Religione e Narrazione. Indizi sull’identità post-secolare

Dovremo attendere un pezzo prima che la cronaca si camuffi in storia. Solo allora il volo di una formica (il solo che interessi) sarà d’aquila. Solo allora il fischietto del pipistrello ci parrà la trombetta del dies irae.

— Eugenio Montale, Le ore della sera

1. Questioni preliminari

Posto che, nell’ambito delle religioni rivelate, il singolo credente sia l’unico soggetto sociale predisposto alla «collisione ermeneutica» innescata dal rapporto tra questioni storiografiche e risposte etico-morali (il libro sacro espone la storia e pone la norma), le derive conflittuali della condizione post-secolare inoltrano lo status della comunicazione religiosa contemporanea nella strettoia della semantica relazionale: come si dice l’esperienza di fede? Qual è lo statuto linguistico del credente? Il fatto culturale religioso, oltre che delineare un tracciato storico, si realizza infatti secondo precise modalità linguistiche, le cui conoscenze comuni sono poste tra il fatto storico e la comprensione fideistica. Legittimare uno studio sulla configurazione retorica del testo sacro significa adoperare un metodo di indagine neutro in grado di verificare sia la forma letteraria, in senso metastorico, che quella etica, in senso narrativo.

La filosofia del linguaggio, a contorno del dibattito epistemologico sullo statuto delle scienze umane, sin dagli anni Trenta del XX secolo, denunciò la complessità del fatto storico, la cui verità non può dimostrarsi se non considerando il punto di vista dell’osservatore e la priorità di determinate strutture e congiunture sociali. I presupposti su cui le scuole francesi e inglesi arginarono il positivismo storico e l’annalistica d’archivio, a partire dalla fondazione degli Annales d’Histoire Economique et Sociale nel 1929, alimentarono concetti quali «fatto sociale» totale (cultura, società, politica) e «tempo sociale» (cicli, crisi, ripetizioni), introdotti dallo storico Fernand Braudel, che avrebbero diluito la linearità cronologica degli eventi, lasciando emergere le componenti micro-evolutive di tipo sociologico, filtrate non tanto dalle regolarità del discorso storico quanto dalle intenzioni motivanti la sua configurazione.

Fino agli anni Cinquanta, la critica operò dunque contro le pretese universaliste della scienza storica, agevolandone la rottura dell’arco destinale (la storia come teo-dramma) e l’inefficacia di strutture inferenziali (le leggi di copertura alla Hempel), inerenti ai modelli di spiegazione causale di tipo positivista. Sul versante inglese, William Dray (Lows and Explanation in History, 1957) dimostrò che la storiografia non asseconda consequenzialità logiche bensì pianifica una ricostruzione razionale dell’azione. Considerando che quest’ultima costituisce il principio originario di ogni vicenda narrativa, il compito esplicativo dello storico sarà inteso piuttosto in termini di intelligibilità letteraria che di prevedibilità cronologica. In base a tale assunto, la storiografia provvederà all’estrazione del valore cognitivo totale dell’evento, anteponendolo al principio formale di deducibilità logica.

Modulare la storia secondo tale atteggiamento narrativo implica affidarsi sia al contenuto descrittivo che alla dispensa ermeneutica del racconto, lasciando confluire, per intenderci, il piacere della story nel rigore della history: l’evento, contenuto nell’unità discorsiva, si allontana dall’universalismo storicista, «amministrato» dal criterio di significazione dello storico. L’effetto venne nominato da Louis Mink «metodo configurante» (History and Fiction as Modes of Comprehension, 1970): gli enunciati acquisiscono verità d’insieme, in relazione alla loro voluta concatenazione, così da conferire maggiore spessore alla comprensione piuttosto che al meccanicismo causale della spiegazione. L’innesto del narrativismo sul tronco della storiografia risale dunque all’apice della cosiddetta «crisi della coscienza storica», la cui prestazione epistemica rivela l’inefficacia un idealismo cognitivo non in grado di comprendere la natura dell’evento, il quale continua a persistere sulla soglia dell’Erlebnis individuale, almeno finché lo spirito del tempo (Zeigtgeist) non vi abbia colto l’interezza del destino storico.

L’ambizione storicista di verificare le cavità dell’esperienza attraverso la totalità della coscienza assume la propria forma divulgativa sul modello mimetico del romanzo storico o della storiografia descrittiva, il cui scopo è sedimentare gli effetti dell’evento. Tale il contratto realista che sfocia nell’impossibilità di circuire la storia per svelare la quiescenza del singolo dramma quotidiano, peculiare al modernismo letterario, da cui il contingente detiene la sola responsabilità oculare (non morale) della storia. Disciplinare il pensiero storico, ovvero resistere all’intreccio, si mostra dunque come il principale obiettivo della storiografia moderna: l’introspezione per sfatare il labirinto dell’accadere, nel tentativo di domare la tassonomia degli eventi, quindi edulcorarne la narrazione secondo l’estrapolazione di forme strutturali. Predisporre la ricerca in tal senso corre il rischio di adoperare la medesima prospettiva della scienza, ovvero asservire il linguaggio al medium neutrale del pensiero. Studiare le strutture del linguaggio significa sostenere il circolo vizioso dell’enunciato che diviene l’oggetto d’analisi che il soggetto della trasmissione. Tale impasse vede Roland Barthes imbastire i condotti della semiotropia, ossia la rotazione del linguaggio sul dominio del significante, cui giunge, in ritardo, il significato dissolto nella scrittura integrale:

il compito che si offre oggi al discorso dello strutturalismo consiste nel rendersi del tutto omogeneo al proprio oggetto; tale compito può essere assolto soltanto in due modi, entrambi altrettanto radicali: o con una formalizzazione esaustiva, oppure con una scrittura integrale.1

Benché il merito strutturalista fu quello di distinguere la scientificità del linguaggio dalla verità dell’oggetto, il suo mancato investimento storiografico denuncia l’effetto di reale, rimasto irrisolto, riposto sotto il segno del referente, il cui senso si mostra irriducibile al mero enunciato: indizi e funzioni rispecchiano i risvolti letterari di una struttura narrativa imprescindibile da ogni resoconto storico. Mentre l’atto sovversivo di Barthes nei confronti del paradosso strutturalista annuncia la morte dell’autore ma non rinuncia all’investitura semantica, l’imperare esclusivista del testo rischia di sfociare nella pretesa di considerare nullo lo statuto della comprensione storica. Qualora invece lo strutturalismo fosse la soluzione per estrarre la dimensione precomprensiva del soggetto, risulterebbe uno strumento anatomico legittimo, al fine di render conto dell’aspetto cognitivo-subliminale della storiografia. Le derive «anarchiche» di tale istanza, tuttavia, pur confondendo referente narrativo e significante linguistico, dispongono e mantengono il conflitto ermeneutico che il lettore è tenuto a decifrare o a svincolare dall’assedio del formalismo. La dissipazione dell’analogia classica, il cui isomorfismo problematico fu l’inizio della «svolta linguistica» degli anni Trenta, svela la propensione da parte della critica letteraria a verificare la genealogia narrativa del testo, il suo valore semantico, l’inchiesta sull’interpretazione. Le unità predicative minime istituiscono infatti un potenziale esclusivamente fraseologico anziché discorsivo: il limite dello strutturalismo è forse quello di scivolare dal materialismo del morfema alla metafisica del mitema?

Per intenderci, la semiotica del linguaggio, applicata alle scienze umane a partire dal 1916, anno di pubblicazione dell’opera di Saussure, Corso di linguistica generale, inoltra la distinzione tra langue e parole, rispettivamente la struttura e la manifestazione del segno, il canovaccio e la variante, all’interno dello studio dell’antropologia strutturale, fornendo maggiore validità alla dimensione metalinguistica del mito, la cui scomposizione costituirà il centro delle analisi operate in seguito da Lévi-Strauss. Il rapporto tra diacronia e sincronia della narrazione mitica, ovvero tra evoluzione e statuto generale delle unità linguistiche, allude alla possibilità di operare sui fasci di relazione sottesi dal mitema, nel corso delle varianti storico-letterarie. «Il mito è simultaneamente nel linguaggio e al di là di esso».2 Tale logica relazionale non sembra tuttavia sufficiente per conciliare il materiale formale, irriducibile al solo aspetto narrativo, né per dedurne un metodo che delinei stratificazioni, incroci e complessità letteraria: l’evento totale. Il frammento mobile primordiale di natura linguistica, come afferma Barthes, conduce il segno a stabilire relazioni con il proprio significato (coscienza simbolica) il sistema formale coesistente (coscienza pragmatica) e le serie mitiche ricomposte dall’immaginazione (coscienza sintagmatica):

il segno non è soltanto l’oggetto di una conoscenza particolare, ma anche l’oggetto di una visione, analoga a quella delle sfere celesti nel Sogno di Scipione, o anche alle rappresentazioni molecolari di cui si servono i chimici; il semiologo vede il segno muoversi nel campo della significazione, enumera le sue valenze, traccia la loro configurazione: il segno per lui è un’idea sensibile.3

Coordinare la «partitura d’orchestra»4 che realizzò Lévi-Strauss significa scioglierne la tassonomia analitica e concepire non soltanto la natura semiotica del mitema ma includere la potenza letteraria del tema, il relativo riconoscimento discorsivo e comparativo come parte integrante dell’epistemologia storica. Lasciar aderire il frammento ancestrale del mitema a strutture reali, semiotiche o psicanalitiche, rischia di disperdere la natura insolubile del racconto, così da invocare una fenomenologia letteraria «impossibile», finalizzata al raggiungimento dell’origine differita, inestricabile rispetto all’ordine del testo e alle procedure retoriche di formazione. Affermare con Barthes che il mito è «un sistema semiologico secondo»5 dimostra infatti che qualora sul piano della lingua ci soffermassimo esclusivamente sul senso, su quello del mito sarà sufficiente annotarne le forme metalinguistiche. Lo spazio proposizionale del mitema, divenuto, per così dire, la «maglia a rovescio del posto del re», occupato dalla presunta unità del soggetto premoderno, suggerisce dunque di deporre le armi dell’epistemologia per impugnare quelle della (ri) flessione metastorica.

2. Metahistory

Gli sviluppi dell’epistemologia storica e della critica letteraria di origine neo-strutturale permisero di comprendere ancor meglio il rapporto tra la natura dell’enunciato e la sua funzione prettamente formale. La concezione epistemico-discorsiva inaugurata da Michel Foucault e quella storico-tropologica introdotta dal filosofo americano Hayden White, in riferimento alla «preparazione» del discorso storiografico, trovano sentieri comuni nel campo dell’anatomia del sapere comune. La versatilità della designazione, le consuetudini lessicali, pongono le loro condizioni di esistenza sulla curva di ricapitolazione che la retorica imbocca sull’asse della storiografia:

e se le lingue hanno la diversità che constatiamo, se partendo da designazioni primitive che furono indubbiamente comuni a causa dell’universalità della natura, esse non hanno cessato di dispiegarsi in forme diverse, se inoltre hanno avuto ciascuna la loro storia, le loro mode, le loro abitudini, i loro oblii, ciò si verifica in quanto le parole hanno il loro luogo, non nel tempo, ma in uno spazio in cui possono trovare il loro sito d’origine, spostarsi, rigirarsi su se stesse, e svolgere lentamente un’intera curva: uno spazio tropologico.6

Hayden White integra in tal modo alla teoria di Foucault le coordinate che ne completano l’aspetto storico e filosofico, tramite l’analisi approfondita dei tropi, impliciti all’organizzazione formale del testo: la storia epistemica di Foucault invita l’analisi di White ad incidere sull’aspetto propriamente retorico-figurale del discorso storico. Le figure di pensiero (tropi) declinati secondo le pratiche discorsive delle epoche, determinano lo stile di ciascun episteme: ogni epoca corrisponde alla combinatoria culturale di uno stile. La distanza tra segno e mondo è ridotta all’applicazione di un’interfaccia storiografica che immette la procedura lessicale nella sedimentazione e nell’archiviazione del sapere storico. L’episteme rinascimentale, ad esempio, riconosce nella categoria della somiglianza la corrispondenza «realista» tra il segno e la cosa. Il tropo rispettivo corrisponde alla metafora, la quale sostituisce, emula e conviene alla sintonia del discorso. Il concetto di rappresentazione, tipico della proto-modernità o età classica, conduce l’identità referenziale al bivio del discernimento tra analogia e differenza: il rapporto metaforico di somiglianza ingloba e converte i vettori del significato in rapporti metonimici o sineddochici (estrinseco o intrinseco, a seconda della qualità o della quantità che la parte assume per il tutto) tra il soggetto e la polisemia del reale, da cui il conflitto linguistico reclama il formalismo delle ricomposizioni, come unica soluzione epistemologicamente valida. La dissoluzione dell’uomo moderno evocata da Foucault, sulla base dell’elisione del chi parlante a favore del cosa scrivente, assolverà, a conferma di White, l’episteme contemporaneo sul piano tropologico dell’ironia dissimulante, tipica dello scetticismo relativista, tipica delle questioni etiche contemporanee che si sfaldano nel corso di un rimuginare «tradito» da un parodico relativismo.

