Massimiliano Spano, Daniele Vinci (curatori), L’uomo e la parola. Pensiero dialogico e filosofia contemporanea, Il pozzo di Giacobbe, Trapani 2007.
Riflettere sul tema «l’uomo e la parola» significa affrontare uno dei principali fuochi teoretici del pensiero attuale. L’epoca contemporanea, infatti, ha visto confluire la molteplicità irriducibile dei suoi percorsi nella «svolta linguistica», cioè in quel fenomeno intellettuale che ha contraddistinto ampia parte della filosofia del novecento e che, per certi versi, ha messo in luce ogni aspetto delle problematiche poste dal linguaggio. Il termine è stato coniato dal filosofo statunitense contemporaneo Richard Rorthy, il quale, come curatore del volume The linguistic turn (1967), scrisse un’ampia prefazione intitolata «Metaphilosophical difficulties of linguistic philosophy», in cui affrontava le conseguenze filosofiche della svolta linguistica, prefigurando scenari futuri. L’indagine sul linguaggio, ovvero su quella facoltà misteriosa che ci rende umani, quindi, costringe gli studiosi a far dialogare tra loro varie discipline nel tentativo di chiarificare i diversi volti dell’essere umano. La svolta linguistica, infatti, implica la stretta relazione tra la filosofia analitica che si propone un’analisi rigorosa del linguaggio su una solida base logica, la filosofia del linguaggio che studia le relazioni tra linguaggio mente e realtà, ovvero il rapporto tra senso e riferimento e la capacità umana di usarli nella comunicazione (le domande fondamentali riguardano il senso con le sue modalità di espressione in atti linguistici e la sua connessione con la mente), l’epistemologia, le logiche tradizionali, quelle non classiche contemporanee, le neuro-scienze, la psicologia sperimentale, l’antropologia molecolare che approfondisce il misterioso rapporto circolare che si va ad instaurare nell’essere umano tra evoluzione biologica ed evoluzione culturale ed infine, in senso lato, è possibile comprendere in essa sia autori appartenenti alla tradizione continentale come per esempio M. Heidegger e tutti gli studiosi che abitualmente vengono accostati all’ermeneutica, sia, dal punto di vista letterario, «la parola poetica», la «retorica della parola»e l’ontologia della parola alla riscoperta del suo valore simbolico ed iconico. Alla luce di tutto ciò, quindi, la svolta linguistica costituisce quel significativo contrassegno dell’epoca attuale che, forse come nessun’altra in precedenza, ha saputo modulare il nesso uomo-parola in una ricca e continua variazione sul tema; tuttavia, l’indagine su tale nucleo tematico trova esclusivamente nel «pensiero dialogico» quella nuova ottica in grado di traguardare e ripensare l’elemento impensato della riflessione filosofica: la congiunzione che lega l’uomo alla parola. In un certo senso, ciò che ci rende effettivamente umani fondandoci ontologicamente è proprio quella relazione misteriosa con la parola la quale ci precede (nell’appello) e ci succede (nella nostra risposta responsabile) permettendoci altresì di auto-realizzarci nel mondo come identità nuove e autentiche. Il presente volume, frutto di un convegno tenutosi a Cagliari il 17 maggio 2006 presso la Pontificia Facoltà Teologica della Sardegna, intende essere l’occasione per riflettere su tale nesso attraverso il confronto tra il pensiero dialogico e alcune prospettive filosofiche contemporanee come quella di Lévinas, di Derridà e di Heidegger; così Limine (la nuova collana di studi filosofici del dipartimento di filosofia dell’università or ora accennata) tiene fede al proposito con il quale è nata, ovvero di costituire «uno spazio in cui possano intersecarsi differenti linee di ricerca in una mutua e feconda apertura dialogica» nell’ambito della quale esplorare quella «situazione intersoggettiva originaria», costitutiva di ogni essere umano, per mettere a fuoco quei fattori decisivi della contemporaneità che inevitabilmente entrano in gioco:
Il Limine è la soglia, il liminare ovvero quell’esile ma decisivo spazio che disgiunge e unisce il dentro e il fuori, il proprio e l’altrui. Allo stesso tempo, esso è anche il breve istante tra la fine e l’inizio, ovvero il momento nel quale ciò che è passato giunge a compimento e si apre a quel che attende.
