La filosofia come cammino di vita in María Zambrano

1. Introduzione

L’itinerario teorico seguito da María Zambrano, una delle voci più significative della filosofia contemporanea, è intimamente legato alla ferma consapevolezza che solo un incontro fra filosofia e poesia, fra verità logico-deduttive della ragione e verità intuitive del «cuore», possa condurre ad una nuova forma di sapere che sia in grado di cogliere la totalità della realtà e l’uomo nella sua interezza. Uomo e realtà, infatti, possono essere integralmente salvaguardati solo da un sapere che riesca ad esplorare anche quel «logos che scorre nelle viscere», secondo un’espressione della protagonista del nostro discorso, che, viceversa, la tradizione filosofica ha per lo più ignorato. Difatti, secondo la filosofa spagnola — che su questo punto, come su altri, accorda la sua voce al coro alzato da pensatori aderenti alle correnti filosofiche dell’Esistenzialismo, della Fenomenologia e del Decostruzionismo, pur non identificandosi tout court con nessuna di esse — l’uomo occidentale, riponendo totale fiducia nel Logos e nei processi conoscitivi logico-formali, ha esautorato completamente tutte le altre sfaccettature della vita per risolvere i numerosi interrogativi e problemi insiti nella stessa esistenza e che pure sfuggono alla componente concettuale, prediligendo così la nascita di una filosofia dalle caratteristiche strettamente scientifiche. Proprio per questo, María Zambrano invita il pensiero ad abbandonare qualsiasi sistema filosofico, quel «castello di ragioni, muraglia chiusa del pensiero di fronte al vuoto»,1 per intraprendere un viaggio fra quelle acque rimaste ancora in gran parte inesplorate, alla ricerca di una «filosofia vivente», disposta a confrontarsi con l’essere umano nella sua interezza, disposta, in uno sforzo intellettuale e viscerale insieme, a dar voce a ciò che resta silente, a celebrare l’oscurità, l’altro lato dell’esistenza, quello esiliato, muto, nascosto ma profondamente «sentito», che solo libera dalla tendenza assolutizzante ed impone l’umiltà, compagna necessaria di ogni cammino di conoscenza integrale. Zambrano, quindi, non solo accetta, ma anche auspica una «contaminazione» della filosofia con la vita, sulla base di una necessità intrinseca che vita e pensiero hanno l’una dell’altro: la vita, infatti, senza pensiero rimane sola e ribelle, mentre il pensiero astratto, puro, «senza vita», vaga abbandonato non scoprendo altro che se stesso e la propria struttura.2 E ciò porta l’uomo a vivere in uno stato di delirio: «se infatti si perde il contatto con la realtà si delira: delira la ragione in una pura forma senza vita, impassibile e senza tempo; e delira la vita in un vagare spettrale e senza figura, in una dispersione umiliata e rancorosa».3

Vita e pensiero, ci ricorda la nostra filosofa, non sono due mondi eterogenei o due totalità autosufficienti, ma una sola realtà, quella esistenziale, che è strutturata in un organismo che è l’uomo e pertanto il pensiero non può porsi come antagonista della vita, bensì come principio capace di renderne conto. Tuttavia il pensiero, come capacità logica, può ordinare e organizzare la vita solo se riesce a rispettare le esigenze pluralistiche vitali e a dar voce anche a tutti quegli aspetti oscuri dell’essere umano. Ciò significa che la speculazione filosofica deve essere tale da non trascurare e sentire come estraneo nessun elemento o aspetto umano, primo fra tutti quel «frammento di cosmo che è l’anima» e, non da ultimo, quello che, per Zambrano, è stato spesso ingiustamente visto come «prigione dell’anima»: il corpo. Per essere realmente vivente, pertanto, secondo la pensatrice spagnola, la filosofia deve rompere con un atteggiamento di unilaterale egemonia della mente per farsi carico dell’essere umano nella sua interezza, riconoscendo non solo l’anima ma anche il corpo, quale fonte di creatività e trascendenza, quale «luogo pulsante che media il contatto con le forze sacre della materia vivente, con i residui della matrice originaria da cui l’uomo si è strappato per vivere come un essere indipendente».4 Pertanto, secondo María Zambrano, solo una ragione «riformata», ossia più malleabile e aperta al difforme e all’eterogeneo, disposta ad accogliere anche quelle verità non rischiarate dalla luce dell’intelletto ma, tuttavia, intimamente «sentite», può contribuire alla messa a punto di una nuova conoscenza, più aderente all’interezza dell’esperire umano. Alla luce di considerazioni come queste si potrebbe attribuire alla filosofia zambraniana, con tutte le dovute ed innegabili differenze, il motto oraziano adottato nel corso del ’700 dagli illuministi grazie alla definizione di illuminismo che ne fece Kant, ossia il «Sapere aude»: abbi il coraggio di sapere ma, sembra quasi che aggiunga la pensatrice spagnola, non solo ciò che è nei limiti della sola ragione, ma anche gli «interminati spazi» e i «sovrumani silenzi» «di là da quella»5 che fungono da liquido amniotico, da placenta sempre vivificante per la verità stessa la quale se, come ci tramandano i filosofi greci, è a-lethéia, dis-velamento, implica anche sempre prima un nascondimento. Se l’essere, dunque, prima di svelarsi si vela, per conoscerlo occorre raggiungerlo nella caverna oscura del suo primo darsi, e ciò comporta un abbandono, un penetrare fiduciosi negli abissi, laddove la verità nasce, senza cercare spasmodicamente guidati da un metodo rigoroso, bensì andandole incontro. Ecco che allora l’unica forma di conoscenza che possa garantire la «vera oggettività», intesa come una «presa» dell’oggetto in quanto oggetto, è, per Zambrano, come lei stessa scrive in El realismo español como origen de una forma de conocimiento,6 il realismo come «modo di trattare con le cose».

Il realismo — secondo le chiarificanti parole di un’attenta studiosa di Zambrano, Pina De Luca — è uno sguardo ammirato sul mondo che vi si depone senza nessuna pretesa di ridurlo a qualcos’altro. Per tale adesione disinteressata il realismo è un essere innamorati del mondo […]. Non vi è, però, in ciò la violenza del possesso ma dedizione, cura, minuziosa attenzione. L’amore ha qui, per la Zambrano, il segno dell’eros platonico: gli sono perciò estranee la violenza e l’ingiustizia.7

Questa caratteristica dell’innamoramento è tipica del realismo spagnolo (Zambrano lancia una sfida alla tradizione filosofica considerando la cultura spagnola come una modalità di conoscenza in grado di risollevare l’uomo occidentale dalla crisi che sta attraversando8), e ancor di più di quel suo tratto caratteristico e radicale che è il materialismo considerato come «la consacrazione della materia», da non intendersi, tuttavia, come un idealismo europeo rovesciato, perché il materialismo spagnolo presenta, al contrario di quello europeo, un’inclinazione più teorica, più dogmatica, più appassionata tale da apparire astratto, «ma si tratta di un’astrazione che non ha origine nell’intelletto bensì nella passione».9 Questo materialismo come «pratica amorosa», come adesione innamorata alle cose, in cui avviene un «materiale parteciparsi di soggetto e cosa», si sviluppa, per Zambrano, in senso radicale nella poesia. Solo il poeta, infatti, è capace di fare di se stesso uno

spazio vuoto in cui le cose si depongono nel loro essere materia e come tali in lui esistono […]. Solo a colui, infatti, che in sé sperimenta la forza dell’impotenza, che conosce la «passività per amore», la realtà si fa incontro.10

