze come di un sapere.22

Ancora più esplicito e radicale il rifiuto del pensiero «rapsodico» fatto nell’Enciclopedia.

Un filosofare senza sistema non può essere scientifico. Un tale filosofare, a parte il fatto di esprimere di per sé un modo di sentire più che altro soggettivo ha un contenuto accidentale. Un contenuto ha la sua giustificazione unicamente come momento del Tutto; al di fuori della totalità, invece, esso è un presupposto infondato oppure una certezza soggettiva. In tal senso, sono molti gli scritti filosofici che si limitano a esprimere modi di sentire e opinioni.23

Se nello scritto sulla Differenza l’idea di totalità del sapere è connessa all’impossibilità di esprimere l’assoluto come «proposizione fondamentale», come principio primo (critica a Fichte), nell’Enciclopedia, l’esigenza sistematica è legata all’accidentalità di contenuto da cui è affetta ogni osservazione parziale, rifiutata perciò come meramente «soggettiva» (critica all’intuizionismo romantico). Questa doppia giustificazione se riposa sulla comune critica dell’immediatezza, esemplifica la doppia strategia del filosofare hegeliano, quella volta alla determinazione progressiva del contenuto e quella attenta a non disperdere i risultati del pensiero ma a ricondurli in un ordine espositivo fondato in se stesso che solo può costituire una totalità del sapere. L’immediatezza assume due valori diversi, entrambi tacciati di accidentalità. Nel primo caso si riferisce alla forma in cui viene espresso il sapere speculativo. Nel secondo al contenuto dell’esperienza individuale avulsa da un contesto capace di guadagnarli l’universalità. Ma questa opposizione è, lo abbiamo visto, non dialettica. Forma e contenuto del pensiero sono per Hegel stesso inscindibili. Questo non conduce, secondo Adorno, all’esigenza di cristallizzare la forma del pensato in una vincolante struttura data una volta per tutte — il sistema — quanto al bisogno di riflettere criticamente e incessantemente sul modo in cui il pensiero si dà una forma per ogni contenuto specifico. La natura stessa di questa relazione tra forma e contenuto deve essere messa al centro della riflessione filosofica, divenire essa stessa “contenuto”. Che l’esposizione, come determinazione dello Spirito Assoluto che giunge a riconoscersi nell’Idea, possa essere qualcosa di «accidentale» è, stanti le premesse dello stesso Hegel, alquanto dubbio. L’espressione, non meno del contenuto concettuale, è subìto, non meno che agito, dal soggetto conoscente.24 L’aporia fondamentale della filosofia hegeliana alberga nel cuore stesso del suo Assoluto che è motore del filosofare stesso e non solo il prodotto finale, il suo caput mortuum. Ciò che lo Spirito produce inconsapevolmente manca di quel riflettersi-entro-sé che è il marchio di fabbrica del soggettivo per tutta la filosofia idealistica e, dunque, non è compiutamente Spirito. Pur tuttavia, persino nell’accidentalità della sua forma espositiva, il pensiero è necessariamente Spirito, il cui potere di penetrazione non si arresta di fronte a nulla e tutto pervade, forma e struttura dall’interno. L’accidentale, e dunque anche il sapere nelle sue forme astratte o persino deteriori, è Spirito in questo senso: come momento incosciente di un processo che conduce all’autotrasparenza assoluta, al suo autoriconoscimento. Perché lo Spirito giunga a sapersi, e compiersi come Spirito, è necessario che esso superi lo stadio del suo ottuso autoprodursi e, con un impensabile moto di decentramento rispetto a se stesso, possa cogliersi nell’atto di questo prodursi, come dall’esterno. Solo questo atto di identità con sé nell’assoluta differenza da sé coincide con l’autoriconoscimento dello Spirito come Spirito, la verità della proposizione: l’Assoluto è Soggetto. Tuttavia, un conto è pensare questo compimento, un altro è mostrarlo in modo rigoroso, riuscire a dirlo: partecipare allo stesso tempo al libero prodursi dello Spirito e al suo necessario riconoscersi. Questo aspetto contraddittorio è implicito nel tentativo hegeliano di costruire una filosofia dello spirito: mentre le espressioni inconsapevoli dello spirito fanno tutt’uno con esso, proprio il suo più alto momento, l’autocoscienza filosofica che lo fa pervenire a se stesso, rimane nell’ambigua condizione di dover esprimere lo spirito nella sua interezza, il che significa esserne sia inconsapevolmente travolti che tentare di descriverlo coscientemente nel sistema. Che il sistema, in cui tale antinomia è definitivamente tolta, ne divenga addirittura perfetta espressione è, allora, falso.

L’intera filosofia hegeliana è un unico impegno e sforzo di tradurre l’esperienza dello spirito in concetti. Il potenziamento dell’apparato del pensiero, che tanto volentieri si disprezza come un meccanismo costrittivo, corrisponde in proporzione alla violenza dell’esperienza da dominare. Ancora nella Fenomenologia Hegel poteva credere che questa esperienza si lasciasse semplicemente descrivere. Ma l’esperienza dello spirito non può essere espressa altrimenti che nell’atto in cui essa si riflette nella sua mediazione: in cui viene attivamente pensata. Non è possibile guadagnare una posizione che consenta indifferenza fra l’esperienza spirituale espressa e il medium dei pensieri. Il non-vero della filosofia hegeliana si manifesta precisamente nell’immaginarsi questa indifferenza come realizzabile grazie ad un adeguato sforzo concettuale.25

Inoltre, enfatizzando l’aporia metodologica cui la pretesa hegeliana conduce, il rilievo di Adorno colpisce anzitutto il processo di pensiero che, scisso internamente, in riflessione e composizione rischia perennemente di manipolare il suo oggetto a fini classificatori invece di seguirne da vicino la dinamica interna. La «vita» della pretesa identità costituisce, nel sistema, la conciliazione degli opposti nel momento speculativo. Il molteplice si produce in unità, un’unità che sorge attraverso la contraddizione e accoglie, custodisce il molteplice. Per fare questo il pensiero deve costringere il particolare a mostrarsi come altro-da-sé,26 a generare l’altro come implicato di senso e tramite questo movimento produrre il passaggio ad uno stadio speculativo ulteriore. Ciò che già nella Fenomenologia si manifesta è la natura ambigua o, quanto meno, duplice di questo passaggio. La neutralità dello sguardo fenomenologico non lascia pensare una differenza fra passaggi di «figure» e passaggi di «figurazioni» dello Spirito.27 Il momento in cui, direi, il passaggio logico diviene passaggio architettonico è impensabilmente al di fuori del processo dialettico poiché si costituisce come, allo stesso tempo, trovato e progettato. Svelare nell’analisi concreta dei singoli passi i momenti in cui l’intenzione hegeliana non ha mantenuto le sue promesse è il compito di una lettura corretta di Hegel.28 La scommessa hegeliana, una scommessa che Adorno prende sul serio, è quella della determinazione reciproca dei momenti. La totalità deve costituirsi per mezzo dei particolari e non al di fuori del loro concreto farsi. Adorno prende parte per l’aspetto inveniente della dialettica.29

Il sistema è, perciò, una forma a priori dell’esperienza. Assumendolo come idea guida, si dice che l’oggetto è sperimentabile e esprimibile come connessione totale, gradualità dei passaggi logici, in una parola, se ne postula l’identità col pensiero. «Il sistema non deve essere pensato in anticipo, non intende affatto essere uno schema che tutto abbraccia, bensì il centro di forza operante in modo latente nei singoli momenti. Questi debbono concorrere da sé, attraverso il loro movimento e la loro tendenza, a concludere in un intero che non è fuori delle sue determinazioni particolari».30La necessità, quindi, di muovere oltre l’immediatezza, delizia e croce di ogni pensiero intellettuale,31 spinge alla mediazione, al progredire della conoscenza nella costruzione di un Intero che, in quanto intero costituito dall’interno e non mero aggregato di parti, è l’unico che può corrispondere adeguatamente all’intuizione dell’Assoluto ed esprimerlo in maniera coerente, cioè, non antinomica. Ma questo intero, avverte Adorno, è tale solo nella sua realizzazione, nella sua esecuzione, non prima.