Dei sei contributi raccolti, i primi tre esplorano puntualmente le prospettive teoretiche ed etiche aperte dal pensiero dialogico con riferimento a M. Picard, F. Ebner, F. Rosenzweig ed E. Rosenstock offrendo così un quadro approfondito della singolare linea tematica entro cui, intrecciandosi i piani logico, linguistico ed ontologico, emerge una originale e feconda lettura della connessione (zwischen) uomo-parola; i restanti tre invece attraverso il pensiero di Levinas, di Heidegger e di Derridà, sviluppano la medesima relazione mediante una diversa, ma altrettanto prossima, linea argomentativa. Una ragione è dialogica se è aperta all’evento della parola, ovvero a quella dimensione che scardina la mutua solitudine dell’io (Icheinsamkeit ebneriana) in virtù della frontalità espressiva ed originaria del tu: la parola, pertanto, sorge nell’intimità raccolta dell’uomo, spinge per essere detta e, una volta divenuta suono, chiede di essere ascoltata in attesa di ricevere la risposta adeguata. Gli intrecci tematici tra parola e silenzio, fra alterità, soggettività e temporalità, fra oralità, scrittura ed infine interpretazione, rappresentano i semantemi qualificanti della nuova modalità di pensiero mossa dalla ragione dialogica la cui indagine, nel suggestivo contributo di E. Baccarini (La ragione dialogica. Una nuova modalità di pensiero, pp. 9-18), apre all’unione di pensiero e linguaggio operante nell’uomo inteso sia come «un pensante che parla», sia come «un parlante che pensa». «L’essere umano è quindi un pensante che parla e che attraverso la parola esprime il pensiero e un parlante che pensa, cioè che struttura in un linguaggio interiore il suo pensiero» (p. 10). La proposta di tale saggio consiste quindi nel tentativo originale di tenere uniti i due momenti per cogliere la ragione (non più pensata come una sostanza perché non si dà un’ontologia della ragione) umana come «dialogicamente determinante». Nella parola come «fatto umano»emerge allora un’interdipendenza originaria: la parola ci è costantemente data e nasce da un ascolto. «Essere un parlante significa non essere all’inizio, non essere l’inizio» poiché parlare è un verbo «duale», ovvero relazionale: nel parlare, infatti, si realizzano costantemente sia la possibilità del dire, sia quella dell’ascoltare. Ogni parlare nasce da un ascolto e manifesta, altresì, «l’originale struttura relazionale dell’umano»: la lingua in cui si parla precede il parlante che la abita e così viene intesa da E. Baccarini come una «dimora originaria», esistenziale oltre che esistentiva, che struttura lo stesso pensiero attraverso i riferimenti culturali. Le riflessioni poi si soffermano su una particolare modalità di parlare che è l’interrogare, ovvero l’esigenza di essere-con altri:
La domanda manifesta una carenza e nella sua dimensione originaria ontologica manifesta una carenza ontologica. Nell’interrogare viene a manifestazione il limite della ragione come possibilità di determinazione solitaria e totale. Nell’interrogazione, tuttavia, si manifesta anche la paradossalità dell’umano, coscienza finita proiettata però nell’al di là del finito (p. 14).
La ragione dialogica, quindi, è quella che meglio esprime la complessità della ragione umana la quale nella consapevolezza della propria finitezza è originariamente interrogativa, ovvero richiesta di senso fuori di sé e oltre sé. Alla luce di tutto ciò, quindi, la parola in quanto manifestazione della singolarità personale, personalizza la verità: la relazione persona-verità apre allora lo spazio del pluralismo delle prospettive in cui la storicità e la contingenza della persona rendono la verità parziale e storica senza però ridurla a storia. «Ogni espressione della verità ripete il gesto della rivelazione, è una rivelazione che continua»e ciò significa che per mezzo della parola umana «Dio continua a parlare all’uomo con l’uomo» (p. 15). La parola vera, pertanto, è sempre rivelativa: la verità dialogica pur essendo necessariamente una «verità-frammento», nello stesso tempo si riferisce ad una totalità; essere nella verità allora significa inserirsi in un discorso infinito e quindi recuperare costantemente quella dimensione ontologica di appartenenza della persona alla verità. Tutto questo però implica il fatto fondamentale secondo cui il parlante non abita soltanto lo spazio simbolico di una cultura, bensì abita anche lo spazio-tempo reale in cui diviene interlocutore: l’esercizio del parlare, infatti, deve avvenire sempre nel contesto relazionale dell’inter-soggettività. Il linguaggio allora