Le domande della fenomenologia

Stabilire quali siano le questioni fondamentali della fenomenologia appare fin da subito impresa non da poco. Innanzitutto perché in un compito del genere sembra essere assunto in modo del tutto pacifico e scontato la presenza di un qualcosa di ben determinato chiamato «fenomenologia». Questa ovvietà si basa sulla constatazione del fatto che si dà effettivamente, nella storia della filosofia, un pensiero che connota se stesso come «fenomenologico». D’altra parte, tuttavia, questa stessa storia mostra che la riflessione fenomenologica non è inquadrabile in una «dottrina» stabilita una volta per tutte, né in una «scuola» in senso stretto, ma assume piuttosto le fattezze di un movimento di pensiero assai ampio ed eterogeneo, quindi articolato in momenti tra di loro fondamentalmente irriducibili e inassimilabili. Ecco dunque la radice della difficoltà cui si faceva riferimento: molteplici fenomenologie dentro il movimento fenomenologico.

A fronte di tale molteplicità, d’altra parte, non sembra opportuno chiedersi quale tipo di fenomenologia sia la più compiutamente tale o la più adatta ad essere presentata come modello. Non si tratta infatti di dare patenti di «autenticità» — quasi si dovesse aderire in modo ortodosso ad una dottrina particolare — , bensì di comprendere cosa è in gioco in un pensiero che si definisce fenomenologico. Per far ciò, può essere utile partire da qualche considerazione relativa al momento attuale della conoscenza, scientifica e filosofica. Nella riflessione su tale situazione storica può essere rinvenuta — in modo analogo a quanto fa Husserl ne La crisi delle scienze europee — una via d’accesso feconda alle questioni fondamentali della fenomenologia.

In tal senso, non si può certo non sottolineare un significativo ritorno, nel dibattito filosofico-scientifico attuale, di tematiche e strumenti concettuali di chiara matrice husserliana. Salta agli occhi, infatti, quello che appare come il riaccendersi di un interesse fortissimo e piuttosto generalizzato per il pensiero del fondatore del movimento fenomenologico. Si è di fronte ad una vero e proprio ritorno a Husserl: zurück zu Husserl selbst, si potrebbe dire ispirandosi al celebre motto fenomenologico. Si tratta di un interesse che si esprime non solo all’interno di una cerchia di specialisti, cioè nell’ambito, tutto sommato ancora ristretto, di quella che si manifesta comunque come una vera e propria rinascita degli studi husserliani, bensì anche — e questa è sicuramente la cosa più significativa — nell’ottica di un rinnovato dibattito con il variegato universo della ricerca scientifica. In questa capacità di confrontarsi costruttivamente con gli altri saperi sulle questioni al centro della ricerca attuale sta il motivo per il quale la fenomenologia non è stata ancora consegnata alla storia della filosofia quale suo capitolo certo straordinario, ma ormai concluso, bensì continua a svolgere un ruolo attivo e vivace — quasi un lievito inesauribile per ogni forma di conoscenza. A questo riguardo, si può ovviamente fare riferimento alle intersezioni di fenomenologia e scienza positiva nei nuovi campi della ricerca sulla mente/cervello in relazione ai processi cognitivi, alle relazioni sociali, alle esperienze emotive, estetiche, ecc.1 Le analisi husserliane sulle varie modalità in cui si articola la coscienza intenzionale offrono tutta una serie di strumenti concettuali utili ad interpretare i dati della ricerca sperimentale e ad inquadrarli in un contesto teorico più sistematico. Si tratta invero di una cooperazione spesso assai problematica, o perché portata avanti in modo ingenuo, cioè senza la preoccupazione di stabilire le pur necessarie distinzioni di principio che dovrebbero intercorrere tra filosofia e scienza positiva, oppure perché fondata sulla volontà esplicita di «naturalizzare» la fenomenologia, cosa che troverebbe assolutamente contrario non solo Husserl, ma più in generale quasi l’intero universo fenomenologico (Heidegger, Scheler, Merleau-Ponty, Fink, ecc.). Queste difficoltà, che pure vanno sottolineate senza alcuna ritrosia, rientrano tuttavia, in modo per così dire «fisiologico», all’interno di una generalizzata esigenza di confronto con la fenomenologia stessa, che appare come l’ultima grande filosofia in grado di poter intrattenere rapporti fecondi con i saperi scientifici.