5. L’oggetto filosofico: priorità dell’oggetto e non identità

Il concetto di dialettica è strettamente connesso al problema soggetto/oggetto così come esso era stato impostato dalla riflessione kantiana, ovvero come problema del rapporto tra un costituens e un costituito, tra un io e un mondo il cui ordine viene letto come prodotto originario dell’azione formante e legislatrice di quello. Ora, dice Adorno, la questione del fondamento metafisico di questa relazione originaria tra soggetto e oggetto viene rifiutata radicalmente dall’impostazione idealistica o, almeno, questo è l’intento di Fichte, Schelling ed Hegel nel momento in cui si proponevano di proseguire e radicalizzare la battaglia kantiana contro la vecchia metafisica. La dialettica tra costituente e costituito non si placa nella posizione di un fondamento, fosse anche quello della contraddizione tra due principi originari. Problema fondamentale dell’idealismo e, per Adorno, chiave di volta di tutta la storia della filosofia, il rapporto tra soggetto e oggetto sfugge al semplice procedimento definitorio. Adorno sottolinea le particolari aporie che si incontrano nel tentare di determinare il rapporto fra soggetto e oggetto in un saggio incluso negli Stichworte del 1969.32

I termini sono notoriamente avvolti nell’equivoco. Così «soggetto» può riferirsi tanto al singolo individuo quanto a determinazioni universali, in conformità con l’espressione dei Prolegomeni kantiani di «coscienza in generale». […] Il momento dell’umanità individuale — chiamata in Schelling «egoità» — non è pensabile senza il concetto di soggetto: se non ci si ricordasse di ciò il soggetto perderebbe ogni significato.33

Essendo parte di una relazione, l’ambiguità del soggetto si estende anche al polo oggettivo; il senso stesso della scissione rimane problematico e irrisolto. Adorno accoglie questa scissione come un portato storico del linguaggio filosofico e tenta di aprirsi un varco ripercorrendo la genesi della frattura stessa. Richiamandosi alla Dialettica dell’illuminismo,34 egli pone l’esigenza — di fronte all’abisso che attualmente separa soggetto e oggetto — di riflettere a posteriori sul movimento storico che ha condotto alla crisi e alla frattura che oggi sperimentiamo come una condizione «naturale». Lo spirito è, nella prospettiva della Dialettica dell’illuminismo, il portato storico del processo di emancipazione dell’uomo dalla natura, della sua progrediente capacità di provvedere razionalmente alla riproduzione della vita, di uscire dalla penuria e dal bisogno e, dunque, del suo progrediente dominio sulla natura come tale. La natura non è, qui, solo il materiale esterno su cui si esercita lo spirito ordinatore dell’uomo, ma la stessa costituzione interna dell’essere umano che, costantemente soggetta allo sforzo e all’autocontrollo, raggiunge l’autonomia dello spirito solo nella forma dell’ubbidienza ad un principio superiore. L’io è questo principio superiore, il movimento di autoconservazione cui sono sottomessi tutti gli istinti e le abilità acquisite nel corso di millenni. Lo spirito sorge dalla sopraffazione della natura indomabile come principio di ordine; la sua libertà e inscindibile dalla coazione che esercita sulle forze centrifughe dentro e fuori di sé.

La scissione tra soggetto e oggetto è nel contempo reale ed apparente. È vera, perché, nell’ambito della conoscenza dell’effettiva scissione, della dissociazione della condizione umana, dà espressione a un che di necessariamente divenuto; falsa, perché la scissione, risultato di un processo in divenire, non dev’essere ipostatizzata, non dev’essere magicamente trasformata in un’invariante. Questa contraddizione della scissione di soggetto e oggetto si comunica alla gnoseologia. È vero che essi possono essere pensati come separati; tuttavia lo pséudos della scissione si manifesta nel fatto che sono reciprocamente mediati l’uno attraverso l’altro; l’oggetto attraverso il soggetto, e, più ancora e in un altro modo, il soggetto attraverso l’oggetto. La scissione diventa ideologia, addirittura la sua forma normale, non appena sia fissata senza mediazione. Allora lo spirito usurpa il posto dell’assolutamente autonomo, che esso invece non è: nella rivendicazione della sua autonomia si annunzia lo spirito sovrano.35

Non si tratta semplicemente di sottolineare l’inevitabile rimando di un termine all’altro, quindi. Anzitutto occorre sottolineare che la scissione è un divenuto, e quindi è posta, organizzata e vissuta in forma storica. L’accento sul carattere storico e cangiante della relazione pone un primo punto di riferimento all’analisi, sottraendo la relazione ad una descrizione neutra, invariante, ontologica. Fin d’ora possiamo osservare in che direzione si muove la dialettizzazione adorniana. Adorno sottolinea esplicitamente che «l’oggetto» è mediato «attraverso il soggetto» ma «più ancora e in un altro modo, il soggetto attraverso l’oggetto». Fin d’ora è possibile notare una asimmetria nel rapporto fra soggetto e oggetto. Questa asimmetria verrà più tardi definita da Adorno Vorrang des Objekts, priorità dell’oggetto.36

Il soggetto finito è, come disse Husserl, un frammento di mondo. Affetto esso stesso da relatività, non basta alla fondazione dell’assoluto. Esso presuppone già ciò che come ‘costituito’ kantiano dev’essere appunto esplicato dalla filosofia trascendentale. L’Io penso, la pura identità che gli idealisti post-kantiani amavano esprimere nella proposizione A = A, vale, di contro a quello, come puro nel senso enfatico kantiano, come indipendente da tutta la fatticità spazio-temporale. Solo così ogni esser-ci si lascia risolvere senza residuo nel suo concetto. In Kant questo passo non era ancora compiuto. Come da un lato le forme categoriali dell’Io penso abbisognano di un contenuto che le integri, non derivante da esse — affinché si renda possibile verità, conoscenza della natura — così d’altro lato l’Io puro stesso e le forme categoriali sono rispettate da Kant come una specie di datità.37

L’io che guarda è sempre anche mondo e non è possibile asportare dal suo concetto questo riferimento intramondano senza far entrare in cortocircuito il concetto stesso di soggetto. Anche la sua attività si esercita su un materiale che gli è dato. La sua stessa capacità di tornare a se stesso, la riflessione etc., ciò che dall’appercezione trascendentale kantiana allo Spirito Assoluto di Hegel costituisce il proprium del pensiero, si esercita sempre come perenne spiazzamento, decentramento dell’io rispetto a se medesimo. La riflessione gnoseologica adorniana produrrà a questo riguardo un assunto centrale: non è possibile pensare il soggetto senza porre l’accento sulla sua esistenza nel tempo. «L’io essente è implicato di senso perfino nel logico ‘io penso, che deve poter accompagnare tutte le mie rappresentazioni’, perché una condizione della sua possibilità è la successione nel tempo ed essa è tale solo se riferito ad un elemento temporale. Il ‘mio’ rimanda ad un soggetto come oggetto tra oggetti, e a sua volta senza questo ‘mio’ non ci sarebbe un ‘io penso’. L’espressione esistenza, sinonimo di soggetto, accenna a tali fattispecie».38 Solo una soggettività che producesse il materiale empirico da se stessa potrebbe superare l’antinomia fondamentale di una sensibilità al tempo stesso attiva e passiva. Per fare questo, tale soggetto dovrebbe svincolarsi dal tempo empirico per rifugiarsi in una temporalità immobile o assoluta. Eppure per quanto a noi è dato pensare un soggetto conoscente non possiamo immaginarcelo al di fuori del suo condizionamento empirico, l’unico che gli conferisce un carattere di individualità. Un soggetto da cui venisse estirpata l’individualità, la quale passa — come noto — per la rimemorazione e l’aspettativa, strutture di ogni temporalità particolare, non sarebbe affatto un soggetto, ma qualcosa di derivato, di depotenziato rispetto a questo.