Posta in questi termini, tuttavia, sembrerebbe che la soluzione prospettata da María Zambrano affinché l’uomo possa rimanere fedele ad ogni possibilità dell’essere, sia data dalla poesia e che, pertanto, la sua opera non possa rientrare pienamente in un contesto di speculazione filosofica. In realtà, la questione è molto più sottile. La riflessione zambraniana, infatti, non è volta ad individuare e descrivere il pensiero della poesia, ovvero a sostituire il come della poesia a quello del pensiero. È, questo, un tema fondamentale già per Heidegger, al quale la Zambrano rivolge un ringraziamento perché, senza la sua «giusta fama un fatto del genere, pur apparendo in altri testi, non sarebbe stato riconosciuto e nemmeno intravisto».11 Grazie ad Heidegger, «risulta che le è necessario [alla filosofia] tornare alla poesia, attenersi, onde riaversi […] ai luoghi dell’essere da questa indicati e visitati».12 Pertanto, l’intento zambraniano, ben lungi dall’esaltare le ragioni della poesia per mortificare quelle della ragione, è quello di «riconnettere poesia e pensiero riattivando “l’impeto appassionato” che la poesia ha trattenuto per sé e di cui il pensiero è divenuto privo […] perché vi sia altro pensiero, un pensiero che sia spazio di nascite»,13 un pensiero che, come un grembo materno, sia in grado di accogliere «l’altro da sé» in un’unione-nella-differenza, perché: «l’essere è “vario non uno”, è “radicale eterogeneità” che per pensarsi richiede mobilità, “continuo spostamento dell’attenzione” […]. È allora necessaria “fede” sia “poetica” che “razionale” per arrivare a comprendere che l’uno soffre di “incurabile alterità”».14 Ecco che, finalmente, ci appare evidente il senso ultimo dell’incontro perseguito da María Zambrano fra filosofia e poesia; solo una conoscenza poetica, infatti, dalla «profonda radice d’amore», nata dalla simbiosi di lucidità intellettuale e di sapere emotivo, può accogliere anche le verità «dell’altro» (l’altro del razionale, dell’io…) ed effettuare quell’unione degli opposti capace di realizzare il prodigio di vivere tra i due, «conseguendo il nous senza perdere l’anima; addentrandosi per quanto è possibile nella libertà senza annientare né umiliare la vita delle viscere».15 Proprio in nome di un’«armonia dei contrari» (più vicina alla danza eraclitea che non alla calma unità realizzata dal concetto), per mezzo della quale possano coesistere in una «lotta amorevole» tutti i termini in conflitto tra loro senza che né l’uno né l’altro domini definitivamente la scena dell’esistenza, Zambrano inizia un percorso di riforma della ragione, affinché essa possa tornare ad appassionarsi alla sua più grande antagonista: la vita. Il tutto, però, è condotto secondo un movimento che non cede mai alla tentazione di imporre «con la spada», sia pure quella della parola, la verità di cui Zambrano si fa messaggera. María Zambrano indica un sentiero, mostra immagini, figure che possano «innamorare» ed essere seguite; il suo pensiero si fa Guida affinché ognuno possa, individualmente e personalmente, mettere in forma quel contenuto impetuoso, caotico, indeterminato e sfuggente che è la vita; la sua parola poetica, mediatrice tra la luce e l’oscurità, tra il linguaggio e il silenzio, tenta di insinuarsi nelle più profonde caverne delle viscere umane, laddove è rinchiuso e risuona il mistero dell’origine, per rischiararle e risvegliarle cautamente.

Questo discorso, però, si inserisce all’interno di una tradizione filosofica che Zambrano per prima avvertiva tendenzialmente ostile ad accogliere in se stessa le «sorgenti vitali» che costituiscono, per la filosofa spagnola, la «placenta sempre vivificante» del pensiero. Dopotutto, secondo le parole di Hanna Arendt:

siamo così abituati alle vecchie contrapposizioni tra pensiero e passione, tra spirito e vita, che in certo modo ci meraviglia l’idea di un «pensiero appassionato», in cui pensare ed essere vivente si convertono in una stessa cosa.16

2. Il razionalismo e la realtà come sacro

Nel corso della storia del pensiero, scrive Zambrano,

la coscienza ha guadagnato in chiarezza e nitidezza, e ampliandosi si è impadronita dell’uomo intero. E quel che restava fuori non erano le cose, ma nientemeno che la realtà, la realtà oscura e molteplice. Riducendosi la conoscenza alla ragione, anche quel contatto così sacro che è il contatto iniziale dell’uomo con la realtà si è ridotto a un solo modo: quello della coscienza. […]L’uomo si riduceva a semplice supporto della conoscenza razionale, con tutto ciò di straordinario che questo comporta, ma la realtà circostante andava restringendosi prendendo a misura l’uomo; così, mentre «il soggetto» si ampliava, […] la realtà si rimpiccioliva.17

Ciò, in ultima analisi, per Zambrano significa che i filosofi, pur definendosi amanti del sapere che conduce alla verità, hanno poi, fondamentalmente, dimenticato, o rinnegato, il loro innamoramento; essi hanno sostituito all’amore e alla meraviglia, la volontà di dominio e di sistema, impedendo alle cose di manifestarsi per quelle che sono, indirizzandole secondo un movimento razionale già stabilito, intrappolandole con uno sguardo oggettivante che impedisce «l’uscita dell’interiorità dell’altro». Con la filosofia il rapporto uomo-mondo si è costituito a partire da un linguaggio, e da una conseguente modalità di pensiero, che, nominando le cose e non aspettandosi alcuna risposta da esse, le ha condannate ad essere disponibili, ad essere utilizzate e messe in movimento dalla mente del soggetto che le chiama e che le fa emergere come mera esteriorità. Proprio questa «metafisica della creazione», per la quale il soggetto assume a sé l’onnipotenza divina divenendo egli stesso Dio, ha portato, secondo María Zambrano, al dominio della Tecnica e alla condizione di crisi in cui vive l’uomo occidentale contemporaneo. Attraverso il culto della domanda e il predominio del soggetto, infatti, le cose del mondo sono state ridotte ad essere meri strumenti i quali, innegabilmente, liberano l’uomo dall’oppressione del lavoro, ma lo lasciano, al contempo, oppresso nel cuore e nell’anima da una terribile vacuità di un tempo morto. Se, infatti, uno strumento è sempre uno strumento-per, è un utilizzabile che, in quanto tale, si definisce sulla base del soggetto che lo usa, ridurre il mondo degli oggetti ad un mondo di strumenti utili significa guardarli dal solo punto di vista del soggetto, significa non accoglierli, neppure minimamente, nel loro darsi, significa negare qualsiasi verità che possa da loro spontaneamente derivare, significa, infine, rimanere soli — il soggetto che utilizza — in un mondo di oggetti di per sé morti, la cui unica forma di vita deriva loro dal soggetto che entra in relazione con essi. Il vuoto si impadronisce, così, della vita e lascia l’uomo solo con se stesso, chiuso nell’autosufficienza della propria coscienza.