trasforma la molteplicità dei soggetti in una comunità proiettata intenzionalmente verso un’intesa: l’interumano è caratterizzato dalla relazione che ha alla sua base l’incontro. Realizzare tale incontro è appunto il compito primario della ragione dialogica che conduce verso una verità che solo quando «si dice insieme» non si trasforma in «chiacchiera». Il saggio di S. Zucal (La filosofia della parola, in Max Picard e Ferdinand Ebner, pp. 19-39), con riferimento al pensiero di Picard e a quello di Ebner, sviluppa alcune delle risultanze più significative del pensiero dialogico legate alla nuova via che questo favorisce rispetto a quella indotta dal solipsismo vera e propria ferita ontologica causata da una «concezione egologica della parola». Le due filosofie dialogiche sono caratterizzate dalla centralità del tema della parola: Per Picard attinta dal «fenomeno vitale del silenzio», per Ebner in chiave esclusivamente cristologica. Per entrambi gli autori, però, il linguaggio è un dato costituzionale dell’umano, ovvero prima ancora di imparare ad articolare le parole di una specifica lingua, l’essere umano nasce già come «animale verbale». La lingua si può apprendere durante la vita, mentre il linguaggio originario (la parola) è dato a priori e costituisce la persona nella sua identità originaria. Stando così le cose, quindi, «[…] in mezzo alla natura muta, l’uomo è il solo essere che può parlare e lo può perché ha il dono della parola come fatto originario e costitutivo. Questo è il vero salto dall’animale all’uomo» (p. 21). Soltanto l’uomo dunque possiede la parola come «fatto originario ed originante»: lo spirituale non si sviluppa infatti dalla natura biologica, bensì irrompe nell’essere umano per il fatto stesso di essere stato posto in lui in un passato assoluto. Qui è possibile scorgere un vero e proprio rovesciamento da parte di Picard e di Ebner di quel paradigma egologico della parola, che affonda le radici nel pensiero di Cartesio, per tendere verso una nuova dimensione dialogica in cui l’identità umana da cogito, ergo [ego] sum (penso dunque sono) diviene Cogitor ergo sum (io sono pensato, io sono oggetto di pensiero, dunque sono) per dirla con Franz von Baader (p. 24). Il confronto con l’essere, perciò, mostra che il soggetto si afferma in maniera derivata: io sono perché sono donato a me stesso. Questa frase implica il riconoscimento della non principalità del mio essere e simultaneamente la meraviglia verso qualcosa che mi sta di fronte e che non dipende da me: sono dinanzi ad una passività originaria, mi trovo ad essere senza averlo deciso, ovvero sono immerso nella «concretezza di un mistero». In Ebner quindi l’espressione io sono diviene l’indice di una vera e propria «ontologia indigenziale» in cui all’asserzione esistenziale nella prima persona segue immediatamente quella nella seconda persona: l’Io sono si scopre intimamente e spiritualmente costituito dal Tu sei. Alla luce di tutto ciò quindi emerge con evidenza come, per il filosofo austriaco, il linguaggio abbia dal punto di vista ontologico una struttura «tuale»: la stessa asserzione io sono infatti è l’inizio della presa di coscienza del fatto di essere di fronte a qualcuno, un qualcuno che ci permette di affermare noi stessi, ma che ci consente anche di scorgere le tracce di un Tu divino dietro le parole del tu umano. (Le espressioni tra virgolette delle due frasi precedenti sono riprese dal saggio di E. Baccarini, «La persona come struttura dialogica», Dialegesthai. Rivista telematica di filosofia, 1999). L’uomo, dunque, secondo Ebner e Picard, è stato pre-pensato e amato dal Tu divino e solo per questo egli può esistere ed amare; la parola umana pertanto trova la sua origine nel dialogo autentico e pre-originario con Dio, un Dio che nel donare la parola all’uomo lo ammaestra anche ad usarla in senso pieno, cioè dialogico. Alla luce di tutto ciò, quindi, la parola media tra l’essere umano ed il fondamento della sua esistenza (Dio), ma, nello stesso tempo, media anche tra uomo e uomo divenendo altresì il «frammezzo», il «tra» (Zwischen) l’Io e il Tu: essa dunque è «il ponte che supera l’abisso della solitudine negativa e della patologia solipsistica» ripristinando quel dialogo originario (tra Dio e l’uomo, tra l’uomo e Dio) che fonda l’umano (p. 29). Così scrive S. Zucal:
Ciò che avvenne nel dialogo originario si replica nella relazione io-tu interumana dove, se autentica, per Picard rimane sempre e comunque un’eco di quella prima relazione, eco consegnata alla singolare eloquenza del silenzio (p. 25).
