Inferno al Dio delle madri

1. «Esiste davvero un Padre?»

La domanda da cui vorrei cominciare questa riflessione non è pronunciata da uno scettico, ma da una poetessa, Emily Dickinson, tra le più visionarie e vertiginosamente pronte alla sfida dell’Altro, che si dà nella lontananza e nella incomprensibilità. Nei versi precedenti di questo testo, scritto nel 1860, leggiamo interrogativi ancora più inquietanti che, a partire da una nota di grado-zero della teologia e delle sue sedimentazioni, insistono a chiedere «Cos’è — Paradiso?… È sempre bello là? / Non ci sgrideranno se avremo fame? / O riferiranno a Dio — che siamo di cattivo umore?».1

Credo che si possa iniziare da qui a tessere un percorso intorno al rapporto delle donne con il volto di Dio Padre e, per contrasto, intorno alla possibilità e al senso di un «volto femminile» di Dio. Mi pare doveroso porre una premessa. Questa mia riflessione non nasce sul terreno della competenza teologica né tanto meno teologale; non intende tuttavia sottrarsi alla responsabilità delle parole rispetto a tutto quanto in questo campo si è scritto, detto e pensato, in nome di una presunta prospettiva «esperenziale». Si tratta di un assunto, talvolta accreditato nel pensiero delle donne, che in questa sede vorrei eludere, se non proprio respingere.

Il «luogo» da cui prendo la parola è piuttosto quello di un pensiero che si misura con la tradizione — nel senso pregnante: quanto ci è stato consegnato —, situandosi in una dimensione storica, incarnata, sessuata, femminile. Mi pare che solo da questo «corto-circuito» nasca l’interesse, se non la legittimità, di una ricerca attorno al volto femminile di Dio. Dove, per me, «femminile» non è tanto l’attributo «teologale» di quel volto, ma la proiezione dello sguardo — di donna — che vi si pone, della parola che tenta di dirne, del pensiero che l’investe, dell’esperienza che cerca risposte. Più o meno, credo, quanto «accade» nei versi che danno il titolo a questo paragrafo, con l’avvertenza che nel caso specifico della poetessa americana il «corpo a corpo» è tra la Parola dell’Altro-Padre e la parola poetica di una donna. La frizione avviene dunque al massimo grado della pregnanza simbolica e della trasgressione culturale. Ciò che la rende, mi pare, emblematica della ricerca di un «volto femminile» di Dio, nel senso sopra indicato.

2. Una via femminile al «divino»?

È noto che un filone del pensiero della differenza — da Luce Irigaray a Luisa Muraro — ritiene cruciale per l’«ordine simbolico» che ne scaturisce o che, piuttosto, ne è la premessa fondativa, affrontare la questione del sacro e della trascendenza. Sembra, a quel pensiero, che senza una fondazione di questo tipo, senza una «genealogia divina», la genealogia femminile si presenti monca. Denunci in qualche misura, nel balbettio delle parole e nella soggezione alla nominazione maschile, un’antica e non più tollerabile subordinazione patriarcale. Più apparente che reale, se è vero che un pensiero teologico delle donne è stato con passione rintracciato, soprattutto attraverso la rilettura della mistica femminile.2

Mi preme pronunciarmi su questo punto e rilevare alcuni elementi di questa — per altro comprensibile — istanza che mi suscitano talune perplessità. La prima, in ordine d’importanza, riguarda l’equazione Dio = divino che, in qualche modo, vi è sottintesa. L’interrogativo intorno al Dio-Padre, e dunque la ricerca intorno al «volto femminile» di Dio, nasce all’interno della tradizione ebraico-cristiana, né può essere da questa scissa. Dio Padre è, inestricabilmente, il Dio dei padri, di Abramo, di Isacco, di Giacobbe e poi — definitivamente — il Dio del Figlio, Gesù Cristo. Credo si possa affermare che «questo» Dio non è una manifestazione o una nominazione del «divino», ma ne costituisca né più né meno che la dissoluzione rivelata. Il «divino» come categoria pervasiva e indifferenziata muore insieme al Dio della fede e possiamo dire che tutte le Scritture, vetero e neo-testamentarie, «raccontano» questa morte, che non è solo di un pensiero (pensiamo al discorso di Paolo sull’Areopago!) ma anche di un immaginario «religioso».

Le «genealogie femminili» di cui un certo pensiero delle donne vorrebbe riempire un inedito sacro, mi sembrano pre-bibliche o post-cristiane. Nel rifiuto di un volto-paterno-patriarcale di Dio ci spingiamo così nella direzione di un Divino Femminile, oltre un Dio-Madre, verso una Dea Madre. L’operazione può rafforzare l’ordine simbolico (materno), ma aggiunge un altro altare a quelli che già popolano il nostro affollato Areopago post-moderno.