Da questo punto di vista, risulta ancora più evidente il perché della centralità del riferimento husserliano in seno all’intero panorama fenomenologico. La fondazione della fenomenologia operata da Husserl è finalizzata infatti proprio alla delineazione di un sapere filosofico il più possibile rigoroso, cioè caratterizzato dalla possibilità di pervenire, attraverso il metodo intuitivo, a risultati teorici che possano essere comprovati da chiunque e, pertanto, dotati di validità. Questa pretesa ad una qualche forma, certo sui generis, di «scientificità» è proprio ciò che rende la fenomenologia particolarmente adatta ad una cooperazione feconda con le scienze positive (siano poi esse naturali o dello spirito, per utilizzare un binomio concettuale di derivazione idealistica). Il metodo intuitivo, che procede sempre dal basso (von unten) attraverso vedute progressive, permette di elaborare una forma di rigore lontana dalle astrazioni di un pensiero meramente deduttivo-inferenziale o, peggio, speculativo, garantendo così alla fenomenologia la possibilità che le sue analisi siano — almeno in linea di principio — facilmente verificabili da chiunque vi si dedichi. Questo non vuol dire, d’altra parte, che la fenomenologia stia sullo stesso piano delle altre scienze, che ne condivida il metodo, la portata o lo statuto epistemico. In quanto sapere filosofico, infatti, essa possiede una sua specifica indipendenza, una totale alterità rispetto al modello della scienza moderna. Qui si riscontra la peculiarità della strategia teorica husserliana: questa consiste, per un verso, nel connettere la fenomenologia alle altre scienze — grazie al fatto che essa è interpretata come un sapere rigoroso, anzi, in un certo senso come «il più» rigoroso — , mentre, per l’altro, nell’assicurarle uno statuto del tutto autonomo rispetto a qualsiasi alta forma di conoscenza.

Qui sembra poter essere rinvenuta un’altra ragione decisiva ai fini della comprensione della rinnovata fortuna del pensiero di Husserl. Da un certo punto di vista, infatti, l’obiettivo di quest’ultimo può essere riassunto così: ribadire la differenza specifica della filosofia senza che essa risulti marginalizzata dall’inevitabile preponderanza delle scienze positive. Né schiacciata su di esse, quindi — cosa che la porterebbe alla perdita della sua identità — , né avulsa da esse, relegata in una dimensione a questo punto per forza di cose marginale — cosa che implicherebbe la sua uscita dal campo dell’episteme in senso lato. Questo tentativo husserliano — a prescindere dal fatto che possa avere successo o meno — è oggi al centro di una notevole rivalutazione, proprio perché restituisce alla filosofia la possibilità di giocare un ruolo di primo piano all’interno dei più importanti dibattiti scientifico-culturali attuali. Negli ultimi tempi, infatti, viene messo in evidenza come la maggior parte degli esiti della filosofia secondo-novecentesca, molti dei quali di diretta o indiretta derivazione fenomenologica, abbiano esaurito la forza teorica con la quale si erano imposti, e ciò in certo modo proprio a causa dello «svuotamento» o «logoramento» cui essi stessi hanno sottoposto l’idea di filosofia. Si nota, in altri termini, un evidente affanno della filosofia cosiddetta «continentale», di contro alla quale si va affermando in modo sempre più consistente la riflessione «analitica». Anche gli ultimi esiti interni al movimento fenomenologico sembrano non avere il necessario vigore teoretico, ragion per cui danno l’impressione di essere i rivoli estremi di un flusso che si va ormai esaurendo. Contro l’«essiccamento» delle foci in molti ritornano allora alla sorgente, nella convinzione che in essa vi siano ancora una ricchezza ed un rigoglio inespressi. Per questa ragione, Husserl torna ad essere un punto di riferimento per tutti coloro che sentono ancora la necessità di una filosofia rigorosa e radicale — quasi una speranza di filosofia ulteriore. Questo non significa che la fenomenologia di Husserl venga assunta quale filosofia ufficiale o dottrina autentica, poiché ciò che importa non è, ancora una volta, riconoscere e far propria qualcosa come un’ortodossia di pensiero, bensì riflettere su come sia ancora possibile filosofare in senso pieno. Da questo punto di vista, si comprende altresì come il ritorno a Husserl implichi anche una certa apertura al dibattito con tutte quelle altre forme di riflessione filosofica — in primis con gli esiti migliori della tradizione analitica — che pure continuano a portare avanti l’idea di una specificità dell’episteme filosofica.