Fra i tanti temi affrontati dal presente saggio merita un’attenzione particolare proprio quello relativo al rapporto fra parola e silenzio. Una tale relazione è quella di una coppia di opposti polari che nel mentre si oppongono, contemporaneamente si richiamano: la parola autentica in un certo senso richiama il silenzio e il vero silenzio cerca sempre e comunque «l’esodo in direzione della parola». Quando la polarità tra parola e silenzio si interrompe, per Picard la parola diviene un mero «ronzio verbale», ovvero degrada in «chiacchiera». Così solo il silenzio rinnova e purifica la parola riconducendola all’Originario, nel silenzio infatti il linguaggio trattiene il respiro e si trasforma in novità continua. A questo punto appare evidente come si istauri una reciprocità («co-implicazione») tra silenzio e parola: essa infatti risulta essere investita di una effettiva missione da parte del silenzio poiché quest’ultimo attinge alla Parola assoluta, ovvero a quell’indicibilità che si fa presenza nel tradimento costante della parola umana; ecco allora l’emergere di un processo circolare in cui dietro il silenzio si cela in realtà l’enigma della Parola assoluta verso cui, attraverso lo stesso silenzio, muove la parola umana. Sia Picard che Ebner dunque sostengono che a formare la parola, traendola altresì dal silenzio, sia stato un atto divino, una chiamata originaria che è simultaneamente una vera e propria iniziazione alla parola: «una parola di replica che è nel contempo, in assoluto, la prima parola umana pronunciata.» Stando così le cose, l’evento cristologico costituisce la conferma di quell’«evento verbale originario»: con la venuta di Cristo (Verbo, Parola, Logos, Dabar), infatti, fu annunciata per tutti i tempi la trasformazione del silenzio in parola. Tutto questo, allora, ci conduce verso il suggestivo tema del vero; dal saggio di S. Zucal emerge chiaramente come sia per Ebner che per Picard il linguaggio contenga e porti all’uomo la verità, così grazie alla stessa struttura del linguaggio (che fu dato all’uomo da un Essere che è la verità stessa) l’essere umano si scopre posto dinanzi alla veridicità: nel silenzio quindi si ritrova il fulcro della bellezza, vera e propria origine di quella luce che incarnandosi nella parola permette alla verità di albergare come desiderio nel cuore dell’umano. Agli occhi di Ebner il fatto di abitare una lingua umana da parte del Cristo è sia un evento d’amore che un evento verbale finalizzato alla redenzione umana dalla patologia dell’Icheinsamkeit alimentata da parole violente ed antidialogiche; così Gesù che è «via, verità e vita» ha condotto, mediante la parola, l’io verso il tu, ovvero ci ha destinati alla vita spirituale. La colpa dell’occidente, quindi, per il filosofo austriaco, può dirsi pienamente nella perdita della fede nella parola, sicché «la perdita della parola che il magistero del Cristo dona è la morte del Sé, è la perdita dell’incontro possibile dell’Io con il Tu (divino ed umano), è la fine di una società intessuta di relazioni autentiche. Rimarrà invece solo il patetico e incombente trionfo di linguaggi artificiali e omologanti, in cui ci si illuderà ancora di parlare e di incontrare l’altro, il Tu, restando invece impigliati e prigionieri di se stessi» (p. 39). Stando così le cose, attraverso la veloce lettura di questi primi saggi risulta chiaramente come a mutare, nella prospettiva dialogica, sia il rapporto tra tempo, linguaggio e verità: la relazione elementare accade nella parola ascoltata e nella parola detta. Tra l’ascoltare ed il dire infatti il tempo accade come differenza dei soggetti e come diacronia; i pensatori che in maniera più decisiva hanno riflettuto su tale aspetto sono senza dubbio F. Rosenzweig ed E. Levinas ai quali sono dedicati rispettivamente i saggi di P. Plata (Ogni parola è una parola parlata. La dimensione dialogica dell’uomo nelle fonti e negli scritti minori di Franz Rosenzweig, pp. 41-62) e di M. Giuliani (La parola ed il suo al di là: riflessioni sul nominare in Emmanuel Levinas, pp. 63-80). Il contributo di P. Plata offre una ricostruzione originale della prima riflessione di Rosenzweig mettendone in luce l’importante debito nei confronti della lettura di Conoscenza applicata dell’anima, testo in cui E. Rosenstock critica la psicologia (concentrata eccessivamente sull’io) e le scienze occulte (in cui l’anima è pensata come monade a sé stante) poiché prive di una visione completa del loro oggetto: l’anima umana. Egli infatti intende mostrare come in realtà «guardando dentro l’esperienza umana non viene prima l’io, ma il tu» (p. 45). L’origine del solipsismo, anche per Rosenstock, è da rintracciarsi nel pensiero di Cartesio da cui è scaturita sia una spaccatura tra soggetto e oggetto, sia la distinzione della realtà in interna ed esterna, giungendo altresì all’erroneo postulato di interpretare l’anima come oggetto, come una cosa. Tuttavia, secondo Rosenstock, ciò che sfugge a Cartesio è la lingua, cioè la parte costitutiva ed essenziale dell’anima umana:
L’uomo non è soltanto un essere naturale, è anche e, specificatamente, un essere capace di elevarsi al di sopra della sua natura, attraverso il linguaggio, poiché parlare significa produrre il riferimento all’altro e all’intera comunità linguistica. Una filosofia della lingua così intesa può distruggere il detto che nessun ponte conduca da uomo a uomo (p. 45).
