Cristianesimo e modernità nel pensiero di Pietro Prini. Intervista a Walter Minella

Il centenario della nascita di Pietro Prini, una delle voci più significative nel panorama della filosofia italiana del secondo Novecento, è una felice occasione per riflettere sulla straordinaria vivezza del suo filosofare. Nel pensiero priniano convergono infatti l’esperienza agostiniana dell’interiorità e la sensibilità tipica dell’esistenzialismo, la «contemplazione creatrice» di Plotino e Il mistero dell’essere di Marcel, il tutto in una linea ermeneutica unitaria da cui l’uomo emerge come domanda di significato totale. È un esistenzialismo che si apre all’antropologia come all’ontologia, che dialoga apertamente con le scienze e si confronta senza timori con la modernità. Per ricordare l’uomo e il filosofo, ma soprattutto per confermare l’importanza e l’attualità della sua opera, il Collegio Borromeo di Pavia, la Società Filosofica Italiana sezione del Verbano Cusio Ossola e l’Università di Pavia organizzano il prossimo 22 ottobre a Pavia, presso il Collegio Borromeo, il convegno Prini filosofo cristiano. A confronto con la modernità. In quella stessa occasione saranno presentati due importanti volumi, di prossima pubblicazione per i tipi della Lateran University Press: l’inedito priniano Ventisei secoli nel mondo dei filosofi e la monografia Pietro Prini di cui è rispettivamente curatore e autore il professor Walter Minella. Come contributo ai prossimi lavori congressuali, e certi di suscitare l’attenzione di tutti coloro che sono interessati alla speculazione priniana, pubblichiamo una lunga intervista al prof. Minella, al quale abbiamo chiesto di parlarci del suo lavoro per queste pubblicazioni e di chiarirci perché ritenga il pensiero di Prini particolarmente attuale.

[Le caratteristiche formali dell’inedito] Prof. Minella, Lei ha avuto incarico dagli eredi del professor Prini di «prendersi cura» dell’inedito. Ci può presentare quest’opera e raccontarci brevemente del suo lavoro di revisione?

Ventisei secoli nel mondo dei filosofi è una sorta di percorso all’interno della storia della filosofia occidentale, con alcuni interessanti riferimenti, in un capitolo, a quelle araba ed ebraica del Medioevo: sembra quasi trattarsi di un’ultima meditazione, un lungo addio del vecchio Prini ai filosofi che ha amato e studiato per tutta una vita. Ad eccezione di alcuni capitoli, l’opera è inedita. Dalla testimonianza dei famigliari, sappiamo che il filosofo vi ha lavorato fino all’esaurimento delle sue forze intellettuali, presumibilmente intorno al 2005 (Prini è morto nel 2008). Per comprendere la peculiarità del lavoro di editing, che è stato necessario attuare per poter arrivare alla pubblicazione del testo, bisogna tener presente il processo materiale di composizione dell’opera. Prini probabilmente ha scritto a mano il testo originale, che è stato successivamente battuto al computer da suoi collaboratori. Da questa trascrizione deriva lo stampato che mi è stato consegnato dal dottor Xausa Pavesi, erede di Prini e mio amico. Il professore non ha senz’altro potuto rivedere il testo. Ne sono testimonianza piccole, ma abbastanza diffuse, imprecisioni: in parte dovute al fatto che presumibilmente si trattava di una prima stesura (per esempio nell’Introduzione, una stessa frase è ripetuta due volte), in parte evidentemente derivanti dall’imperizia dei trascrittori (per esempio, citazioni greche traslitterate in modo errato, traduzioni di passi di filosofi greci incomplete o imprecise, segnalazioni errate della fonte di un passo citato nel testo, frequenti piccoli errori nella trascrizione dei nomi citati, ecc.). Il risultato è un’opera compiuta nei suoi elementi concettuali fondamentali, ma non rivista formalmente. Era dunque necessario, per renderla pubblicabile, un processo attento di revisione, cosa che ho cercato di fare. Un’ultima osservazione. Gran parte dei capitoli sono compiuti e si inseriscono organicamente nell’interpretazione priniana dello sviluppo della filosofia occidentale. Solo alcuni degli ultimi, a partire dal secondo Ottocento, sono più schematici, in alcuni casi più abbozzati che svolti. Tuttavia, anche in questo ambito vanno segnalate significative eccezioni: in particolare le presentazioni del pensiero di Husserl, Jaspers e Marcel. che costituiscono un modello di sintesi comprensiva.

[L’inedito nel contesto della filosofia priniana] L’inedito, come ha poc’anzi ricordato, è un’opera scritta lungo l’arco di diversi anni e rimasta incompiuta, nella forma più che nella sostanza. Non potrebbe trattarsi di un lavoro «senile» che riflette la decadenza psicofisica dell’uomo e del pensatore? Qual è il suo valore e che posizione assume all’interno del «corpus» delle opere priniane?

L’obiezione che Lei pone è esattamente la domanda che mi sono fatto quando ho preso in mano il dattiloscritto: valeva la pena di pubblicarlo? Era qualcosa di irrilevante, che non aggiungeva né toglieva nulla a quanto già noto del pensiero del filosofo? O addirittura: pubblicandolo si sarebbe corso il rischio di infliggere un danno alla sua memoria? La mia conclusione — premesse le correzioni indispensabili di cui ho parlato sopra — è stata che si trattava di un contributo importante, che valeva la pena di mettere a disposizione degli studiosi, perché in questo testo Prini pare riprendere e sviluppare molti filoni importanti del «terzo periodo» del suo pensiero. È questo il motivo per cui, insieme gli eredi, abbiamo deciso di pubblicarlo.

[La tripartizione del pensiero di Prini] Lei fa riferimento a un «terzo periodo» del pensiero di Prini. Potrebbe chiarirci perché allude a uno sviluppo del suo pensiero in tre fasi e quali sono le loro caratteristiche essenziali?

Questa tripartizione corrisponde a una valutazione espressa dello stesso Prini in un documento importante, l’ultima intervista del 2005 accordata a Vittorio Grassi.1 Il primo periodo è caratterizzato dalle ricerche su tre autori privilegiati — Plotino, Marcel e Rosmini — e insieme dall’approfondimento delle ragioni dell’esistenzialismo, in senso lato, religioso — da Kierkegaard fino a Heidegger, Jaspers, Berdjaev e, soprattutto, Marcel, che fu il vero e proprio maestro di Prini. Questi diversi autori vengono assimilati e composti tra loro dal filosofo, in una sorta di dialogo vivo che permette una sintesi personale. La ricerca di Prini è rigorosa, paziente ma insieme appassionata, cioè risponde a una domanda vitale originaria, che potremmo definire così: come pensare il Cristianesimo nel tempo della modernità. La risposta di Prini implica il rifiuto argomentato di due impostazioni avverse al Cristianesimo e di una erroneamente apologetica. Per quanto riguarda le prime, si tratta dello scientismo, da una parte, e del prassismo dall’altra, cioè della filosofia e della cultura che pone a principio il fare. Ovviamente, come potremo vedere meglio in seguito, rifiutare lo scientismo non significa affatto rifiutare la scienza, così come confutare il prassismo non significa affatto negare il valore della pratica. Si tratta invece di chiarire come le scienze non siano l’unica forma di conoscenza possibile per l’uomo (forse che le opere di Rembrandt, di Dante o di Mozart non corrispondono a un’autentica, profonda, radicale conoscenza umana?) e come la prassi non sia il valore fondamentale, ma, benché importantissimo, derivato (secondo il detto di Gesù su Marta e Maria).