Il risultato dell’astrazione non può mai essere reso assolutamente indipendente, contro ciò da cui fu derivato; poiché l’astratto deve rimanere applicabile a ciò che sotto di esso viene compreso, poiché deve essere possibile un ritorno, è anche sempre serbata in lui, in certo senso, la qualità di ciò da cui è astratto: sia pure nella massima universalità. Se quindi la “formazione” del concetto di Soggetto trascendentale o di Spirito assoluto non tiene conto della coscienza individuale, quale semplicemente spazio-temporale — onde si ottenne —, allora quello stesso concetto non si lascia più ritrarre. […] Fichte ha ipostatizzato l’Io ottenuto per astrazione, e in questo Hegel gli è rimasto legato. Ambedue hanno semplicemente omesso che l’espressione Io, il puro e il trascendentale come l’empirico e immediato, deve designare una qualche coscienza.39

L’identità, che è il perno metafisico e psicologico di questo potere dell’io, è un ritorno che, avvenendo concretamente nel tempo, è sempre costantemente un tornare all’altro da sé. I conti, tuttavia, non tornano. Questo assunto, la percezione di una sproporzione costitutiva tra la pretesa di identità del pensiero e il risultato del suo incedere reale, è il nocciolo del materialismo adorniano. Il momento empirico esprime la non identità all’interno del soggetto trascendentale, la persistenza di una irriducibilità che è costitutiva dello stesso meccanismo dell’identità.

L’Io assoluto fichtiano e hegeliano, come astrazione da quello empirico, può ben sopprimerne con tutta la radicalità possibile il contenuto; se però non fosse più anche ciò donde viene astratto, appunto Io; se si fosse completamente spogliato della fatticità coimplicata nel concetto di questo, allora non sarebbe neppure quell’essere-presso-di-sé dello spirito, quella dimora della conoscenza dalla quale, d’altra parte, dipende di nuovo la preminenza della soggettività nei grandi sistemi idealistici. Un Io che non fosse più, in nessun senso, Io e quindi facesse a meno di ogni riferimento alla coscienza individuata e con ciò, necessariamente, alla persona spazio-temporale, sarebbe un non-senso. […] L’analisi dell’assoluto soggetto deve riconoscere la irriducibilità del momento empirico, della non identità.40

Proprio il fatto che il soggetto è comunque momento, sia pure qualitativamente diverso, dell’oggetto gli permette di ricostruire quest’ultimo. A differenza dei metodi oggettivistici delle scienze naturali che ricorrono a procedure statistiche, definitorie, intersoggettive, nel tentativo di spazzar via l’arbitrio soggettivo e lasciar emergere l’oggetto, Adorno sottolinea che un tale modo di procedere è in realtà destinato a mancare l’oggetto, riducendolo alla griglia che il soggetto prepara di fronte a sé; trasformandolo quindi ancora una volta, per eccesso di zelo, nell’aborrita soggettività.41 In realtà simili scrupoli se costituiscono una necessità inevitabile da un punto di vista di una razionalità strumentale, sono messi sotto accusa da un concetto enfatico di esperienza, quale è quello adorniano. Non c’è bisogno di andare a cercare l’oggetto lasciandosi alle spalle una soggettività intesa come «fattore di disturbo». L’oggetto contrapponendosi al soggetto lo delimita da un lato internamente, come inconscio, materiale divenuto archetipico o atavico, dall’altro esternamente, come società, cultura, pensiero oggettivato. In entrambi i casi il soggetto viene attraversato, costituito nell’intimo dall’oggetto, da ciò che egli sperimenta da sempre come già dato, oggettivo, effettivo e che proprio per questo sfugge alla sua attenzione cosciente. Tutto questo costituisce l’ambito dell’irriflesso, dello spontaneo nel soggetto e, lungi da essere un fattore di disturbo, è l’unico punto di partenza adeguato per iniziare una ricerca dell’oggetto. Si potrebbe anzi dire che ogni «ricerca» è destinata a fallire perché l’oggetto è già là: si tratta di scioglierne l’apparenza consueta. Sia pure travestito dalle strutture invarianti e gerarchiche dell’identità, l’oggetto esperito è l’unica finestra sul non identico che è concessa al soggetto. Essendo egli stesso un momento di oggettività le sue mediazioni rifletteranno necessariamente qualcosa dell’oggetto.

La posizione chiave del soggetto nella conoscenza è l’esperienza, non la forma; ciò che in Kant si chiama «formazione», è sostanzialmente deformazione. Lo sforzo della conoscenza è in prevalenza la distruzione del suo sforzo consueto, la violenza nei riguardi dell’oggetto. La conoscenza dell’oggetto si avvicina all’atto nel quale il soggetto lacera il velo che tesse intorno all’oggetto. Ed è capace di compierlo soltanto se, in una passività senza paura, confida nella propria esperienza. Nei punti in cui la ragione soggettiva intuisce la contingenza soggettiva, traspare la priorità dell’oggetto; il quale trova il suo essere tale in ciò che non è riproducibile a componente soggettiva. Il soggetto è l’agente, non il costituente dell’oggetto; tale fatto ha anche una sua conseguenza per il rapporto fra teoria e prassi.42

È importante notare l’espressione usata da Adorno: «il soggetto è l’agente, non il costituente dell’oggetto». Come in precedenza aveva affermato che il soggetto non è un quid contrapposto in quanto tale all’oggetto, ma un come, ora Adorno ritorna sul carattere dinamico del soggetto.43 Ciò che Fichte aveva accoppiato, l’io come «atto» e «costituzione», Adorno separa. L’io è senz’altro «azione», la sua spontaneità e infinita capacità riflessiva spingono a considerarlo tale; esso trova, anzi, il proprio specifico esattamente in questo potere riflessivo. Ma l’io è agente non di sé, bensì dell’oggetto. Come la cultura, il dominio sulla natura, è in realtà ancora natura che si dilania in se stessa, così l’oggetto ritorna nel soggetto come voce dell’inconciliato, desiderio di pacificazione.44 Il potere riflessivo del soggetto è l’unica speranza di allentare il potere coercitivo dell’identità, la repressione del diverso. Nella misura in cui l’oggetto è il non identico espresso nel linguaggio dell’immanenza coscienziale, esso lancia il suo grido attraverso il soggetto proprio nel momento più proprio di questo, dove l’io si costituisce come autonomia assoluta: nella riflessione e nella mediazione.

6. Fatiche del Concetto. Hegel e Marx

È importante sottolineare che la critica della logica formale e del metodo non si trasforma in Adorno nell’apologia dell’intuizione, né nella fiducia nel valore conoscitivo della “poesia concettuale”.45 Il rigore, la stringenza, la capacità di penetrazione analitica del materiale sono elementi centrali nel concetto adorniano di dialettica e costituiscono proprio quei fattori che spingono la filosofia ad uscire da se stessa, a spezzare il cerchio chiuso delle sue connessioni immanenti. Con questo, dice Adorno, l’esigenza di rigore non diminuisce, semmai aumenta: si tratta di chiedere al pensiero di più e non di meno di quanto solitamente gli si chiede. Al contrario, è proprio l’esigenza definitoria che svilisce il pensiero ad atto amministrativo, catalogatore, meccanico. La capacità di classificare correttamente non viene negata, ma non si riduce il pensiero a questo; al pensiero è dato, allo stesso tempo, il compito di riflettere questa classificazione, le determinazioni opposte su cui si erge e di non sostare su di esse senza cercare di sciogliere la contraddizione che trova nei suoi oggetti. Il pensiero rigoroso che abbandona il formalismo e attraversa il materiale empirico senza classificarlo con griglie concettuali a priori, non per questo rinuncia alla fatica del concetto. Ma qui è in gioco il doppio senso che il termine Begriff assume nella filosofia prima e dopo Hegel. Il concetto come collezione delle note caratteristiche di un oggetto, il frutto dell’astrazione nel senso classico del termine, non coincide, come noto, con il Concetto hegeliano. Il Begriff hegeliano in quanto riflettersi dialettico delle determinazioni opposte e superamento delle contraddizioni nell’unità speculativa della Ragione (Vernunft) esprime, nella conciliazione finale, la definitiva soppressione della scissione di essere e pensiero, cosa e concetto (come prodotto del Verstand). L’impostazione scettica della dialettica adorniana, al contrario, non rinuncia al nominalismo materialistico che vede una perenne sproporzione tra la cosa e il concetto; tuttavia, non si tratta di una contrapposizione statica, predialettica tra il pensiero e la realtà. Il concetto per Adorno è ben più del morto prodotto di un processo di astrazione. Il concetto non esiste in sé ma solo nel medium del pensiero, come momento del giudizio dal quale non può essere estirpato a piacimento.46 La fatica del concetto, quindi, rimane in Adorno la necessità di articolare il pensiero al di là della definizione e del vuoto formalismo in cui termini vengono contrapposti dall’esterno senza penetrare il movimento che il pensiero compie in essi una volta che è costretto a pensarne fino in fondo le determinazioni essenziali. La fatica del concetto ha in Hegel il compito di risolvere l’oggetto interamente nella griglia della soggettività, di “aver ragione” del residuo; in Adorno è rivolta contro l’apparente inattaccabilità del pensiero, tentativo di allentare la morsa del concetto stesso. Infatti, la Differenza posta nel cuore dell’Assoluto, la sua lacerazione interna, è necessaria per Hegel al costituirsi stesso dell’Identità, poiché viene continuamente abbracciata dal pensiero, ricondotta all’unità. Se il pensiero come parte della totalità del Reale può, nonostante tutto, comprendere se stesso come parte e il Reale come totalità ciò significa senza dubbio, per gli idealisti, che esso stesso è questa totalità del Reale. "Che però non tutto l’Essere sia coscienza, non è contenuto come pensiero necessario nell’analisi del concetto dell’Essere, ma impone invece un freno alla compattezza dell’analisi.