L’unilaterale egemonia delle capacità razionali dell’uomo nella conquista della verità, tuttavia, non si è arrestata soltanto alla relazione fra soggetto e oggetto ma ha investito anche i rapporti inter-soggettivi. L’idea che l’uomo consista principalmente in coscienza e ragione, infatti, a detta della Zambrano ha indotto l’uomo a considerarsi simile solo ad un altro uomo, ma poiché sussistono differenze di razze, di nazionalità, di culture, ed economiche si è arrivati «allo spettacolo ben evidente della società attuale. Sappiamo a mala pena trattare con quelli che sono quasi una replica di noi stessi».18 La storia, così, anziché costituirsi come luogo che accoglie tutti gli individui per permettere a ciascuno di essi di diventare persona — ossia di realizzare pienamente il proprio essere — continua a muoversi secondo una dialettica sacrificale a causa della quale vengono escluse dalla vita sociale e recluse negli spazi vuoti della civiltà intere masse e gruppi di persone che non trovano una piena collocazione nell’ordine sociale stabilito — alludendo qui Zambrano in primo luogo agli sradicati, ai disoccupati e a tutti quei «morti viventi» che affollano i sobborghi delle moderne città industrializzate.

Emerge a questo punto un dato importante messo in risalto dall’analisi zambraniana: l’intima correlazione esistente, e non sempre tenuta in conto, tra assolutismo di pensiero e assolutismo politico; il tentativo della filosofia di ridurre tutta la realtà ad un ordine razionale prestabilito si ripercuote anche in campo politico impedendo il costituirsi di una democrazia più autentica e vera — intesa da Zambrano «come regime dell’unità nella molteplicità, e pertanto del riconoscimento di tutte le diversità e di tutte le situazioni più differenti19 — possibile solo se non si confonde «quell’ordine vivente e fluido con il caos». E ciò nella misura in cui il razionalismo rischia sempre di scivolare nell’assolutismo «perché estende senza mezze misure i principi della Ragione alla realtà intera. Una ragione imperante, non contemplativa, non interessata a scoprire la struttura della realtà»,20 una ragione incapace di prendere contatto con la realtà tutta intera, nella pluralità delle sue sfaccettature.

La filosofia avrebbe quindi conquistato per sé la realtà indefinita definendola come «essere»; essere che è uno, immobile ed identico a se stesso coglibile dall’utilizzo di una ragione pura. Tutto il resto (il movimento, i colori, le passioni…) è ciò che è rimasto fuori nominato come altro. E María Zambrano, in nome di un forte «senso di lealtà» nei confronti della complessità e delle diverse possibilità di esistenza e contro una «volontà di sistema» che, insieme a Nietzsche, reputa «volontà di menzogna», torna a considerare la realtà come «qualcosa di anteriore alle cose, una irradiazione della vita emanata da un fondo di mistero; […] occulta, nascosta; corrisponde, insomma, a quel che oggi chiamiamo “sacro”. La realtà è il sacro e soltanto il sacro la possiede e la concede».21 E il sacro come realtà molteplice, inesauribile, ambigua ed opaca alla mente non può essere completamente trasformato in divino — perché l’identità fra essere e pensare, scrive Zambrano, è il nucleo di ciò che si chiama Dio — ma solo cautamente avvicinato da una ragione «ampia e totale» cui spetta il compito, «tra i più difficili ed esaltanti mai assunti dal pensiero, di guidarci attraverso un mondo che sembrava impenetrabile facendo in modo che il nostro passo si uniformi alle sue vibrazioni più profonde».22

Tuttavia, insistendo su quella che con Jaspers potremmo chiamare «l’insormontabilità dell’irrazionale» Zambrano non intende abbandonare l’uomo in una sorta di naufragio conoscitivo, precludendogli la possibilità di comprendere le strutture del mondo e la sua propria; ella vuole solo riaprire, per dir così, quel fondo oscuro e ingovernabile a partire dal quale emergono tutti gli enti al fine di dare nuovamente credito a quella fonte buia e opaca che chiama in causa il fondamento stesso della razionalità. In nome di un sapere integrale, allora, che tenga conto della luce come dell’ombra delle cose è necessario riavviare un dialogo con il sacro e ciò è possibile solo inaugurando una modalità della ragione più duttile, più radicale (nel senso etimologico del termine: «che rinnova da radici»), una ragione che dia significato e valenza a quel «sentire originario» come prima presa di contatto dell’uomo con le cose e che dia credito a quella luce, «pur piena di domande, della risposta. Di domande attraverso cui si scopre qualcosa che, non essendo né chiaro né, soprattutto, concludente, non si ha l’abitudine di identificare con una risposta, dalla quale ci si aspetta sempre che concluda in modo inconfutabile».23

Per comprendere a fondo la necessità del pensiero di riavvicinarsi alla realtà come sacro è però necessario spendere qualche parola sulla concezione zambraniana dell’uomo.

3. L’uomo come essere-nascente

Zambrano, come già Heidegger, vede l’uomo come essere-gettato-nel-mondo, ma se questa condizione radicale per il filosofo tedesco si risolve nel riconoscimento dell’uomo come essere-per-la-morte, per la filosofa spagnola l’istante tragico «dell’essere gettati fuori, esposti d’un tratto alle intemperie, senza appigli»24 implica, più radicalmente, la condizione di essere-dato-alla-luce. All’esistere appartiene, insieme a quello della morte, un altro momento imprescindibile, secondo Zambrano troppo spesso tralasciato: quello della nascita. Tuttavia la «prima» nascita — ed è quindi evidente che per Zambrano ce ne siano altre di nascite — mette al mondo un uomo «prematuro», incompleto; per questo egli non si è mai adattato a vivere naturalmente e ha avuto bisogno di qualcosa di più: religione, filosofia, arte o scienza. Egli «deve dunque finire di nascere interamente e crearsi il proprio mondo, il proprio posto, il proprio luogo, deve incessantemente partorire se stesso e la realtà che lo ospita».25 E l’uomo avverte la propria incompletezza e manchevolezza e nel patire il suo essere incompiuto si muove per cercarsi, per nascere completamente, secondo un movimento di inarrestabile trascendenza. Ecco perché Zambrano vede l’uomo come «quell’essere che patisce la propria trascendenza»: egli vive costantemente nell’ansia di trascendersi, di oltrepassarsi ed è proprio a questo punto che si colloca il fondamento della tragedia umana: il varco aperto dall’uomo come essere-nascente non deve mai chiudersi in un definitivo esser-nato pena la perdita dell’autenticità del proprio essere. Essere uomo richiede la profonda accettazione della fatica che il vivere comporta, cioè la necessità di dover continuare a nascere secondo un movimento che non prevede un’assoluta e liberatoria fuoriuscita. In altre parole è come se l’uomo avvertisse dei «vuoti» nel suo essere ed anziché riconoscere in questa porosità la possibilità della propria realizzazione e rivelazione, dal momento che solo uno spazio vuoto — come un grembo materno che, in una passività attiva, accoglie e custodisce la nascita — permette che «passi qualcosa», ossia, nel caso dell’uomo, il transito e lo scorrere del proprio essere, egli, disperatamente, cerca di colmarli per costituire il suo essere compatto, unico, identico a se stesso e sottratto al tempo, indossando maschere di personaggi che paralizzano il suo essere essenzialmente mobile. Una di queste maschere è data proprio dall’immagine-sogno di uomo proiettata dalla filosofia:

paradossalmente, nell’atto di affermarsi l’uomo è inciampato in se stesso, si è aggrovigliato nella sua ombra, nel suo sogno, nella sua immagine: il sogno del suo potere e del suo essere portato all’estremo, convertito in assoluto. […] Tutto ciò che l’uomo vuole, prima lo sogna. E come succede nei sogni, lo rende assoluto.26