La seconda questione riguarda il «senso» di questa fondazione della differenza di genere nel trascendente. Quasi che, in mancanza di un’ipostasi divina (mitologica, inevitabilmente, come ho cercato di dimostrare), di un «ancoraggio» nel sacro, la differenza femminile non avesse significato. Ovvero, come se la genealogia divina garantisse il corso storico della genealogia femminile, il cammino faticoso, precario, talvolta a rischio di visibilità, che le donne hanno fatto, configurandovi una memoria e una tradizione. Lo sguardo femminile, riverberandosi sul volto del «divino», cercando in esso garanzia e legittimazione, ripercorre così — sia pure rovesciandone la cifra sessuata — il percorso di un divino patriarcale, specchio e proiezione narcisistica del dominio maschile. Crediamo che altro sia l’itinerario, e l’esito, che può condurre al volto femminile di Dio.

3. I sentieri della teologia

Di altro tenore la ricerca teologica delle donne che si misura con la tradizione ebraico-cristiana senza sfumarne i contorni storici in un indistinto messaggio «sacrale». La religione del Libro e del Padre: questa la doppia sfida che quella ricerca deve sostenere. Da un lato, una Parola di Dio da raggiungere attraverso, nonostante le incrostazioni delle parole e delle mediazioni maschili; dall’altro, un volto di Dio la cui connotazione paterna va ricompresa in profondità, depurata da ogni antropomorfismo patriarcale. Possiamo forse definire questa «ri-comprensione» di Dio Padre come una via obbligata per disegnare il «femminile» di Dio, restando all’interno della fede cristiana.

In altri termini, è nel mistero della Rivelazione di Dio come Padre che è custodita la possibilità, per le donne, di «nominarlo» con parole nuove, benché segnate dalla storia. Dalla loro storia, che è di oppressione ma anche di libertà. Qui vedo un grande compito per la teologia femminile.3 La difficoltà, e tuttavia la necessità, di misurarsi con la tradizione nata e cresciuta in loro «assenza», la fatica di una ricerca di fede («intellectus fidei») che deve districare la Parola di Dio dalle parole degli uomini (maschi) possono condurre a percepire i limiti, le approssimazioni, gli offuscamenti del discorso teologico. Fin dentro i «nomi» in cui al sommo grado (come quello di «Padre») si è espresso, sedimentato e identificato il bisogno umano di rivolgersi a Dio con il «Tu» della familiarità creaturale.

Fino a che punto questo «volto del Padre» può essere «femminile»? Questo mi sembra l’interrogativo cruciale a cui tentare di dare una risposta. Scartata — come si è detto — la via più facile di un «divino» che nella sua stessa indistinzione può accogliere la «differenza», che è inglobante perché pervasivo, restano altre strade alla riflessione teologica, o meglio esegetica, delle donne. Vi accennerò brevemente, sia perché da tempo praticate e conosciute; sia perché non mi sembrano andare alla radice del problema, dispiegarlo in tutta la sua fecondità. La prima poggia essenzialmente sulla Scrittura, veterotestamentaria anzitutto, ma anche evangelica, e ne ricerca tutti i «luoghi teologici» in cui appaiono incontrovertibili, attributi «femminili» di Dio: dalla Sapienza-Sophía all’espressione ebraica originale in cui la misericordia di Dio è riferita alle viscere uterine, fino allo Spirito-Rûah. Innumerevoli sono i passi biblici in cui il rapporto di Dio con Israele si configura nel segno della tenerezza e, si direbbe oggi, della «cura» materna. Né questo ci sorprende o incrina il carattere inevitabilmente patriarcale delle Scritture. È la ricchezza stessa di quel rapporto, sono le molteplici forme che esso assume nella storia, l’inesauribilità dell’amore di Dio per il popolo eletto a mobilitare, per così dire, tutte le risorse del linguaggio, a tentare le più ardite analogie con l’umano, maschile e femminile, per renderlo almeno in parte comprensibile. È in questo senso appagata la nostra ricerca di un volto «femminile» di Dio? Si colma, in questo modo, la storica distanza delle donne dalla religione «dei padri»?