Quanto all’impostazione erroneamente apologetica, si tratta del neo-tomismo, che, a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, era stato assunto come philosophia perennis dalla Chiesa cattolica. Prini ribadì allora e conservò sempre una grande ammirazione per il genio speculativo di san Tommaso, ma insieme denunciò l’abuso della sua dottrina, ridotta nel secondo Ottocento a feticcio usato per esorcizzare e combattere la modernità, con cui invece Prini avvertì sempre l’esigenza di un confronto filosofico serrato.

Il secondo periodo si apre con Discorso e situazione (1961): nell’intervista sopra citata Prini definisce quest’opera «fondamentale» e sostiene che essa «rappresenta la piena acquisizione di una posizione filosofica personale». Il motivo di fondo dell’opera è costituito dalla valorizzazione della cosiddetta «ontologia semantica» rispetto alla «ontologia apofantica» di Aristotele e san Tommaso. In sostanza si tratta di privilegiare le vie della testimonianza morale, della rivelazione estetica, dell’esperienza religiosa nei suoi punti alti, come «cifre», tracce, punti di riferimento per la riflessione su Dio (teo-logia) rispetto alla via della presunta dimostrazione univoca, universale e logicamente inconfutabile. In questo contesto, si ha una esplicita, personale rielaborazione intorno al problema del rapporto tra Cristianesimo e filosofia, in particolare nella prolusione con cui Prini inaugurava il suo insegnamento come docente ordinario all’Università di Perugia. Dio non si dimostra razionalmente: questa pretesa corrisponde a un abuso della ragione filosofica (simmetrico a quello di chi pretenda di dimostrare l’inesistenza di Dio). Si tratta di una forma di presunzione, su cui in fondo Kant ha detto le cose definitive. Dio piuttosto si mostra nelle sue tracce, che può cogliere soltanto chi abbia «occhi per vedere e orecchi per sentire». Insomma: Pascal e Kant contro san Tommaso, l’esperienza del singolo contro la «coscienza in generale», la centralità della fede contro la prevalenza della ragione metafisica, il mistero contro la pretesa di rinchiudere, sia pure per sommi capi, il senso della realtà in alcune formulazioni dottrinarie, in schemi e formule ricavate in modo aprioristico e deduttivo da alcuni principi.

In questo contesto, il progetto filosofico di Prini di «salvare la trascendenza» si determina e si articola rispetto al primo periodo: si tratta ora di mostrare come questo pensiero possa non essere incompatibile con il più rigoroso pensiero moderno, ma anzi possa stimolarlo, pungolarlo, rafforzarlo, evitandogli di cadere nelle trappole filosofiche dell’autosufficienza. Prini, a partire dagli inizi degli anni Sessanta, si rende conto della necessità di un confronto ravvicinato con le scienze naturali e con quelle umane, cioè con le discipline storico-antropologiche in vario modo correlate alle filosofie moderne. Per quanto riguarda le prime, un ruolo particolare ha per lui il magistero di Teilhard de Chardin, il gesuita scienziato e teologo (uno dei tanti intellettuali cattolici condannati e costretti al silenzio dal Sant’Uffizio di allora). Con alcuni degli esponenti di punta delle seconde, nonché con i «maestri del sospetto» (Marx, Freud, Nietzsche), in particolare nell’opera Il paradosso di Icaro: la dialettica del bisogno e del desiderio, Prini avvia, come parallelamente stava facendo il suo amico Ricœur, un confronto puntuale, che lo porta a mettere a fuoco la dialettica fra i bisogni, che radicano l’uomo nella terra, nella storia, e il desiderio, che lo avvicina a Dio. In sostanza, potremmo dire che si tratta di elaborare un’alternativa a Schopenhauer, la figura che stende la sua ombra nichilista su tutta la cultura occidentale moderna e post-moderna, e a Marx, un filosofo geniale che, se da un lato è autore di molte autentiche scoperte intellettuali, dall’altro è forse il massimo responsabile del reinserimento del pensiero totalitario, in forma scientista, nella modernità.

Le ricadute di questa impostazione riguardano l’approfondimento del rapporto tra la Chiesa cattolica e la storicità. Prini comprende sempre meglio la dialettica tra l’universalità trascendente e sovratemporale del messaggio cristiano di amore e la necessaria incarnazione storica di esso nel tempo. ciò implica la necessità di una distinzione di principio tra la fede, che attiene a quella dimensione sovratemporale e trascendente, e la dottrina cattolica, che costituisce un tentativo di applicazione e adattamento ai tempi, necessariamente bisognoso di evoluzione nel tempo. In sintesi, con un detto memorabile del 1967, Prini afferma che «la scienza non è certamente la chiave ermeneutica della Rivelazione, ma può liberarne il senso da interpretazioni certamente false».

Il terzo periodo, a partire dal 1989, è caratterizzato da due filoni fondamentali di pensiero: uno che riprende la meditazione sul rapporto tra Cristianesimo e storicità in generale, e in particolare su Cristianesimo e modernità occidentale, l’altro che sviluppa la riflessione sul mistero del male. Al primo filone sono riconducibili uno dei capolavori storiografici di Prini, La filosofia cattolica italiana del Novecento (1996) nonché diversi altri scritti del periodo: Il corpo che siamo. Introduzione all’antropologia etica (1991), I cristiani e il potere. Essere per il futuro (1993) e Lo scisma sommerso (1998-1999), forse l’opera di Prini che ha avuto il maggiore risalto pubblico. Non aver tenuto conto del contesto filosofico complesso in cui sorgeva un pamphlet di filosofia morale come Lo scisma sommerso è stato, a mio parere, il limite fondamentale della ricezione critica di quest’opera da parte dei tradizionalisti.

Alla seconda tematica fanno riferimento opere come L’ambiguità dell’essere e l’ultima edizione della Storia dell’esistenzialismo, entrambe del 1989.

Il testo inedito, Ventisei secoli nel mondo dei filosofi, nasce precisamente dallo sviluppo delle problematiche dell’ultimo Prini. Mi permetto di rimandare, per un esame più accurato della questione della periodizzazione, alla mia monografia Pietro Prini che uscirà, insieme a Ventisei secoli, presso la Lateran University Press.

[Continuità e discontinuità nell’evoluzione del pensiero priniano] Una delle specificità del lavoro di Prini è stata la ripubblicazione, in forma rinnovata e in epoche diverse, di opere assai importanti come le sue ricerche sulla storia dell’esistenzialismo o la monografia su Plotino. È possibile ritrovare in queste riproposizioni le tracce dei «tre periodi»?