Decodificare la «coerenza narrativa» del discorso significa dunque filtrarne le figure di pensiero e le premesse teoriche che lo storico utilizza per l’opera di mediazione tra l’evento e la sua traduzione linguistica. White riconosce che i maggiori storiografi e filosofi della storia del XIX secolo proposero modelli di studio illuminanti, non tanto per gli eventi o la loro esplicazione quanto per la disposizione linguistica del processo e la poetica dei suoi livelli di organizzazione.

Historians such as Michelet, Ranke, Tocqueville, and Burckardt; and philosophers of history such as Hegel, Marx, Nietzsche and Croce […]. Their status as possible models of historical representation or conceptualization does not depend upon the nature of the «data» they used to support their generalizations or the theories they invoked to explain them; it depens rather upon the consistency, coherence, and illuminative power of their respective visions of the historical field. […] Their status as models of historical narration and conceptualization depends, ultimately, on the preconceptual and specifically poetic nature of their perspectives on history and its processes. All this I assume as a justification of a formalist approach to the study of historical thinking in the nineteenth century.7

L’aspetto storico-narrativo non può dedursi dalla semplice registrazione degli eventi: la narrazione storica riporta e traduce un complesso di circostanze, codificate secondo un intreccio formale (emplotment), che permette di essere compreso, valutando sia la contingenza personale dello storico che la resistenza opposta dai limiti linguistico-testuali. La natura narrativa della storiografia non trascura, inversamente, il valore storiografico della narrazione, poiché tutto accade nel potere dell’espediente letterario, comune sia allo storico che al romanziere. In tal senso, la produzione di conoscenza non risulta meno esaustiva dell’analisi scientifica sui documenti; essa, al contrario, ne moltiplica le varianti e le comprensioni possibili. Storici come Michelet e Tocqueville espongono le vicende della rivoluzione francese secondo modalità letterarie, romanzate o tragiche, che ne stabiliscono l’effetto narrativo, istallato su una determinata procedura d’intreccio. Partendo dal presupposto che gli eventi storici appaiono in sé «neutrali» all’occhio del ricercatore, tutte le operazioni di disposizione e composizione storica si prestano a inserire l’oggetto nella rete della spiegazione, al fine di ricavarne gradualmente sia l’argomentazione che l’implicazione ideologica. La logica del compimento comprime così la successione degli eventi secondo strategie interpretative o artifici che, oltre a delimitare il campo d’indagine, rivelano la struttura metastorica dell’opera, la tela a rovescio da cui si svilupperanno fermentazioni teoretiche o ideologiche. L’organizzazione del discorso necessita di una prefigurazione intuitiva del campo storico, il quale poggia sulla tropologia quadripartita di metafora, metonimia, sineddoche, ironia.

La tropologia di White attribuisce dunque ad ogni oggetto di studio una valenza sia storica che narrativa: la prima sarà stabilita da una descrizione sequenziale, in accordo con la critica delle fonti, la seconda affiderà ad ogni evento (processi, istituzioni, agenti storici) una tipologia letteraria, organizzata secondo livelli di comprensione verticali:

The tropes permit the characterization of objects in different kinds of indirect, of figurative, discourse. They are especially useful for understanding the operations by which the contents of experience which resist description in unambiguous prose representations can be prefiguratively grasped and prepared for conscious apprehension.8

I tropi prescrivono forme retoriche, il cui postulato risiede nel campo comunicabile delle relazioni tra gli archetipi, incidenti sul timbro stilistico della narrazione. White riconsegna pertanto la storiografia sia al dominio del testo scritto (secondo l’impronta strutturalista), sia alla libertà dello storico, cui è riservato lo spazio concettuale per compiere il «movimento induttivo verso l’archetipo».9 I fondamenti della critica letteraria di Frye furono impiegati da White principalmente con l’intento di concepire la storia come un problema di strutture-archetipo. Il primitivo preletterario insorge dal formulario di base elementare, dai contenuti mitico-poetici (rituale, mito, folk tale), che intercorre tra la psicologia dell’autore e l’immaginario collettivo. Una volta divenuto oggetto di critica letteraria, tale bozza concettuale si organizza secondo ritmi temporali (stagioni, fasi del giorno, ritmi agricoli) e moduli spaziali (immagini) fondati su ricorrenze specifiche. In breve, «la narrazione di un autore è il suo movimento lineare; il suo significato è l’interezza della sua forma compiuta».10 La totalità del significato proviene dunque dalla disposizione sistematica di strutture minime inconsce, tendenti al «dovere» sincronizzante del testo. Potremmo intendere la narrazione come il complicarsi di un atto primordiale, ordinante movimenti ricorrenti, naturali e oracolari. L’incomunicabile mitico, suggerito da Frye, può aiutarci a tradurre il concetto di prefigurazione presente all’interno della teoria di White, implicito ad ogni processo di ricognizione storica o storiografia.

I frammenti di significato, sono, in origine, oracolari, e derivano dal momento epifanico, dal lampo della comprensione istantanea che non ha nessun diretto riferimento al tempo, cosa questa la cui importanza è messa in luce da Cassirer in Myth and Language. Quando arrivano a noi, sottoforma di proverbi, enigmi e leggende etiologiche, vi è già in essi anche un notevole elemento di narrazione. Anche essi sono tendenzialmente enciclopedici, venendo a costruire, da frammenti casuali ed empirici, una struttura globale di significati, o dottrina. E proprio come la narrazione pura sarebbe un atto inconscio, così il significato puro sarebbe uno stato di coscienza incomunicabile, poiché la comunicazione comincia dalla costruzione narrativa.11

La tropologia formalizza dunque in figure retoriche ciò che l’archetipo predispone nell’atto intuitivo. Procedere in questi termini, pone in ogni caso il rischio di un determinismo linguistico, la cui griglia retorica potrebbe contaminare l’interpretazione del testo, contratta dentro configurazioni presidiate dall’analisi linguistica. Fu tuttavia Ricœur a concepire la teoria dei tropi come momento necessario all’espressione del rapporto tra discorso storico e passato «reale». Egli rese indispensabile per la costituzione dell’intrigo l’utilizzo di funzioni di rappresentanza quali metafora, metonimia, sineddoche e ironia, così da garantire la trasformazione «dell’esser come dell’avvenimento passato in fatto linguistico».12 Concepire i tropi come naturale disposizione del testo potrebbe annullare la distinzione tra discorso figurativo e discorso letterale? La funzione metalinguistica della tropologia, conferma Ricœur, pur mirando allo studio del codice non ne disperde il referente, tutt’al più «essa fornisce alla nozione di rappresentanza, il come e il così come i fatti sono accaduti».13 White conferma che tali strategie di configurazione non sono vincolanti per la comprensione del timbro semantico; esse pongono il confine tra l’evento e il fatto, relegando quest’ultimo a risultato di una descrizione linguistica — fatto-logica appunto, che chiede di consegnarsi al possibilismo delle costruzioni, alle forme di un proprio modalismo letterario.

La cesura tra cronaca e storia costituisce la matrice preliminare dell’aderenza narrativa al discorso storico pronunciata da White. I vuoti annalistici permettono di cogliere, per via di contrasto, fino a che punto la narrativa si sforzi di raggiungere l’effetto di riempimento storico, secondo figure di continuità, coerenza e significato. Fare storia significa spesso colmare i vuoti della cronaca o degli annali tramite un atto integrativo di natura letteraria. Tale operazione fu definita da Roussel, nell’ambito della letteratura potenziale, come «amalgama narrativo». Quest’ultimo può ottenersi, oltre che a partire da una cronologia lacunosa, anche dall’isolamento di elementi linguistici disparati. La teoria di Roussel s’inserisce nel processo di esfoliazione del linguaggio che trae vantaggio da buchi storici o linguistici per poter «inventare» nuove forme letterarie che contengano vocaboli per ogni stile e stili per ogni vocabolo. Tali indicazioni, se pur originariamente opposte al metodo impiegato da White, non negano tuttavia la centralità del cosiddetto «disturbo della contiguità» modernista: il moderno è discontinuo così come lo erano le prime forme di storiografia intrise di mitologia. L’incapacità di riscrivere il processo storico passato fu definita da Müller «dimenticanza lessicale»: vicende attraversate da parole con semantiche differenti non riuscivano ad emergere nella loro interezza storica, così si dimenavano tra la verità e l’invenzione letteraria:

La mente umana, ignorando le diverse fasi del processo che ha portato una parola dal suo significato originario a un significato metaforico, sostituisce ad esse dei passaggi surrettizi, legando con un’invenzione, con un racconto immaginario o mito, la stazione di partenza e quella di arrivo. Si ha in altri termini quella che Saussure chiamerà «immaginazione per lacuna di memoria.14

Il compito dello storico sarà quello di fornire differenti modalità di spiegazione, ordinate a partire dall’intuizione prefigurativa, che sostituiscano i buchi storici con l’artificio della parola e delle intenzioni. La storiografia che White pone nell’atto della variabilità retorica può dunque definirsi potenziale nella misura in cui, come la letteratura, tiene conto delle procedure linguistiche applicate dallo storico, secondo «costrizioni» modali o tropologiche. Occorre crearsi delle costrizioni, affermava Umberto Eco, per poter inventare liberamente, allo stesso modo le strutture d’intreccio o d’argomentazione rilevate da White all’interno delle forme storiografiche del XIX secolo, non mutilano l’ordine della narrazione, bensì lo rendono essenziale per la virtualità e la relatività delle possibili interpretazioni:

sulla base della strategia prefigurativa tropologica quadripartita (metafora, metonimia, sineddoche, ironia), Hayden White formula quattro modi d’intreccio (romantico, tragico, comico, satirico), quattro modi di argomentazione storica (formalistico, meccanicistico, organicistico, contestualistico), quattro modi di implicazione ideologica (anarchia, radicale, conservatrice, liberale) .15

La spiegazione secondo l’intreccio è simile alla suddivisione tra romanzo, tragedia, commedia e satira proposta da Frye per distinguere categorie letterarie narrative anteriori ai comuni generi. In Anatomia della critica l’associazione tra cosmologia simmetrica e grammatica delle immagini letterarie, da Dante a Yeats, si produce dalla struttura dei movimenti fondamentali della narrativa: il movimento ciclico (ordine naturale) e il movimento dialettico (dall’ordine naturale a quello soprastante).

La metà superiore del ciclo naturale è il mondo del romance e l’analogia dell’innocenza; la metà inferiore è il mondo del realismo e l’analogia dell’esperienza. Ci sono perciò quattro tipi principali di movimento mitico: all’interno del romance, all’interno dell’esperienza, verso l’alto e verso il basso. Il movimento verso il basso è il movimento tragico, che segna il passaggio della ruota della fortuna dall’innocenza all’hamartia o dall’hamartia alla catastrofe. Il movimento verso l’alto è il movimento comico, che segna il passaggio da complicazioni minacciose a un lieto fine e generalmente presuppone uno stato d’innocenza scoperto a posteriori, nel quale ciascuno vive per sempre felicemente. […] Se ci viene detto che quanto stiamo per leggere è tragico o comico, noi ci aspettiamo un certo tipo di struttura e di intonazione, ma non necessariamente un certo genere letterario. Lo stesso si può dire della parola romance, e anche delle parole ironia e satira che sono, nel modo in cui vengono di solito usate, elementi della letteratura d’esperienza, e che adotteremo qui al posto del termine realismo. Abbiamo così in letteratura quattro elementi narrativi che, logicamente, sono anteriori ai genere e che chiameremo mythoi o trame generiche.16

La spiegazione secondo l’intreccio conferma a priori il tipo di storia attraverso avvenimenti che, una volta ordinati in sequenza, suggeriscono movimenti convenzionali tra forze che accrescono o diminuiscono la quest dell’eroe (nascita, apoteosi, sacrificio, dissoluzione) nell’ordine della natura e in quello dell’esperienza.