La filosofia, cioè, ha fatto sì che l’uomo si separasse troppo bruscamente dalle viscere del sentire per inseguire il sogno di uomo pienamente padrone del suo essere, già completamente nato e assolutamente libero, sottraendolo al suo «destino» di essere-nascente. Proprio nell’occultare quella radice vitale, quella caverna oscura da cui proviene, il pensiero, con la sua luce diafana e compatta, acceca l’uomo e lo porta a vivere una situazione di crisi. Da qui discende l’importanza di un sapere mobile e vivente che guidi l’uomo durante il suo continuo stato di rinascita, come vedremo fra poco.

La visione dell’uomo come essere-nascente conduce Zambrano anche ad un’altra constatazione.

Il venire alla luce, infatti, implica anche il pro-venire da uno sfondo d’ombra come ulteriore pre-condizione. Zona d’ombra come «culla» dell’essere dell’uomo, dunque, come origine misteriosa che si pone anche come limite alla conoscenza oltre la quale ogni pensiero «puro» sa di non potersi spingere. Ed ogni essere uomo porta con sé, nella profondità delle proprie viscere, il «sentimento» delle origini oscure dalle quali proviene e lo patisce come proprio limite: ogni uomo, secondo Zambrano, sente ciò che non si può dire — quel fondo ultimo del dire — che è condannato al silenzio, ma che pur tuttavia ri-suona. Ora, quando Zambrano parla di quell’attimo iniziale della nascita in cui l’uomo è chiamato alla vita, non si riferisce a meri concetti illanguiditi nell’astrazione, bensì alla realtà della carne in cui vibra la vita stessa. È proprio la condizione carnale dell’uomo che lo consegna, attraverso la nascita, all’esistenza ed è per questo che secondo Zambrano il sacro dell’uomo sta precisamente dentro il corpo: è il corpo che ricollega ogni essere alla vita primigenia che internamente alla carne pulsa e si mantiene. Il corpo, dunque, lungi dall’essere la prigione dell’anima, si caratterizza come condizione materiale per mezzo della quale l’uomo partecipa carnalmente alla realtà sacra (oscura e indefinibile).

Ecco perché per tener conto del sacro è necessario, per Zambrano, dare vita ad una forma di ragione capace di non prescindere da quel fondo oscuro originario, «pura palpitazione, germinazione inesauribile», cui l’uomo partecipa nelle sue viscere prima di assumere «su di sé un progetto di essere, prima che si decida a essere qualcuno o a fare qualcosa». L’insistenza zambraniana sulla sfera del sentire dunque, come evidenzia Carlo Ferrucci nella sua monografia dedicata alla filosofa spagnola,27 si muove in una cornice solo apparentemente «emozionalistica»: il sentire, infatti, a ben guardare risulta essere una condizione ontologica del soggetto, il suo primo contatto con il mondo che lo colloca nell’universo e lo fa «sentire» parte di esso. Ciò che allora Zambrano si propone di superare è il rapporto tremendamente conflittuale fra sapere e passione, fra pathos e mathos, inaugurato da Platone e seguito dall’intera filosofia: il pensiero non dovrebbe costituirsi come arma contro il patimento perché, in realtà, senza patimento non vi sarebbe pensiero alcuno. È, infatti, sempre dall’esistenza che muove la ricerca dell’essere che è il tema proprio della filosofia e l’esistenza è sempre una esistenza, singola, storicamente individuata ed «emotivamente» collocata nel mondo. L’esistenza, in altre parole, non può prescindere dal patire, dal vivere e dallo sperimentare la verità. Il fine ultimo del pensiero quindi diventa quello di riscattare l’oscuro sentire, di «trarre alla luce il sentire, principio oscuro e confuso, un portare il sentire all’intelligenza». Il privilegio assegnato dalla cultura occidentale alla presa meramente razionale del mondo ha però portato ad obliare quel «sentire originario» che ci collega con il mondo e ci colloca in esso e, consequenzialmente, ha condotto a proclamare la coscienza del soggetto come unica realtà. La riabilitazione agli occhi del pensiero della spinta sentimentale, invece, permette di riconoscere la realtà come «controvolontà», cioè come tutto quello che circonda il soggetto e che a lui resiste; il sentimento, insomma, permette di dare credito a tutto ciò che è altro dal soggetto inteso nel senso più ampio, anche come quello «di noi stessi quando ci facciamo altri o quando non abbiamo ancora cessato di esserlo». Infatti,

riconoscere qualcosa come oggetto significa fermarsi di fronte a esso, rimanerne affascinati, catturati, dargli credito, in un certo modo innamorarsene. […] L’oggetto è qualcosa che ci sta davanti, quindi qualcosa che ci limita, di fronte al quale dobbiamo fermarci. Non potrebbe esistere senza un certo innamoramento, che è sempre un fermarsi e un annullarsi per far posto a ciò che altrimenti non avrebbe per noi esistenza piena, se non fosse appunto per questo vuoto che produciamo annullandoci, e che non si sarebbe potuto trovare lì dov’è se avesse fatto irruzione in esso.28

4. La paura del divenire

Il filosofo tuttavia, come dicevamo all’inizio, ha dimenticato il suo innamoramento a favore di una dominazione sempre maggiore della realtà. Egli, nel corso della storia, ha volutamente proiettato un’immagine di se stesso come di un imperturbabile e sistematico osservatore, che coglie la molteplicità dell’essere, il suo scorrere e, distaccatamente, «come se con il tempo che passa non passasse anche la nostra vita»,29 analizza il mondo e lo ordina secondo un sapere puro, astratto, totalmente razionale che esclude, però, il «mondo della vita» e ripudia quanto di incontrollabile e di spontaneo, ma proprio per questo di più fecondo, suggerisce la filosofa di Malaga, può venirgli da una identificazione più creaturale con il resto delle cose.

Il punto della questione diventa allora quello di capire il perché di questo atteggiamento tenuto dal filosofo e per fare questo è necessario tornare ad esaminare le origini della filosofia.