La risposta è senz’altro sì, e avvalora l’ipotesi di uno sviluppo organico, di un cambiamento nella continuità o, se vogliamo, di una dialettica di continuità e discontinuità nell’opera di Prini. In questa sede non posso dimostrare filologicamente questa tesi, come invece credo di aver fatto nella monografia su Prini. Mi limito a segnalare alcuni elementi, prendendo ad esempio la ricerca su Plotino. Il bellissimo saggio giovanile originario, pubblicato nel 1946, L’etica della contemplazione originaria e il suo fondamento nella teologia di Plotino, è anche il nocciolo della prima edizione della ricerca del 1968 su Plotino e la genesi dell’umanesimo interiore (ristampata nel 1970). Ma, in questa, compare un elemento differenziale totalmente mancante nel primo testo, ossia la sottolineatura del radicamento storico-sociale della riflessione di Plotino (ecco il confronto con le discipline in senso lato storico-sociali). Infine, nell’ultima edizione riveduta del 1992, con il nuovo titolo Plotino e la fondazione dell’umanesimo interiore, viene affrontata, con esiti nuovi, un’ultima questione, relativa al mistero del male nella riflessione del filosofo greco (in particolare dell’ultimo Plotino). Si ha quindi, nell’interpretazione priniana di Plotino, una sedimentazione organica: una serie di accrescimenti che approfondisce l’impostazione ermeneutica originaria, senza cancellarla.

Osservazioni analoghe potrebbero essere fatte anche per la Storia dell’esistenzialismo e per altre opere. La «sedimentazione organica» della speculazione priniana, come Lei l’ha appena definita, mi sembra un aspetto di particolare interesse. Quali sono dunque i temi-guida del pensiero di Prini, che vengono modulati e variati nei diversi periodi? E in particolare, qual è — se c’è — il filo conduttore che riconnette lo scritto postumo all’opera precedente di Prini?

A conclusione dell’ultima intervista a Vittorio Grassi, citata sopra, Prini diceva di sé: «ho dedicato tutta la mia vita alla cultura cattolica in modo critico». Mi pare che questa autodefinizione racchiuda bene le peculiarità del suo «esistenzialismo cristiano». Ma per venire alla sua domanda sui temi-guida: anzitutto il riferimento alla trascendenza, nella forma della rivelazione, ultima e definitiva, del Dio cristiano, che non esclude tuttavia il riconoscimento dell’importanza di altre parziali, diverse e arricchenti forme di rivelazione in altre civiltà -mondo. Si potrebbe dire che Prini riprenda e sviluppi l’impostazione della Gaudium et spes, aprendosi a un autentico ecumenismo, che può essere rappresentato con una bella immagine di Jacobi, citata spesso da Prini — anche nel capitolo dell’inedito dedicato a Jaspers: il filosofo di Oldenburg, — «pur dichiarando, in polemica con i teologi, che la filosofia non può accogliere il Credo di nessuna confessione religiosa, si è in realtà avvicinato al punto comune e veramente ecumenico di ogni autentica esperienza religiosa, quel punto in cui gli uomini ritrovano, nel profondo, l’unità dell’uomo, come i raggi del cerchio s’incontrano nel centro». Quella di Jaspers e di Prini è insomma l’ispirazione anche del cardinale Cusano o di Lessing. È vero che esiste una differenza di principio tra l’impostazione di Prini e quella di Jaspers, perché in quest’ultimo il riferimento alla fede ebraico-cristiana, che pure rimane in realtà nel profondo, è solo sottinteso e implicito, mentre in Prini diventa esplicito e centrale. Ma, alla luce di quanto detto sopra, tale differenza non è essenziale.

La seconda caratteristica che si ritrova, mi pare, in tutto il pensiero filosofico di Prini, pur emergendo in modo sempre più marcato nel corso del suo sviluppo, riguarda la consapevolezza del dislivello tra la fede e dottrina, ovvero del fatto che la prima è, nella ricchezza infinita della sua luce, immutabile, mentre la seconda, come tentativo umano di concretizzazione e determinazione storica di quella, è necessariamente sottoposta a condizionamenti storici diversi e quindi va sempre ricalibrata, ripensata, riformulata. La storicità, dunque è il correlato dell’incarnazione. Secondo questa impostazione, la Chiesa tanto più è maestra quanto più è umile, consapevole di non possedere il sapere assoluto — se non nel discorso del metodo dell’amore — e proprio per questo capace di porsi in ascolto dei problemi, delle angosce, dei codici culturali, delle conquiste e dei fallimenti, insomma delle strade percorse dall’umanità a cui si rivolge, con cui condivide la strada del tempo, che per i fedeli è sempre anche un pellegrinaggio verso l’eternità.

In questo contesto, emerge anche l’avversario che Prini, da cattolico filosofo, ha sempre combattuto all’interno del suo mondo: il tradizionalismo che, confondendo la forma con la sostanza, il guscio duro con la polpa delicata, pretende di immobilizzare la Chiesa in una presunta verità assoluta ed eterna che non è costituita dalla fede, ma dalla dottrina, cioè, in sintesi, da alcuni sistemi teologici. È un’impostazione che oggi la Chiesa cattolica, dopo molto tempo, ha finalmente, almeno in linea di principio, abbandonato: si veda l’enciclica Fides et ratio. Essa sostiene, secondo la sintesi fatta da Giovanni Reale, che «la Chiesa non ha una sua filosofia in quanto tale, e la fede, che ha un valore meta-culturale, non può essere rinchiusa nelle categorie di nessuna cultura, e proprio per questo può fecondare tutte le culture».

Invece, la pretesa di identificare la fede cattolica con una specifica interpretazione dottrinale, il neo-tomismo, era stata sostenuta nella seconda metà dell’Ottocento come strumento polemico contro la modernità filosofica e scientifica. La reazione neo-tomista, per quanto articolata al suo interno, come Prini ha mostrato nella sua storia della filosofia cattolica italiana del Novecento, ha giocato paradossalmente al contrario del ruolo che san Tommaso aveva svolto nel suo tempo. Mentre il geniale filosofo-teologo si confrontava nel XIII secolo con le punte più alte della filosofia del suo tempo, cioè con l’aristotelismo recuperato attraverso la mediazione delle cultura araba, il neo-tomismo «duro e puro» ha finito per compiere l’operazione esattamente opposta: rifiutando il confronto con la filosofia post-tomista, cioè con sette secoli di pensiero filosofico occidentale, ha dichiarato, nei suoi esponenti più intransigenti, che esso andava evitato e condannato («il veleno kantiano» era il titolo di un’opera del padre Mattiussi). Si tratta di errori intellettuali gravi e plurisecolari, anche perché la reazione neo-tomista non rappresentava che l’ultima versione di un rifiuto della modernità filosofica e scientifica che risaliva almeno al caso Galileo. È questa la sostanza del dramma culturale vissuto, per più secoli, dal cattolicesimo, di cui anche un papa come Paolo VI, che era un intellettuale moderno, era profondamente consapevole. Uno dei temi fondamentali dell’inedito di Prini consiste proprio nell’argomentare puntualmente le ragioni filosofiche di questo errore concettuale di base, insito nella contrapposizione filosofica della Chiesa cattolica alla modernità. Questa operazione andava compiuta senza cadere nell’errore opposto, cioè di sostituire alla reazione antimoderna un’idolatria della modernità che ne dimenticasse i limiti e le ferite profonde.

[Trascendenza e modernità] Mi pare quindi che emergano due coordinate del pensiero di Prini: trascendenza e modernità o laicità o, più in generale, storicità. Vogliamo indicare alcune delle implicazioni filosofiche di questa impostazione?