Ugualmente sperimentata la via di un’interpretazione femminile o femminista del Vangelo, sulla traccia delle donne che Gesù incontrò. Si è sottolineato il carattere «trasgressivo» — rispetto alla cultura ebraica — dei comportamenti, dei gesti di Gesù verso il mondo femminile, si sono amorosamente cercate le impronte lasciate dalle donne nel cristianesimo delle origini, a partire dalla loro eccezionale testimonianza del Risorto.4 Operazioni tutte di un’ermeneutica «interessata» — per la coincidenza del soggetto e dell’oggetto della ricerca — e rigorosa, che ha rivelato la fecondità di un approccio così ardito da sconfinare talora in una «esegesi del silenzio». Il volto «femminile» di Dio si è così incarnato nel «discepolato di eguali» inaugurato dalla predicazione di Gesù Cristo, in forza della quale, come leggiamo in Gal 3,28, «Non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù». Tuttavia, questa lettura del Vangelo rischia a volte di dover diventare «antologica», evitandone i passi in cui il debito patriarcale appare più difficilmente aggirabile. Più difficile ancora negare che l’«inclusività» del messaggio cristiano originario poggia su un modello egualitario che va ben oltre la dialettica dei sessi o l’istanza della «differenza». Istanza che, a ben guardare, è la vera matrice culturale di un pensiero che quella «differenza» cerca nel volto femminile di Dio.

Mi pare che a questo punto i sentieri della teologia appaiano «interrotti», o che comunque non ci autorizzino a frettolose proiezioni rivendicazionistiche, forzando la Parola ad un ruolo ancillare rispetto alle nostre (di donne, ma anche di uomini) pur legittime speranze di liberazione.

4. «Ti conoscevo per sentito dire» (Gb 42,5)

Osiamo ripartire da Giobbe, dalla inesauribilità della sua figura. Icona della pazienza, cioè dell’ostinata, irriducibile volontà di ricomporre esperienza e fede, autocoscienza e accettazione dell’Altro, emblema di una fede interrogante, di una parola che non si arrende. Interessa forse, in questa sede, soprattutto — della figurazione giobbica — il confronto con le risposte, per così dire, preconfezionate dal linguaggio religioso, che rende immediatamente disponibili «volti» di Dio già-da-sempre detti. Sono quelli che i «tre saggi» propongono, difendendo — dinanzi alle proteste d’innocenza di Giobbe — la tesi (e dunque il volto) tradizionale di un Dio giusto che affligge solo i colpevoli di ingiustizie.

L’esperienza di Giobbe — il giusto che soffre — respinge queste mediazioni religiose che, se mettono a tacere la sua protesta, sottraggono a Dio il suo mistero. Il volto di Dio, totalmente illuminato da una teologia che abolisce la radice esperienziale dell’interrogare ed elimina quel «turbine» in mezzo al quale Dio parla al giusto sofferente, appare a Giobbe inaccettabile. Non se ne può appagare. Il «sentito dire» attorno a Dio non solo ne restituisce i lineamenti in modo sfocato, ma diventa un ostacolo ad una fede personale, incarnata, adorante.

Qui è la ragione della ricerca di un volto «femminile» di Dio. È il soggetto femminile, come soggetto di fede che non accetta il «sentito dire», a cercare quei tratti. Si tratta di «tenere insieme» l’esperienza del limite, della propria condizione e la domanda «su» Dio che da questa condizione, inesauribile, rinasce. Fino alla teofania che — annullando le mediazioni del linguaggio religioso/sacrale — fa convivere paradossalmente mistero e familiarità, parole e ammutolimento. «Ora i miei occhi ti vedono», dice Giobbe alla fine del suo lungo contendere. Diremo poi i limiti di questo «vedere». Se il «femminile» di Dio è quello che gli occhi delle donne vedono, oltre un «sentito dire» che storicamente le ha escluse, certo esso si dà come mistero familiare, come Altro che non si comprende e a cui tuttavia si può dare del Tu: «Ascoltami e io parlerò, io ti interrogherò e tu istruiscimi». (Gb 42,4).

Nessuna proiezione patraircale, ma neppure — al contrario — matriarcale può espropriare Dio del suo mistero. Ovvero può razionalmente garantire la tensione comunionale tra l’uomo — maschio e femmina — e Dio. Il «femminile» di Dio è un altro «nome» per dire il suo mistero. Anzi: è il volto in ombra del Padre, oscurato dalle mediazioni patriarcali.

5. Attraverso il padre

Se il «femminile» di Dio è reso latente dalle incrostazioni del «maschile», nelle quali spesso si è consumato il desiderio delle donne di una fede liberante, è anche vero che al volto paterno non corrisponde — se non per approssimazione analogica — l’esperienza umana (maschile e femminile) della paternità. È «oltre» questa esperienza, al di là dell’ordine simbolico e dell’assetto culturale che ne sono scaturiti, che traspare il volto del «padre celeste». In questo senso anche — forse — vanno lette le paternità «straordinarie» delle Scritture: da Abramo a Zaccaria, fino a Giuseppe sposo di Maria.5 Dove la straordinarietà biologica apre ad una «ulteriorità» di significazione dell’esperienza paterna e, in ultima-estrema analisi, al superamento dei limiti culturali di un «ordine» in cui quell’esperienza è assunta come garanzia di identità e fonte di riconoscimento-potere sociale.