Non si può negare che appartenga al pensiero di tessere continuamente le fila di questa totalità. Il punto sarebbe quello di concepire la totalità stessa come falsa, apparenza. Ogni qualvolta gli idealisti Fichte e Schelling si trovavano di fronte alla necessità di mostrare il fondamento del sapere o dell’identità di soggetto e oggetto si volgevano a quella forma performativa di verità che va sotto il nome di intuizione intellettuale. L’ossimoro non faceva che riproporre la contraddizione tra sintesi e identità, tra soggetto e oggetto, tra atto e fatto; esso indicava semplicemente che solo la realtà intuita in sé stessi dell’Io="Io" pone il fondamento e al contempo lo riconosce come già sempre posto. Esso, cioè, pone se stesso. Ma questa è una falsa inferenza. Adorno distrugge questa pretesa dell’idealismo, scardinando la sovrastruttura storica che genera l’apparenza del puro porsi dell’io in se stesso. Smascherando questa posizione come uno storicamente divenuto Adorno al contempo ne preserva l’apparenza come necessità illusoria. L’io, stante le premesse, deve apparire assoluto ma non lo è. Adorno indica nella determinazione reciproca di pensiero e società, soggetto e oggetto, la possibilità di svelare questa apparenza e facendo riferimento ad un concetto non meno aporetico, di cui però mostra il contenuto di possibilità in un dato reale con un procedimento che non si discosta molto dalla verità performativa degli idealisti, salvo il fatto che essa non è più custodita nell’io ma nell’intreccio stesso tra io e non io. Ci riferiamo al concetto di totalità antagonistica.47 Essa si costruisce come un ossimoro, tanto quanto l’intuizione intellettuale. Ma il suo contenuto sembra essere connesso alla possibilità stessa della storia umana. La totalità antagonistica ospita in sé due intuizioni fondamentali che si trovano unite nel processo materiale della società: 1) Nonostante gli antagonismi la società tiene, si organizza in unità, il singolo è momento di un tutto che funziona 2) In forza di tali antagonismi questo tutto è costantemente spinto in avanti secondo un susseguirsi ininterrotto di rapporti di dominio e sistemi di produzione diversi. Qui ci basta osservare come il valore teoretico del concetto di totalità sia inscindibilmente connesso con quello politico fin dalla speculazione idealistica che voleva il soggetto già conciliato con l’universale anche da un punto di vista pratico. Anche Hegel soggiace all’incanto di questa sicurezza preventiva dell’indagine idealistica. Ciò avviene nonostante l’enfasi posta da Hegel sul Non-io, sulla razionalità effettiva, mondana, storica, che caratterizza la sua filosofia ben più dell’idealismo di Fichte e Schelling.

L’autoriconoscimento dell’Io nel Non-Io, dello Spirito nella Storia, somiglia al dischiudersi delle cose dall’interno. Adorno ha sottolineato l’eccedenza dell’Io fichtiano rispetto a quello kantiano, lo spalancarsi in esso di una diversa epoca dello spirito in cui lo stesso Spirito diverrebbe, per la prima volta, una realtà evidente e indagabile.48 “Spirito è l’essenza del mondo o l’essenza della realtà nella misura in cui essi sono passati attraverso la specifica esperienza spirituale del singolo individuo umano. In quanto sono stati attraversati dallo spirito, il mondo o la realtà vengono in certo modo illuminati dall’interno”.49 Quest’idea verrà ribadita nella Dialettica negativa. Per la teoria critica, la quale nega l’assunto idealistico che pone lo spirito come il “tutto”, l’assunzione dello spirito come “etere” in cui si muove il pensiero rimane però centrale; non più nel senso che lo spirito si identifica immediatamente col movimento del reale ma nel senso che la storia concreta si manifesta in modo immanente nei prodotti dell’attività umana, in senso lato, spirituali. Pur non costituendo un processo lineare o continuo, la storia si riversa prepotentemente nei fenomeni che ricevono da essa la propria legalità interna, cui si volge il pensiero nel tentativo di svelarne dall’esterno i nessi e le relazioni significative. L’interno delle cose è l’inviluppo del movimento storico della loro costituzione. L’interno è «esteriore», la chiusura degli oggetti «apparenza», mero riflesso dell’Identità.

L’oggetto si apre ad un’insistenza monadologica, che è coscienza della costellazione in cui esso sta: la possibilità di penetrare nell’interno richiede quell’elemento esteriore. Tale universalità immanente del singolo è però oggettiva come storia sedimentata. Essa è in lui e fuori di lui, un elemento che lo avvolge, in esso ha il suo posto. Cogliere la costellazione in cui sta la cosa equivale decifrarla come quella che lo porta in sé come divenuto. Il chorismos di esterno e interno è da parte sua determinato storicamente. Soltanto un sapere, che ha presente anche la collocazione storica dell’oggetto nel suo rapporto con altri, è in grado di liberare la storia nell’oggetto: attualizzazione e concentrazione di qualcosa di già saputo, che lo modifica. La conoscenza dell’oggetto nella sua costellazione è conoscenza del processo accumulato in esso.50

A ben vedere, quindi, il tratto progressivo del pensiero di Hegel, l’insistenza sulla forza del pensiero, sulla sua capacità di dischiudere l’essenza delle cose, si salda, secondo Adorno, alla mistificante concezione del soggetto-oggetto, dell’Identità dello Spirito Assoluto. Proprio perché l’Assoluto, che è Spirito, si manifesta attraverso la mediazione che tutto attraversa e costituisce dall’interno, allo spirito è garantita la possibilità di riconoscersi nel reale, di leggerlo come dotato di senso. Ma questa pretesa non viene contraddetta dalla teoria critica allo scopo di far piombare il pensiero nell’impotenza; come a dire che poiché esso non è il tutto allora è nulla. Già Marx aveva offerto il modello di un possibile rovesciamento hegeliano che trasformava la sua verità in una verità critica. Esso si basava sull’assunzione che l’uomo realmente produce la propria realtà sociale ma non esclusivamente come spirito quanto, originariamente, come lavoro.