The Romance is fundamentally a drama of self-identification symbolized by the hero’s transcendence of the world of experience. […] The archetypal theme of Satire is the precise opposite of this Romantic drama of redemption; it’s, in fact, a drama of diremption, a drama dominated by the apprehension that man is ultimately a captive of the world rather than its master. […] In Comedy, hope is held out for the temporany triumph of man over his world by the prospect of occasional reconciliations of the forces at play in the social and natural worlds. […] In Tragedy, there are intimations of states of division among men more terrible than that which incited the tragic agon at the beginning of the drama.17

L’argomentazione sottende le modalità di successione degli eventi, destinate a forme d’interpretazione formalistica (meccanicistica) o generalizzante (organicistica o contestuale). Quest’ultime agiscono sul livello epistemologico dell’esplicazione, diversamente dai modi d’intreccio che denotano quello estetico. Per finire, la strategia narrativa riflette implicazioni ideologiche che si diversificano secondo il tempo storico di riferimento o precise prescrizioni d’azione, specifiche per generali classificazioni del pensiero politico: anarchico, conservatore, radicale o liberale.

The ideological dimensions of a historical account reflect the ethical element in the historian’s assumption of a particular position on the question of the nature of historical knowledge and the implications that can be drawn from the study of past events for the understanding of present ones.18

A partire dagli anni Settanta, le deduzioni che dispongono l’impianto metastorico di Hayden White a contorno delle dinamiche post-strutturali videro la critica letteraria svincolarsi dall’autarchia del New Criticism americano e dal formalismo russo. La comunicazione narrativa, intesa sia nell’accezione storica che in quella letteraria, analizzata secondo categorie sincroniche e formali, continua tuttavia a non risolvere le aporie epistemologiche inerenti al rapporto tra logica formale del testo e logica funzionale del discorso. Il discorso storico sostiene per intero la sincronia del linguaggio? La retorica formale può considerarsi autonoma rispetto al divenire delle forme del racconto?

Potremmo pensare il passaggio dalla retorica del testo storico, rinvenuta da White, alla retorica del testo sacro in qualità di atto «comparativo» che legittimi l’intercambiabilità tramite un’evoluzione letteraria di genere. Il genere, come spiega Guillèn, «funziona spesso come modello concettuale».19 Esso presuppone la permanenza di una struttura cui lo storico-letterato conferisce alterazioni e omissioni, per cui «la differenza che lega un genere ad un altro può essere definita come l’esercizio di una determinata funzione».20 Il processo che dal discorso orale perviene all’opera scritta vanta la medesima origine antropologico culturale (il mito è un genere della storia) ma si distingue per funzioni sociali differenti. Il deposito dell’humus narrativo, sebbene comune, non permetterà di separare facilmente la mitografia dalla storiografia. Müller torna ad estrarre quel fattore d’incompletezza cui risponde la ricerca storica, al momento di chiarire il «residuo non risolto» che la tradizione colloca nell’immaginario mitico di ogni cultura.

Il mito inteso come unità metatestuale funge da espediente teorico per contenere sia le proprietà formali della narrazione che la contingenza del genotesto, la sua predisposizione alla variante. La natura narrativa del mito è data dunque dal variare della parole, il cui statuto potrebbe affiancarsi all’analisi che Julia Kristeva riserva alla prosa letteraria. Il concetto di «prosa totale», inaugurato da Bachtin e rielaborato successivamente dalla semiologa bulgara, nelle Ricerche per una semanalisi, rivolte nello specifico allo studio del romanzo, potrebbe fornire uno strumento di metodo su cui basare l’analisi trasformazionale del testo sacro. Per analisi trasformazionale intendiamo concepire il discorso narrativo come frutto di intenzioni e mutamenti precedenti alla forma compiuta (fenotesto). L’opera di ritaglio e coordinamento che Barthes inseriva a capo dell’analisi strutturale continua a provvedere all’estrazione di «motivi» intelligibili o unità virtuali, provenienti dal materiale semiotico, destinati, in senso filosofico-linguistico, a legittimare il «paradosso» di Lévi-Strauss, e, in senso letterario, a ri-codificare la casella vuota tra significante e significato.

L’asintoto tracciato dalla conoscenza rispetto al significante primordiale, al potenziale fluttuante che precede l’occupazione del senso, fu ripercorso dalle suggestioni di Deleuze come «racconto della parola esoterica»,21 indicando in quest’ultima il congegno del paradosso. La presenza delle serie, significante e significata, costituite rispettivamente da un eccesso e un difetto di collocamento, ammettono «la servitù di ogni pensiero finito, ma anche la condizione di ogni arte, di ogni poesia, di ogni invenzione mitica ed estetica»,22 detengono dunque il posto mancante della casella, la smentita che ri-crea la materia porosa del mito, l’irruenza del linguaggio nell’amalgama della rivelazione senza autore. Tale risulta il paradosso della struttura. D’altra parte, la codificazione del significante entro le schiere della parola suscita il sintomo di un passaggio dissacrante tra codici differenti, orale e scritto, collettivo e personale, riconoscendo allo stesso tempo la funzione di contenimento e coincidenza che la letteratura opera rispetto al materiale mitico.

Tale questione suggerisce la necessità di considerare alcuni elementi che differenziano il mito letterario dal mito etno-religioso. Mentre il mito etno-religioso preesiste rispetto al testo scritto attraverso una tradizione orale e collettiva, quello letterario fornisce situazioni esemplari, iter simbolici, tratti dal mito d’origine o dalla realtà, rielaborati e consolidati nel tempo secondo «temi», ricorrenti nelle favole, leggende, saghe: il circuito narrativo che dal misfatto iniziale conduce al compito difficile dell’eroe, messo alla prova per ottenere il riconoscimento e l’onore da parte della comunità sociale, sancisce il carattere della rottura e rifondazione del patto sacro con il divino. La portata «transmetaforica» del testo biblico, in concreto, condurrà Northrop Frye ad ammettere l’impossibilità di un linguaggio mitico puramente descrittivo. Il rapporto tra kerygma e mito assume i tratti di un veicolo linguistico non contrastante, come si presenta nella teologia di Rudolf Bultmann,23 bensì inerente al possibile storico che il mito inoltra al momento stesso della ricreazione letteraria. La funzione del mito assume i tratti ambivalenti del racconto orale e della prosa scritta. Nonostante esso non possa uscire dalla storia, allo stesso tempo può scegliere di redimersi da essa, secondo cadute e sollevamenti continui. L’ordine delle parole suscita nel testo sacro metafore e tipizzazioni non sempre fedeli al contesto storico d’origine, la cui struttura narrativa, procedendo dall’ascesa alla catastrofe, nel caso del testo biblico, compone uno schema a U, associato sempre a un Salvatore o Messia che la figura di Cristo contiene in tutte le sue forme storiche e autorevoli:

in quanto eroe dell’intera narrazione biblica, Cristo unisce in sé tutti i tipi di autorità, in particolar modo quelli di profeta, sacerdote e re. […] La Bibbia non accetta la concezione greca dell’eroe, ma persino lui non si può dire una figura tragica nel senso greco del termine: una figura dotata di aspetto, forza, ascendenza e eloquenza superiori all’ordinario e quasi in grado di far proprio un destino divino.24

3. La spirale dell’origine

Percepire il testo sacro come opera d’arte umana sollecita in definitiva l’insistenza laica di verificarne il processo di formazione, le strutture narrative, la complessità di una poetica che s’interpone tra l’autore e il lettore. Emerge dunque una terza interfaccia cui riferirsi sull’accordo critico che bilancia il lettore e il «così com’è» del testo in una fruizione prima di tutto letteraria. Il concetto di «paternità letteraria» disperde il proprio valore, al momento di constatare che la composizione della maggior parte dei testi sacri non è altro che il frutto di un processo di rielaborazione e interpolazione che distoglie dall’impervia caccia all’originale, concedendo di aderire alla norma dello pseudo epigrafico o dell’autore plurale che la ricerca del «vero» intende ancora privare di razionalità. L’ostinazione della logica storica a descrivere l’obiettività del fatto inciampa inevitabilmente nelle formule retoriche e narrative della sua stessa prosa, rese sistemiche dal testo sacro a partire dall’infinitesimale delle fonti primariamente orali. Il patrimonio letterario di una civiltà, ciò che si formalizza nello spirito di «conservazione», coincide inizialmente con delle procedure cultuali che s’istaurano in via ufficiale dal sostrato poetico mitologico e che la tradizione orale condensa in cicli e temi di racconti a carattere principalmente celebrativo.

Quando un testo diviene letteratura? La domanda potrebbe apparire retorica ma qualora conferissimo al termine «letteratura» il rimando esclusivo al testo scritto, tale leggerezza ci condurrebbe a considerare in termini letterari persino gli appunti mercantili presenti sulle tavolette micenee. Il termine latino «litteratus» rimanda a colui che è fornito di istruzione, l’erudito di grammatica e filologia. Riteniamo tuttavia sia necessario chiarire l’aspetto letterario della comunicazione, tenendo conto della risonanza storico-sociologica che un testo di letteratura dovrebbe comportare: ricorrenze e celebrazioni, elenchi di dei e sovrani, teogonie e cosmogonie, se pur primitivi nello stile e cronologicamente lacunosi, descrivono il fervore con cui la comunità circoscrive «paesaggi simbolici», direbbe Madeleine Biardeau, intorno all’origine del mondo, al corpo degli eroi e allo spirito dei maestri, riportati nella forma «colta» della loro trasmissione. Adoperare strumenti critici al momento di studiare il testo religioso significa edulcorare saggiamente la verità per rivelarne il gioco di contaminazioni e ricorrenze, situato non fuori dalla storia ma nelle forme dei suoi costumi. I generi impiegati dalla letteratura religiosa sono diversi. Tra gli altri la poesia, tipica della tradizione orale, comprende inni, scongiuri, lamentazioni, canti sacri, riuniti in un «corpus» dottrinale che in genere trascura la fedeltà delle forme linguistiche originarie. La creazione di una «scrittura sacra» risponde all’esigenza culturale di rendere «nobile» anche una religione, attraverso prescrizioni giuridiche che mantengano un assetto etico. La formazione dell’Avesta, ad esempio, rispecchia le difficoltà di intendere un nucleo originario di partenza, in quanto i testi religiosi zoroastriani risalenti al VII secolo a. C. furono ordinati durante l’epoca sassanide (IX secolo d. C.) in forma teologica, secondo la traduzione in pahlavi dell’antica lingua iranica. Il testo (apastak) diviene fondamento della religione al momento di stabilire la lingua che confermi l’identità di una civiltà: la classe sacerdotale fu pertanto redattrice di un annuncio ineffabile, il cui compito intercede sul momento «aleatorio» di tradurre il materiale di rivelazione in mito, esegesi (zand) e storia.

Non ci occuperemo in tal sede di verificare il senso antropologico della relazione tra tradizione orale e cultura scritta. Risulta opportuno tuttavia constatare la precarietà dell’indagine storica che intende collocare le forme del religioso sulla nitida cronologia della loro successione. L’approccio introduttivo di Madeleine Biardeau allo studio dell’induismo, fenomeno composito in cui tradizione rivelata e narrativa di devozione s’intrecciano in senso polifonico, conferma la difficoltà nel ridurre i dati storici ad un’indagine sistematica:

la documentazione di cui si dispone non si presta a ciò, né per mole, né, soprattutto, per il contenuto, poiché parla d’altro che di «storia». L’elemento psicologico e individuale, il movimento collettivo momentaneo, la moda, ci sfuggono… o sono forse, più semplicemente, assenti? Infatti, uno studio rigoroso delle mentalità deve guardarsi dal considerare tali lacune come se fossero negative e ponessero un limite all’investigazione. Esse hanno, al contrario, valore euristico, ove si considerino come indici di ciò che l’indù vuole o può dire di se stesso. Non si nasconde ciò che l’impresa ha di rischioso, nonostante tutto: come si può esser certi che la riduzione del fatto alla norma non nasconda l’intrusione d’una contingenza storica i cui dati ci sfuggono? […] Ci dedicheremo, dunque, più modestamente, a mostrare la probabilità d’una interpretazione, moltiplicando gli approcci, senza dimenticare che le prove più solide possono rivelarsi anch’esse ingannevoli, che l’aneddoto insignificante può prendere un andamento di mito per meglio caricarsi di senso. Si scommetterà, insomma, per il senso, pur sapendo che il «non senso» esiste.25

La riflessione della Biardeau ci trattiene a buona distanza dal considerare il corpus della letteratura attraverso la lente esclusiva della filologia-storica. La pretesa di ricostruire i caratteri del fenomeno religioso sulla base delle interpolazioni testuali, degli errori dell’autore e del presunto realismo cui spesso si volgono le analisi di critica letteraria, non concede tregua alle convenzioni dell’immaginario che si dilegua al momento di contarne gli strati ma che permane nelle maglie mobili della coscienza collettiva. Una volta sancito il disarmo storico della mitografia, postulare il concetto di narrazione come strumento cognitivo per lo studio dell’esperienza e del fenomeno religioso diventa il principio portante del nostro percorso.