A partire da queste brevi e sommarie considerazioni concernenti l’attualità del pensiero fenomenologico di Husserl, pertanto, si può cercare di mettere a fuoco quali siano le questioni fondamentali che lo animano, ovvero per le quali esso appare ancora oggi vivo e pulsante. Il discrimine essenziale è il rifiuto del naturalismo o, per meglio dire, dell’obiettivismo, con tutte le forme conseguenti di riduzionismo che ne derivano. Nell’opposizione al naturalismo non c’è, ovviamente, alcun declassamento della natura, proprio perché in questo contesto non si tratta di rivendicare, secondo una certa vulgata classica, la preminenza logico-ontologica dell’io o soggetto. In questo senso, il soggettivismo è messo alla porta tanto quanto l’oggettivismo. Il naturalismo che è qui in gioco è invece, piuttosto, quella particolare interpretazione della natura che si fa largo soprattutto in epoca moderna sulla scorta dell’affermazione delle scienze naturali, secondo la quale la natura è obiettivamente, in sé, un meccanismo retto da leggi matematicamente determinabili.

Tale naturalismo si presenta dunque come una forma di metafisica obiettivistica. Quest’ultima si fonda, a sua volta, in un’assolutizzazione indebita dell’atteggiamento mondano (weltlich) o naturale (natürlich), in virtù del quale nella nostra vita siamo sempre diretti, «naturalmente», «spontaneamente», alle cose del nostro mondo circostante. Nella nostra vita quotidiana, in altri termini, siamo sempre indaffarati nel commercio con le cose, dunque dimentichi del fatto che tali cose ci sono date in un atteggiamento ben preciso, cioè in una relazione. Le cose si manifestano sempre in relazione a. Come ci ricorda spesso Husserl, i fenomeni debbono essere considerati, conformemente al senso medio del termine greco phainómenon, sempre da una prospettiva duplice, cioè da un lato come ciò che si manifesta, dall’altro come la manifestazione stessa, la quale è tale solo in riferimento ad un possibile destinatario. Questa relazione di manifestazione è all’origine del nostro rapporto con il mondo, ragion per cui essa non rientra nell’ambito degli eventi naturali, almeno non nel senso in cui ne parlano le scienze positive. Il grande fraintendimento dell’obiettivismo è proprio quello, invece, di considerare i fenomeni come semplici avvenimenti della natura, ignorando o bollando come insensato qualsiasi pensiero che si domandi in virtù di quale relazione essi si diano nel modo in cui si danno.