Hegel si accosta tanto più al naturalismo sociale quanto più, anche in sede di teoria della conoscenza, pratica l’idealismo; quanto più egli insiste, contro Kant, a comprendere concettualmente gli oggetti dall’interno. L’affidamento dello spirito, che il mondo «in sé» sia lui stesso, non è soltanto la ristretta illusione della sua onnipotenza. Esso si nutre dell’esperienza che nulla esiste al di fuori di quanto è prodotto dell’uomo, niente che sia indipendente dal lavoro sociale. Anche la natura apparentemente intatta, non tocca dal lavoro, si determina tale attraverso il lavoro ed è perciò mediata.51

La cosiddetta “natura intatta” è solo un’astratta esteriorità rispetto all’attività umana, è il sostrato necessario del lavoro e come tale è iscritta in una relazione storicamente mutevole col concetto di cultura. Il motivo della dipendenza reciproca di natura e lavoro, che Marx fece valere, da ultimo con insistenza, nella Critica al programma di Gotha,52 e l’intera critica post-hegeliana alla preponderanza non dialettica del soggetto nello Spirito Assoluto, si trovano, per Adorno, già in Hegel seppure come momenti irriflessi. «Lo Hegel della Fenomenologia — per il quale a differenza di quello posteriore la coscienza che lo spirito fosse vivente attività e la sua identità col reale soggetto sociale non suscitava tanta perplessità — ha riconosciuto, se non nella teoria certamente nel suo linguaggio, lo spirito spontaneo come lavoro».53 Il lavoro del filosofo non sarebbe che una forma derivata dell’attività vitale, di quel ricambio ciclico uomo-natura che rappresenta, per Marx, la condizione stessa della riproduzione della Vita. Anche in questo Hegel avrebbe anticipato la critica marxiana, nell’aver compenetrato la propria filosofia con l’essenza stessa del processo lavorativo, sebbene trasfigurandolo.

La congiunzione, al centro della dialettica, dei concetti di desiderio e lavoro, svincola quest’ultima dalla mera analogia con l’attività astratta dello spirito astratto. Il lavoro, in senso pieno, è in effetti legato al desiderio, che esso di nuovo nega: il lavoro soddisfa i bisogni degli uomini in tutti i loro gradi, soccorre alla loro distretta, riproduce la loro vita, e in ciò richiede loro rinunce. Anche nella sua figura spirituale il lavoro è ancora un prolungamento del braccio, per approvvigionare di mezzi di sussistenza, nient’altro che il principio del dominio sulla natura reso indipendente e pertanto estraniato al suo sapere di sé.54

L’idea che il pensiero sia un prodotto dell’attività vitale dell’uomo dovrebbe ricondurre il pensiero alla sua origine sociale, come momento della divisione del lavoro, e costituisce un ulteriore punto di attacco all’idealismo nel momento in cui costringe a pensare l’essenza del lavoro, anche di quello “spirituale”, come necessariamente legato ad un sostrato materiale. Il lavoro, l’attività in genere, non possono essere pensati al di fuori della relazione con un elemento passivo che di tale attività è il correlato di senso; il pensiero, come sublimazione dell’attività produttiva dell’uomo, non si comporta diversamente. Esso si riferisce sempre a tale sostrato materiale come condizione del suo operare, condizione che esso trova sempre già date fuori di sé. Come Marx, nella citata Critica al programma di Gotha, sottolineò l’importanza della Natura nel processo di produzione della ricchezza contro l’apologetica borghese che riduce la ricchezza a frutto netto del Lavoro,55 così Adorno ribadisce che anche nella sua trasfigurazione filosofica il Lavoro viene concepito astrattamente come «fonte di ogni ricchezza», quasi potesse produrre da se stesso l’intero valore d’uso dei suoi prodotti speculativi.

Se fosse lecito speculare sulla speculazione hegeliana si potrebbe formulare il sospetto che nell’amplificazione dello spirito a totalità sia da riconoscere la conoscenza messa sulla testa; che lo spirito non sia affatto un principio isolato, non sia affatto una sostanza bastante a se stessa, ma un momento del lavoro sociale, quello separato dal lavoro corporeo. Ma il lavoro del corpo rinvia necessariamente a ciò che esso non è, alla natura.56

L’esperienza, come lavoro del concetto, è pensabile nell’apertura all’Altro. Ma intanto essa è conoscenza, in quanto — e qui sta il momento di verità nella filosofia kantiana — non produce essa stessa questo altro, riducendolo così a mera parvenza e riducendo, così, se stessa a tautologia. Per riconoscere ciò Hegel avrebbe dovuto rinunciare all’Identità Assoluta, far assumere alle idee di totalità e di sistema, parallelamente a quanto accade in Adorno, una funzione critica. Esse sviluppano il concetto di un intero che costituisce le sue parti, riproducendo a livello teoretico e in maniera del tutto autonoma, il processo di integrazione sociale. Ma il fatto che questa integrazione fallisca, che il particolare non è conciliato con l’universale, si manifesta con tanta maggiore evidenza quanto più l’identità viene affermata come assoluta.

Non è un caso quindi che Hegel, in cui l’idea di totalità ha ancora una valenza positiva, abbia potuto condurre analisi che portano in sé il germe della critica futura «se pure ancora in una forma estraniata».57

7. Totalità e sistema: dalla teoria alla teoria critica

La forza del pensiero dialettico in Adorno è proprio l’insistenza sulla totalità, la caparbietà nel cercare di tessere la trama dei particolari che l’esperienza scientifica rimanda mutili e frammentari al pensiero. Ma lo sguardo rivolto alla totalità non si rinchiude in un olismo metafisico, non indica il tutto come un immediatamente dato. Il concetto di totalità è critico e non positivo. Quando in Germania esplose la disputa sul positivismo questo aspetto fu ribadito fortemente da Adorno.58 In senso generale, un concetto è critico quando rappresenta un’antinomia che il pensiero non riesce ancora a superare. In altri termini: esso è costretto dallo stadio attuale della coscienza a imbattersi in una contraddizione lacerante che non gli è dato sciogliere senza intervenire attivamente sul processo reale che ingenera quell’aporia del pensiero. Risolversi per un corno o l’altro del dilemma oppure gettare alle ortiche il problema perché inesistente rappresentano altrettanti modi per non risolvere l’aporia. Concetti come quelli di sistema, di totalità o, più concretamente, di ragione, di società, di individuo rappresentano proprio antinomie di questo tipo. Il pensiero si trova di fronte parole che veicolano contraddizioni stridenti, contraddizioni che risiedono, secondo la teoria critica, nel modo stesso in cui è organizzata la società e, conseguentemente, nel modo in cui tale organizzazione si riflette nell’ordine del pensiero, nel modo in cui l’ordo rerum struttura l’ordo idearum. Il tentativo della filosofia analitica di ricondurre le questioni metafisiche a battaglie di parole cui una sana analisi logica potrebbe mettere fine è falso nella misura in cui non riconosce nel linguaggio un fatto essenzialmente sociale. L’abbandono della parola “stregata” può far dimenticare un problema, certo. Non per questo, tuttavia, il problema diviene realmente ininfluente, ovvero, smette di produrre effetti sociali.

La totalità è l’illusione che il pensiero costantemente e inevitabilmente produce di potersi acquietare in uno stabile possesso e che si riflette anche, negativamente, nel particolarismo sfrenato della scienza scatenata. Questo particolarismo non è che un rifiuto della totalità; in quanto tale esso porta stampato in volto quella totalità da cui fugge impotente e che ingenuamente riproduce. Hegel, apologeta dell’esistente, mantenendo lo sguardo fisso su quell’intero che, come un ens realissimum, struttura fin nell’intimo ogni realtà, è più vicino al vero di quanti, per amore verso il particolare, rifiutano di pensare l’intero e, così facendo, lo lasciano intatto. La teoria critica riabilita il Geist hegeliano per il suo potere illuminante e non mitologico, per la forza con cui costringe a pensare rigorosamente l’intero invece che abbandonarlo alla vaga intuizione. Sua caratteristica immanente è la trasparenza, la “penetrabilità”.59 Esso attraversa ogni realtà e la costituisce come intima possibilità di riconoscimento e di razionalità.