Provo a riassumere quelli che mi sembrano i caratteri salienti dell’atteggiamento filosofico di Prini in alcuni punti schematici:

a) Apertura alle scienze moderne e insieme critica dello scientismo. Ho già accennato al rifiuto dello scientismo da parte di Prini. Provo a richiamare in modo meno telegrafico la risposta di Prini a questa impostazione. Lo scientismo è quella posizione che ritiene la scienza l’unica forma di sapere significativo e attendibile e che, sulla base di questo, ritiene di poter giungere a conclusioni di tipo ateistico. Rispetto ad esso, Prini fa proprie le critiche di Kant e di Jaspers. Anzitutto, partendo dalla scienza e applicando rigorosamente il metodo scientifico non è possibile giungere a conclusioni relative alla totalità (quindi ateistiche o teistiche) perché questa è precisamente la dimensione della realtà che alle scienze è preclusa: una limitazione che, in realtà, costituisce la gloria del pensiero scientifico, perché, apparentemente indebolendolo, in realtà lo rafforza, definendone l’ambito legittimo di applicazione. Per chiarire questa distinzione, Jaspers contrappone la coscienza in generale (Bewusstsein überhaupt) all’esistenza (Existenz), che affonda le sue radici nell’esperienza morale ed estetica, oltre che nel senso profondo della finitezza umana, e che trova le sue espressioni nell’arte, nelle religioni e nella filosofia.

b) Critica del prassismo, cioè della concezione della filosofia e della società che è connotata dal fare (si ricordi come espressione di questa concezione l’XI tesi su Feuerbach di Marx) e dall’avere. Al principio del fare Prini contrappone il principio greco del «contemplare» (la theōría), che nella versione cristiana è la preghiera, su cui si può fondare un agire che eviti le dimensioni dell’autosufficienza presuntuosa, della mancanza di limite, della trasformazione del mezzo in fine. So bene che per i teorici del «destino dell’Occidente» dominato dalla tecnica questo atteggiamento è illusorio: una diagnosi pessimistica che sembrerebbe confermata da molti fatti, ma che lascia le donne e gli uomini di oggi sprovveduti rispetto all’esistente, in quanto strutturalmente immodificabile. In questo senso, personalmente trovo un’analogia tra questa impostazione e quella di certo marxismo massimalista e parolaio, che ha avuto una larga circolazione in Italia (e che è altra cosa dal rigore concettuale di un pensatore serio e discutibile come Marx). Contro a ciò, emerge la peculiarità del pensiero ebraico-cristiano: la centralità del principio speranza, ancorato alla trascendenza. In questa ottica si può rilevare che, se c’è una tendenza alla distruzione tecnica del mondo della natura (e dell’uomo) interpretato come un insieme di cose disponibili, è anche vero che, per contrasto, emergono nuove sensibilità, nuovi movimenti che in senso lato potremmo definire «ecologici», comprendendo in ciò anche l’ecologia dell’umano.

c) Concezione aperta e dialogante della filosofia, a cui ne corrisponde una aperta della società, che innesta la lezione di Popper sulle originarie istanze anti-idolatriche della tradizione ebraico-cristiana. Da qui, la critica della rimozione del divino, propria tanto dei totalitarismi del Novecento quanto, con aspetti diametralmente opposti, della cultura di massa del post-moderno. Nell’un caso e nell’altro questa rimozione porta al ripullulare di forme idolatriche di assolutizzazione, alla nascita di pseudo- o para-riti e di forme di «religiosità selvaggia», si tratti del culto del capo (duce, Führer, vozd o dell’adorazione dei divi dell’industria di consumo culturale. Potremmo dire che in questo caso l’ispirazione cristiana di Prini si salda a quella illuministica.

d) Concezione «dialogante» del Cristianesimo: ossia sforzo continuo di «aggiornamento», per usare il termine di Giovanni XXIII, non per annacquare il vino del Vangelo, ma al contrario per renderlo accessibile nella sua schiettezza originaria. Proprio per rispettare la tradizione occorre tentarne forme di traduzione volta a volta diverse.

e) Contrasto rispetto al nichilismo, visto non come destino dell’Occidente, come necessità ineluttabile, ma come possibilità, che corrisponde indubbiamente a una irradiazione socio-culturale di massa che tuttavia, nella vita del singolo, si manifesta in particolari costellazioni psicologiche, che l’individuo può accettare o rifiutare. Il nichilismo non è, secondo Prini, collegato alla scienza in sé (altrimenti non avrebbe senso la sua problematica filosofica, di una riformulazione possibile del messaggio di gioia della rivelazione cristiana all’interno delle categorie scientifiche e culturali della modernità ), ma costituisce una possibilità esistenziale. Se in realtà questa concezione pessimistica è sempre esistita (si ricordi il detto, amato da Nietzsche, del Sileno, per cui sarebbe bene per gli uomini morire giovani e meglio ancora non essere mai nati), oggi appare prevalente, sia come filosofia esplicita, a partire da Schopenhauer e Nietzsche, sia soprattutto come sfondo non detto, subcultura di massa implicita, ovvia, «normale» del tempo post-moderno.

f) Comprensione della radicalità originaria del mistero del male e, tanto nell’ultimo periodo del pensiero di Prini quanto nell’opera postuma — si veda in particolare il capitolo su Schelling — tentativo di rendere pensabili insieme tanto la onnipotente bontà di Dio quanto la potenza del male. In questo contesto, particolare rilievo assume il tema dello «svuotamento» (kénosis) di Dio nella persona di Cristo sofferente fino alla morte in croce e alla resurrezione, simbolo del tragico immanente nella vita, e quindi della vittoria apparente della morte, ma insieme della speranza cristiana nell’ultima, definitiva vittoria della vita.

[Gabriel Marcel] Nella parte iniziale di questa intervista Lei ha sottolineato che Marcel è stato il vero e proprio maestro di Prini. Vogliamo approfondire le ragioni di questo discepolato? E, in particolare, l’inedito segna un cambio di prospettiva, qualche «distinguo» maturato nel tempo dall’allievo nei confronti del maestro?

Gabriel Marcel è stato non un maestro, ma il maestro di Prini (come credo anche di Ricœur), cioè un maestro nel senso pieno, esistenziale, della parola: se Ricœur ricordava come, tornato dal campo di prigionia in Germania, fosse stato accolto «come un figlio» da Marcel, Prini parlerà sempre con affetto e riconoscenza dell’accoglienza generosa ricevuta da Marcel e del periodo trascorso a Parigi al suo seguito. Sul piano filosofico, Marcel voleva dire per Prini tante cose. Anzitutto la conferma di un’altra via, all’interno del cattolicesimo, per elaborare concettualmente l’esperienza cristiana, rispetto all’arido razionalismo deduttivo del neo-tomismo: una via che risaliva a Pascal (e, tornando più indietro, a sant’Agostino) e che rendeva possibile l’assimilazione delle lezioni dei filosofi dell’esistenza, quali Kierkegaard, Jaspers, Heidegger, Berdjaev. In questo consiste la «metodologia dell’inverificabile» di Marcel: ossia «la riflessione su una via di ricerca» che è «dell’inverificabile» perché non risponde ai canoni dell’esperienza scientifica, cioè della verificabilità universale, ma richiede un’esperienza individuale, unica, irripetibile.