Cos’è narrazione? Come si distingue dal racconto? Una risposta di metodo perviene dall’analisi fondamentale di Gèrard Genette, il quale propone di pensare la storia in riferimento agli eventi, il racconto in relazione al discorso orale o scritto da quest’ultima scaturito e la narrazione, come a indicare l’atto pragmatico che instaura simultaneamente sia la storia che il racconto nel campo della finzione mai pienamente decretata.26 I generi che occupano lo spazio letterario della scrittura «sacra»27 coinvolgono sia la poesia di rivelazione che il racconto storico o mitico. Quest’ultimo sintetizza la dimensione della narrazione intesa, nell’accezione di Genette, come pratica generale di trasmissione nell’ordine di una trama tradizionale, ovvero eseguita secondo un impulso «né storico, né creativo ma ri-creativo»,28 nonché funzionale al recupero genetico della memoria collettiva.

La poetica preletteraria, che Burkert fa risalire ai primordiali resoconti sciamanici,29 esposti in maniera radicale alla ricerca e all’espiazione dell’ignoto, assume forma ufficiale al momento di concatenare gli eventi sul modus dell’epica corale. Il distacco dalla «tirannia della tradizione», espressione impropria che Scholes impiega per definire la causa della distinzione tra storico-mimetico e romance, non risolve la questione metodologica riguardante la natura della letteratura religiosa, fondata sulla logica della narrazione. La cesura enunciata da Scholes infatti non può escludere il legame che il corale epico continua a intrattenere con il carattere retrospettivo e «inesorabile» del racconto. Dalla rivelazione vedica (Sruti) alla tradizione della Smrti, ad esempio, il principio di narrazione continua a sussistere, diversificando funzioni e forme (esegetiche, giuridiche, encomiastiche) e conferendo, tramite il racconto, «una struttura di senso»30 non del tutto libera dal sublime ancestrale: l’epica, potremmo dire, generativa del Mahabharata non possiede alcun senso senza tener conto del patrimonio dei testi vedici precedenti.

Lo sgomento del dramma cosmico proclama l’urgenza universale di comporre l’esperienza del sacro, comune o individuale, in sequenza diegetica, raccontata, la quale impone un universo di significato che va al di là della semplice successione indiretta dei fatti e che conserva un nucleo originario difficilmente localizzabile. Le varianti che scaturiscono dal mito o dalla rivelazione possono assumere funzioni narrative differenti, nonché conseguire uno spazio d’interpretazione il più delle volte non canonico, finalizzato principalmente alla chiarificazione, all’apologetica o alla creazione di regolamenti sociali che spesso mirano ad una com-plicazione teologica tutt’altro che minimale. Ancora la narrativa induista distribuisce il materiale della cultura vedica (samhita), attraverso l’azione epica del Mahabharata e della Bhagavadgita, da cui proseguiranno l’intero codice etico e religioso dello spirito indiano e l’emancipazione del sapere dalle cerchie dei brahmani. Il racconto possiede in questo caso la proprietà di autodefinirsi in maniera risolutiva o radicale rispetto la tradizione, senza mai perderne di vista i punti cardine ma configurando uno spazio d’intromissione. Tale tesi è dimostrata dal passaggio che dalla supremazia del rituale brahmanico conduce alla dedizione teistica (bhakti) non sacrificale. Il mutamento avviene in primo luogo attraverso la formazione di una letteratura accessibile a tutti, nonché tramite la sostituzione della lingua sacra, il sanscrito, con il pracrito volgare.

Se dunque la lingua volgare è la torsione pubblica dell’esoterico, si potrebbe considerare la lente narrativa come l’articolazione dell’azione, la vicenda su cui far giocare il volere di un dio e la salvezza dell’eroe? La dottrina degli «avatara», l’incarnazione di dio in forme riconoscibili all’uomo, diviene strumento per consentire tale vicinanza. Sia l’induismo che il buddhismo ordinarono il loro canone, combinando i vari sutra (o sutta, in pali), sentenze minime, l’ordinamento del rituale vedico d’origine, con i racconti didascalici. Il canone buddhista pali (tipitaka) comprende tre sezioni (o «cesti»): Vinayapitaka, o Cesto della disciplina, Suttapitaka, o Cesto degli insegnamenti, Abhidhammapitaka, o Cesto della scolastica. Il Suttapitaka contiene cinque «nikaya» o raccolte, tra cui i discorsi del Buddha e brevi narrazioni (Khuddakanikaya) riguardanti episodi della sua vita, spesso terminanti con un suo detto in versi.

La funzione didascalica del racconto all’interno dell’esperienza religiosa si mescola anche all’esigenza mnemonica di trascrivere genealogie e atti di fondazione cui la narrazione dona legittimità teologica o semplicemente sociale. É il caso dei complessi redazionali che costituiscono il testo biblico. Sebbene l’opinione di Tocci premetta cautela nel considerare il carattere puramente artistico della narrativa semitica («il gusto del narrare per narrare è praticamente sconosciuto all’Antico Oriente semitico, dove il racconto ha quasi sempre secondi fini moralistici o sapienziali»),31 vero è anche che il ruolo della poesia nomade e la commistione letteraria tra questa e il racconto non negano una spinta bio-antropologica nel processo redazionale: il narrare per risolvere.32 L’aspetto narrativo della Torah concede di escludere al momento Profeti (Nebi’im) e Scritti (Ketubi’im) per una questione di strutture e generi differenti dal racconto. La letteratura yahwista (J) ed elohista (E), come illustra Tocci, denota il nutrimento di miti cananei delle origini per la stesura della storia d’Israele. Le genealogie dei patriarchi e la formazione di codici legislativi evidenziano l’esigenza di riconoscimento nazionale fondata sul culto di Yahweh. Il resoconto del narratore J rileva una fermezza molto diversa dal gusto per l’inverosimile del narratore elohista. La leggenda popolare di E pare infatti descrivere principalmente i fatti straordinari della vita di Mosè, correlati agli splendori dell’età monarchica. La legislazione e il rituale fanno da sfondo invece al Deuteronomio, il cui centro tematico ruota intorno alla fondazione del culto sul tempio di Gerusalemme.

La storiografia semitica risulta dunque contraddistinta da un continuum redazionale del tutto sconosciuto alla storiografia greca. Quest’ultima risponde a un’esigenza di verità e di rapporti causa-effetto che la storiografia semitica colloca sul piano del commento teologico alla storia della salvezza.

Sebbene esempi di logografia e paradossografia greca riconducano anche le origini della storia occidentale ad una «riorganizzazione del patrimonio religioso»33 intriso di temi mitici e teatrali (le genealogie di Ecateo di Mileto, ad esempio, trascrivono successioni in cui il mito è ancora indissolubile), da Tucidite in poi il carattere della ricerca storiografica tradurrà criteri più razionali di metodo. Il racconto greco predilige inizialmente la storia locale e le scuole tematiche relative alla successione di egemonie, la cui redazione è contemporanea al contesto selezionato. La linearità del racconto semitico, non conoscendo la distinzione tra un’età mitica e un’età storica, diviene memoria di un patto primordiale cui solo il profeta può conferire autorità. Al di là della distanza metodologica che distingue la storiografia occidentale da quella orientale, il nostro intento è quello di dimostrare il carattere letterario dei processi di formazione e redazione. In riferimento al racconto biblico, il concetto di narrazione risulta il dispositivo portante della composizione del testo sacro. Questo fuoriesce dalle categorie della verità storica per invocare quelle della nostalgia o del diritto, in forma di letteratura. Il testo biblico non esclude forme di racconto a struttura chiusa: alcuni compendi, definiti aggadah, spesso estratti dalla tradizione talmudica e generalmente non canonici, sembrano disporsi secondo un ordine narratologico ben differente dalla storiografia narrativa della Torah. Potremmo inserire i libri di Rut ed Ester all’interno di questa categoria. Rut, donna moabita, avvia la discendenza (non israelita) di Davide, mentre l’ebrea Ester sposerà il re persiano Assuero (V secolo a. C.), salvando il popolo ebraico dalle ingiurie del macedone Aman. I libri sorgono tra il V e il II secolo a. C., dopo l’arrivo dei macedoni in Giudea, e rispondono ai criteri del racconto apologetico-celebrativo. Raccontare rimette in circolo la memoria e scongiura la salvezza dell’identità ebraica dalle incursioni straniere, cui le figure femminili pongono rimedio.

Gli aggadah coranici si rivolgono invece alle storie dei vari profeti, la cui esposizione, sebbene elementare, appare fortemente condizionata dalla letteratura talmudica e apocrifa-cristiana. Come già detto, varianti e interpolazioni frequenti sono elementi peculiari alla narrazione sacra. Il Corano esprime in modo particolare questo tipo di commistione con «il tentativo maldestro di una prosa narrativa posta a intermezzo della legislazione sacra» che «avrà ulteriore sviluppo, non solo nel genere religioso-edificante delle Storie dei Profeti in arabo, che ricamano e allargano questi spunti del Libro Sacro, ma nella poesia romanzesca persiana e turca».34

Nella tradizione cristiana i vangeli canonici e apocrifi appartengono anch’essi al genere del racconto celebrativo. La questione letteraria dei vangeli iniziò a partire dal 1919 sulle ricerche di K. L. Schmidt, il quale definì «pericopi» le piccole unità di tradizione a carattere astorico (in particolare la fonte Q dei detti di Gesù), su cui innescare l’intero progetto narrativo. La critica delle forme successiva stabilì che tali unità pre-evangeliche avrebbero seguito leggi stilistiche strutturali precise (lo studio delle forme). Essa distingue il metodo costruttivo di Dibelius dal metodo analitico di Bultmann. Dibelius distingue il materiale narrativo35 in paradigma (breve narrazione culminante con un detto di Gesù), novella (narrazione più ampia), leggenda (narrazione a finalità edificante come i paradigmi, imperniata sulla santità dell’eroe). Alcuni testi conserveranno varianti mitiche (Mc 9, 2-8): Marco e Giovanni propongono una rappresentazione mitica di Gesù in cui il segreto messianico e il logos preesistente sono rispettivamente formule di derivazione giudaica e greca. L’approccio analitico di Bultmann definisce le forme a partire dall’analisi dei testi, distinguendoli in racconti di prodigi, storie, leggende e detti di varia natura. Infine, l’opera di Berger approfondirà lo studio delle forme, includendovi la storia della tradizione (la trasmissione del materiale) e la critica della composizione (che studia la formazione dei vangeli e delle lettere).

Questi i maggiori sviluppi della critica letteraria cristiana, alla cui origine non bisogna dimenticare l’anomalia lessicale che il vangelo interpone a coincidenza tra la comunicazione orale e il racconto scritto. L’origine greca del termine (euangelion) designava infatti l’annuncio in sé o l’inizio di una nuova era (prima del cristianesimo la propaganda imperiale lo aveva utilizzato nelle iscrizioni per inaugurare l’anno del dio Augusto)36 e non prescriveva alcun tipo di genere letterario. Il passaggio dall’annuncio al genere letterario avvenne tramite l’attività di Marcione che concepì come vangelo l’edizione riveduta di Luca, la quale avrebbe mostrato l’annuncio di Gesù purificato dalla teologia giudaica. Dalla fine del II secolo il termine indicherà un vero e proprio genere letterario. Il dibattito sulle influenze che incorrono sul genere Vangelo continua fino a oggi, proponendo ipotesi differenti. Vangeli canonici e apocrifi inaugurano in ogni caso una critica letteraria, il cui scopo si rivolge soprattutto ad agglomerarne il contenuto per generi e temi, anziché a concepirli secondo una specifica critica del racconto.