Esso non viene posto in contrasto assoluto con un non-spirito, con un materiale; in origine esso non è una sfera di oggetti specifici, quella delle posteriori “scienze dello spirito”. Esso sarebbe, piuttosto, illimitato e assoluto: perciò esso è detto in Hegel, espressamente, quale erede della ragion pratica kantiana, libero. Secondo la determinazione dell’Enciclopedia esso è però “essenzialmente attivo, producente”, così come la ragion pratica kantiana si distingue essenzialmente da quella teoretica appunto per questo: che esso produce il suo “oggetto”, l’azione. […] In quanto, però, produrre e fare non sono più contrapposti alla materia, come prestazione meramente soggettiva, ma sono invece investigati da Hegel negli oggetti determinati, nella effettualità oggettiva, Hegel arriva vicinissimo al segreto che si nasconde dietro l’apparenza sintetica del concetto astratto. Ora ciò non è altro che il lavoro sociale.60

La miseria della filosofia (non solo hegeliana) è l’incapacità di avere un sapere “reale”, la tendenza a trasformare la verità, pur intuita, nel suo opposto. Nel rovesciare la dialettica hegeliana Marx ricorse alla famosa costituzione dello Stato nei Lineamenti di Filosofia del diritto. Anche Adorno torna, non a caso, su quel passo famoso. Dice Adorno: “per Hegel la società civile è la totalità antagonistica” ma questo antagonismo è, in Hegel, già risolto nell’esistenza dello Stato; il fatto che lo Stato tenga sotto controllo la ferocia distruttiva delle dinamiche sociali rappresenta il sogno di una conciliazione già avvenuta. La conciliazione è inscindibile dal sistema essa garantisce in Hegel la coincidenza tra il tutto e le parti.61 È, deve essere, reale. L’utopia cui Adorno fece costante riferimento nega questo presupposto. Essa spinge a pensare la conciliazione come un “da compiersi” e, facendo questo, distrugge l’esigenza del sistema dall’interno: perché non c’è conciliazione il sistema non può esistere. Se non quello dell’orrore in cui il particolare è asservito all’universale. In questa coazione del particolare balena l’idea adorniana di libertà: libertà è possibilità di sciogliere il cappio, liberare la forza del molteplice e costruire da questo l’uno.

La dialettica negativa che cerca di destare l’Altro al pensiero nel momento in cui lotta contro l’identità si mette dalla parte di ciò che è stato per millenni represso e rimosso: la natura. Tuttavia, il modello attraverso cui il pensiero afferra l’alterità è contraddittorio. La differenza assoluta è proprio quella che lo spirito, qualcosa di storicamente divenuto, pone tra se e la natura. L’Altro è, nella forma astratta della contrapposizione ontologica, proprio lo spirito estraniato, che si pretende al di là e cancella l’immagine dell’altro modellandola su di sé, sul suo rapporto ad una natura supposta come un “fuori”. Ecco perché la dialettica negativa non cerca l’altro come un positivo ma lo coglie laddove al pensiero la conciliazione non riesce, laddove esso fallisce e sperimenta l’antinomia irriducibile del proprio desiderio di assolutezza. Rendere nullo l’altro è il desiderio del pensiero di trovarsi “a casa propria” in tutte le cose. Il sistema era la massima espressione di questa totalità conciliata in cui la differenza era esorcizzata. Questo annullamento, tuttavia, non riesce: la conciliazione fallisce e di fronte alla contraddizione reale che il pensiero sperimenta si impone di nuovo il compito di pensare l’alterità senza distruggerla.

Se il sistema è modello della società è però vero anche il contrario. All’interno della relazione Universale e Particolare così come si impone al pensiero nell’epoca del tardo capitalismo (che Adorno definì “mondo amministrato”) non è possibile pensare altrimenti la reciproca determinazione di individuo e società; essi rimangono due realtà irriducibili, in costante tensione reciproca. La scissione insanabile tra individuo e società si ripercuote, a livello di elaborazione teorica di un modello capace di comprendere la relazione tra i due, nella divisione del lavoro scientifico, da ultimo nel difficile rapporto tra psicologia e sociologia. Se la filosofia nell’analisi della coscienza in sé è risospinta verso il contenuto empirico che inerisce a tale coscienza come sua conditio sine qua non e, dunque, alla psicologia e alla sfera del corporeo, così la psicologia — e, segnatamente, la psicanalisi di impostazione freudiana condivisa da Horkheimer e Adorno — viene sospinta necessariamente, se non vuole trattare di un’individualità astratta e isolata — verso l’indagine storica e sociale (come lo stesso Freud tentò in parte di fare in Psicologia di massa e analisi dell’Io e in opere come Il disagio della civiltà). Il pensiero, come si vede, è costantemente sospinto oltre i limiti che esso stesso, per comodità, traccia all’analisi. Così come non è possibile trattare l’individuo senza essere sospinti dall’analisi al medium della società, una grandezza che fenomenologicamente esula dai compiti della psicologia e spinge a trattare il fenomeno società come un in sé, allo stesso modo l’essere sociale non è qualcosa che possa essere trattato in modo ontologico, una sorta di astratto “essere-con”. Le categorie che cercano di afferrare il contenuto ontico di questo essere sociale (marxianamente: i modi di riproduzione della vita), costringono all’analisi specifica attraverso il medium della Storia.

Il meccanismo teorico che vede questi campi del sapere in costante relazione l’uno con l’altro è qualcosa di profondamente diverso dalla giustapposizione di sfere precostituite e accettate come tali, dalla soluzione armonicistica di problemi parziali così come viene tentata, a detta di Adorno, nella sociologia di Talcott Parsons.62 La teoria critica, quindi, tenta costantemente il passaggio dalla filosofia ad una sociologia dialettica in cui la divisione di sociologia e psicologia venga riflessa nella teoria stessa e non semplicemente presa per buona.

L’ideale dell’unificazione concettuale, che è stato mutuato dalle scienze della natura, non può essere applicato senz’altro ad una società che ha la sua unità nel fatto di non essere unitaria. Se le scienze della società e della psiche procedono l’una indipendentemente dall’altra, cedono entrambe alla tentazione di proiettare la divisione del lavoro della conoscenza sul suo sostrato. La separazione di società e psiche è falsa coscienza; perpetua a livello categoriale la scissione tra il soggetto vivente e l’oggettività che governa sui soggetti, e tuttavia ne deriva. Ma questa falsa coscienza non può essere dissolta con un semplice decreto metodologico.63

L’uomo, come individuo socializzato, come irriducibilità della propria esistenza e come appendice di un apparato sociale che ne preforma i modi di agire e pensare, dettandogli costantemente l’orizzonte di possibilità di sviluppo, deve essere descritto come un “non ancora essente”. “L’uomo è un risultato, non un éidos; la teoria della conoscenza di Hegel e Marx giunge fin nell’essenza più intima dei cosiddetti problemi della costituzione. L’ontologia «dell’uomo» — modello della costruzione del soggetto trascendentale — è orientata verso il singolo individuo sviluppato, così come indica sul piano linguistico l’equivoco insito nell’articolo «lo» («l’»uomo), che designa tanto l’essere che appartiene alla specie, quanto l’individuo”.64

La teoria critica non è una antropologia filosofica ma una critica alle autorappresentazioni ideologiche che, in quanto tali, rivestono sempre di eternità, “naturalità” determinati rapporti sociali. Nella critica all’antropologia filosofica l’apporto di scienze sociali empiriche come l’antropologia culturale è essenziale. Certo, centrale rimane per Adorno la necessità di fare dell’antropologia culturale un’antropologia negativa, che si rifiuti, fedele allo scetticismo utopico che caratterizza la teoria critica, di racchiudere l’umano in una struttura invariante. Le dinamiche sociali che generano dall’interno non solo la prassi (nell’agire collettivo quanto in quello privato, individuale) ma anche la teoria (fin dentro le abilità percettive del singolo modellate, di volta in volta, sul modo storico in cui un mondo in generale si dà all’uomo), vengono altrimenti attribuite all’uomo come suo prodotto, momento della sua costituzione interna.