La filosofia, come è ben noto, si autodefinisce fin dal principio come «indagine sulla totalità con metodo razionale a scopi puramente teoretici».30 Tralasciando le «questioni di metodo», ciò che ora vogliamo analizzare è la stessa autonomia della filosofia. La contemplazione disinteressata della filosofia, infatti, ad uno sguardo più attento, rivela di aver soddisfatto quella primordiale necessità avvertita dall’uomo di liberarsi dal terrore provocato dal divenire della vita ed in questo senso è proprio Aristotele a suggerirci l’inquietante verità che si cela dietro la nascita della filosofia. Egli, infatti, prendendo spunto da Platone, nella Metafisica definisce anche lo «stato d’animo» che caratterizza il filosofo: la meraviglia. In greco, però, la parola tháuma che traduciamo con meraviglia nasconde — come ci suggerisce l’analisi di Emanuele Severino — un significato molto più intenso: essa indica anche «lo stupore attonito di fronte a ciò che è strano, imprevedibile, orrendo, mostruoso». All’iniziale stupore provato dall’uomo dinanzi al movimento incessante delle cose il filosofo, dunque, reagì tentando di superarlo individuando le cause del divenire, rendendo prevedibile l’imprevedibile attraverso una spiegazione stabile e razionale del senso del mondo. Vista da questa prospettiva, quindi, la storia della filosofia è interpretabile come il più grande tentativo umano di dominare, tramite il pensiero, quell’imprevedibilità dell’essere che desta meraviglia e paura insieme, per sfuggire a quel senso di angoscia e di nausea, per dirla con Sartre, che si presenta ogni qual volta la casualità del movimento incessante della vita, con tutte le sue pieghe anche più mostruose e incomprensibili e con tutta la sua forza inquietante, si para innanzi all’individuo umano. Tuttavia, a partire da Nietzsche, anche se non mancano pensatori che prima di lui hanno alzato la loro voce di protesta contro le pretese assolutamente razionali dei grandi filosofi sistematici — basti ricordare Epitteto che risponde ad Aristotele, Tommaso di Kempis a Tommaso d’Aquino, Kierkegaard a Hegel — il rimedio apportato a quell’iniziale meraviglia-terrore è stato lucidamente avvertito come peggiore dello stesso male, perché prevedendo e anticipando il divenire la filosofia ha cercato di chiudere quell’abisso originario da cui l’uomo proviene. Attraverso il Logos razionale tutto è stato ricondotto all’Ordine e alla Ragione ed il divenire stesso, come origine indeterminata e sfuggente, è diventato impensabile proprio perché non dicibile dalla parola razionale; ma è proprio a partire da esso che si colloca nel mondo «quella forma emergente di movimento che è la vita stessa dell’uomo», l’esistenza come il venire a costituirsi e a mantenersi (sistere) provenendo da (ex) altro.

Il filosofo si configura, allora per Zambrano, come quell’uomo che, uscendo dal proprio stupore iniziale, dall’angoscia e dal naufragio, trova da sé l’essere e il proprio essere; egli comincia ad essere tale quando allontanandosi sempre più dall’origine e proiettandosi in avanti, si muove alla ricerca di se stesso nella solitudine e nell’isolamento con il desiderio di auto-crearsi da sé e di fondare l’essere delle cose a partire da se stesso. Nutrito dal risentimento per non aver assistito alla propria creazione e alla creazione di tutto l’universo conosciuto e sconosciuto, non accettando l’enigma della propria nascita, il filosofo, secondo Zambrano, si è mosso per ricrearsi e ricreare, ricreandosi, la propria origine, un’origine ancora più originaria perché «solo sua, assoluta e svincolata da tutto». Eppure, mettendo tra parentesi e obliando quell’origine indicibile dal pensiero puro, il filosofo ha dimenticato anche la sua condizione originaria di creatura del mondo immersa nel movimento della vita. La «superba ragione» occidentale avrebbe così determinato il martirio e il sacrificio della vita la quale, umiliata, si ritira nelle più profonde oscurità irrompendo pur tuttavia con il suo impeto indeterminato e sfuggente, privo di una direzione autentica da seguire, nell’ordine prestabilito. Se, al contrario, si riconosce il perenne movimento sia dell’uomo che del mondo diventa auspicabile un pensiero capace di muoversi con esso: «l’ordine di una cosa in movimento, scrive la nostra filosofa, non diventa presente se non entriamo a farvi parte». Per riuscire a vivere di fronte ad una realtà che si riconosce come movimento, dunque, è necessario impadronirsi di una «speciale disciplina» che sia in grado di guidare la vita.

5. Il sapere esperienziale delle Guide

Il sapere razionale della filosofia avrebbe quindi confuso l’ordine — la necessità legittima dell’uomo di ordinare l’universo per comprenderlo e farlo proprio — con la quiete. La forma pura e sistematica con la quale la filosofia «istituzionale» si è identificata, sostiene Zambrano, ha portato quindi da una parte a una conoscenza pura, sempre più svincolata dalle problematiche della vita tanto da arrivare a girare su se stessa in una sterile interrogazione sulla struttura del pensiero, dall’altra parte al dominio della tecnica come mera produzione di strumenti. Proprio con queste considerazioni, dice Zambrano, «tocchiamo il punto dolente della cultura moderna: la sua mancanza di trasformazione della conoscenza pura in conoscenza attiva, che possa alimentare la vita dell’uomo di ciò che necessita».31 È allora possibile che le forme trionfanti e i grandi sistemi filosofici «non esauriscano le necessità del pensiero e della vita dell’uomo occidentale; forse esse, proprio per la loro audacia speculativa, hanno trascurato qualcosa d’importante; da un lato hanno preteso troppo, e dall’altro hanno troppo tralasciato».32 Se osserviamo meglio, però, ci rendiamo conto che accanto alle forme pure e sistematiche del pensiero, sono sempre esistite anche delle forme «miste», quali le Confessioni, le Guide, le Meditazioni, i Dialoghi, le Epistole, i Trattati brevi, le Consolazioni, sulle quali la filosofia dominante ha sempre gettato una specie di ombra e di disprezzo. «Accade così che paesi che sono stati protagonisti nella cultura occidentale e la cui esistenza è necessaria alla sua totalità […] non vengono compresi. Così accade per la Spagna».33 Pertanto, continua Zambrano, in questa situazione di crisi in cui si trova l’uomo contemporaneo, forse si rende necessario riscattare le forme del pensiero dimenticate ed oscurate, «più umili, meno ambiziose della dialettica, però portatrici di un’azione specifica e necessaria».34 L’azione «specifica e necessaria» cui si riferisce Zambrano è quella di trasformare la conoscenza pura in conoscenza attiva, che possa alimentare la vita dell’uomo di ciò che necessita. E questa è proprio l’azione specifica della Guida; ogni Guida è tale per qualcuno, si rivolge all’uomo reale e concreto, con i suoi problemi e le sue angosce e che chiede di essere aiutato a sostenerli. La peculiarità della Guida è quella di distaccarsi dall’universalità, dall’assoluto, dalla conoscenza della ragione, per approdare all’individualità, alla conoscenza dell’esperienza, per darle un metodo, una guida appunto, capace di trasformare la vita stessa. Se la conoscenza Filosofica e quella Scientifica restano indifferenti di fronte a certi stati della vita umana, rimanendo enunciative ed impersonali, la conoscenza dell’esperienza, invece, è comunicativa, rivolta all’altro; inoltre, la Guida è in grado di aderire al continuo stato di nascita dell’uomo, le sue verità sono capaci, cioè, di rinascita continua: «ai sostenitori delle verità eterne, della philosophia perennis, si pone un problema identico, dato che sarà sempre necessario che tale pensiero venga assimilato e rinasca, come rinasce tante volte quante sono le generazioni che riempiono il tempo della storia»35 . La verità della Guida è una verità non conquistata una volta per tutte, ma capace di rinascere tutte le volte che la Vita ne ha bisogno; da ciò, il fatto che il sapere dell’esperienza da essa prodotto si presenta come un «sapere relativo, quello che l’assolutismo razionalista aveva disprezzato».36 Detto questo, è opportuno però specificare come la Zambrano non cada in un «assolutismo del relativismo» delle verità, perché ella stessa evidenzia come la Guida, essendo metodo, possiede forma ed unità, cioè coscienza di essere «un sapere della vita»:

Una Guida è qualcosa di simile a un metodo; se così non fosse mancherebbe di unità o sarebbe un insieme di proverbi […]. La Guida possiede unità e forma; potrebbe addirittura essere l’unità suprema del sapere sperimentale della vita. […] In quanto sapere dell’esperienza essa comunica attivamente e trasforma. La sua unità sarà pertanto unità d’azione, unità che le viene data dal campo in cui opera, dalla situazione che deve trasformare. È un sapere della vita: da qui la sua unità. […] Chi vaga disorientato sa infatti che la sua vita è una vita.37

Ora, i destinatari privilegiati della Guida sono quelli che Zambrano chiama i «perplessi»; essi possiedono un vasto campo di scelta, e pertanto sono al di sopra

di quelli che riproducono in modo anonimo una cultura nella sua forma tradizionale e che non hanno saputo conseguire autonomamente l’unità della propria vita. […] Il perplesso va con lo sguardo da un punto all’altro, non si fissa in nessun punto preciso perché le conoscenze che gli si presentano sono parziali, non hanno a che vedere l’una con l’altra, né con lui.38

Il perplesso non è colui che non sa, ma è colui che, pur conoscendo, non riesce a far muovere la vita, a far entrare in relazione il proprio sapere con la vita. Ciò che gli manca, dunque, non è la conoscenza, non un sistema di abbaglianti verità, ma una visione che lo «innamori». Tra le tante visioni che si offrono al perplesso, la Guida gli offre quella che «apre le porte dell’anima e che innamora» facendogli superare l’ermetismo nel quale è chiuso. Non, dunque, il sistema che porta all’universalità e alla generalizzazione, ma la visione è il fine della Guida, visione che conduce alla trasformazione individuale della propria vita attraverso uno stile proprio, un tocco del tutto personale, anche se poi tutte le visioni «coincidono nell’offrire un’immagine della vita che si corregge da sé».39 Il modo attraverso il quale le Guide riescono ad ottenere una simile trasformazione della vita è affidato alla loro arte e ad un segreto personale non riducibile a generalizzazioni. Ciò significa che se il pensiero vuole tornare ad appassionarsi alla vita non può irrigidirsi in un sistema di verità date una volta per tutte; infatti, se la vita concreta dell’uomo è il «contenuto» delle Guide e se la vita è in continuo movimento, «attività incessante, perfino nella sua quiete»,40 anche la forma di un sapere sulla vita deve sfuggire alla tentazione di rivestirsi di autorità e di dogma.

6. La ragione materna di Seneca

In Seneca María Zambrano vede l’«incarnazione» di una forma di pensiero che non è più in antagonismo con la vita ma che, al contrario, si fa strumento per comprenderla, guidarla e sostenerla. La ragione di Seneca si presenta come una forma di ragione che, al pari di quella «poetica» perseguita da Zambrano, non si isola nella scoperta della propria struttura ma si pone come una cura pronta ad aiutare l’uomo a vivere e a dar voce e chiarezza alle necessità dell’anima. Zambrano attribuisce alla ragione senechiana l’aggettivo «materna» perché in questo modo, a suo avviso, si rende maggiormente l’idea di un pensiero che, impietosendosi dello stato di abbandono in cui ha visto consistere la condizione dell’uomo, gli insegna ad accettarla: «Si direbbe che la ragione si è fatta madre, si è riempita di tenerezza materna, per poter consolare l’uomo in stato di abbandono».41 Seneca, come è noto, visse nel I secolo d. C., quando Roma sovrastava ancora con la sua potenza la maggior parte del mondo allora conosciuto; eppure, proprio in quel periodo storico — «forse, dice Zambrano, non si è mai avuto un potere umano così grande, e nemmeno tanto sapere filosofico» come allora — l’uomo come singolo viveva più solo e abbandonato che mai. Pochi secoli prima, grazie alla scoperta della ragione in Grecia, l’uomo si era liberato del caos primordiale della natura ed anche della tirannia degli dèi olimpici, Socrate e Platone avevano insegnato che ciascuno può scegliere da sé la propria virtù, che l’uomo è libero; eppure, quella stessa mirabile ragione aveva fallito: «una volta che Platone non era riuscito a trovare un posto in cui instaurare la sua Repubblica, una volta che neppure un’isola in cui ogni sogno si realizza si era prestata a costruire l’impero della giustizia e della ragione».42 Nonostante la scoperta del Logos, quindi, la vita continuava ad essere pesantemente condizionata perché intrisa di tirannica irrazionalità; «alla malinconia per lo scorrere del tempo, cosa che sappiamo essere nelle mani della natura, si è aggiunta ora l’amarezza infinita di sentirsi alla mercé del potere, esercitato nella sua più barbara grandiosità».43 Sotto l’Impero romano, la condizione umana era ancora più critica di quando, prima della nascita della filosofia, l’uomo si sentiva soggiogato dalle imperscrutabili leggi della natura; e, commenta Zambrano,

doveva essere terribilmente amaro aver scoperto l’ordine, la figura degli ultimi elementi della realtà, averla resa trasparente, aver trovato la sua misura, la sua ragione, ed essere poi costretti a vivere in un mondo senza ragione e senza misura, a vivere in un mondo in cui l’assurdo e il delirio erano la realtà quotidiana. La vita era tornata nuovamente ad essere un incubo, gli antichi e volubili dèi che la filosofia aveva già sconfitto, sedevano di nuovo al potere, con il nome di Imperatore.44