Abbiamo fin qui illustrato il modo in cui il testo sacro possa favorirne lo sviluppo, a partire dal mito fino ad arrivare ai racconti omiletici. É dunque evidente che il principio narrativo percorra l’intero iter di redazione del testo, canonico o apocrifo che sia, al di là dello stile di retorica formale. In tal modo, la disposizione letteraria ad opera di narratori non letterati escogita strutture dell’azione e complessità ermeneutiche, il cui metodo non sottragga il testo alla storia e mantengano inalterata la relazione tra il piano lessicografico e quello narrativo.

Sulla base delle ricerche sul Gesù storico, iniziate a partire dal XVIII secolo, è oggi possibile affermare che qualificare la conoscenza storica sulla figura di Gesù significa anche valutare le fonti evangeliche in qualità di narrazioni. L’opinione di Giuseppe Segalla, in merito alle finalità olistiche del resoconto evangelico, conferma tale prospettiva:

Non si può spiegare tutto in termini di fonti stratificate e redazione. Un’ipotesi diversa include un nuovo elemento, la tradizione orale, il Gesù ricordato, che anche la critica morfologica metteva in luce ma la proiettava sul versante della chiesa e a suo servizio, oscurando il rapporto a monte con il Gesù storico.37

Tra i contesti che richiedono una visione d’insieme, il primo da tenere in considerazione, secondo Segalla, è quello letterario-redazionale: i dati non costituiscono una sommatoria disparata ma risultano immersi in una trama o telling, costruito dal singolo evangelista.

4. Aporie storiciste

Il metodo storico-critico sorge dall’esigenza di approfondire la religione in quanto prodotto storico, ovvero dimensione della cultura umana da studiare secondo la comparazione tra fenomeni e funzioni che mutano nel tempo. Il traguardo epistemologico raggiunto dalla storia delle religioni risale alla seconda metà del XIX secolo. Dalla Storia naturale della religione di David Hume (1757) alla storiografia protestante, l’esegesi biblica si convertì ai criteri di metodo di tipo storico-filologico. Il dilemma storicista che vede spiegazione e comprensione quali categorie di salvaguardia delle scienze umane, non fu tuttavia evitato dal metodo storico-comparato. Al termine del XIX secolo, il flusso evoluzionista condensa metodologie comparate per registrare parallelismi tra le culture sull’onda del diffusionismo e dell’etnologia. La scuola storico-culturale viennese, fondata da Wilhelm Schmidt, si occupò di selezionare raccolte di documenti, «formulando un sistema di principi comparativi che permettessero di individuare una scala di priorità storiche tra le culture — i cicli naturali — in modo da distinguere quelle primarie da quelle secondarie».38 Tale investigazione storica di carattere prammatico, come fu definita da Schmidt, rischiava di produrre parallele di tipo gerarchico tra culture raramente tangibili, spesso reclutate sotto giudizio etnocentrico.

La fondazione di «Anthropos» nel 1906 contribuì a sostenere le ricerche della scuola viennese. Sorta dai risvolti antropologici relativi alla scoperta di A. Lang sulla credenza in un Essere supremo, la rivista accompagnò gli studi di Schmidt e la successiva pubblicazione di Ursprung der Gottesidee (Origine dell’idea di Dio), opera che convalidò il concetto di monoteismo etico primordiale, sulla base di una fede «congenita», le cui forme appaiono diversificarsi con il progredire della storia, sin dalle culture primitive. In realtà la concezione di Schmidt fu fortemente snaturata da tensioni teologiche di tipo apologetico che trasformarono la storia delle religioni in «un’involuzione progressiva che dalla rivelazione biblica avrebbe condotto a manifestazioni sempre più inquinate da elementi offuscanti la purezza originaria».39

Nel 1924 il ministro della Pubblica Istruzione, Giovanni Gentile, promuove a Roma la prima cattedra di Storia delle religioni, coperta fino al 1958 da Raffaele Pettazzoni. Letterato e archeologo, in parte contrario alla fenomenologia astorica, in parte favorevole a riconoscerle l’attitudine a individuare le forme ricorrenti dell’esperienza religiosa, dal 1925 avvia lo studio sulle religioni primitive, sulla base dell’origine mitica del fatto religioso, differente dall’ermeneutica teologica di Schmidt. Il taglio storicista della ricerca, influenzato dal neoidealismo italiano, tiene testa all’opera di repressione antimodernista avviata dalla Chiesa cattolica, a partire dalla scomunica di Ernesto Buonaiuti, e ne conferma la piena espressione con la pubblicazione dell’opera L’onniscienza di Dio nel 1955. L’onniscienza dell’essere supremo corrisponde alla valutazione, in termini comparativi, del polimorfismo dei miti d’origine non in quanto involuzione creativa dall’idea monoteistica di Dio, come giustificato dai teorici viennesi, bensì rappresentazioni di «verità vitale» che richiama un determinato contesto storico-culturale. La tesi definitiva di Pettazzoni confermerà l’origine logicamente posteriore del monoteismo rispetto alle forme politeiste, negate dall’accentramento teocratico di tipo volitivo, la cui tendenza centripeta, condizionata da circostanze storiche, segnò l’imporsi di una forza unitaria sulle dinamiche di un’eventuale frammentazione socio-politica.

L’aspetto metodologico della storia delle religioni venne a galla con il recupero dello storicismo assoluto40 da parte di Angelo Brelich, il cui saggio Perché storicismo e quale storicismo, divenne il manifesto ideologico della Scuola Romana. La comparazione tra i fatti religiosi condusse Brelich a dichiarare il principio di processualità storica in quanto garanzia metodologica per lo studio delle religioni, la cui prima applicazione concerne la genesi del politeismo ellenico, all’interno dell’opera I Greci e gli dei, pubblicata nel 1985. Il carattere evolutivo del politeismo è dimostrato dall’autore sulla base della personalizzazione delle divinità, funzionali all’ordine sociale. L’estensione del pantheon greco cede il posto al convoglio di forze restrittive, al cui vertice concorre la figura primordiale del «padre celeste», di cui Brelich confermò l’origine indœuropea:

la ragione di questo processo, scrive Brelich, va cercata nel contatto che i Micenei prima, i Greci dopo, ebbero con il Medio Oriente, dove un tipo di dio potente che si manifestava anche nelle tempeste, e padrone del fulmine, aveva presto da tempo una posizione di rilievo: dall’Hadad mesopotamico al Bàal fenicio, al Teshup hittita.41

Tali ricostruzioni analogico-comparative favorirono un approccio interamente storicista alla storia delle religioni. La complessità interattiva dei fatti religiosi si affida dunque alla storia secondo il sincretismo delle influenze e la diffusione implicita dei caratteri, i quali non nascondono di pervenire all’occhio dello storico tramite movimenti specifici di tipo idiografico-strutturale che indicano non soltanto la traslazione storica del fatto religioso ma l’invito a verificarne gli strumenti, le credenze, i rituali che, oltre a renderlo un evento puramente umano, ne condensano le forme secondo ordini di mantenimento e motivi ricorrenti.

Lo storicismo crociano di metà secolo accennò in tal modo alcune tracce di rigenerazione concettuale; per cui il termine religione, oltre che indicare un fenomeno storico, nutrì l’accezione di «sforzo creativo», fenomeno emergente, concomitante al patto sociale, nonché filtro residuale opposto al divenire storico. Il concetto di creazione destoricizzante divenne il perno teoretico del pensiero di Ernesto de Martino, allievo di Pettazzoni, altro esponente della scuola storico-religiosa romana. L’origine esistenziale del fatto religioso proposta da quest’ultimo alimentò, nonostante l’influenza crociana, il rinnovamento del metodo storico-comparativo, attraverso l’analisi degli aspetti magico-folklorici della religione popolare. Le dinamiche di frontiera, contenute nel saggio del 1975, Intorno ad una storia del mondo popolare subalterno, intercettano il dramma dei «fenomeni-scoria» che i processi storici non sempre sono in grado di assimilare: dal tantrismo alla psicosi apocalittica l’evasione delle pratiche religiose dal processo storico reclama l’intervento di metodi interdisciplinari che valutino la propensione antropologica e sociologica del fenomeno, non del tutto aderente alla logica bipolare di spiegazione e comprensione. L’apporto dello storicismo idealista allo studio del fenomeno religioso sottolineò l’ambiguità della posizione della scuola storica romana, scissa tra esperienza del fatto religioso e filosofia della storia religiosa, medesima aporia che Dilthey denunciò al momento di fornire il fondamento scientifico alle scienze dello spirito. In tal senso, la comparazione costituì uno dei punti nevralgici per una conoscenza storica adeguata. In che modo tuttavia la coscienza storica può elevarsi oltre se stessa e contenere tutto il sapere dell’esperienza in forma logica?

La questione letteraria della storiografia sollecita dunque nuovi strumenti di metodo, da cui le scienze delle religioni traggono modalità interdisciplinari per intendere il fenomeno storico tramite le categorie della critica letteraria che lavora sul testo storico. Il nodo concettuale che legittima tale passaggio di metodo potrebbe coincidere con la soluzione dell’opposizione astratta tra tradizione e storiografia, tra storia e sapere sulla storia, cui applicare il focus della Metahistory: «la ricerca storica moderna non è, dal canto suo, solo ricerca, ma mediazione di tradizione»,42 afferma Gadamer, al termine della critica alla coscienza storica. Allo stesso modo, Metahistory non è solo discorso sulla storiografia ma coscienza che il fatto storico diviene tale solo attraverso il rapporto con il narratore.

Morals and aesthetics are not to be seen as categories necessarily weakeing our grasp of the world, but rather as the indispensable allies of cognitive Truth. White clearly agrees here with Hans-Georg Gadamer’s attack on «the prejudice against prejudice» that we have inherited from the Enlightenment.43

Metahistory appare dunque il dispositivo teorico per comprendere che lo statuto epistemologico delle scienze umane dipende dall’azione «schiudente» della narrativa che discerne i modi della dimensione umana (mito, sogno, speculazione religiosa)44 come parti integranti della ragione storica. In particolare, poiché la scrittura religiosa rappresenta la prima fonte storica per lo studio della religione, lavorare in senso narratologico, oltre che storico-critico, implica la percezione dell’interezza del testo. Abbiamo visto come il metodo storico-comparativo provveda alla focalizzazione del fatto, rischiando il terribile «dubbio delle apparenze»45: la critica dell’origine contamina il senso dell’obiettività storica? Lo sguardo dello storico annaspa tra il fatto e l’esperienza religiosa, assumendo segretamente l’aspetto dell’etnografo o dell’arguto fenomenologo. Lo scacco al purismo storico-filologico, permette alla narrazione di evitare la frammentazione del testo, il cui senso complessivo mantiene l’equivalenza «estetico-funzionale» tra mito e storia. Metahistory concede in tal modo alla totalità letteraria del mito-racconto di emanciparsi dall’opposizione dogmatica di verità e finzione, nel caso specifico, applicando allo studio della religione il paradosso della critica letteraria. La lettura ravvicinata suggerita dal metodo narratologico poggia su tale forma di distensione teoretica (decostruzione debole) legittimante la convenzionalità del testo, le cui strategie retoriche confermano sia l’effetto dell’intreccio sul lettore, il quale si accorda al patto narrativo (aspetto ermeneutico), sia il differire dell’atto linguistico dalla verità storica (aspetto decostruttivo).

Nel nostro caso, la specificità narrativa del testo sacro richiede di non affidarsi in modo esaustivo alle risposte del lettore comune, il quale rischierebbe di disperdere il carattere sedimentario della scrittura religiosa. D’altra parte, tener conto delle stratificazioni non impone affatto una critica della redazione, bensì intende valutare l’aspetto olistico del testo. La storia della redazione, maggiormente utile per definire il contesto storico e soprattutto le esigenze culturali su cui collocare la diffusione del testo, precede la fruizione del racconto in sé, il quale, percepito secondo il principio narratologico dell’unità letteraria, non esita a riconoscere il proprio valore etico-sociale, la propria risonanza collettiva, pur nel differire della verità storico-filologica.