Ritorna qui la riflessione epistemologica: nel sapere scientifico è necessaria una scissione tra soggetto e oggetto del sapere, in cui il soggetto sia intenzionalmente lontano, non coinvolto, impersonale, appunto «obiettivo». Se questa è la sua gloria, ne è anche il limite, perché considera il coinvolgimento originario del soggetto nella realtà (alias, nell’Essere o, meglio ancora, in Dio) nel migliore dei casi come un problema, altrimenti come uno pseudo-problema, una falsa questione, che non ha senso porsi.

Dall’epistemologia si slitta alla filosofia della persona, se sia o no radicata in una realtà ultima. La risposta di Marcel (e Prini) si colloca a questi due livelli: anzitutto, noi siamo pienamente, totalmente coinvolti nel discorso sulla realtà, e quindi è metodologicamente scorretto pensare di poter formulare un giudizio esauriente, conclusivo, ultimo che sia «obiettivo», distaccato, scientifico, impersonale tanto su di noi quanto sulla realtà. Con Heidegger (Che cos’è la metafisica) «nessuna domanda metafisica può porsi, se non è posto in questione, come tale, colui che fa la domanda, se non diventa domanda egli stesso». E, con Jaspers, la domanda esistenziale (questo vuol dire il «porre in questione chi fa la domanda» di Heidegger) non è di competenza della «coscienza in generale» ma dell’esistenza del singolo. In altre parole è sensato porsi il problema del senso della vita perché, come diceva Pascal, non vi si può sfuggire: vous êtes embarqués. In questo contesto la scelta religiosa (e più specificamente cristiana) risulta come un’opzione possibile — contro tutte le filosofie, esplicite o implicite, scientiste, prassiste, nichiliste, superomiste, «del destino», che pretendono di escluderla dal novero delle possibilità e la vedono come un «tradimento» dell’onestà intellettuale, cioè della prima virtù dell’intellettuale.

In fondo, rivolgendosi implicitamente al lettore «laico», quella che propongono Marcel e Prini è una possibile via d’esperienza in cui l’ipotesi Dio, al contrario di quello che sosteneva l’astronomo Laplace, sia significativa. Ma per questo si deve fare silenzio, rientrare nell’interiorità (tema agostiniano e, prima, neoplatonico): con due versi di Angelo Silesio che Prini amava: «Taci, caro, taci; e se puoi tacere davvero / Dio ti darà più benedizioni di quelle che hai desiderato». Ma ciò significa distaccarsi dalla superficie delle preoccupazioni quotidiane e aprirsi al mondo delle realtà più alte e più profonde. A questo «silenzio» dell’io è connessa l’umiltà ontologica. Occorre sapersi accostare alla realtà (dell’Essere, di Dio), in cui noi siamo inglobati, coinvolti, considerandola non come problema, ma come metaproblema, ovvero, con un termine che già allude alla dimensione sacrale, come mistero. Si ricordi il detto di Einstein, che trovo citato nel bel libro di Mario Brunello, Silenzio:2 «La più bella e profonda emozione che possiamo provare è il senso del mistero; sta qui il seme di ogni arte, di ogni vera scienza» (A. Einstein, Come io vedo il mondo). In altre parole: Dio non si può dimostrare, si può mostrare, nelle sue tracce, nelle sue manifestazioni possibili. Penso, per esempio a Dante: perché il grande poeta cristiano assume proprio Virgilio come guida per l’Inferno e il Purgatorio? perché vuole simboleggiare che la grande arte, rappresentata dal suo «maestro», costituisce di per sé una preliminare apertura alla realtà profonda: la fatica di assimilare l’opera d’arte («’l lungo studio e ’l grande amore») implica una sorta di affinamento psichico che può costituire il presupposto per evitare «la bestia» e insieme per «tenere altro viaggio», fin che non sopravvenga la fede. Un discorso analogo si può fare per ogni gesto di generosità, di dono, di apertura agli altri.

In sintesi, Marcel e Prini vogliono indicare il presupposto di esperienza che rende significativa ogni affermazione teologica, mancando il quale essa risulta nulla, un puro flatus vocis. In questo senso Jean Wahl definiva giustamente quello di Marcel un «empirismo mistico»: «empirismo» perché ogni affermazione teologica (e, aggiungiamo, metafisica) ha senso se e in quanto si basa su un’esperienza umana (su questo tema Prini insiste particolarmente nella sua Filosofia cattolica italiana del Novecento); «mistico» perché viene privilegiata quella particolare modalità dell’esperienza attraverso la quale Dio può in qualche modo rendersi manifesto. Nel contesto che qui abbiamo rapidamente delineato, si pone la dicotomia tra essere e avere, enunciata per primo da Marcel (e in seguito ripresa e sviluppata autonomamente, in un senso psicologico, da E. Fromm): una dicotomia, in sostanza condivisa per alcuni aspetti essenziali da Prini, mentre altre implicazioni discutibili verranno da lui superate. Gli aspetti condivisi potrebbero essere riassunti in questo modo. La nostra è una civiltà dell’avere (noi diremmo una civiltà capitalistica) in cui tendenzialmente il metro di valutazione definitiva delle persone sarebbe costituito, in ultima analisi, dal denaro. È vero che caratteristiche del genere percorrono tutta la storia dell’umanità (in modi molto diversi a seconda dei diversi contesti culturali), in quanto sono correlate all’egoismo intrecciato al senso dell’identità, una delle forze che strutturano (negativamente) la personalità umana. Nell’epoca moderna questa potenza dell’avere (del capitale) si manifesta con tutta la sua forza faustiana, in modo pieno e di per sé riluttante a qualunque operazione di controllo: non si tratta più dell’avidità dell’avaro, si tratta della valorizzazione del capitale che assoggetta a sé sempre nuove sfere di esistenza e di vita.

L’impostazione dell’avere è la più lontana dal permettere di cogliere la realtà profonda dell’essere. così, per esempio, la terra non è (anche) la «sora nostra madre terra», che «ne sustenta e ne conforta» ma è, per riprendere l’immagine di Heidegger, un Gestell, lo scaffale di un magazzino in cui sono riposti materiali che noi uomini possiamo manipolare e sfruttare. Viene meno il senso della contemplazione silenziosa della bellezza, ossia della teoria. È necessario reagire a questa tendenza sviluppando una coscienza, che sia insieme ecologica e antropologica: come notava papa Ratzinger nel suo discorso al Bundestag tedesco, si tratta di una prima, decisiva forma di autodifesa rispetto al procedere sfrenato della modernità, che rischia di risultare, alla fine, autodistruttiva. Questa cura, questa attenzione deve valere per ogni essere vivente (come molte culture tradizionali, nel loro particolare codice culturale, sapevano bene: penso per esempio agli indiani d’America). A maggior ragione, deve poter valere per ogni essere umano, il cui valore, la cui dignità, non dipende dalla quantità di denaro-potere che è in grado di attivare, ma è insita nel suo essere stesso, è un elemento costitutivo del suo essere (in termini teologici, risiede nel suo rapporto con Dio, cioè nell’essere ciascuno voluto e amato da Dio). Nella dottrina cristiana, questa valorizzazione dell’essere umano indipendentemente dal suo potere o dalla sua ricchezza — anzi, addirittura nonostante il potere e la ricchezza — è manifesta nei celebri versetti di Luca e di Matteo, «beati i poveri» e «beati in poveri in spirito». San Francesco, che sarà sempre uno dei punti di riferimento di Prini, costituisce la riproposizione, fresca e quasi «infantile» (intendendo l’aggettivo nel suo senso più alto, quello di Gesù ) di questa impostazione originaria del Cristianesimo.