La questione fondamentale della fenomenologia sta, mi sembra, tutta qui. Nell’interrogarsi su questa relazione originaria. Intrascendibile ovvero trascendentale. Ogni discorso, vertente su qualsivoglia tema, sulla natura così come sullo spirito, è possibile solo sulla base di tale struttura relazionale. Il senso nel quale ci sono date le cose è costantemente costituito — generato — da questa stessa struttura. Per Husserl, come noto, la relazione rinvenibile nel fenomeno si caratterizza nei termini di una coscienza intenzionale. La manifestazione, in quanto connette ciò che appare e colui al quale appare, viene interpretata come un vissuto soggettivo, ovvero come un atto di coscienza. In tal modo, Husserl si mantiene fondamentalmente nel solco della tradizione moderna inaugurata da Descartes, salvo portarla radicalmente al suo limite estremo, mostrandone con ciò le inconseguenze e i punti di rottura. Husserl rimprovera infatti alle filosofie moderne proprio la continua ricaduta in un naturalismo ingenuo o in un vero e proprio obiettivismo metafisico. I fenomeni o vissuti di coscienza non debbono essere naturalizzati o cosalizzati — di qui il fallimento della psicologia. Questi aspetti vengono ricordati — è bene sottolinearlo ancora una volta — non al fine di predisporre una «difesa d’ufficio» del pensiero husserliano, cosa di cui, tra l’altro, questo non ha di certo bisogno. Sono note le critiche cui molti degli altri fenomenologi sottoporranno l’impianto husserliano, reo proprio di non riuscire a sottrarsi ad un certo «coscienzialismo» o «soggettivismo». Non è ovviamente questo il luogo per richiamarle ed analizzarle, anche perché molte di esse individuano problemi veri ed innegabili. A prescindere da tutte le possibili obiezioni, tuttavia, mi sembra che la riflessione husserliana avanzi in modo radicale una questione fondamentale, che si situa ancora oggi al centro di ogni pensiero che voglia definirsi fenomenologico: come pensare la struttura di relazione in cui consiste il fenomeno, se questa non deve essere l’incontro casuale ed estrinseco di due poli reciprocamente indipendenti, bensì un rapporto originario e costitutivo?

La coscienza intenzionale rappresenta il tentativo di dare risposta a questa domanda. La relazione non può essere di tipo semplicemente psicologico, instaurantesi a posteriori, cioè tra due enti già compiuti. Essa non è qualcosa che il soggetto possa avere o meno, bensì qualcosa in cui questo si trova costantemente. Detto in altri termini, il soggetto vive il rapporto intenzionale con il mondo. Per questa ragione, il fenomeno in senso fenomenologico è un «vissuto». Ma non solo. In molti momenti della produzione di Husserl si possono trovare degli elementi che, a mio modo di vedere, permettono di interpretare la coscienza in un modo più ampio e libero, al di là dei limiti angusti di un presunto «coscienzialismo». Husserl stesso si lamenta spesso dell’inevitabilità di dover far ricorso a un termine quale «coscienza», che si presta per ovvie ragioni a tutta una serie di possibili fraintendimenti. Per tale motivo, accanto al tema di un vissuto intenzionale comincia ad ergersi quello di una vita intenzionale — l’Erleben viene approfondito in direzione di un Leben. Si tratta di una vita interpretata, ancora una volta, non in senso obiettivistico-naturalistico, bensì di una vita intenzionale originaria e costitutiva. Ciò vuol dire che la relazione stessa che è al centro dell’indagine fenomenologica può essere letta come vita, ovvero come vissuta (erlebt) e vivente (lebendig).

Con ciò può essere riformulata in modo più specifico la questione fondamentale della fenomenologia. Quest’ultima è, detto in termini generali, un’indagine fondamentale su tutti i possibili tipi di esperienza in cui si articola il nostro rapporto intenzionale con il mondo. In ognuna di queste esperienze, qualcosa ci è dato con un senso che emerge solo in virtù della stessa relazione di esperienza. Il problema della fenomenologia non consiste dunque nel chiedersi ingenuamente «che cosa» sia un determinato ente, bensì nell’interrogarsi sul modo in cui questo «che cosa» si dà in una relazione intenzionale. Ovvero ancora: la questione dell’essere è costitutivamente connessa a quella dei modi di donazione o manifestazione dell’essere. In base a quanto visto finora, il modo rimanda alla relazione. Pertanto, detto in termini più specifici, la questione fondamentale della fenomenologia è quella di chiarire la relazione originaria e vivente di soggetto e mondo, nella quale cioè il senso non è qualcosa di già «bell’e pronto», una presenza inerte — tanto determinata quanto morta — , bensì esso stesso qualcosa di vivo, che si genera e si fa nella relazione stessa. Il mondo e le sue cose non sono dati nella fissità di un senso in sé compiuto e statico, come obiecta letteralmente «esanimi», bensì primariamente nel vivace fermento di un senso vivente.2 La chiarificazione dell’esperienza non è qui limitata, dunque, alla semplice sfera gnoseologico-conoscitiva, ma investe il senso complessivo di uno stare al mondo vivo e pulsante.