5. Per un’etica della narrazione

La permeabilità teoretica del racconto permette di non occluderne il risvolto filosofico sulla base dell’esclusiva critica letteraria. La narrazione infatti sottende la pertinenza di categorie letterarie (distanza narrativa, retorica del discorso) e categorie antropologiche (rapporto tra mito e storia rispetto la condizione della religione post-secolare) al fine di «figurare» una sequenza d’accadimento, una modalità propria dell’azione. Abbiamo visto come il presupposto teorico della Metahistory svolga un ruolo determinante nel legittimare la natura narrativa della storiografia e attinga, per certi versi, dalla prefigurazione dello storico le problematiche tropologiche del linguaggio. Ricœur distingue tra l’affezione dello storico che ripensa il passato come identità ri-effettuata (il Medesimo) e la distanza temporale che visualizza lo scarto tra il fatto passato e il tempo presente (l’Altro), ponendo, a richiamo sintetico, la categoria dell’Analogo come formula di discernimento preliminare, terzo momento dialettico della nozione di rappresentanza:

L’analisi tropologica è l’esplicitazione cercata della categoria dell’Analogo. Essa dice una sola cosa: le cose devono esser accadute come si dice in questo racconto, grazie alla griglia tropologica, l’esser come dell’avvenimento passato è portato al linguaggio.46

L’Analogo, costituito dal «come se», trattiene l’identità del passato «nell’assenza di tutte le nostre ricostruzioni»,47 ri-effettua e pone a distanza il dato storico tramite l’intervento della traccia, struttura bipolare che legittima «ciò che vale per» il tempo trascorso, non rinunciando né all’estraneità né all’immedesimazione. Tale luogo indebito della narrazione non risponde alla sola rappresentanza ma racchiude un attraversamento segreto, una dialettica irreale che precede ogni referente: l’agguato dell’intrigo.

L’intelligibilità di tale assunto, caratterizzando le forme del racconto scritto, procede lungo l’analisi di Ricœur a rinsaldare un’ermeneutica della coscienza storica che non trabocchi interamente sul dato oggettivo ma che tenda a seguire le tracce anziché i documenti, la cui contingenza risulta «abbandonata» alla ricezione e congiunta alla comunità virtuale dei lettori. Il principio universalista di tale assunto coincide dunque con la plausibilità ermeneutica di una massimale partecipazione al significato che, secondo Ricœur, completa il circolo non in senso tautologico bensì sul bilancio analogico tra i depositi narrativi del discorso storico (il come se), esposti al funzionale, e la prefigurazione, anteriore ad ogni linguaggio. Postulando che l’effettività della questione ermeneutica, come dimostrato da Gadamer, non è mai del tutto appagata finché non si esaurisce nell’applicazione dei tratti universali contenuti nel testo e condivisi nella «fusione degli orizzonti», l’aspetto etico della narrazione sorge al momento di considerarne i risvolti pragmatici, le modalità dinamiche dell’identità che ne viene fuori:

il germoglio fragile, nato dall’unione della storia e della finzione, è l’assegnazione ad un individuo o ad una comunità di una identità specifica che possiamo chiamare narrativa. Rispondere alla domanda «chi?» vuol dire raccontare la storia di una vita. La storia raccontata dice il chi dell’azione.48

L’arte del narrare è solitamente concepita in termini di azione e di capovolgimento. Il fatto può tradursi in senso mimetico, quando l’accadere del romanzo fonda la sua applicazione tramite le categorie della rappresentazione, in senso diegetico, quando tale accedere è filtrato dal narratore che cita il discorso altrui. In entrambi i casi, esso incrocia dei caratteri, delle fluttuazioni d’identità che si ricreano lungo una vicenda. Clemens-Carl Harle, nella recente raccolta di saggi dal titolo I confini del racconto, affronta il problema dell’identificazione a partire dall’involuzione della forma romanzo, sulla base delle opinioni di Gèrard Genette e Walter Benjamin, in riferimento alle «pressioni» delle modalità diegetiche di enunciazione condotte dal narratore. Se il romanzo tende a simulare la storia, questa perde il tono del discorso:

forse il romanzo, dopo la poesia, sta per uscire definitivamente dall’età della rappresentazione. Forse il racconto, nella singolarità negativa che gli abbiamo riconosciuta, è già per noi, come l’arte per Hegel, una cosa del passato, che dobbiamo affrettarci a osservare nel suo ritrarsi, prima che abbia definitivamente abbandonato il nostro orizzonte.49

Mentre Genette parla della scomparsa dell’atto illocutivo all’interno della lexis, ovvero delle modalità di enunciazione autoreferenziali che inducono lo scrittore a sopprimere la distanza narrativa, Benjamin ripercorre il declino del narratore a partire dal successo del romanzo borghese, la cui stampa fu direttamente proporzionale all’amnesia della narrazione orale tradizionale. Se da un lato, la mistificazione storica del romanzo delinea in Genette questioni di tipo narratologico che cancellano il piano totale del racconto, definito il «male necessario»50 per poter circoscriverne la forma, Benjamin la denuncia come causa prima del ritiro del narratore dalla scena dell’esperienza comunicabile:

in altri termini, è la techne del narrare o meglio del narratore che, grazie a una strana inversione della presentazione di un evento ai confini dell’intelligibilità, fa scaturire per il destinatario qualcosa, un consiglio. Solo a questa condizione il narrare può diventare la scena della «comunicabilità dell’esperienza», scena che scompare proprio con il romanzo che esaspera «l’incommensurabilità nella rappresentazione della vita umana» e il cui «luogo di nascita è l’individuo nel suo isolamento».51

La nascita del romanzo significa solitudine di chi scrive e di chi legge: «nessun forum di lettori potrà mai ricostruire il fondativo e politico stare insieme che accompagnava la narrazione delle origini».52 L’aspetto pragmatico della riflessione di Benjamin mette in gioco l’interazione continua tra mittente e destinatario, anziché il modus significandi della narrazione, preso in considerazione da Genette. All’interno del processo narrativo, l’atto linguistico rivela infatti elementi non significanti, pre-linguistici, la cui origine è imprescindibile, inesistente. L’evento raccontato, contrariamente a quanto sia previsto dal suo aspetto mimetico, attualmente non si predispone al realismo ingenuo premoderno, bensì delinea un continuo spazio di congiungimento mancante: «l’apertura di un varco»,53 il differire del senso. La questione primordiale del racconto ritorna così al levarsi originario della voce che buca il «campo storico» e che traccia un’articolazione di senso reale (corrispondente a stati di cose), permettendo così di distinguere i due caratteri fondamentali della comunicazione: significazione ed empirismo. La referenza linguistica o significazione del narrato non coincide tuttavia con la teoria della corrispondenza veritativa dell’enunciato. Il racconto non corrisponde ma risponde ad una domanda di senso, per cui dire ciò che accade non significa stabilirsi entro i canoni del vero: la complessità del telling presuppone elementi che resistono alla conoscenza, frantumandone continuamente la reperibilità storica. Gli stati di cose non inducono all’asserto verificabile bensì danno forma all’esperienza che dalla trasmissione orale (lo stato puro della narrazione) si sottrae alla definizione scritta. Ecco che la storia del popolo d’Israele trattiene un segreto che Derrida riporrebbe nel differire della scrittura ma che allo stesso tempo si convalida come storia, pur non rispettando i canoni dell’epistemologia storiografica: storia di un destino dunque narrazione infinita.

La letteratura ci libera all’esperienza del tutt’altro come potenza del tutt’altro. Onni-potenza-altra. Ma erede spergiura, in questo, delle sante Scritture, erede al tempo stesso più che fedele e imperdonabilmente blasfema di tutte le Bibbie, la letteratura resta il luogo assoluto del segreto stesso di questa eteronomia, del segreto come esperienza della legge venuta dall’altro, della legge di cui la legislatrice non è altro che la venuta stessa dell’altro, in questa prova dell’ospitalità incondizionata che ci espone ancor prima di ogni condizione, di ogni regola, di ogni concetto.54

La significazione intransitiva del racconto è il luogo paradossale delle pratiche discorsive, come direbbe Foucault, agglomerate sull’a-priori non narrabile destinato al ricevente o pseudo-tale. Una volta dimostrata l’ineffabilità ontologica della narrazione, in che modo applicarne gli effetti pragmatici? «Il racconto appartiene già al campo etico in virtù della pretesa alla correttezza etica»,55 scrive Ricœur, ma qual è lo statuto di tale appartenenza?

Il carattere pragmatico della comunicazione venne tradotto da Habermas in termini di compito performativo dell’atto linguistico, il quale provvede a istaurare l’intesa tra i partecipanti sulla base della razionalità dei processi d’intesa: «la razionalità non ha a che fare con il possesso del sapere, quanto col modo in cui i soggetti capaci di agire e di parlare utilizzano il sapere. Al fondo di tale concetto si trova, intuitivamente, l’esperienza della forza del discorso argomentativo, che unisce senza coazione ed è fondatrice di consenso».56 Il principio universalizzante è in tal caso rintracciato non tanto nel coprire una distanza ermeneutica, bensì nella logica di un’argomentazione morale che ripone sulle pretese di validità dei soggetti razionali partecipanti la capacità di orientarsi verso il consenso. L’etica della narrazione non provvede affatto a predisporre il ricevente o partecipante in senso argomentativo, come auspicato da Habermas, poiché il margine di dispersione dell’identità narrante sosta sull’empasse mittente-destinatario: l’esperienza che «passa di bocca in bocca» diviene racconto che si autoesclude dalla verità storica per assecondare nuclei figurativi, immaginali o tematici, oggi declassati a retaggi strutturalisti ma in verità costitutivi dell’esperienza di narrazione. La comunità prescelta da Habermas è una corsia preferenziale in cui tutti i soggetti sono chiamati all’accordo razionalmente motivato, la comunità dei narratori appare invece come una «tonsilla» della voce che, dalla contingenza della spirale evocativa, insiste sulla propria configurazione prima che sull’identificazione del Medesimo:

Senza il soccorso della narrazione, il problema dell’identità personale è in effetti votato ad una antinomia senza soluzione: o si pone un soggetto identico a se stesso nella diversità dei suoi stati, oppure si ritiene, seguendo Hume e Nietzsche, che questo soggetto identico non è altro che un’illusione sostanzialista, la cui eliminazione lascia apparire solo un puro diverso di cognizioni, emozioni, volizioni. Il dilemma scompare se, all’identità compresa nel senso di un medesimo si sostituisce l’identità compresa nel senso di un se stesso. L’ipseità può sottrarsi al dilemma del Medesimo e dell’Altro, nella misura in cui la sua identità riposa su una struttura temporale conforme al modello di identità dinamica frutto della composizione poetica di un testo narrativo. Il se-stesso può così essere detto rifigurato dall’applicazione riflessiva della configurazioni narrative. A differenza dell’identità astratta del Medesimo, l’identità narrativa, costitutiva dell’ipseità, può includere il cambiamento, la mutabilità, nella coesione di una vita.57

La diffusione del romanzo, imponendo fino a metà Ottocento una mimetica del mondo della vita, dimentica l’origine strettamente empirica della narrazione, la quale emerge dal dislocato, dall’incitazione tellurica a dire nel sottrarsi e che premette all’intendimento dei soggetti la sfaldatura prodotta dal loro «avvicendarsi». Il fattore «artigianale»58 di tale andamento, nonostante trasformi il criticismo di Benjamin in nostalgica effusione, non è tuttavia del tutto sufficiente a garantire lo statuto etico della narrazione. Concepire un’etica della narrazione significa innanzitutto riconoscere il singolo in qualità sia di destinatario che di mittente e su questo Habermas anticipa l’accordo:

per potersi intendere su qualcosa, i partecipanti non devono comprendere soltanto il significato delle proposizioni impiegate nei loro enunciati, bensì devono potersi rapportare, nel contempo e reciprocamente, nel ruolo di parlanti e ascoltatori: l’autoriferimento sorge da una correlazione interattiva.59

L’etica della narrazione mantiene in ogni caso il principio di partecipazione sul piano della contingenza globale, anziché su quello della reperibilità razionale: essa implica un circuito semichiuso di rimbalzi linguistici che possono solo approssimarsi all’intesa reale. L’identità narrante si scopre anzitutto partecipe di un tessuto linguistico comune che non prova alcuna verità logica ma s’intrattiene-attiene alla comunicabilità affabulante di un vissuto. La legittimità della forma mimetica non nutre alcuno scandalo se, nell’ottica di uno studio sull’identità contemporanea, i fatti non hanno realtà al di fuori del linguaggio. Il carattere letterario di ogni comunicazione procede dal riconoscere una natura primariamente retorica di qualsiasi intreccio. L’identità narrante rinuncia alla spiegazione automunita per inoltrarsi nell’ambito dell’intercessione finzionale. Salvaguardare la forma dell’esempio letterario non comporta il ritorno al coro di Euripide che minaccia sentenze: esso, una volta riconosciuto un indicatore d’azione, distingue quelle occorrenze risolutive evanescenti che fanno parte della comune impreparazione all’argomentazione razionale.