Un altro tema che Prini riprende da Marcel è la valorizzazione del corpo, che va compreso all’interno della bellezza del creato, la quale a sua volta rimanda all’adorazione di Dio. Il contrasto con le filosofie dell’assurdo (si pensi a Sartre e alla sua descrizione, nella Nausea, delle radici del castagno come una sorta di immane cancro vegetale) non potrebbe essere più netto, così come la contrapposizione allo spiritualismo di derivazione neo-platonica (in questo caso, Prini fa interagire uno dei suoi maestri contro l’altro, Plotino) e il ritorno, penso si possa dire, alla radice ebraica del Cristianesimo. Questa impostazione conosce nell’inedito un ulteriore sviluppo, con la valorizzazione e il recupero parziale di autori, come Epicuro, tradizionalmente «dannati» dall’ermeneutica cristiana.

Infine, ultimo tema marceliano è il riconoscimento della possibilità della disperazione. Poiché Dio non è necessario ed evidente sul piano logico, poiché non è garantito da una dimostrazione univoca e incontrovertibile, poiché esistono «lesioni reali» nel mondo, esiste la tragedia, il mistero del male e l’esistenza di Dio è affidata a un atto di fede (che a sua volta, nota sapientemente la tradizione, è connessa con la speranza e la carità ): è cioè, dal punto di vista umano, una scelta, che può apparire anche paradossale o assurda (va peraltro ribadito che, per un credente, la scelta umana è comunque sempre la scelta di Dio).

Se questi aspetti accomunano Prini a Marcel, ce ne sono altri su cui il discepolo si è andato sempre più distaccando dal maestro, anche se in modo garbato e, per così dire, implicito, come testimonia anche l’inedito. La scienza non è per Prini connotata dal dominio dell’avere, ma corrisponde a un vero aumento della conoscenza; la democrazia moderna non è il dominio dell’impersonale, ma una conquista autentica dell’umanità ; la valorizzazione del singolo non corrisponde soltanto a uno sradicamento dalla comunità, ma è anche la scoperta di nuove dimensioni, di nuove potenzialità. Insomma, lo sviluppo dell’Occidente non è solo un processo di decadenza e di degrado, come pensava Marcel — che si definiva «un uomo di destra», cioè un tradizionalista (senza che ciò avesse comportato alcuna compromissione con il fascismo o la repubblica di Vichy) — ma si accompagna ad autentiche conquiste intellettuali e civili, che convivono con tante forme di dissipazione nell’impersonale. La presa di distanza di Prini dal maestro, che indubbiamente esiste tanto nell’opera postuma quanto nei testi precedenti, risale a una scelta strategica di Prini, ossia alla sua decisione di procedere a un confronto serrato e «aperto» con le scienze e la modernità. In questo senso l’atteggiamento di Prini nei confronti di Marcel è analogo a quello di Ricœur, come credo di aver mostrato nella monografia su Prini.

[Esistenzialismo] Abbiamo parlato di Marcel. A quali altri pensatori del Novecento Prini si è particolarmente avvicinato?

Prini ha in qualche modo fatto interagire Marcel con Jaspers, mentre nei confronti di Heidegger, pur nel riconoscimento del suo genio teoretico, le distanze sono sempre state più marcate e si può parlare di una incompatibilità di fondo. Abbiamo già ricordato Popper per la critica del totalitarismo. Non va trascurata la valorizzazione, da parte di Prini, di autorevoli esponenti della fenomenologia della religione, e, prima, del maestro della fenomenologia, Husserl, come risulta anche dal bel capitolo a lui dedicato nell’inedito. In generale, va ricordato l’atteggiamento priniano di confronto con le discipline antropologiche, oltre che con quelle naturali.

[Pareyson] Il problema del male e il continuo lavorio di scandaglio dell’esistenza, sempre alla luce dell’imprescindibile opzione cristiana, non avvicinano Prini al suo contemporaneo Pareyson?

Indubbiamente Pareyson è il filosofo italiano a cui Prini è stato più vicino, in particolare nella meditazione dell’ultimo periodo, imperniata sul mistero del male, ovvero sul «male in Dio», per riprendere l’ossimoro di Pareyson (aggiungo che sarebbe interessante una ricerca di dettaglio sullo sviluppo «parallelo» del pensiero di questi due grandi filosofi, che finora, per quanto ne sappia, non è stata ancora compiuta).

Penso si possa dire che il filosofo torinese ha aperto la strada a Prini per un confronto rinnovato con la grande tradizione mistica cristiana che, partendo da Berdjaev e dall’ultimo Schelling, risale a Jakob Boehme, a Cusano, a Eckhart, allo pseudo-Dionigi l’Aeropagita (e, infine, all’ultimo Plotino). Questi temi sono già rinvenibili nel terzo periodo di Prini, a partire dall’Ambiguità dell’essere e dall’ultima edizione della Storia dell’esistenzialismo (entrambe del 1989), e trovano un ulteriore sviluppo nell’inedito.

[Inedito e terzo periodo: la questione del modernismo] Alla luce di quanto detto finora, può segnalare i punti di contatto tra l’inedito e le opere dell’ultimo periodo, come L’ambiguità dell’essere, l’ultima edizione della Storia dell’esistenzialismo, I cristiani e il potere. Essere per il futuro, La filosofia cattolica italiana del Novecento e il contestatissimo Scisma sommerso?

In parte credo di avere già risposto a questa domanda. A mio parere, i filoni concettuali principali dell’inedito sono due. Anzitutto un ripensamento e un approfondimento del problema del male, con il tema del «male in Dio», che è stato per altro centrale anche nella riflessione filosofica e teologica del Novecento (si pensi per esempio alle filosofie novecentesche di derivazione ebraica). E poi il tema della relazione tra Cristianesimo e storicità, che viene approfondito in quest’ultimo periodo con particolare riguardo alla modernità. Vale la pena di aggiungere qualcosa a questo proposito. Generalmente dell’ultimo Prini si ha presente il testo sullo Scisma sommerso, che è forse il più noto della sua intera produzione. Ma almeno altrettanto importanti sono le opere, di poco precedenti, che Lei ha citato nella sua domanda. Nella sua ricerca sulla Filosofia cattolica italiana del Novecento, uno dei capolavori di Prini, egli mette in risalto l’attualità di quelle filosofie che sottolineano la centralità dell’esperienza di fede, criticando quelle fondate su una metafisica razionale, come preambulum fidei. Questo non vuol dire che Prini approvi il fideismo, ossia la posizione per cui solo dalla fede in Dio (magari in questo o quel Dio, cioè in un Dio determinato confessionalmente) derivino questi o quei valori. Vuol dire invece: a) che la ragione teoretica non è autosufficiente e capace da sola di giungere a Dio; b) che c’è un elemento di opzione, di libertà originaria nell’orientare i nostri comportamenti vitali, biofili o necrofili, verso la comunità e la comunicazione o verso la chiusura individuale o la scelta di questo o quel gruppo di «forti, valorosi, belli».