Non è possibile indicare cosa sia l’uomo. Quello odierno è finzione, non libero, regredito dietro tutto quel che gli viene messo in conto come invariante, fosse pure la miserevolezza improtetta di cui si nutrono certi antropologi. […] Ormai non basterebbe più una cosiddetta antropologia storica. È vero che essa comprenderebbe l’essere divenuto e l’essere condizionato, ma li attribuirebbe ai soggetti, prescindendo dalla disumanizzazione che ne ha fatto quel che sono […] La tesi dell’antropologia affermata, per cui l’uomo è aperto, è vuota (raramente manca uno sguardo di sbieco, maligno, all’animale); essa spaccia la sua propria indeterminatezza, il suo fallimento, per un determinato e positivo. […] Il fatto che non si possa dire cosa sia l’uomo non è un’antropologia particolarmente sublime, ma un veto contro ogni antropologia.65

L’uomo in quanto incastonato in un ordine ed un sviluppo sociale che ne determinano l’essenza storicamente mutevole non può essere letto che alla luce di questo sviluppo; ma questo non si riduce ad uno sterile passare da una forma all’altra. La possibilità di leggere nella storia una continuità, e dunque un senso, è legata alla persistenza del predominio della compagine sociale, come tutto, sui singoli; i quali, a loro volta, non fanno che riprodurre inconsciamente gli antagonismi sociali mai sedati. La storia diviene storia del dominio sotto le sue forme diversificate, dal sacrificio allo scambio, sullo sfondo di una progrediente razionalizzazione: «Non c’è una storia universale che conduca dal selvaggio all’umanità, ma certo una che porta dalla fionda alla megabomba».66 Leggere l’unità nella differenza della storia è il compito di una filosofia della storia sui generis qual è la Dialettica dell’illuminismo.

La teoria critica differisce dalla teoria tradizionale per il suo rapporto mediato alla prassi.67 In quanto teoria essa non si occupa direttamente dell’organizzazione sociale, ma si rivolge agli oggetti del pensiero, ai sistemi scientifici, alle istituzioni pedagogiche etc. In quanto critica, però, essa non accetta la forma in cui queste gli si presentano come definitiva o semplicemente data, ma si rivolge criticamente a quegli oggetti spezzandone l’apparente ovvietà. Essa non fa suo il dogma dell’utilità del sapere; ricettacolo di ciò che è stato lasciato indietro dalla razionalizzazione ufficiale essa salvaguardia l’esperienza del pensiero come precondizione di ogni intendere e di ogni produrre. Senza l’intelligenza l’intendere e il produrre assumono l’aspetto della follia manifesta e di un ottuso industriarsi senza scopo. L’organizzarsi dei sapere, la costruzione di una totalità critica, è resa possibile non da una teoria dell’uomo ma da una decisa avversione ad ogni classificazione dell’uomo in gabbie concettuali, storiche e metafisiche. La critica è il momento dell’incessante apertura del Reale (rispetto alla divinizzazione dell’esistente operata da Hegel e dalla filosofia tradizionale) ma esprime l’aporia che vede nel movimento della storia un procedere a un tempo meccanico e teleologico. In quanto rifiuta una lettura metafisica e trascendente della storia la teoria dialettica è costretta a cercare le cause immanenti che scatenano i processi epocali di trasformazione del mondo. In quanto tenta di leggere come dotata di senso la totalità dello sviluppo storico attraverso i concetti di razionalizzazione, di dominio etc. essa non solo afferma la possibilità di comprendere il presente alla luce del passato accumulato in esso ma anche di muoversi verso una meta futura, l’utopia marxiana della Frieden che accoglie, sviluppa e rilancia l’ideale kantiano della pace perpetua. Messa alle strette dalla logica la teoria critica sembra dover scegliere tra una teleologia messianica di stampo idealistico che tutto abbraccia o un materialismo gretto che si preclude ogni comprensione dell’esistenza empirica. Ma la soluzione è a portata di mano: proprio in quanto meccanico, cieco e violento il movimento della storia e della ragione nella storia appare teleologico e orientato verso il peggio. Il fine ultimo dell’umanità nello stato presente, l’afflato utopico che anima il pensiero di Adorno, non è progettare il paradiso in terra ma evitare la “catastrofe”.68 Verso di essa convergono tanto la prospettiva teleologica quanto quella meccanicista della Storia. Non c’è opposizione ma disarmonia prestabilita.


  1. Th.W. Adorno, Negative Dialektik, in Gesammelte Schriften, Suhrkamp Verlag, Frankfur am Main 1986, (d’ora in poi GS), Vol. 6, pp. 197-198. Le traduzioni delle citazioni sono tratte dalle edizioni italiane; abbiamo segnalato in nota i pochi casi in cui ce ne siamo discostati. ↩︎

  2. Th.W. Adorno, Zu Subjekt und Objekt, GS, Vol. 10-2: Kulturkritik und Geselschaft, pp. 741 e sgg. ↩︎

  3. Th.W. Adorno, Negative Dialektik, cit., p. 145. ↩︎

  4. “Il pensiero dialettico è il tentativo di spezzare il carattere coattivo della logica con i suoi stessi mezzi”. Th.W. Adorno, Minima Moralia, GS, vol. 4, p. 171. ↩︎

  5. M. Horkheimer, Hegel und das Problem der Metaphysik, Fischer, Frankfurt a. M. 1971, pp. 86 e sgg. ↩︎

  6. G.W.F. Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, Rusconi, Milano 1996, p. 225. ↩︎

  7. Th.W. Adorno, Drei Studien zu Hegel, GS, Vol. 5, pp. 257-258. ↩︎

  8. Vedi anche Th.W. Adorno, Minima Moralia, cit., p. 75. ↩︎

  9. G.W.F. Hegel, Enciclopedia, cit., pp. 245-251. ↩︎

  10. Th.W. Adorno, Negative Dialektik, cit., p. 145. ↩︎

  11. G.W.F. Hegel, Enciclopedia, cit., pp. 129-225. ↩︎

  12. Ibid., pp. 167-171. ↩︎

  13. Th.W. Adorno, Drei Studien zu Hegel, cit., p. 260. ↩︎

  14. Questo vale a maggior ragione per la dialettica negativa proposta da Adorno che, contrariamente a quella idealista, si apre polemicamente alla frattura e al molteplice, all’alterità. “La critica all’ontologia non mira a nessun’altra ontologia, nemmeno a quella del non-ontologico. Altrimenti porrebbe semplicemente un altro come l’assolutamente primo; ora però, non l’assoluta identità, l’essere, il concetto, ma il non identico, l’essente, la fatticità. Così facendo ipostatizzerebbe il concetto del non-concettuale ed agirebbe contro la sua intenzione. La filosofia fondamentale, la próte philosophía, comporta necessariamente con sé il primato del concetto; ciò che gli si nega, abbandona anche la forma di un filosofare — come si pretende — a partire dal fondamento. La filosofia poteva placarsi nel pensiero rivolto all’appercezione trascendentale, o perfino all’essere, fin quanto quei concetti per essa erano identici con il pensare che le pensa. Ma se quell’identità viene in principio disdetta, trascina nella sua caduta la quiete del concetto. Poiché il carattere fondamentale di ogni concetto generale cede di fronte all’essente determinato, la filosofia non può più sperare nella totalità”. Th.W. Adorno, Negative Dialektik, cit., p. 140. ↩︎

  15. «Il movimento del pensiero, l’introduzione del nuovo, non aggiunge, contrariamente a Kant, qualcosa al concetto grammaticale del soggetto. Il nuovo è il vecchio». Th.W. Adorno, Drei Studien zu Hegel, cit., p. 363. ↩︎