La scelta religiosa ricopre un ruolo determinante nel concepire l’identità narrante come elemento della comunicazione irrelata contemporanea. La dimensione confessionale rientra nell’ambito del «come se» tutelato da una narrazione d’appartenenza condivisa. Lo scacco alla pragmatica dell’agire comunicativo di Habermas sta tutto nel carattere mimetico di una preferenza che induce il soggetto a raccontarne gli effetti anziché ad esplicitarne le cause o le motivazioni. A tal proposito, Martha Nussbaum conferma il ruolo determinante dell’immaginazione letteraria nel favorire il riconoscimento dell’altro narrabile. Tale passaggio non comporta affatto la giustificazione in toto delle modalità di finzione e dunque la relativizzazione del senso critico all’interno della sfera pubblica ma ammettere il carattere attivo dell’elemento letterario traduce l’etica del discorso in un campo figurativo in cui il riconoscimento dell’altro passa attraverso l’ascolto di un mondo non tanto di un enunciato. Il letterario che attinge da un immaginario non ostacola la conoscenza ma «sollecita il lettore a mettersi al posto di persone di vario tipo, assimilandone le esperienze».60 Il terrore dell’indeterminatezza che perviene dalla critica alle forme del romanzo realista induce la Nussbaum a patteggiare con la filosofia per includervi la determinazione dell’esempio letterario. D’altronde la decostruzione linguistica operata da Derrida in senso livellante agevola la prestazione letteraria del testo storico-religioso o filosofico, ma è pur vero che tale levigatura non può tradursi nella furibonda indeterminatezza del senso. La filosofia tace segretamente il bisogno dell’esempio, scrive Düttman:

che i filosofi, presupponendo una determinatezza della forma per non subire la contraddittorietà della logica dell’esempio, finiscano in una dialettica, si intuisce già dall’osservazione citata di Nussbaum, secondo la quale il lettore di un romanzo può essere tutti i personaggi che vi compaiono, pur non essendone mai completamente nemmeno uno di loro. In questo modo, infatti, non soltanto s’indebolisce la posizione dello «spettatore imparziale», ma si squilibra virtualmente anche il rapporto tra «l’essere immersi nell’attività di immaginazione» e «l’analisi critica», come se l’io fosse soltanto un esempio di un io. I filosofi che invece presuppongono un’indeterminatezza della forma e riconoscono la contraddittorietà della logica dell’esempio, ossia il fatto che non ci sono esempi e che allo stesso tempo ci sono soltanto esempi, finiscono a loro volta in una dialettica, come si può vedere da quella generalizzazione che avviene in Derrida dell’esempio letterario o della letteratura come esempio.61

Nussbaum dichiara, a differenza di Benjamin, la funzione primaria del romanzo nello sviluppo delle posizioni etiche sociali:

il romanzo è una forma viva ed è ancora, in effetti, la forma narrativa più importante della nostra cultura per la sua capacità di esprimere una posizione morale e al tempo stesso far presa sulla gente comune.62

L’urgenza ermeneutica proposta dal racconto mitico-religioso non può che legittimare oggi un’etica della narrazione che ne contempli l’applicazione nella società globale. Oltre che a ristabilire il patto narrativo, già auspicato in altri termini da Gadamer e Habermas, l’identità narrante concede che il linguaggio religioso s’innesti nelle forme retoriche condivise dalla comunità e si pronunci a favore di una connaturata irreperibilità della causa nel processo di trasmissione che si rende «confidenziale», accordato alla vulnerabilità di un sapere sempre più sensibile ai micro-mutamenti del globale. Oltre che a confermare una retorica della configurazione testuale che non si dissolva nell’anarchia del referenziale, tale sapere mira a restaurare, come già visto, il patto narrativo con l’estraneità che mi viene di fronte. La narrazione è un prodotto umano e in quanto tale richiede di adottare «lucida clemenza» nei confronti di ogni elemento finzionale, la cui scelta corrispondente può assumere i tratti di una messa-in-scena che rompe un equilibrio iniziale (secondo il classico andamento narrativo) o che lo restaura senza chiedere che l’oggetto si sveli nella verità ma reintegrandosi alla totalità del soggetto, non più garante di una conoscenza rivolta all’esterno, bensì attore simultaneo di un vissuto narrato, imbastito nell’intrattenimento occasionale e imprevisto (telling) e fautore di una trama comune.

Al fine di istaurare una prassi dibattimentale che consulti le retoriche di convincimento oltre che le ragioni verificabili, l’etica della narrazione tiene conto dello spazio episodico-didascalico del singolo credente, individuato intorno al tavolo reale della mimesis. Come scrive Guido Mazzoni, «scegliere di imitare significa prendere per buona la dimensione dell’essere abitata dagli esseri finiti, la regione della particolarità».63 L’azione visibile e l’intimità dell’individuo, poste in essere attraverso la sequenza di un accadimento, comprovano che la logica dell’intreccio anticipa quella della significazione: il tempo del racconto è quello della possibilità che si rende linguaggio, tropologia, terreno di incroci e maestrie che dipendono tutte dall’assemblaggio di materiale puro, vissuto, e di taciti patti narrativi che ne assolvono le finzioni, i ritocchi, le movente verbali, gli accorgimenti. La trama presenta dunque sia il lato esterno dell’esempio letterario, che Aristotele e Platone pongono a limite del divario tra poesia e filosofia, mythos e logos, sia quello interno a ciascun personaggio. Tale ambivalenza comporta il riconoscimento del principio individuationis insito sia nella trama narrativa che sollecita il riconoscimento «empatico»64 di una situazione familiare, sia nella trama microstorica (aneddotica) dotata di ambientazione e tempi propri. Un racconto minimo produce in ogni caso una teoria dell’agire umano e l’inserimento di questo nel divenire storico slitta nell’esplicarsi dello spazio comunicativo del singolo.

Una teoria dell’agire comunicativo non può dunque prescindere dalla contingenza cui sono destinate le scelte dell’individuo, le quali si costruiscono secondo modalità discorsive differenti e da cui l’afasia del concetto svela una genealogia metastorica, in grado di verificarne il residuo retorico. Presumere il principio etico d’universalità, in questo caso, significa anteporre all’intesa massimamente riconosciuta la regolarità di tali depositi narrativi, i quali rivelano circuiti preferenziali irripetibili: la scelta confessionale appartiene ad uno di questi. Il momento pragmatico, in cui la fondazione della scelta etica risente della stessa convergenza che posiziona il racconto tra il tergiversare del segreto (principio di contingenza) e la disciplina costante delle strutture mimetiche (principio di tradizione)65 tutela, nel nostro caso, il valore dell’esperienza religiosa, al di là del fatto in sé, in quanto fenomeno concepito nel suo carattere propriamente narrativo. Approfondire il rapporto tra sfera pubblica e narrazione implica l’inclusione di modalità comunicative proprie del fenomeno religioso nelle leggi del pensiero complesso. Le categorie dell’attuale modernità-mondo richiedono strategie di focalizzazione centrate sulla salvaguardia della singolarità g-locale, da cui l’universalismo della differenza propone di legittimarne le dissonanze attraverso la formula dell’essere (in) comune. L’identità narrante sottende all’etica del discorso l’integrazione delle pregnanze simbolico-relazionali che, dal fondamentalismo mediatico allo storytelling d’emigrazione, ad esempio, inseriscono il fenomeno religioso nella capsula metastorica dell’ironico sdoppiamento secolarista. Il divario tra universalismo kantiano ed etnocentrismo locale risulta così colmato dall’allargamento del raggio razionale della scelta etica che oggi non può che dirsi mediata dallo straniero affabulante, risorsa di racconti anziché di storiografia, nonchè dalla condizione irreale della religiosità schizoide post-secolare: tanto scissa dall’economia della ragione quanto declinata a trend estetico, il cui patrimonio concettuale continua a nutrire il nostro immaginario, pur non assimilandosi del tutto ad una tradizione.

La legittimità retorica dell’identità religiosa, che è primariamente l’essere-creduto, il cui statuto comunicativo risponde alla ripetizione di recezione e narrazione, incide sulla riflessione filosofica al momento di fondarne un’epistemologia. Il concetto di Metahistory costituisce la natura post-strutturale della religiosità contemporanea. Le «pratiche discorsive» insite ad ogni storiografia, la loro messa-in-discorso, si conformano secondo inclinazioni retoriche e intendimenti soggettivi precisi. Tale ibridazione rivela l’impatto della «svolta linguistica» sul rapporto verità-finzione dell’intero sapere storico. Il piano inclinato su cui White pone il repertorio storico rischierebbe di convalidare così l’accusa di relativismo che Carlo Ginzburg rivolge scetticamente alla Metahistory. White è pur sempre un atipico filosofo della storia, il cui pensiero non delinea un vero metodo d’indagine ma persiste su quella provocazione sottesa che vede l’occidentale distinzione tra mito e storia come un risultato essenzialmente retorico-discorsivo: logografia (rapporto metaforico), storiografia razionale (rapporto metonimico), filosofia della storia (rapporto ironico).

Il rapporto che lega narrazione e religione si realizza principalmente attraverso la forma di un racconto esemplare che la comunità dei credenti approva ma che lo storico analizza attraverso strumenti filologico-comparativi, le cui diagnosi fenomenologiche o etnografiche risultano spesso inadeguate a salvaguardare la complessità della storia culturale. Il racconto sacro presenta una complessità simbolica tale da indurre a riconoscerne primariamente il carattere letterario, ossia una poetica delle visioni e il nonsense del paradosso. Postulare una teoretica della narrazione significa considerare il valore simbolico dei racconti che dalla tradizione religiosa assimila, per necessità, la vocazione all’indicibile. Il narrare mito-religioso trasforma il tempo futuro in rituale ripetuto, apertura intima del sé che non solo si relaziona al pluralismo contemporaneo ma ne cattura le occasioni, ne balbetta il senso, si aggiudica una micro-vicenda ogni qual volta vuole farsi storia. Allo stesso modo, il mutismo dell’identità di confine rende la religione post-moderna metastorica il campo esasperato della rivendicazione finché da essa non si estrae un tempo per narrare. Il tempo religioso, in quanto destinato a esprimere le questioni ultime, condensa il patto narrativo tra singolo e mondo-creduto in modo che il linguaggio possa dire ancora il nascere e il morire finché reso narrabile, individuato come riconosciuto oggetto di ascolto.

La dilatazione del soggetto in forme contingenti, trame che si avvicendano per esser-dette, non introduce affatto un neutrale principio fenomenologico o una riserva esistenziale bensì rimanda alla comunicabilità dell’essere-creduto: l’essere dato come intreccio, non semplice combinatoria dei possibili ma immanente e continuo narrare del finito. Non se io esisto ma se io posso raccontarmi, se esiste dunque il mio poter essere narrato. La memoria giudaico-cristiana era prima di tutto profetica. Il profeta era il filosofo consacrato, il poeta regale: un narratore sacro. L’espressione in memoria di me non è ancora un raccontarsi? Cosa mi dice l’esteriorità del volto se non ne celebro la storia? Non esiste la faccia dell’essere di Levinas senza confermarne la credibilità, la sua stessa trasmissione. Il desiderio è infinito tanto quanto è creduto, tanto quanto fa luogo, casa, spazio per dire. La religione post-secolare racconta attraverso riti e abitudini un mondo atteso o uno stato ambito che si fa spazio linguistico. Tale sintomo non può oggi che tradursi in un fatto esclusivamente mistico o rischia di manifestarsi in conflittualità interreligiosa se non prima il letteralismo fideistico si allarghi in spazio letterario nuovo, si traduca in forme narrative per-me. Nulla si dà, nemmeno il volto dell’altro, senza congiungersi alla finzione scalare della parola, ad una gradazione di realtà che ne permetta l’intromissione nel mondo creduto-narrato, ancora una volta creato dal/nel linguaggio.