La dichiarazione di autosufficienza del tomismo come metafisica razionale era stata la bandiera filosofica con cui la gerarchia cattolica, tra la metà dell’Ottocento e la metà del Novecento, aveva reagito alla modernità. In questo contesto si collocava coerentemente la battaglia antimodernista. Sul fatto che i toni e le modalità con cui questa battaglia venne condotta fossero eccessivi e sbagliati c’è oggi, dopo il Concilio Vaticano II, un accordo generale. E tuttavia, nell’intelligentsija cattolica si preferisce evitare una presa di posizione filosofica netta, aperta, chiara, univoca. Non si evita il problema, ma si preferisce aggirarlo, affidandosi a uno storicismo onniesplicativo e soprattutto onnigiustificativo. Non è questo l’atteggiamento di Prini. Egli, nella sua Filosofia cattolica italiana del Novecento, sottolinea la gravità dell’errore di principio, sul piano propriamente filosofico, compiuto dalla Chiesa cattolica di Pio X nel soffocare sul nascere un movimento, come quello modernista, che, pur con giovanili incertezze, imprecisioni e sbandamenti, tuttavia aveva individuato la strada giusta, di un confronto serrato, ravvicinato, simpatetico della fede con la modernità. Invece Pio X aveva scelto, certo anche per i limitati strumenti culturali di cui personalmente disponeva, di affidarsi all’ala della gerarchia che sosteneva la chiusura, l’arroccamento, la battaglia contro la modernità.3 Da qui il «giuramento antimodernista» imposto ai preti cattolici, la caccia al modernista eccetera: una scelta devastante, che verrà revocata, solo implicitamente e non anche esplicitamente, dal Concilio Vaticano II. A mio parere (questa osservazione mi pari risulti dalla logica del ragionamento di Prini, anche se non è da lui apertamente svolta) finché non si sarà fatta chiarezza filosofica di principio sulla vicenda modernista, nella Chiesa cattolica rimarranno sempre aperti gli spazi teologici della chiusura fondamentalistica.

Il cristiano e il potere. Essere per il futuro indica, come dice il titolo, la necessità di spostare il centro della riflessione cristiana dal passato al futuro: perché se è vero che la rivelazione cristiana è accaduta una volta per tutte, in un determinato momento del passato, è altrettanto vero che la storia ne mostra, sempre più, dimensioni implicite, nascoste, nuove. La docilità allo Spirito vuol dire la capacità di affrontare senza paura, coraggiosamente, in modo aperto e flessibile, le nuove sfide e le nuove conquiste poste dal tempo storico ai credenti. A titolo esemplificativo di questo atteggiamento, indico gli studi di un teologo che Prini ammirava e di cui era amico, Giannino Piana, in particolare i tre volumi finora pubblicati della sua ultima opera: In novità di vita I. Morale fondamentale e generale II. Morale della persona e della vita III. Morale socioeconomica e politica.

Quanto al Corpo che siamo, il titolo riprende una definizione di Marcel, che porta con sé una carica di paradosso, perché vuol dire che il corpo, insieme con la psiche e lo spirito, è inserito nella grande catena dell’essere, e dunque non va certo assolutizzato idolatricamente ma neanche rifiutato, come invece avviene nell’ascetismo di derivazione neoplatonica. Si tratta, in sostanza, di un recupero dell’originaria impostazione vetero-testamentaria della questione, che si può ritenere fosse anche quella di Gesù (che, come è noto, era accusato dai suoi detrattori di essere «un mangione e un beone»). Il culmine di questo periodo è costituito dallo Scisma sommerso, che parte, come indica il titolo, dalla divaricazione tra le indicazioni di etica sessuale fornite dal magistero ecclesiastico e la pratica dei fedeli ma, nel fondo, cerca di mettere in luce le categorie filosofiche implicitamente sottostanti all’una e all’altra posizione, prendendo le difese di quelle assunte dalla maggioranza dei fedeli. Si può esprimere in diversi modi il senso di questa divaricazione: come contrapposizione tra una concezione «aperta» e una «chiusa» della società ; tra un atteggiamento di fiducia nel sacrario della coscienza individuale e uno più attento alle prescrizioni della gerarchia, la quale a sua volta si fonda su una presunta «tradizione» immutabile ed eterna (ritorna l’equivoco dell’identificazione tra la fede e la dottrina); tra una concezione di «cristianesimo adulto» e una che tende a privilegiare l’obbedienza dei fedeli (che forse nasce da un fraintendimento del bellissimo detto di Gesù sull’essere come bambini, che da descrizione dell’apertura stupita degli occhi al mistero e alla meraviglia del creato viene degradata ad essere passivamente obbedienti alle autorità ecclesiastiche «paterne»); tra un’apertura al dialogo con la modernità occidentale e una sua condanna in linea di principio (ritorna la questione sommersa del modernismo); tra privilegiare il senso di colpa e l’immagine di Dio giudice spietato, vendicatore «dagli occhi di lince», e insistere invece sulla misericordia di Dio e sulla «gioia del vangelo».

In sintesi, quello di Prini era un opuscolo di filosofia morale, che cercava di ristabilire un ponte tra il Cristianesimo e la modernità. Probabilmente fu proprio questo aspetto che venne trascurato anche da alcuni dei critici più benevoli del testo di Prini, che invece si soffermarono sulla falsa questione delle statistiche sul comportamento religioso dei cattolici italiani (nell’impostazione di Prini, queste statistiche non dovevano dimostrare niente, ma solo comprovare un processo che, per essere compreso, necessitava di categorie filosofiche, oltre che ecclesiologiche). In questo contesto si inserisce l’inedito postumo di Prini. Non è un’opera costruita con tutti i crismi del rigore scientifico, cioè con un notevole apparato di note, come per esempio sono le ricerche su Plotino, l’esistenzialismo o sulla filosofia cattolica italiana del Novecento. È, come ho già detto, una sorta di ripensamento ultimo sui grandi filosofi, condotto in modo semplice e piano: quindi è anche un’opera di divulgazione. Ma non è solo questo. Prini si concentra infatti sui filosofi o le problematiche che gli sembrano più interessanti rispetto alle domande urgenti del suo pensiero dell’ultimo periodo. Ecco, quindi, balzare in primo piano i due filoni, che definirei delle filosofie della trascendenza, da una parte, e delle filosofie della mondanità e della scienza, dall’altra. In fondo, Prini tenta di trovare una sintesi tra queste due istanze. Se dovessi indicare i riferimenti privilegiati che mi pare di poter cogliere in questa ricostruzione, indicherei come centrali i capitoli su Kant e su Jaspers, due filosofi che si sono posti, al fondo, esattamente il tema del rapporto tra esperienza sensibile e scienza, da una parte, e trascendenza dall’altra, che interessava Prini. Ma sono molti i capitoli interessanti: per esempio quello su Schelling e su Pascal o, tornando indietro, quelli su sant’Agostino, o su Plotino e Platone, e ancora quelli su Epicuro, Diogene o Voltaire, dove Prini manifesta una notevole apertura a tematiche che normalmente, nell’ambito della filosofia di impostazione cattolica, erano rimosse o svalutate.