Nell’immagine di questo «Padre che è nei cieli» le donne avranno — o potranno aver — riconosciuto uno «scarto» tra il proprio desiderio di familiarità creaturale e il linguaggio predisposto per invocarlo, e con esso il segno di una subordinazione escludente. Di qui la ricerca e la rivalutazione del «femminile» in Dio e delle sue traccie scritturistiche. Tuttavia, sulla loro strada, potrebbero con interessanti esiti (per la fede e per la storia) anche gli uomini riconoscere lo scarto, la non-sovrapponibilità tra il «paterno» umanamente esperibile e il paterno divino, inteso come rappresentazione analogica dell’amore di Dio. Ugualmente analogico, certo, anche il «femminile». Ricorrere ad esso non è operazione aggiuntiva, né — tanto meno — rivendicativa. Si tratta, piuttosto, di riconoscere che la proiezione del maschile sul volto di Dio può «normare» l’umano in questo segno, ma non può catturare ed esaurire il suo mistero vivente. E d’altra parte l’integrazione del femminile può arricchire quel mistero di altri «nomi», ma non può presumerne una dualità antropomorfica. Una sorta di proiezione teologale delle «pari opportunità».

6. Oltre i nomi

L’insufficienza della nominazione umana rispetto al Dio vivente appartiene al più antico, fondativo nucleo veterotestamentario. Il connotato «paterno», da ultimo e definitivamente autorizzato dal Figlio, non smentisce tale insufficienza, se è vero che esso sprofonda nel mistero intratrinitario: «Non che almeno abbia visto il Padre, ma solo colui che viene da Dio ha visto il padre» (Gv 6,46). Dove pare di sentire un eco dell’originario: «Quando passerà la mia Gloria, io ti porrò nella cavità della rupe e ti coprirò con la mano finché sarò passato. Poi toglierò la mano e vedrai le mie spalle, ma il mio volto non lo si può vedere» (Es 33,22-23).

Quale, dunque, il senso del cercare, o sottolineare, un volto «femminile» di Dio, a partire da questa consapevolezza? Non certamente quello di «completare» quanto «manca» nella rappresentazione maschile-paterna. Piuttosto quello di convocare tutte le risorse del linguaggio per approssimarsi — «per speculum et in aenigmate» — a Dio. Il limite patriarcale della rappresentazione paterna può essere indicato dalle donne, dal loro «intellectus fidei», e spingere — donne e uomini — a superarlo nella ricchezza del «femminile». A condizione, tuttavia, di riconoscere contestualmente come anche questa ricchezza — che è cura, tenerezza, misericordia — per difetto esprime la sovrabbondanza d’essere, custodita nella rivelazione di «Colui che è». E se questa Rivelazione può essere interpretata come «cura» materna — «Si dimentica forse una donna del suo bambino così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere?» (Is 49,15) — la fedeltà del Signore eccede il modello umano, come leggiamo, non a caso, nello stesso passo (stesso capitolo, stesso versetto!) di Isaia: «Anche se queste donne si dimenticassero, io invece non ti dimenticherò». Il «femminile» di Dio ha il volto dell’amore delle madri, ma ne illumina il limite umano, ne rivela la defettibilità. Lo chiama, si direbbe, ad una somiglianza, all’autotrascendimento. In una parola lo desacralizza e lo immette nella necessità della redenzione.

Oltrepassare il volto paterno-maschile può essere, per le donne, una contingenza «storica», legata al recupero di un ordine simbolico «appropriato» al genere cui appartengono. Più decisivo ancora però, sul piano della fede, andare oltre anche il volto materno-femminile, rispetto al quale il giusto desiderio della fede colloquiale e intima potrebbe trasformarsi in una proiezione identitaria, appagata e, in ultima analisi, narcisistica.

Oltre i nomi, ma anche al di là dei generi, al di là del Dio dei padri, ma anche del Dio delle madri: questo il compito che attende chiunque — uomo o donna — cerchi di rivolgersi al mistero di Dio. Il cui unico «volto» può essere quello di Gesù Cristo, nato di donna, morto e risorto. Questo l’abbiamo «visto», secondo le parole di Giovanni:

Ciò che era fin da principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita (poiché la vita si è fatta visibile, noi l’abbiamo veduta e di ciò rendiamo testimonianza e vi annunziamo la vita eterna, che era presso il Padre e si è resa visibile a noi), quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunziamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi (1Gv 1,1-3).