Proprio in quel periodo di solitudine e di amarezza apparve Seneca, il quale non si abbandonò alla disperazione ma tornò a diffondere la ragione tra gli uomini, per farli «tornare alla ragione». E poiché la ragione pura rivolta alla contemplazione delle idee, così distaccata dalle cose terrene, non poteva apportare alcun aiuto all’uomo in quel momento di sconforto, Seneca ricorse ad una «ragione ristretta», «raddolcita», pronta a curare le ferite dell’uomo abbandonato a se stesso ed asfissiato dalle tirannie del potere. Uno dei momenti più drammatici della storia, infatti, è proprio quello in cui il sapere «risulta allo stesso tempo troppo e troppo poco, insufficiente e distaccato; il momento in cui la ragione non si adatta alla misura dell’uomo, e l’uomo è rimasto solo».45 Impossibile non notare, a questo punto, una similitudine tra il periodo in cui visse Seneca e l’attuale situazione di crisi in cui verte, secondo Zambrano, l’uomo contemporaneo. Proprio per questo motivo oggi Seneca ci viene incontro: stiamo vivendo un momento analogo di grave crisi storica in cui la scienza ci insegna troppo e troppo poco al contempo, in cui la ragione, isterilita, non riesce a venirci in soccorso e a trarci fuori dalla situazione di stallo in cui ci troviamo; siamo, come gli uomini al tempo di Seneca, in «un momento di solitudine radicale, priva di un padre e di una fede ultima».46 Il pensiero vivo di Seneca ritorna oggi perché, senza saperlo, lo abbiamo cercato e ritrovato custodito al di sotto della nostra angoscia come un punto fermo, più vivo che mai nonostante la «patina dell’oblio». Oggi, come allora, abbiamo bisogno della sua amara medicina che ci risvegli e ci faccia accettare una verità che richiede tutto il nostro coraggio, abbiamo bisogno, a partire dalla nostra confusione e perplessità, di essere persuasi da una ragione «materna» ad intraprendere una strada che potrebbe portarci più vicino alla soluzione dei nostri problemi ma che non siamo del tutto sicuri di voler percorrere. In cosa risiede, dunque, in ultima istanza, secondo Zambrano, la grandezza di Seneca? Nel fatto che, nel suo dispensare consigli, egli si presenta più come un maestro del genere umano che non come un filosofo nel senso tradizionale del termine, visto che «la filosofia pura, in realtà, la Ragione, si preoccupa di proseguire il suo corso, più che di diffondersi».47 Seneca incarna una delle figure più positive di uomo, e nonostante la sua persona, in virtù della sua completezza e della sua saggezza, ci sovrasti, la avvertiamo, allo stesso tempo, come familiare, come un Padre. Lo sguardo di Seneca non si innalza al mondo Iperuranio, non contempla le idee, ma si volge, caritatevolmente, verso amici e parenti per consolarli della morte, della malattia, dell’esilio, della perdita della ricchezza. Eppure, si domanda retoricamente Zambrano,

quando una filosofia si preoccupa di tutto questo che conosciamo tutti già così bene, è davvero una filosofia? O sta piuttosto occupando il posto di qualcosa che non è filosofico? […] No, non si è distratta, anzi è realmente questo il suo compito, la sua ragion d’essere. È la filosofia, la ragione impietosita della condizione derelitta dell’uomo.48

In quel tempo in cui l’uomo, sopraffatto dalla potenza dell’Impero, aveva abbandonato la Ragione, Seneca lo ammoniva a servirsene ancora per trovare la giusta misura del vivere, per rassegnarsi a vivere con virtù. Seneca insegnava a sfuggire al desiderio di assoluto che fa troppo spesso dimenticare la «reale natura delle cose», che fa credere che siano «nostre le cose in cui ci muoviamo» quando, invece, dobbiamo essere «pronti a ridare quel che ci è stato assegnato senza una scadenza precisa e, se siamo convocati, a restituirlo senza lagnarci»,49 perché tutte le cose che ci sono state date, siano esse la ricchezza, la bellezza, un figlio o un’amante «le abbiamo ricevute in prestito»; dobbiamo rassegnarci alla reale natura delle cose, è questo il messaggio di Seneca.

E solo in virtù della rassegnazione compare la ragione, perché soltanto la ragione è capace di farcela raggiungere. Perché se non ci venisse in aiuto la ragione, la rassegnazione sarebbe impossibile, lascerebbe il posto a ciò che risiede nel profondo ancora prima di lei, a ciò che forza e motiva la rassegnazione, la disperazione» «[Rassegnarsi] significa non voler alterare in nessun modo l’ordine del mondo, per strano che possa sembrare; guardarsi senza rancore, avere smesso di vedersi e sentirsi finalmente come qualcosa che è. Significa estirpare, se c’è mai stata, la tentazione dell’io, della libertà. È come una specie di debolezza davanti al cosmo: cadere sconfitti senza serbare rancore.50

Rassegnarsi a vivere, infine, significa accettare il movimento della vita e «sapersi muovere nella relatività senza posa che è la vita umana».51 Per questo Seneca ha orrore del dogma, dell’assoluto: la vera misura delle cose si percepisce solo accordando, di volta in volta, il movimento interiore con quello esteriore, è una «questione d’orecchio», un talento musicale: è un’arte.

La vera misura non può essere trovata in un dogma, ma in un uomo concreto che percepisce con la sua armonia interiore l’armonia del mondo. È una questione di orecchio, un talento musicale, quello del sapiente; è un’attività incessante che percepisce, ed è un continuo accordo. È, in altre parole, un’arte. La morale si è trasformata in estetica e, come ogni estetica, ha qualcosa di incomunicabile.52

Per questo suo aderire all’uomo concreto, Seneca si rivela come un Padre ed è sempre nel suo essere padre che risiede la sua essenza spagnola, il suo «spagnolismo»: anche se avessimo cercato in ogni modo di evitare di inquadrare Seneca nel contesto della cultura spagnola, specifica Zambrano, ora è impossibile non farlo: «Seneca nasce dall’essenza spagnola che costituisce la parte della sua vita più rilevante, più permanente e viva: la paternità».53 Un padre, volto com’è a modellare il lato ribelle e non ancora formato del figlio fa leva, da una parte, sull’oggettività della legge vigente nel mondo, «nella cultura, nel diritto, nella scienza, nel sapere e nella morale, nella religione», e dall’altra parte fa riferimento «all’intimità del figlio, alla parte eretica, eterodossa e nemica dell’oggettività vigente che possiede ogni uomo in formazione».54 Per questo, Seneca, il sapiente, è un padre molto virile e molto materno insieme:

Paternità in cui si fonde la maternità, per il sapere che in essa è racchiuso, fatto della più ermetica intimità, per la persuasione con cui scorre nelle viscere umane. La ragione in questi padri diventa materna, per la sua stessa rinuncia al proseguimento dialettico, per il suo rifiuto di perseguire l’idealità […]. Da logicamente ideale, diventa divinamente materialista, se con materialismo intendiamo l’attaccamento materno al concreto, all’uomo reale, la rinuncia all’astrazione per non separarsi dalle viscere umane. […] Un sapere sull’anima e sulle sue difficoltà, flessibile e astuto.55

Seneca rende viva, operante, quella forma di sapere che, senza temere la discesa nella notte oscura del senso, illumina il sentire originario in cui convergono corpo e spirito, passione e ragione, divenendo, così, mirabile testimone di quella «ragione poetica», «materna», «mediatrice» che, secondo le parole della stessa Zambrano, si muove

nella penombra dell’essere e del non essere, del sapere e del non sapere, nel luogo in cui si nasce e si dis-nasce, che è il più appropriato, il più proprio al pensiero filosofico.56