In sintesi mi pare che Ventisei secoli nel mondo dei filosofi, pur con le sue caratteristiche peculiari di non finito, indichi con chiarezza una direzione di ricerca che costituiva un approfondimento e una chiarificazione filosofica, e dunque un’integrazione importante, rispetto allo Scisma sommerso.

[Fides et ratio] Avviandoci alla conclusione dell’intervista, mi sembra giunto il momento di approfondire il problema del rapporto tra «fides» e «ratio», sulla scia dell’Enciclica di Giovanni Paolo II. Cosa ci può dire in proposito?

Ho già citato la sintesi che Reale fa di quel documento pontificio: rispetto ad essa si può soltanto indicare che si tratta di una svolta epocale implicita rispetto alla dottrina sostenuta in precedenza dalla Chiesa cattolica. Posso aggiungere (ma mi pare che questa aggiunta sia totalmente nello spirito di Prini) che, nonostante questo importante riconoscimento di principio, quella che chiamerಠla «tentazione tradizionalista» mi pare ancora molto forte nella Chiesa cattolica, in modo particolare in quella italiana: penso per esempio alla questione della valutazione dell’omosessualità (nonostante la straordinaria apertura di papa Francesco, che in sostanza ha già detto tutto quello che si doveva dire in proposito: «se una persona è gay e cerca il Signore e ha buona volontà, chi sono io per giudicarla? ») o ai metodi di regolazione delle nascite.

[Prini, Cardinal Martini, Papa Francesco] Si è parlato di un Prini «riformatore», forse facendo riferimento allo Scisma sommerso, opera che a mio avviso ha paradossalmente nuociuto alla conoscenza del pensiero priniano, impedendone l’analisi serena e «distaccata» che avrebbe meritato. Non Le sembra che alcune prese di posizione di Papa Francesco o, meno recentemente, del Cardinal Martini a proposito della necessità di una riforma della Chiesa, siano però state in qualche modo anticipate da Prini?

Il giudizio sull’apparato dottrinario recente della Chiesa cattolica espresso da Martini in Conversazioni notturne a Gerusalemme — l’intervista al suo confratello gesuita G. Sporschill che è, in sostanza, il suo testamento spirituale — è tanto netto quanto quello di Prini: Martini è molto chiaro nel rilevare il ritardo culturale plurisecolare nell’elaborazione dottrinale della Chiesa cattolica. La differenza mi pare questa: quella di Martini è una sintesi religiosa molto densa e ricca, quella di Prini costituisce, per così dire, un’analisi sul piano filosofico, che esplicita e argomenta il senso della sintesi.

Un po’ come era avvenuto con Prini dopo la pubblicazione dello Scisma sommerso, forse anche nei confronti del prestigioso cardinale, un vero e proprio Padre della Chiesa contemporanea, è stato messo in atto, da parte dell’apparato ecclesiastico, un processo di rimozione e «silenziamento». Ma lo straordinario pontificato di papa Francesco sembra segnare una riapertura della Chiesa alla cultura moderna, per la sua incredibile capacità di tradurre in forme nuove il senso più profondo del messaggio di amore, che è l’intima caratteristica del «buon annuncio» cristiano.

La Chiesa cattolica è come una corazzata i cui cambiamenti di direzione sono lenti e graduali, necessitano di compromessi e così via. Ma il riorientamento della Chiesa verso la comunità umana sofferente di nuovi e antichi mali pare davvero la stella polare del pontificato di Francesco. Da questo punto di vista la sua sottolineatura, nella prima allocuzione pubblica, della Misericordia come caratteristica eminente del Dio cristiano, sulla scorta del bellissimo libro del cardinale Kasper dallo stesso titolo (un testo, ha detto il papa, che «mi ha fatto molto bene»), indica il senso profondo di un’apertura alle nuove e vecchie contraddizioni degli esseri umani, rispetto a cui credo il pensiero di Prini possa essere considerato come un battistrada.

[Considerazioni conclusive] Come vorrebbe concludere questa intervista sul pensiero di Prini?

Citando due testi, di aree storico-culturali molto lontane, che in modo diverso esprimono il sentimento fondamentale che io trovo alla radice della meditazione di Prini. Il primo è di Confucio, un apoftegma pieno di forza e di serenità:

Ci si risveglia con la Poesia, ci si rafforza con il Rito, ci si realizza con la Musica.

Il secondo una meravigliosa poesia di Wislawa Szymborska, leggera e profonda, ironica e intensa:

L’anima la si ha ogni tanto. Nessuno la ha di continuo e per sempre. Giorno dopo giorno, anno dopo anno possono passare senza di lei. A volte nidifica un po’più a lungo, solo in estasi e paure dell’infanzia. A volte solo nello stupore dell’essere vecchi. Di rado ci dà una mano in occupazioni faticose, come spostare mobili, portare valigie o percorrere le strade con scarpe strette. Quando si compilano moduli e si trita la carne di regola ha il suo giorno libero. Su mille nostre conversazioni partecipa a una, e anche questo non necessariamente, perché preferisce il silenzio. Quando il corpo comincia a dolerci e dolerci, smonta di turno alla chetichella. È schifiltosa: non le piace vederci nella folla, il nostro lottare per un vantaggio qualunque e lo strepito degli affari la disgustano. Gioia e tristezza non sono per lei due sentimenti diversi. è presente accanto a noi solo quando essi sono uniti. Possiamo contare su di lei quando non siamo sicuri di niente e curiosi di tutto. Tra gli oggetti materiali le piacciono gli orologi a pendolo e gli specchi, che lavorano con zelo anche quando nessuno guarda. Non dice da dove viene e quando sparirà di nuovo, ma aspetta chiaramente simili domande. Si direbbe che così come lei a noi, anche noi siamo necessari a lei per qualcosa.

Ringraziamo il prof. Massimo Flematti per averci consentito di riprodurre la lunga intervista al prof. Walter Minella curatore dell’inedito di Pietro Prini, Ventisei secoli nel mondo dei filosofi, Salvatore Sciascia Editore in occasione del centenario della nascita del filosofo (Belgirate 1915 - Pavia 2008). L’intervista è già apparsa sul sito <www.pietroprini.org>. Il prof. Minella è anche autore di una monografia su Prini in pubblicazione presso le edizioni Lateran University Press. Entrambe queste opere verranno presentate sulla nostra rivista. Mi è particolarmente caro il ricordo di questo filosofo, per lunghi anni professore di Storia della Filosofia all’Università di Roma La Sapienza, con il quale ho avuto la possibilità di collaborare negli ultimi anni del suo insegnamento e stabilire con lui un bel rapporto di stima e di affetto. — Emilio Baccarini


  1. P. Prini, Intervista a Pietro Prini, a cura di Vittorio Grassi (15 gennaio 2005) in appendice a Pietro Prini, Terra di Belgirate, Nuova edizione con l’aggiunta di Notizia sull’Autore, Su iniziativa del Comune di Belgirate, 2005. ↩︎

  2. Mario Brunello, Silenzio, Il Mulino, Bologna, 2014. ↩︎

  3. Sulla complessa questione del «modernismo» si rinvia alla raccolta di studi di Annibale Zambarbieri, Modernismo e modernisti, I. Il Movimento II. Semeria Buonaiuti Fogazzaro, Storia e Letteratura, 2014. ↩︎