Stando così le cose, dunque, P. Plata mette in luce come soltanto attraverso un discorso proveniente dall’esterno diventiamo progressivamente persone coscienti della nostra identità e solo allora il nome acquisterà significato pieno. La lingua quindi rappresenta quel ponte misterioso in grado di realizzare l’intersoggettività trasformando l’io in anima, ovvero «la consapevolezza del sé individuale risvegliata da una chiamata per nome dall’esterno» (p. 47). Anche in Rosenzweig la lingua è considerata come «ponte verso l’esterno» quando è percepita come parola concretamente detta; l’io di ognuno di noi allora nascerà dall’incontro con il tu ed il pensiero scaturirà da un appello che l’altro ci pone dinanzi. La concezione del linguaggio di Rosenzweig trova conferma nell’interpretazione della Bibbia: tramite la chiamata di Dio (con un nome personale) e la rispettiva risposta responsabile dell’uomo («eccomi»), si viene necessariamente a determinare un processo che passa dal mutismo, al narrativo, al dialogo e da questo al linguaggio corale del noi in cui l’io assume la forma di «singolo collettivo». Alla luce di tutto ciò P. Plata così scrive:
In opposizione all’antico pensiero, in cui l’uomo appare definito dai suoi attributi, il nuovo pensiero è quello che risulta dalla libertà dell’uomo, dalle sue facoltà. L’uomo è abitato dal linguaggio, che è una energia, una potenzialità infinita, non certo nel senso che la libertà dell’uomo sia illimitata, ma volendo indicare che la libertà umana si manifesta anche attraverso il linguaggio (p. 49).
Il linguaggio, che contribuisce in modo determinante nella presa di coscienza del proprio io, recita dunque un ruolo di primo piano: anche se le vie di Dio e le vie umane sono intrinsecamente diverse, la parola di Dio e quella dell’uomo sono in realtà la medesima cosa. Il presente saggio, poi, prosegue mostrando l’importanza filosofica assegnata da Rosenzweig alla traduzione sia nell’ambito del dialettico operare di conservazione ed innovazione, sia in quello relativo al progetto intrapreso con M. Buber di traduzione integrale in tedesco della Bibbia ebraica. Riassumendo i temi, a nostro giudizio, più importanti messi in luce nei paragrafi successivi, risulta evidente come Rosenzweig sia riuscito ad elaborare, in tutta la sua opera, quella svolta a cui è chiamato il pensiero se vuole veramente comprendere la dialogicità della persona. Nel contributo di P. Plata, infatti, emerge chiaramente come la struttura parlante venga definita dalla temporalità non soltanto del limite e della contingenza, bensì anche dell’intervallo, del ritmo, della pazienza e dell’attesa. Il tempo è scandito nel suo stesso accadere come evento della presenza, al di fuori di tale evento, pertanto, siamo nell’intemporalità del pensare l’universale, vera prerogativa del paradigma filosofico occidentale; il tempo, quindi, si disegna come il tessuto derivante dai molteplici scambi tra il parlare ed il rispondere («accadere relazionale»). Come in Picard ed Ebner, anche qui il silenzio è abitato da una sorta di dipendenza, ovvero è nutrito da quel naturale bisogno degli altri che comunque restano presenti; la relazione tra tempo e linguaggio, tuttavia, si manifesta nella sua pienezza se aggiungiamo un termine chiave: la verità. Ogni dialogo diviene autentico se si svolge nella tensione alla verità la quale caratterizza la stessa struttura ontologica della persona. La condizione fondamentale del dialogo però è proprio la singolarità ed unicità della soggettività che è essenza e centro a se stessa; tale differenza ontica inoltre non va intesa come relatività ma come relazionalità mossa dal «bisogno dell’altro» che per Rosenzweig vuol dire «prendere sul serio il tempo». Il parlare, infatti, è legato al tempo perché quando si desidera entrare in comunicazione con qualcuno non si sa in anticipo come si svolgerà il discorso e spesso lasciamo che siano gli altri a fare la battuta; «nel dialogo vero qualcosa accade sul serio»: potrebbe essere addirittura l’altro a cominciare, l’essere umano pertanto scopre nelle sue carenze comunicative il fatto di aver bisogno del tempo (essere dipendenti dagli altri) e non del linguaggio (p. 62). Quindi, secondo Rosenzweig dire la verità significa inverarsi, cioè essere veri perchè nessun dialogo può nascere senza la volontà di verità (farsi veri). Il pensiero della verità allora non può che essere rivelativo (una rivelazione che accade nel dire la verità) e, tenendo presente la struttura finita dell’essere umano, mai definitivo: nel ri-velarsi, infatti, la trascendenza diviene il polo principale di un processo continuo di disvelamento e occultamento in cui non si dà totalmente, ma, contemporaneamente, è sempre a disposizione (senza mai essere colta come utilizzabile). Alla luce di tutto ciò, dunque, nel dialogo l’uomo