  1. María Zambrano, Filosofia e poesia, Edizioni Pendragon, Bologna 1998, p. 94. ↩︎

  2. María Zambrano, La «Guida», forma del pensiero, in Verso un sapere dell’anima, ed. Cortina, Milano 1996, p. 58. ↩︎

  3. Rossella Prezzo, Introduzione a Verso un sapere…, cit. alla nt. 2, p. XV. ↩︎

  4. María Zambrano, L’uomo e il divino, Edizioni Lavoro, Roma 2001, p. 249. ↩︎

  5. Giacomo Leopardi, L’infinito, in Canti, ed. Le Monnier, 1967. ↩︎

  6. María Zambrano, El realismo español como origen de una forma de conocimiento, in Pensamiento y poesía en la vida española, Ensayo, Madrid 1996. ↩︎

  7. Pina De Luca, Introduzione a Filosofia e poesia, cit. alla nt. 1, p. 14. ↩︎

  8. Scrive Maria Zambrano: «Io intravedo in questo modo di vivere [spagnolo] un indizio per la soluzione del problema della libertà morale. Il nostro — così libero — radicamento nella Natura e nella grazia può contribuire a farci raggiungere l’equilibrio e la fecondità di cui si sente la mancanza nello sterile agitarsi del liberale razionalista». Nuevo liberalismo, Morata, Madrid 1930, p. 132. ↩︎

  9. Pina De Luca, Introduzione a Filosofia e poesia, cit. alla nt. 1, p. 16. ↩︎

  10. Pina De Luca, Introduzione a Filosofia e poesia, cit. alla nt. 1, p. 17. ↩︎

  11. María Zambrano, I Beati, ed. Impronte Feltrinelli, Milano 1992, p. 53. ↩︎

  12. María Zambrano, I Beati, cit. alla nt. 11, p. 53. ↩︎

  13. Pina De Luca, Introduzione a Filosofia e poesia, cit. alla nt. 1, p. 19. ↩︎

  14. Le espressioni, in realtà, sono di Antonio Machado, ma considerando l’influenza che l’opera di questo autore ebbe sulla nostra pensatrice, ci è sembrato pertinente riportarle come se fossero parole della stessa Zambrano. Cfr. María Zambrano, Filosofia e poesia, cit. alla nt. 1, pp. 25-26. ↩︎

  15. María Zambrano, Eloisa o l’esistenza della donna, in All’ombra del Dio sconosciuto. Antigone, Eloisa, Diotima, Ed. Nuova Pratiche, Milano 1997, p. 113. ↩︎

  16. Hanna Arendt, Heidegger o il pensiero come attività pura, citato in P. Terenzi, Hanna Arendt: il senso comune e l’inizio della filosofia, Leonardo da Vinci, Roma 1999, p. 11. ↩︎

  17. María Zambrano, L’uomo e il divino, cit. alla nt. 4, pp. 173-174. ↩︎

  18. María Zambrano, Persona e democrazia. La storia sacrificale, Bruno Mondadori, Milano 2000, p. 67. ↩︎

  19. María Zambrano, Persona e democrazia…, cit. alla nt. 18, p. 193. ↩︎

  20. María Zambrano, Persona e democrazia…, cit. alla nt. 18, p. 112. ↩︎

  21. María Zambrano, L’uomo e il divino, cit. alla nt. 4, p. 120. ↩︎

  22. Carlo Ferrucci, Postfazione a Chiari del bosco, Ed. Impronte Feltrinelli, Milano 1991, pp. 170-171. ↩︎

  23. María Zambrano, La risposta della filosofia (frammenti), «Leggere», dicembre1990/gennaio1991, n. 27, p. 35. ↩︎

  24. María Zambrano, Delirio e destino, Raffaello Cortina Editore, Milano 2000, p. 18. ↩︎

  25. María Zambrano, La vita in crisi, in Verso un sapere…, cit. alla nt. 2, p. 91. ↩︎

  26. María Zambrano, Persona e democrazia…, cit. alla nt. 18, pp. 65-66. ↩︎

  27. Carlo Ferrucci, Le ragioni dell’altro. Arte e filosofia in María Zambrano, Ed. Dedalo, Bari 1995. ↩︎

  28. María Zambrano, La vita in crisi, in Verso un sapere…, cit. alla nt. 2, pp. 94-95. ↩︎

  29. María Zambrano, Verso un sapere dell’anima, in Verso un sapere…, cit. alla nt. 2, p. 12. ↩︎

  30. Giovanni Reale, Storia della filosofia antica, ed. Vita e Pensiero, Milano 1997, Vol. I, p. 37. ↩︎

  31. María Zambrano, Persona e democrazia…, cit. alla nt. 18, p. 56. ↩︎

  32. María Zambrano, Persona e democrazia…, cit. alla nt. 18, p. 55. ↩︎

  33. María Zambrano, Persona e democrazia…, cit. alla nt. 18, p. 54. ↩︎

  34. María Zambrano, Persona e democrazia…, cit. alla nt. 18, p. 55. ↩︎

  35. María Zambrano, Persona e democrazia…, cit. alla nt. 18, p. 58. ↩︎

  36. María Zambrano, Persona e democrazia…, cit. alla nt. 18, p. 67. ↩︎

  37. María Zambrano, Persona e democrazia…, cit. alla nt. 18, pp. 68-69 [corsivo di María Zambrano]. ↩︎

  38. María Zambrano, Persona e democrazia…, cit. alla nt. 18, pp. 72 e 75. ↩︎

  39. María Zambrano, Persona e democrazia…, cit. alla nt. 18, p. 77. ↩︎

  40. María Zambrano, Persona e democrazia…, cit. alla nt. 18, p. 70. ↩︎

  41. María Zambrano, Un camino español: Séneca o la rasignación, in «Hora de España» XVII, Barcellona 1938. ↩︎

  42. María Zambrano, Seneca, Bruno Mondadori, Milano 1998, p. 13. ↩︎

  43. María Zambrano, Seneca, cit. alla nt. 42, p. 12. ↩︎

  44. María Zambrano, Seneca, cit. alla nt. 42, p. 15. ↩︎

  45. María Zambrano, Seneca, cit. alla nt. 42, p. 21. ↩︎

  46. María Zambrano, Seneca, cit. alla nt. 42, p. 41. ↩︎

  47. María Zambrano, Seneca, cit. alla nt. 42, p. 10. ↩︎

  48. María Zambrano, Seneca, cit. alla nt. 42, p. 11. ↩︎

  49. Seneca, Consolazione a Marcia in María Zambrano, Seneca, cit. alla nt. 42, p. 61. ↩︎

  50. María Zambrano, Seneca, cit. alla nt. 42, p. 17, e oltre p. 47. ↩︎

  51. María Zambrano, Seneca, cit. alla nt. 42, p. 27. ↩︎

  52. María Zambrano, Seneca, cit. alla nt. 42, p. 44. ↩︎

  53. María Zambrano, Seneca, cit. alla nt. 42, p. 33. ↩︎

  54. María Zambrano, Seneca, cit. alla nt. 42, p. 33. ↩︎

  55. María Zambrano, Seneca, cit. alla nt. 42, p. 34. ↩︎

  56. María Zambrano, Verso un sapere…, cit. alla nt. 2, p. 7. ↩︎