  1. R. Barthes, Le bruissement de la langue. Essais critiques IV, Edition du Seuil, Paris 1984, trad. it. Bruno Bellotto, Il brusio della lingua. Saggi critici IV, Einaudi, Torino 1988, pp. 11 - 12. ↩︎

  2. C. Lévi-Strauss, Antropologia strutturale, Il Saggiatore, Milano 1966, p. 234. ↩︎

  3. Ivi, p. 242. ↩︎

  4. C. Lévi-Strauss, Antropologia strutturale, op.cit., p. 218. ↩︎

  5. R. Barthes, Miti d’oggi, Einaudi, Torino 1974, p. 193. ↩︎

  6. M. Foucault, Le parole e le cose. Un’archeologia delle scienze umane, Rizzoli, Milano 1966, p. 132. ↩︎

  7. H. White, Metahistory. The Historical Imagination in Nineteenth-Century Europe, John Hopkins University, United States 1973, p. 4. ↩︎

  8. I tropi permettono di caratterizzare l’oggetto nelle differenti modalità del discorso indiretto o figurativo. Il loro uso è specialmente utile per comprendere le operazioni con le quali l’esperienza che resiste alla descrizione possa dotarsi di rappresentazioni che preparino l’apprensione. (Ivi, p. 34). ↩︎

  9. N. Frye, Gli archetipi della letteratura in Favole d’identità. Studi di mitologia poetica, Einaudi, 1973, p. 13. ↩︎

  10. Ivi, p. 15. ↩︎

  11. Ivi, p. 16. ↩︎

  12. P. Ricœur, Temps et récit II. La configuration dans le récit de fiction, Seuil, Paris 1984, trad. it. Tempo e racconto II. La configurazione nel racconto di finzione, Jaca Book, Milano 1987, p. 236. ↩︎

  13. V. Brugiatelli, La relazione tra linguaggio ed essere in Ricœur, Uni Service, Trento 2009, p. 312. ↩︎

  14. M. Müller, Lectures on the Science of Language in G.C. Roscioni, L’arbitrio letterario. Uno studio su Raymond Roussel, Einaudi, Torino 1985, p. 7. ↩︎

  15. R. Dami, I tropi della storia. La narrazione nella teoria della storiografia di Hayden White, Franco Angeli, Milano 1994, p. 49. ↩︎

  16. N. Frye, Anatomia della critica. Quattro saggi, Einaudi, Torino 1969, pp. 214 - 215. ↩︎

  17. Il romanzo è nello specifico il dramma dell’identificazione rappresentato dall’eroe che trascende il mondo dell’esperienza. […] Il tema archetipico della satira è l’opposto delle storie di redenzione; esso è il dramma del soggetto dominato dal mondo, anziché salvato. […] Nella commedia, la speranza di salvezza è sostituita da trionfi occasionali tra le forze in gioco. Nella tragedia, il conflitto esterno procura il senso d’angoscia sin dall’inizio del dramma. (H. White, Metahistory. The Historical Imagination in Nineteenth-Century Europe, op.cit., pp. 8 - 9). ↩︎

  18. La dimensione ideologica della scienza storica implica le posizioni etiche di chi scrive e le implicazioni necessarie trarre dallo studio dell’evento passato la comprensione del presente. (Ivi, p. 22). ↩︎

  19. C. Guillèn, L’uno e il molteplice. Introduzione alla letteratura comparata Il Mulino, Bologna 1992, p. 158. ↩︎

  20. Ivi, p. 160. ↩︎

  21. G. Deleuze, Logique du sens, Les Editions de Minuit, Paris 1969, trad.it. M. de Stefanis, Logica del senso, Feltrinelli, Milano 2007, p. 51. ↩︎

  22. Ivi, p. 51. ↩︎

  23. Builtmann nell’opera Nuovo Testamento e Mitologia (1941) afferma che i vangeli si presentano in forma già mitologicamente orientata, dovuta alla cultura della Palestina del I secolo: fine dei tempi e giudizio finale sono sovrastrutture che non hanno a che fare con il kerygma originario. ↩︎

  24. N. Frye, Il Grande Codice. La Bibbia e la letteratura, Einaudi, Torino 1986, pp. 231-235. ↩︎

  25. M. Biardieau, L’induismo. Antropologia di una civiltà, Mondadori Editore, Milano 1985, p. 18. ↩︎

  26. La funzione mnemonica del racconto permette di distinguerlo dalla narrazione in sé, intesa come l’atto che ne conferisce l’esistenza. Tuttavia Genette ammette che «è solo un tale residuo ad autorizzarci a considerare il racconto come ulteriore rispetto alla narrazione: nella sua prima occorrenza, orale o anche scritta, è perfettamente simultaneo ad essa: si distinguono non tanto sul piano del tempo quanto su quello dell’aspetto, dato che racconto designa il discorso pronunciato (aspetto sintattico e semantico secondo i termini usati da Morris), narrazione la situazione in cui esso viene proferito: aspetto pragmatico» (G. Genette, Nuovo discorso del racconto, Einaudi, Torino 1987, pp. 8-9). ↩︎

  27. Intendiamo il termine sacro nell’accezione derivante dalla radice indœuropea sak o sag, indicante l’adesione alla divinità, il suo inseguimento o attaccamento. Viene dunque escluso il significato latino di «sancire» nel senso di autorità conferita tramite riconoscimento ufficiale. ↩︎

  28. R. Kellogg, R. Scholes, The nature of narrative, Oxford University Press, London 1968, trad.it. La natura della narrativa, Il Mulino, Bologna 1970, p. 14. ↩︎

  29. «Si presume che la poesia sciamanica abbia un ruolo, forse anche un ruolo fondamentale, nello sviluppo della narrativa preletteraria, e quindi nello sviluppo della letteratura» (W. Burkert, La creazione del sacro. Orme biologiche dell’esperienza religiosa, Adelphi, Milano 2003, p. 94). ↩︎

  30. Ivi, p. 83. ↩︎

  31. M.F. Tocci, La letteratura ebraica, Sansoni, Firenze 1970, p. 93. ↩︎

  32. Burkert, La creazione del sacro, op.cit., p. 91. La tesi di Burkert spiega il concetto di narrazione attraverso l’equivalente biologico della ricerca del cibo e la lotta contro i nemici: «lo scimpanzé è abbastanza intelligente non solo per avvertire ed esprimere il desiderio ma per organizzare la necessaria sequenza di azioni», (ivi, p. 90). ↩︎

  33. D. Ambaglio, La storiografia greca, Monduzzi Editore, Bologna 2009, p. 24. ↩︎

  34. F. Gabrieli, La letteratura araba, Sansoni, Firenze 1967, p. 82. ↩︎

  35. C. Moreschini, E. Norelli, La letteratura cristiana antica greca e latina I, Morcelliana, Brescia 2007, p. 77. ↩︎

  36. Ivi, p. 79. ↩︎

  37. G. Segalla, Sulle tracce di Gesù. La «terza ricerca», La Cittadella, Assisi 2006, pp. 241-242. ↩︎

  38. G. Filoramo, C. Prandi, Le Scienze delle religioni, Morcelliana, Brescia 2002 (terza edizione riveduta e ampliata), p. 69. ↩︎

  39. Ivi, p.71. ↩︎

  40. Intendiamo per storicismo assoluto il principio metafisico postulato da Benedetto Croce, per cui l’intera realtà è segnata dallo spirito della storia, a differenza dello storicismo tedesco, il quale concepisce la storia più come metodo di comprensione che come principio logico del reale. ↩︎

  41. A. Brelich, I Greci e gli dei, Liguori, Napoli 1985, in C. Prandi, G. Filoramo, op.cit., p. 82. ↩︎

  42. H.-G. Gadamer, Wahrheit und Methode, J.C.B. Mohr, Tübingen, 1960 trad. It. G. Vattimo, Verità e Metodo, Bompiani, Milano, 2004, p. 333. ↩︎

  43. Le categorie estetiche e morali non conducono necessariamente alla comprensione del mondo, esse piuttosto diventano indispensabile preliminare del processo cognitivo. White concorda chiaramente con la critica di Gadamer nei confronti del «pregiudizio contro il pregiudizio» di stampo illuminista. (F. Ankersmit, Discource, an Introduction in Re-figuring Hayden White, Stanford University Press, California, 2009, p. 166). ↩︎

  44. H. Paul, Hayden White and the Crisis of Historicism, in Re-figuring Hayden White, op.cit., p. 61. ↩︎

  45. Edward Hallett Carr pubblica nel 1961 il saggio What is History? in cui dichiara che la storia non godrà mai del titolo di scienza, poiché il fatto storico descrive ciò che non si è mai conosciuto. Carr preferisce pensare la storia come una conversazione tra il presente e il passato in continua evoluzione. (D. Harlan, The Burden of History, Ivi, p. 172). ↩︎

  46. P. Ricœur, Tempo e racconto III, Il tempo raccontato, Jaca Book, Milano 2007, p. 236. ↩︎

  47. Ivi, p. 238. ↩︎

  48. Ivi, p. 376. ↩︎

  49. G. Genette, Figure III, p. 41 in C. Harle, op. cit., p. 161. ↩︎

  50. Ivi, p. 163. ↩︎

  51. Ivi, p. 164. ↩︎

  52. W. Benjamin, Il Narratore. Considerazioni sull’opera di Nikolaj Leskov. Note a commento di Alessandro Baricco, Einaudi, Torino 2011, p. 21. ↩︎

  53. J. L. Nancy, Racconto, recitazione, recitativo in I confini del racconto, op.cit., p. 23. ↩︎

  54. P. D’Alessandro, A. Potestio, Su Jacques Derrida: scrittura filosofica e pratica di decostruzione, LED, Milano 2008, p. 92. ↩︎

  55. P. Ricœur, Tempo e racconto III, Il tempo raccontato, op. cit., p. 380. ↩︎

  56. J. Habermas, Il pensiero post-metafisico, Laterza, Roma-Bari 2006, p. 64. ↩︎

  57. P. Ricœur, op. cit., p. 376. ↩︎

  58. La rete in cui si fonda l’arte del narrare s’intreccia sin dall’inizio nel fare dell’artigiano che da vita alla comunità di ascoltatori. La noia dell’artigiano, definita da Benjamin come l’uccello incantato che cova l’uovo dell’esperienza, creava in effetti una sospensione collettiva d’ascolto, anziché un deperimento solitario, proprio del romanzare. (Ivi, p. 36). ↩︎

  59. J. Habermas, Il pensiero post-metafisico, cit., p. 28. ↩︎

  60. M.C. Nussbaum, Il giudizio del poeta. Immaginazione letteraria e vita civile, Feltrinelli, Milano 1996, p. 23. ↩︎

  61. A. G. Düttmann, op.cit., p. 61. ↩︎

  62. M.C. Nussbaum, op.cit., p. 24. ↩︎

  63. G. Mazzoni, Narrativa e giochi di verità in I confini del racconto, op.cit., p. 262. ↩︎

  64. La Nussbaum affida tale attitudine, in particolar modo, al romanzo, la cui concretezza permette di far interagire «aspirazioni umane generali e forme particolari di vita sociale» (M.C. Nussbaum, op.cit., p. 25). ↩︎

  65. Intendiamo in tal senso il freno teorico che la Nussbaum pone al decostruzionismo in genere, preservando la forma dall’effetto disorientante dell’indeterminatezza. (M.C. Nussbaum, Il giudizio del poeta. Immaginazione letteraria e vita civile, op. cit., p. 105). Il concetto di tradizione potrebbe anche intendersi come condizione universale della comprensione che Gadamer presuppone come atto specifico della ragione: «ciò che è consacrato alla storia e dall’uso è fornito di un’autorità che è ormai diventata universale, e la nostra finitezza storica è definita proprio dal fatto che anche l’autorità di ciò che ci è tramandato, e non solo ciò che possiamo razionalmente riconoscere come valido, esercita sempre un influsso sulle nostre azioni e sui nostri comportamenti» (H. G. Gadamer, Verità e Metodo, op.cit., p. 329). ↩︎