A partire da questa delineazione sintetica della questione fondamentale che anima la fenomenologia ancora oggi, è forse opportuno tentare di fare un paio di osservazioni finali, in modo che si abbiano esempi concreti di come un pensiero fenomenologico possa inserirsi nei dibattiti attuali dando il suo contributo originale.

  1. In primo luogo va ribadito, come già accennato, il problema del rapporto tra scienze positive e fenomenologia. Il rinnovato interesse di molti settori della ricerca scientifica verso la riflessione fenomenologica rappresenta per molti aspetti una straordinaria possibilità di fecondare la ricerca empirico-sperimentale con le analisi teoriche di una filosofia rigorosa. Questo lavoro non può essere però condotto in modo ingenuo, per semplice giustapposizione delle due cose. Da un lato, infatti, servirebbe una riflessione di principio sul rapporto tra i due ambiti, cosa di cui ci si preoccupa invece raramente. Dall’altro, soprattutto, bisognerebbe evitare di «sfruttare» le analisi fenomenologiche come se queste fossero uno strumento conoscitivo qualsiasi: il fatto che la fenomenologia spesso connoti se stessa come un metodo di ricerca non vuol dire che essa sia un mero strumento, un «dispositivo» neutro utilizzabile a piacimento. Essa veicola invece idee filosofiche forti e discriminanti. Una di queste è proprio la critica all’obiettivismo, che conseguentemente rende assai complesso il rapporto di fattiva collaborazione con le altre scienze. Il contributo che la fenomenologia può portare è allora anche quello di mettere a nudo questo obiettivismo, mostrando che esso è il frutto di un atteggiamento peculiare — che esso, in altri termini, dà accesso a determinate conoscenze, ma che queste non esauriscono il campo della verità. Non c’è solo la ricerca condotta «in terza persona» sui fatti apprezzabili e misurabili dalla comunità degli uomini, ma anche la ricerca «in prima persona» sul modo in cui per noi tali cose si presentano come «fatti». Quest’ultimo tipo di analisi permette di «smontare» l’impalcatura metafisica ancora largamente dominante nelle scienze positive, mostrando come esse siano, ancora e sempre, modi del rapporto di conoscenza con il mondo, dunque anch’esse caratterizzate da quello che è stato definito «senso vivente». Ciò significa in certo modo proseguire ed ampliare il lavoro iniziato da Husserl ne La crisi delle scienze europee.

Questo compito si rende particolarmente interessante e necessario nel caso, già ricordato, delle ricerche neurologiche relative al funzionamento del cervello. Più in particolare, la scoperta dei cosiddetti «neuroni specchio» ha stimolato la produzione di una vasta serie di studi, molti dei quali si richiamano direttamente alle teorie fenomenologiche (non solo husserliane) dell’intersoggettività quali strumenti concettuali privilegiati per l’interpretazione dei risultati sperimentali. Bisogna tuttavia usare molta cautela in questo tipo di discorsi. La rilevazione di una determinata attività neuronale per mezzo di tecniche di brain imaging non corrisponde in nessun modo alla messa a fuoco di determinati atti di coscienza. Un vissuto intenzionale non è un neurone. Qui emerge proprio la differenza tra un ricerca in «prima» e una in «terza» persona. La scienza constata come l’attività neuronale rappresenti la base fisiologica per ciò che designiamo come «vita psichica», ma questo risultato sperimentale non deve dar luogo ad un’interpretazione obiettivistica secondo cui le cellule neuronali sarebbero la «cosa in sé» in cui avviene la percezione, il ricordo, il pensiero e così via. Il rapporto con il mondo, in altri termini, non accade «nei» neuroni, al «chiuso» della scatola cranica, ma nell’«aperto» dei fenomeni della vita intenzionale. Non è qualcosa di «nascosto» che venga «portato alla luce» da uno strumento in grado di guardare dentro il corpo, bensì un evento che vivo in prima persona sulla mia pelle.

