Eziologia e genealogia del postmodernismo filosofico

1. Il termine postmoderno

Una delle caratteristiche sociolinguistiche che contraddistinguono l’epoca nella quale viviamo è una certa «vocazione» neologistica che, all’interno dei sottofenomeni di essa facenti parte, annovera la radicata attitudine all’uso sfrenato di prefissi e/o suffissi che stemperino o correggano la carica di parole il cui potenziale semantico, a seconda della circostanza, non sia facilmente addomesticabile. Paradigmatica, in questo senso, è la recente abbondanza, nel linguaggio parlato, del prefisso post- prima di sostantivi o aggettivi, ad indicare un imprecisato scarto temporale, modale o stilistico rispetto al lemma che lo segue.

Escludendo, quindi, la consapevolezza degli addetti ai lavori, l’uso esagerato del prefisso post- imperversa, da circa un trentennio, in ogni discorso e, in generale, in ogni ambito dell’industria culturale (nell’accezione deteriore del termine) e, di fatto, la «post-collocazione», come condizione di appartenenza, ha finito per assumere lo status di doveroso, sebbene reticente, fenomeno di definizionismo modaiolo. Così, i vari post-industriale, post-metafisico, post-comunista, post-critico, post-ideologico, e via dicendo, sono diventati comodi contenitori tuttofare per chi decide di demandare ad essi la propria utenza argomentativa e adottare la favorevole condizione di riparo (finanche molto chic) dietro baluardi di opinabili coordinate limitative e quindi difficilmente confutabili.

Il caso probabilmente più emblematico è quello del termine postmoderno, che, a partire dagli anni Sessanta, per la sua insita polisemia e problematicità concettuale (ciò che viene dopo il nuovo?), ha costituito una sorta di «parola magica multiuso» al soldo dei «voltagabbana di turno».1 Probabilmente il fatto che un aggettivo come «postmoderno» abbia riscosso tanta fortuna nel linguaggio del nostro tempo si spiega con la storia stessa del termine postmodernismo. Infatti, rispetto ad altri fenomeni culturali e correnti di pensiero, legate alle transizioni strutturali di questa o quella tendenza disciplinare, scuola filosofica o avanguardia artistica, postmoderno è stato definito un «modo di sentire», e postmoderna è risultata una «temperie», una tendenza interpretativa decisamente trasversale rispetto ai particolarismi e alle differenze metadisciplinari. Non è un caso che a un certo punto (orientativamente tra la seconda metà degli anni Sessanta e i primi anni Settanta di questo secolo), l’architettura, le arti figurative e visive, la letteratura, la sociologia e la filosofia, abbiano manifestato un comune cambio di registro nei confronti del mondo. La categoria di «postmoderno», dunque, prima di codificarsi e trovare statuto nelle varie manifestazioni culturali e in particolare nella filosofia e nella sociologia (cosa che, in seno a questo lavoro, risulta di importanza centrale), nasce come un Kunstwollen, un modo di operare,2 una caratteristica metadisciplinare di spontanea esplosione e diffusione.

Per quanto riguarda la genesi del termine, dalle ricerche di Michael Köhler,3 sappiamo che esso compare per la prima volta in Antología de la Poesia Española Hispanoamericana, saggio di critica letteraria di Federico de Onìs, datato 1934 (nel quale l’autore lo usa per indicare una corrente poetica contrapposta al modernismo letterario spagnolo), e in A Study of History, dello stesso anno, a cura dello storico Arnold Toynbee (che denomina «postmodernismo» la nuova fase di imperialismo di fine Ottocento caratterizzata da una politica di interazione globale da parte degli Stati nazionali). Successivamente, negli anni Quaranta e Cinquanta il termine figura sporadicamente nel contesto poetico e letterario angloamericano, come designante un generico atteggiamento di decadente reazione agli eccessi del modernismo,4 senza tuttavia una legittimazione lucida e privo di carattere di sistematicità e di autocoscienza.