  16. Ibid., cit., pp. 327-328. ↩︎

  17. G. Sasso, Tempo evento divenire, Il Mulino, Bologna 1996, 331-353. ↩︎

  18. Boulez, Pensare la musica oggi, Einaudi, Torino 1979, p. 83 e sgg. ↩︎

  19. Adorno ha sempre sottolineato che se si privasse il pensiero di questo momento lo si ridurrebbe a tautologia, ciò che kantianamente era espressione di ogni giudizio analitico, il che entrerebbe fortemente in contrasto con la promessa fondamentale del sapere. Gli idealisti che cercarono di far confluire la sintesi nell’identità e viceversa dovevano però scontrarsi col presupposto del pensiero come di un atto fondato in sé stesso. La scissione interna al pensiero in soggetto e oggetto, non risolve il problema poiché è in realtà un’aporia. “Nessuna oggettività del pensiero in quanto atto, dunque, potrebbe essere in generale possibile; il pensiero come atto non consisterebbe in se stesso, secondo la propria forma, in quanto sarebbe ancor sempre connesso a ciò che non è, in sé, il pensiero medesimo”. Th.W. Adorno, Amnerkungen zum philosophiche Denken, GS 10, vol. 2, p. 601. Gli idealisti come Schelling e Fichte cercavano di trarsi da questa aporia richiamandosi al fatto dell’io come dimostrazione pratica di questa possibilità. Forse la superiorità che Adorno accordava ad Hegel rispetto a loro è dovuta alla costanza e alla caparbietà con cui questi insiste sul movimento del concetto, senza cedimenti nei confronti dell’intuizione. ↩︎

  20. Th.W. Adorno, Drei Studien zu Hegel, cit., p. 261. ↩︎

  21. Ibid., pp. 297-298. ↩︎

  22. G.W.F. Hegel, Differenza fra il sistema di Fichte e quello di Schelling, in Primi scritti critici, a cura di R. Bodei, Milano, Mursia, 1990, p. 21. ↩︎

  23. G.W.F. Hegel, Enciclopedia, cit., p. 121. ↩︎

  24. Th.W. Adorno, Drei Studien zu Hegel, cit., p. 367. ↩︎

  25. Ibid. ↩︎

  26. «Il concetto viene rivoltato da ogni parte, sino a che si dà a vedere che esso è più di quel che è. Esso va in pezzi non appena si irrigidisce, ostinandosi in se stesso, mentre appunto solo la catastrofe di tale ostinatezza fonda il movimento che ne fa in lui stesso un altro». Ibid., p. 363. ↩︎

  27. La distinzione tra Gestalt e Gestaltung è stata correttamente sottolineata da V. Cicero, Introduzione alla Fenomenologia dello Spirito, cit., p. 27. ↩︎

  28. Th.W. Adorno, Drei Studien zu Hegel, cit., pp. 329-331. ↩︎

  29. Th.W. Adorno, Die Aktualität der Philosophie, GS Vol. 1: Philosophiche Frühschriften, p. 342 e Negative Dialektik, cit., p. 36. ↩︎

  30. Th.W. Adorno, Drei Studien zu Hegel, cit., p. 298 (trad. modificata). ↩︎

  31. Nel senso del Verstand hegeliano. ↩︎

  32. Th.W. Adorno, Zu Subjekt und Objekt, cit. ↩︎

  33. Ibid., p. 741. ↩︎

  34. «Il nuovo orrore, quello della scissione, trasfigura per coloro che lo vivono l’orrore antico, il caos, ma entrambe le cose sono il sempre uguale». Ibid., p. 743. ↩︎

  35. Ibid., p. 742. ↩︎

  36. Ibid., p. 746. ↩︎

  37. Th.W. Adorno, Drei Studien zu Hegel, cit., pp. 261-262. ↩︎

  38. Th.W. Adorno, Negative Dialektik, cit., pp. 184-185. ↩︎

  39. Th.W. Adorno, Drei Studien zu Hegel, cit., p. 262. ↩︎

  40. Ibid. ↩︎

  41. «Se si ammette la priorità dialettica dell’oggetto si infrange l’ipotesi della conoscenza empirica irriflessa dell’oggetto, intesa come determinazione residuale in seguito alla detrazione del soggetto. Il soggetto non è più allora un addendo sottraibile all’oggettività. Quest’ultima viene falsificata, e non purificata, attraverso la separazione di un suo momento essenziale. […] L’oggetto è non tanto un residuo privo di soggetto, quanto ciò che è posto dal soggetto. Le due determinazioni tra loro contraddittorie si adeguano l’una all’altra: il rimanente, di cui la scienza può nutrirsi come della sua verità, è il prodotto del suo procedimento manipolativo, soggettivamente organizzato. Il definire cos’è l’oggetto, sarebbe dal canto suo una frazione di tale organizzazione. L’oggettività si può reperire ad una sola condizione: che essa venga rispecchiata, ad ogni stadio storico e conoscitivo, tanto in ciò che di volta in volta si rappresenta come soggetto e oggetto, quanto nelle mediazioni. Quindi l’oggetto è effettivamente, come insegnò il neokantismo, ‘infinitamente dato’». Th.W. Adorno, Zu Subjekt und Objekt, cit., p. 751. ↩︎

  42. Ibid., p. 752. ↩︎

  43. Ivi. ↩︎

  44. Th.W. Adorno — M. Horkheimer, Dialektik der Aufklärung, GS, vol. 3, p. 57. ↩︎

  45. M. Horkheimer, Teoria tradizionale e teoria critica, in Teoria Critica. Scritti 1932-1941 (II), Einaudi, Torino 1974, p. 155. ↩︎

  46. “Tutti i concetti singolari sono già concresciuti in sé con i giudizi che vengono trascurati dalla logica classificatoria; l’antica tripartizione della logica in concetto, giudizio e conclusione è un residuo come il sistema di Linneo. I giudizi non sono una mera sintesi di concetti, infatti non c’è concetto senza giudizio”. Th.W. Adorno, Negative Dialektik, cit., p. 111. ↩︎

  47. Ibid., p. 22. ↩︎

  48. «La novità che appare nel concetto di ragione dell’idealismo, nel concetto di spirito, a partire dall’ultimo decennio del secolo [XVIII] e nell’opera matura di Hegel, può essere definita come esperienza spirituale. Un concetto come questo non potrebbe trovare posto in Kant […] Non avrebbe avuto l’organo atto alla sua percezione, soprattutto perché nel XVIII secolo il concetto di individuo come entità incommensurabile, che svolgerà una parte così decisiva nel secolo successivo, per l’appunto non esiste ancora, almeno a livello teorico». Th.W. Adorno, Philosophiche Terminologie, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main 1974, vol. 2, p. 128. ↩︎

  49. Ibid. ↩︎

  50. Th.W. Adorno, Negative Dialektik, cit., p. 165. ↩︎

  51. Th.W. Adorno, Drei Studien zu Hegel, cit., pp. 307-308. ↩︎

  52. K. Marx, Critica al programma di Gotha, in Marx-Engels, Opere scelte, a cura di L. Gruppi, Roma, 1969, p. 955. ↩︎

  53. Th.W. Adorno, Drei Studien zu Hegel, cit., p. 269. ↩︎

  54. Ivi. ↩︎

  55. K. Marx, Critica al programma di Gotha, cit., p. 955. ↩︎

  56. Th.W. Adorno, Drei Studien zu Hegel, cit., pp. 269-270. ↩︎

  57. K. Marx, Manoscritti economico-filosofici del ’44, tr. it. N. Bobbio, Torino, Einaudi, 1968, p. 166. ↩︎

  58. Th.W. Adorno, Einleitung zum »Positivismusstreit in der deutschen Soziologie«, GS, Vol. 8: Soziologische Schriften I, p. 351. ↩︎

  59. Th.W. Adorno, Negative Dialektik, cit., p. 105. ↩︎

  60. Th.W. Adorno, Drei Studien zu Hegel, cit., p. 265. ↩︎

  61. Th.W. Adorno, Drei Studien zu Hegel, cit., p. 273. ↩︎

  62. Th.W. Adorno, Zum Verhältnis von Soziologie und Psychologie, GS, vol. I, cit., pp. 42 e sgg. ↩︎

  63. Ibid., 44. ↩︎

  64. Th.W. Adorno, Zu Subjekt und Objekt, cit., p. 758. ↩︎

  65. Th.W. Adorno, Negative Dialektik, cit., p. 130. ↩︎

  66. Ibid., p. 314. ↩︎

  67. Th.W. Adorno, Marginalien zu Theorie und Praxis, GS, Vol. 10, cit., pp. 233 e sgg. ↩︎

  68. Th.W. Adorno, Fortschritt, GS, Vol. 10: Kulturkritik und Geselschaft, pp. 618 e sgg. ↩︎