  1. Secondariamente, sempre facendo riferimento alla Crisi, non si deve dimenticare che la fenomenologia nasce anche con un’ambizione etica in senso lato, quella cioè di delineare una forma di vita autenticamente intenzionale, vale a dire il più possibile trasparente a se stessa — razionale. Questo aspetto è direttamente legato alla concezione fondamentale del senso vivente. Il dominio dell’obiettivismo impedisce tuttavia una simile comprensione radicale, proponendo costruzioni concettuali mitiche e facendo leva, in ultima analisi, sui successi pratici delle scienze sperimentali. Ciò comporta un coprimento delle radici del senso, dunque una mancanza di trasparenza nel soggetto che significa, in ultima analisi, irresponsabilità. Senza una comprensione autentica — senza evidenza — non è infatti possibile corrispondere in modo responsabile agli appelli del mondo in cui viviamo. Qui si apre lo spazio per una riflessione fenomenologica sulle tematiche legate alla questione della responsabilità, la quale, in un contesto di costante e (almeno per ora) inarrestabile tecnicizzazione del mondo contemporaneo, rappresenta sicuramente uno dei problemi più impellenti per qualunque pensiero filosofico. La diffusione esponenziale e «totalizzante» dell’atteggiamento tecnico è frutto, per dirla con le categorie della fenomenologia, dello stratificarsi di un determinato rapporto intenzionale che l’uomo europeo ha instaurato con il suo mondo soprattutto negli ultimi secoli: si tratta di un atteggiamento caratterizzato da un interesse esclusivo per la prestazione e la riuscita — già quantificata, già calcolata — di una determinata procedura, a detrimento della chiarezza del senso di quanto intrapreso. Il che vuol dire anche: a scapito della possibilità di agire responsabilmente. Il pensiero fenomenologico offre numerosi strumenti non solo per operare una diagnosi penetrante del fenomeno, bensì anche per sintetizzare un possibile «antidoto».

  1. Si pensi, a solo titolo di esempio, alla neurofenomenologia del biologo e neuroscienziato Francisco Varela (F. J. Varela, Neurophenomenology: a methodological remedy for the hard problem, in «Journal of Consciousness Studies», 3(4), 1996, pp. 330-349; J. Petitot, F.J. Varela, J.-M. Roy & B. Pachoud (a cura di) Naturalizing Phenomenology: Issues in Contemporary Phenomenology and Cognitive Science, Stanford University Press, Stanford 1999); alla scoperta dei neuroni specchio da parte di un gruppo di ricerca dell’Università di Parma guidato da Giacomo Rizzolatti, che si rifà esplicitamente ai concetti della fenomenologia per la lettura dei risultati sperimentali (v. G. Rizzolatti, C. Sinigaglia, So quel che fai. Il cervello che agisce e i neuroni specchio, Cortina, Milano 2006; M. Cappuccio (a cura di), Neurofenomenologia. Le scienze della mente e la sfida dell’esperienza cosciente, Bruno Mondadori, Milano 2006). ↩︎

  2. «Quello di cui si tratta all’interno di questo metodo, tuttavia, non è un mero «ego cogito» vuotamente postulato o evocato con una frase, in una maniera vuota e lontana dall’oggetto in questione; esso, al contrario, si afferma subito concretamente e nella sua peculiarità essenziale come vita trascendentale infinita, come una vita che, se ci limitiamo alla vita propria che è possibile cogliere nell’immediata esperienza trascendentale di sé, da una parte è intrinsecamente centrata sull’ego, sull’«io» trascendentale, e dall’altra è in relazione con svariate obiettività intenzionali» (E. Husserl, Filosofia prima. Teoria della riduzione fenomenologica, a cura di V. Costa, Rubbettino, Soveria Mannelli 2007, p. 213). ↩︎