7. Conclusioni

Impropriamente titoliamo in questo modo il paragrafo finale del nostro itinerario. Esso non «conclude», piuttosto accenna, intende accennare qualche pista possibile, a partire da considerazioni che — almeno intenzionalmente — hanno tentato di sgombrare la strada da equivoci fuorvianti.

Anzitutto: il «femminile» in Dio appare legittimato dal bisogno delle donne di trovare parole appropriate all’espressione di una fede autentica incarnata, liberante. Pur essendo rinvenibile, come si è visto, nelle fonti scritturistiche, possiamo dire che è nel nostro secolo — quello che, secondo la famosa affermazione di Luce Irigaray, ha il compito di «pensare la differenza sessuale» — che questo bisogno si coniuga con le più radicali istanze del pensiero delle/sulle donne. Ciò rende la ricerca del «femminile» in Dio non pretestuosa, ma anche in qualche misura rischiosa per la commistione di antropologia e teologia, ragioni della fede e ragioni culturali che vi possiamo trovare. In questo senso, può essere necessario distinguere il «femminile» in Dio dall’identificazione con il «genere»; analogamente, il maschile-paterno di Dio non può più — in nessun caso e modo — prestarsi ad usi, per così dire, «patriarcali». Il Dio dei padri e il Dio delle madri (chiamiamo così quelle immagini e quei «volti» di Dio maturati nei rispettivi percorsi storici degli uomini e delle donne, talora distanti e qualche volta contrapposti) lasciano il posto al mistero di Dio che parla agli uomini e alle donne, ugualmente e differentemente. La rivelazione può darsi come sollecitudine paterna o come «cura» materna, però incrociare l’uno o l’altro «ordine simbolico», assumere analogicamente connotati dell’uno o l’altro «genere», ma entrambi li trascende. Ovvero entrambi li chiama all’autotrascendimento, che è liberazione e redenzione.

La domanda «provocatoria» con cui si è aperto questo itinerario («Esiste davvero un Padre?») è nata dall’inquietudine di una donna di fronte ad un volto di Dio paterno-patriarcale, legate al rigore di una legge e di una censura che — dall’esperienza femminile e filiale terrena — allunga le sue ombre al «dopo». La risposta del volto materno-femminile di Dio, che le donne hanno sempre cercato, e con più consapevolezza forse nel secolo che sta per chiudersi, può allargare lo spazio della nominazione divina e renderlo più «abitabile» per loro, ed anche per gli uomini stessi.

Tuttavia, questa risposta va essa stessa attraversata e oltrepassata, perché non ne nasca un «ordine materno», rovesciato ma speculare rispetto a quello patriarcale. Così leggiamo nel profeta Isaia: «Quanto il cielo sovrasta la terra, tanto le mie vie sovrastano le vostre vie, i miei pensieri sovrastano i vostri pensieri» (Is 55,9). Il colloquio creaturale con Dio-Padre-Madre non è garantito da nessuna proiezione antropomorfica, femminile o maschile, ma dal Signore che, per primo e di sua iniziativa, ha parlato agli uomini e alle donne, nel turbine che fa parlare Giobbe e nel mistero teofanico che lo fa ammutolire, e tornare all’ascolto.


  1. E. Dikinson, Silenzi, a cura di B. Lanati, Feltrinelli, Milano 1986, p. 23. ↩︎

  2. Vorrei almeno ricordare gli studi di R. Guarnieri «Angela, mistica europea» in Angela da Foligno terziaria francescana, Spoleto 1991; L. Muraro, Lingua materna scienza divina, D’Auria, Napoli 1995. ↩︎

  3. Rinvio su questo punto al volume Gli specchi delle donne, a cura di Maria Grazia Fasoli, CENS, Roma 1994. ↩︎

  4. Tra i numerosi testi sull’argomento, citiamo appunto A. Valerio, Cristianesimo al femminile, D’Auria, Napoli 1990; E. Schussler Fiorenza, In memoria di lei. Una ricostruzione femminista delle origini cristiane, Claudiana, Torino 1990; E. Green, Dal silenzio alla Parola. Storie di donne nella Bibbia, Claudiana, Torino 1992. ↩︎

  5. Si veda R. Stella «Elogio di S. Giuseppe» Via Dogana, n. 24 (nov.-dic. 1995); eadem, «Pater-Pontifex», relazione al V Convegno internazionale personalista Bari (settembre 1998), Bailamme, dic. 1998. ↩︎