diviene testimone del suo stesso bisogno di verità e quindi protagonista di una nuova modalità di dizione del senso in cui la ragione dialogica si trasforma in dono: nel discorso infinito in cui ognuno è inserito originariamente, l’identità unica di ogni essere umano diviene allora responsabilità per la verità. A raccogliere tali pro-vocazioni è certamente l’avvincente saggio di M. Giuliani dal titolo: La parola e il suo al di là: riflessioni sul nominare in Emmanuel Levinas (pp. 63-80), in cui l’autore, con molto acume, rilegge Altrimenti che essere a partire dall’«anfibiologia del detto» rivalutandone come centrale il tentativo di sondare l’al di là dell’essenza in virtù dell’accettata subordinazione del Dire al Detto:
Il Detto sta al Dire in una correlazione che non è dialettica, di alternanza o di contrapposizione, ma di subordinazione, anzi di sottomissione, pur sapendo che il linguaggio in quanto organizzazione e struttura del Detto ha funzione ancillare rispetto al Dire, che si staglia pre-originariamente come la causa esistenziale del Detto. […] Il Detto, dunque, è ciò in cui il Dire ineluttabilmente si traduce e pertanto si tradisce, in senso etimologico, si consegna. Non v’è accesso al Dire che non sia un Detto. Il Detto è necessario alla ricerca e alla liberazione dell’altrimenti che essere, ma tale necessità equivale a un tradimento- dice Lévinas- perché il fatto di dire l’altrimenti che essere lo rende illusoriamente un accadimento, un evento dell’essere stesso, con linguaggio ontologico diremmo che lo rende un ente tra gli enti, quando invece esso è e resta un’eccezione (p. 65).
M. Giuliani, pertanto, sottolinea come Altrimenti che essere costituisca in realtà il tentativo levinasiano di mostrare come nell’identità umana si realizzi la rottura dall’essenza, frattura che ha la peculiarità di precedere l’ontologia e di essere accaduta in un passato mai stato presente; ciò diviene evidente nelle analisi che vengono dedicate appunto alla relazione Dire/Detto. Il Dire si presenta come la «significanza stessa della significazione», «ordine più grave dell’essere e anteriore all’essere», esso è un atto in cui l’io si espone e si volge verso l’altro. Il Dire, quindi, è responsabilità, presupposto di ogni informazione, significato che precede la cultura, la lingua, l’estetica e l’economia: esso rappresenta l’etica nella sua origine anarchica poiché è al di qua dell’essere, è il pre-originario, ovvero luogo in cui la dimensione dell’ascolto si trasforma in responsabilità incondizionata per l’altro. Il Detto, invece, costituisce l’interessamento (negazione e sospensione di ogni forma di gratuità, movimento in cui la trascendenza diviene apparenza), il gioco dell’essere, la coincidenza pacifica dell’identità con sé; esso prende corpo solo nel contesto del dire e favorisce la comprensione del reale nella sua totalità. Il Detto, dunque, è ciò in cui il Dire si traduce e, simultaneamente, si tradisce; il riconoscimento di tale tradimento tuttavia viene considerato nel contempo anche come la condizione di possibilità della trascendenza, non-luogo in cui infinito e nulla sembrano coincidere nell’assoluta mancanza di forme: il Dire (pre-intenzionale o non-intenzionale) diviene traccia di un silenzio pre-originario dell’io in cui la dimensione dell’ascolto resta la condizione ultima di possibilità etica; l’interiorità umana, pertanto, diviene offerta come dimora per la parola. Il parlare si trasforma allora in elemento divino; la parola infatti è manifestazione oggettiva di una dimensione trascendente: il pre-originario è Dire e significa responsabilità prima della libertà. Prima ancora di essere intenzionalità, la soggettività è dunque responsabilità incondizionata ed ostaggio insostituibile degli altri: il soggetto quindi nasce come risposta, dal parlare al rispondere in virtù di un ascolto immemorabile. Nella precedenza del Dire sul Detto quindi in gioco c’è l’interiorità dell’uomo, ovvero un al di là che non può essere descritto in termini spaziali poiché se fosse così si ricadrebbe nell’ordine sincronico e nel detto: la dimensione dell’interiorità (silenzio in cui il Dire pre-originario non è stato ancora dis-detto) implica una passività inassumibile, ineffabile ed incomunicabile, quindi una trascendenza incontrovertibile. Alla luce di tutto ciò, M. Giuliani così conclude il suo contributo:
Il dirsi come Pro-nome è il massimo della verità accessibile agli uomini, perché è il massimo della prossimità esperibile nel massimo della distanza delle soggettività. Il valore dello sforzo di Lévinas nel riflettere a cavallo tra i maestri rabbini ed i filosofi greci riposa in questo sottrarsi alla dominazione tematizzante e riduttrice per far spazio alla difficile libertà del dirsi altrimenti, ossia come responsabili per il destino del mondo (p. 80).
