Recensione a Vittorio Hösle, Il concetto di filosofia della religione in Hegel

Vittorio Hösle, Il concetto di filosofia della religione in Hegel, La Scuola di Pitagora editrice, Napoli 2006, 128 pp.

«Il punto centrale della filosofia di Cortès era la convinzione che il cristianesimo si stesse dissolvendo e che il secolo nuovo sarebbe stato il secolo del nichilismo». In uno degli ultimi passaggi del suo studio sulla filosofia della religione di Hegel, Vittorio Hösle paragona il filosofo tedesco al reazionario spagnolo, per la capacità, comune a entrambi, di prevedere gli sviluppi della religione in Europa e i pericoli ai quali si stava andando incontro. Lo studioso, di origini italiane ma formatosi in Germania e docente negli Stati Uniti, aveva apprezzato di quelle lezioni le conclusioni aporetiche e aperte a nuovi sviluppi e, anzi, aveva fatta propria la problematicità del tema religioso, chiudendo a sua volta il seminario sul manoscritto hegeliano con una questione aperta: «La religione ha perso il suo compito per l’Europa e per il mondo moderno, e non è dato sapere cosa possa venire a sostituire questa istanza legittimatrice».

Sono passati vent’anni da quando Vittorio Hösle illustrò in una serie di quattro lezioni, tenute all’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici di Napoli, il concetto di filosofia della religione in Hegel. Eppure il testo di quelle lezioni, uscito per la Scuola di Pitagora editrice (2006), appare oggi attualissimo e fondamentale. Attualissimo perché i problemi di cui si è detto poco sopra appaiono ancora irrisolti. Fondamentale perché resta l’unico testo originale e insieme critico che sviluppa i momenti più alti della speculazione hegeliana. Tra questi, per esempio, lo studioso tedesco riprendeva l’analisi della religione vista in rapporto alla legge, una prospettiva che inquadrava la religione come base di legittimazione di qualsiasi diritto, e che dunque permise ad Hegel di prevedere la sostanza della futura crisi dello Stato-nazione in assenza di un nuovo orizzonte religioso e culturale dopo la «morte di Dio», una crisi oggi esplosa in tutta la sua problematicità di fronte all’ipotesi di menzionare le radici cristiane nell’eventuale Costituzione degli Stati europei.

Hegel individuava nel soggettivismo religioso e fideistico di Schleiermacher — per il quale la ragione è incapace di capire la fede — uno dei maggiori responsabili del declino del cristianesimo come forza legittimante, poiché non rispecchiava l’aspirazione della religione a essere esperienza collettiva, scuola per la vita delle comunità; una concezione, questa fideistica, che rappresenta secondo Hösle, anche nel nostro secolo, la corrente più forte e antifilosofica della teologia. All’opposizione tra fede e ragione Hegel intendeva reagire con l’atteggiamento filosofico che aveva caratterizzato la visione platonica e neoplatonica della religione: questa non deve essere studiata come un fenomeno irrazionale — impostazione che era, invece, caratteristica dell’illuminismo intellettualistico — perché esprime nel suo contenuto, al pari della filosofia, la natura spirituale dell’uomo. La religione poteva così essere rivalutata e assumere la funzione di maturazione delle coscienze, dei sentimenti e dei pensieri che fanno da preludio alla cultura e alla civiltà; mentre il cristianesimo diventava, nel panorama di tutte le religioni da Hegel conosciute, la più nobile, non solo perché aveva introdotto nei cuori e nelle menti il principio dell’uguaglianza tra gli uomini, ma perché aveva comunicato attraverso alcuni suoi dogmi, ad interi popoli ed anche agli uomini più semplici, i principi della filosofia. Il dogma della morte e resurrezione di Cristo, per esempio, traduceva il concetto della superiorità dello spirito sulla materia, mentre l’incarnazione di Dio in un singolo uomo rendeva il concetto di spirito non più come «anima individuale» ma intersoggettiva, per cui all’individualità soggettiva di Cristo, «subentrava l’intersoggettività della comunità». Il cristianesimo, radunando la comunità degli uomini attorno al pensiero dell’uguaglianza e della fratellanza nel nome dell’unico figlio di Dio, poneva, secondo Hegel, le basi del diritto e dello Stato moderno, fondato sulla giustizia e sull’unicità del potere sovrano.