Dalle parole di M. Giuliani dunque emerge una delle straordinarie intuizioni levinasiane, ovvero il fatto di mettere in luce la para-dossalità della verità nel suo «darsi/dirsi nella storia»: il senso, infatti, si mostra, va in rovina e si mostra. tale ambivalenza, a nostro giudizio, costituisce proprio quello scarto quasi impercettibile, ma determinante, tra linguaggio e senso: «è la trascendenza sulle parole della parola; è traduzione/ tradimento in virtù di cui qualcosa resta sempre fuori, al di là, oltre; è il Dire che si sottomette al Detto, ma vuole anche essere detto altrimenti» (p. 68).
Al termine essere e al problema dell’essenza dell’uomo in Heidegger, dedica una particolare attenzione P. Ciccarelli nel suo accattivante e complesso saggio dal titolo: La parola «essere»e il problema dell’essenza dell’uomo. Sull’origine della svolta in Heidegger (pp. 81-97), in cui vengono ripensate le ragioni della Kehere heideggeriana a partire dalle riflessioni sulla possibile polisemia del termine essere contenute nella terza parte di Introduzione alla metafisica. L’autore interpreta quei pensieri come una manifestazione quasi evidente dell’insoddisfazione del filosofo tedesco nei confronti del metodo con cui, da sempre, si è affrontata la questione relativa all’essenza dell’uomo. Ipotesi, quest’ultima, che individua il motivo determinante della «svolta» heideggeriana degli anni trenta nella «deposizione» del primato soggettivistico attribuito all’essere umano dalla filosofia precedente. Infine, attraverso l’interessante saggio di M. Spano intitolato Tra le righe. Derrida ed il silenzio della parola (pp. 99-124), è possibile leggere i complessi «fuochi di parole», utilizzati dal filosofo francese, come vere e proprie chiavi interpretative in grado di condurre il lettore direttamente al cuore dell’impellente questione concernente sia il nesso uomo-parola che il paradossale contesto in cui tale relazione si viene ad instaurare, ovvero nel quadro di una vera e propria denuncia di logocentrismo nei riguardi della filosofia occidentale, principale responsabile della progressiva cristallizzazione della parola e del linguaggio. Per uscire da tale situazione di soffocante e straziante staticità, dunque, il filosofo francese presenta l’urgente necessità teoretica e soprattutto pratica di ri-scoprire l’importanza del silenzio della parola giungendo perfino ad eliminare, altresì, la parola stessa attraverso un percorso che vede i suoi momenti cruciali nei semantemi della «spaziatura», dell’«archiscrittura», del linguaggio come «temporalizzazione del vissuto» e della «traccia». M. Spano infine termina il suo saggio con un intenso confronto tra Derrida e Levinas circa il tema della «coscienza ospitale»:
La coscienza dell’uomo, nel suo duplice significato di luogo dell’intelligenza dell’essere e di luogo di apertura alla trascendenza, è costitutivamente accoglienza o ospitalità, che qui traduce il senso della spaziatura o apertura di significato di cui prima si diceva. L’interpretazione della coscienza teoretica nei termini di accoglienza urta significativamente contro una tradizione consolidata che la caratterizza innanzi tutto come «attività» (p. 116).