La Chiesa è il corpo istituzionale di questa comunanza, cioè del culto, ed ha perciò secondo Hegel il compito di sviluppare filosoficamente i contenuti della religione. Tuttavia il filosofo conosceva i pericoli in cui gli intellettuali ecclesiastici potevano cadere: l’incapacità di compiere il passaggio dalla rappresentazione al concetto, restando ad un livello puramente rappresentativo, ossia di immagini. Un esempio di simile difficoltà Hegel ravvisava nel dualismo tra Stato e Chiesa, in cui indugiava, e tuttora indugia, il cattolicesimo, il quale si poteva perciò considerare forma inferiore rispetto al protestantesimo, che aveva saputo superare questa contraddizione. L’arroccarsi dei teologi su posizioni fideistiche ha impedito lo sviluppo dalla religione alla filosofia e ha precipitato il mondo in una nuova epoca d’infelicità per la coscienza del popolo, così «la classe per la cui cultura la verità può essere solo nella rappresentazione, e che appunto sente il dolore infinito e l’esigenza della riconciliazione, è abbandonata dai maestri». Hegel aveva capito la necessità della riconciliazione tra l’esigenza di fede e insieme di ragione del popolo affinché si regga lo Stato e aveva indirizzato la sua vocazione di filosofo alla «comprensione razionale, ossia del divino, nei fenomeni umani dell’arte, della religione e della filosofia», cioè alla filosofia dello spirito. Questa è, secondo Hösle, l’unica interpretazione corretta della filosofia della religione di Hegel, fraintesa più o meno consapevolmente in tutte le altre edizioni critiche del manoscritto. L’analisi razionale dei dogmi conduceva Hegel a scoprire contemporaneamente il punto debole della religione che consiste nell’avere un contenuto universale espresso da una forma concreta ma particolare, quella della rappresentazione. Questa difficoltà può essere superata dalla filosofia nel pensiero concettuale, che tuttavia è chiaro soltanto a pochi. Una volta che la religione è stata, da questi pochi, fondata filosoficamente, essa esaurisce il suo compito per l’Europa e per lo Stato moderno. Si ha una ricaduta nel puro soggettivismo, il senso della finitezza sovrasta l’idea di una verità oggettiva e l’uomo non riconosce più alcun valore fondamentale al diritto e alla filosofia. Sembra, quindi, che l’analisi hegeliana si chiuda in sé stessa, nella visione apocalittica della «fine della religione». La profonda lettura di Hösle, invece, riesce a carpire il significato di questo «momento della negazione» che, alla luce di tutto il pensiero hegeliano, non resta negativo ma ha un ruolo preciso nella storia: quello di demolire la cultura particolare precedente, determinando certo una crisi, ma anche le condizioni di una nuova cultura. Infatti, dice Hösle «L’umanità non riesce a sopportare a lungo questa vacuità di valori» e se la fine del mondo ellenistico condusse all’egoismo dell’epoca imperiale romana, ebbe anche la funzione di dissolvere la struttura ormai vecchia della polis greca introducendo l’universalismo — seppure solo esterno — dello Stato romano.

Il mondo contemporaneo è chiaramente immerso nella negazione di qualsiasi verità oggettiva, dominato dalle opinioni e dall’abbandono di ogni impegno per lo Stato. Hegel ha mostrato delle strade e fornito alcune importanti categorie per la comprensione della realtà; ma, così conclude Vittorio Hösle, «quale sarà il frutto di questa crisi, è una questione aperta».