L’ospitalità levinasiana, dunque, riletta con gli occhi di Derrida, può essere interpretata e ri-detta attraverso espressioni come «fare spazio» o «aprire una porta» le quali conservano quella passività che «interrompe» l’attività della soggettività e che conferma quella «deposizione» dell’io tanto cara a Lévinas; anche per Derrida, infatti, il «vuoto», lo «spazio» è sia ciò che permette il senso, sia «ciò che bisogna fare perché un senso sia dato» (p. 117). Il tema della coscienza ospitale implica una riflessione di entrambi i filosofi non tanto su ciò che si riceve, bensì sulla struttura stessa del ricevente che diviene tale solo in quanto riceve oltre (al di là) le proprie capacità; il ricevere è effettivamente un ricevere e non un avere solo perchè rimane alterità (al di là): la struttura del ricevere, infatti, trascende l’io poiché è anteriore a qualsiasi sua scelta, essa non gli appartiene perché è smisurata, infinita, al di là dell’io stesso. A questo punto Derrida, giocando molto sulle riflessioni di Levinas (Totalità e Infinito), scava dentro quest’apertura, che in realtà è ancora più originaria dell’apertura come accoglienza dell’altro, giungendo ad una «traccia di traccia», ad un’«apertura dell’apertura» o meglio ancora ad un’«atto senza attività», ovvero un’origine priva di contenuti che possiede l’io perché da sempre lo precede. Qui si apre uno «iato», dice Derrida, uno scarto tra la struttura etica della coscienza e qualsiasi etica storica: una separazione che dice la possibilità stessa della «spaziatura»e dell’«apertura» in cui si cela il riverbero di un’altra parola, ovvero di una decisione pre-originaria che è responsabilità. Lo «iato»dunque apre «lo spazio per una decisione in cui si manifesta la dimensione propriamente etica, o se vogliamo propriamente umana, ed è in questo che si ristabilisce un rapporto, che pur sentiamo esserci, tra l’uomo e, questa volta, la «sua», parola» (p. 123). Senza uno «scarto», uno «spazio», un’«apertura», infatti, la parola non può essere inviata, «detta» così come non può essere accolta e «ospitata»; senza apertura non può esserci neppure il «dono»: ecco dunque il delinearsi di una dimensione misteriosa in cui il silenzio conserva la trascendenza, come se all’origine della parola, della decisione e della libertà ci fossero in effetti un silenzio colmo di senso ed una responsabilità incondizionata (un appello) che elegge l’io (nominativo) sollecitandolo a rispondere (accusativo) con la parola eccomi. Il contributo di M. Spano, attraverso le parole suggestive di Derrida, pertanto, si chiude con un inno al silenzio, un silenzio che dà ed è «dono della parola», ovvero di una «non risposta» che condiziona la libertà del soggetto nell’unicità della sua risposta: senza lo «iato», infatti, il sapere diverrebbe «programma d’azione» e nulla sarebbe più irresponsabile.
Questo silenzio viene a noi dall’abisso. Sembra forse, forse fa eco, questo silenzio, forse, a quello dal fondo del quale Elia si sentì chiamare, lui solo («come, tu qui Elia, che fai?»), dal fondo in una voce che era appena una voce, una voce quasi inaudibile, una voce che si distingueva appena da una brezza leggera, una voce sottile come un silenzio, una «voix de fin silente», come si dice, ma voce che Elia credette di percepire dopo che ebbe cercato invano la presenza di Dio sulla montagna, nella brezza, nel terremoto, nel fuoco; una voce che interroga («che fai tu qui?») e ordina: Va’!» (Derrida, La parola d’accoglienza (1996), in Addio a Emmanuel Lévinas (1997), cit., p. 184).
Ecco allora che dal breve esame dei saggi (un confronto tra il pensiero dialogico ed altre filosofie contemporanee) emerge con forza il fatto innegabile secondo il quale, in realtà, dietro al nesso uomo-parola si fa presente una dimensione misteriosa di cui il nostro volto conserva le tracce, una presenza che nel momento stesso in cui si rivela è già dissimulata: tale apertura costituisce una diacronia irrappresentabile che sfugge ad ogni tentativo di oggettivazione e di rappresentazione. Essa, infatti, rinvia ad un’origine che ci ri-guarda e che è possibile identificare con il silenzio, un silenzio che dall’abisso dei tempi testimonia la presenza di un’assente (una voce quasi «inaudibile» che chiama ogni uomo per nome e lo elegge) e che conduce la ragione umana al di là di ogni possibile pensiero, parola, concetto o tematizzazione: è proprio qui, dunque, che risulta effettivamente possibile tornare a quella dimensione pre-originale dell’ascolto da cui ogni parola umana ha avuto origine.