Solo a partire dagli anni Sessanta, Ihab Hassan, applicando categorie post-strutturaliste e decostruzioniste di matrice europea al suo lavoro di critico letterario, ha riunito sotto il termine «postmodernismo» una serie di valenze teoriche che costituiscono ancora oggi le koinai che hanno staccato dalla nebulosa postmoderna, la «categoria» postmoderno, alla quale, nello stesso periodo, aderiscono l’arte,5 la letteratura,6 l’architettura,7 la musica8 e le tendenze culturali di ogni tipo. L’opera di Hassan ha permesso di decodificare un pulviscolo di sensazioni epocali in un «clima» dotato di autoreferenzialità e di nuclei tematici ben delineati che, a distanza di tempo, rimangono attuali e imprescindibili per la comprensione — sia pure «a grandi linee» — del fenomeno postmoderno e che, a distanza di pochi anni, porteranno Jean-François Lyotard a scrivere La condition Postmoderne (1979),9 manifesto e atto di nascita ufficiale della riflessione filosofica sul postmoderno.

Come si è accennato precedentemente, prima di arrivare alla sistemazione filosofica di Lyotard e dei filosofi che hanno continuato la riflessione intorno ai caratteri della postmodernità — che analizzeremo in seguito —, la persuasione secondo la quale all’interno della semiosfera tipica della modernità si sarebbe verificata una sorta di cesura, o meglio un radicale mutamento di paradigma nel modo di concepire la realtà, apparteneva a un sentire comune, nato nella più completa promiscuità fra universi disciplinari differenti e caratterizzato da una tendenza apocalittica (le innumerevoli palinodie degli anni Sessanta-Settanta sulla fine dell’arte, della filosofia, della storia, del sociale, del religioso, del politico, ecc.) tipica dei periodi fin de siécle. È evidente, dunque, come il postmodernismo filosofico più compiuto ed «istituzionale» di Lyotard e seguaci, si sia nutrito di una serie di suggestioni «metafilosofiche» sfociate, poi, in un saggio che sanciva abbastanza casualmente (il lavoro, infatti, era stato commissionato Lyotard dal governo canadese, il quale aveva avviato una ricerca sul rapporto tra il sapere e le società tardo-industriali) la sistemazione di un pregnante stato delle cose.

È pressoché impossibile tenere conto della molteplicità di tematiche che costituisce il calderone genealogico della filosofia postmoderna, e, come succede quando un filone di studi viene proiettato così velocemente e con tale fortuna all’interno del dibattito internazionale, la ricerca di possibili ancillarità e contributi viene macchiata di carattere ideologico, a seconda che la ricostruzione filologica del tema sia avanzata da sostenitori o da detrattori. Ci limitiamo, perciò, a soffermarci sui temi la cui influenza sul pensiero postmoderno è universalmente accettata e costituisce una imprescindibile propedeuticità ad esso: il paracriticismo di Ihab Hassan, il post-strutturalismo francese, il decostruzionismo di Jacques Derrida, le tematiche intorno all’entrata della società contemporanea nella fase postindustriale, la riflessione sui nuovi mezzi di comunicazione di massa.

2. Il paracriticismo di Ihab Hassan

Il contributo di Ihab Hassan alla causa postmodernista è, in termini temporali, di tipo pionieristico. Il critico letterario statunitense di origini egiziane, infatti, già negli anni Sessanta flirtava con alcuni concetti dell’ambiente filosofico europeo, quelli della cosiddetta «rinascita nietzcheana», strutturalista e poi decostruzionista, inserendoli all’interno del proprio approccio interpretativo alla letteratura. L’importazione di tali concetti (écriture, soggetto in processo, decostruzione, piacere del testo), nel pragmatismo lineare dell’ambiente culturale americano, contribuì a codificare un clima che dai nuovi scrittori d’oltreoceano era già ampiamente condiviso, sebbene ancora disorganico e che porterà alla stesura del celebrato saggio del 1971 The Dismemberment of Orpheus.10 Nel suo lavoro più rappresentativo Hassan riprende il mito greco della cruenta morte del cantore Orfeo ad opera delle Menadi, cifrando una simbologia tutt’altro che trasparente: le Mènadi sono le avanguardie artistiche e letterarie del Novecento, mentre Orfeo rappresenta il lògos, ovvero lo spirito di razionalità elaborato dalla civiltà occidentale. Le prime fanno a pezzi il secondo, che ne aveva rifiutato le avances, e gettano il suo capo in un fiume. Ma questo galleggia e continua a cantare il suo amore per la sventurata Euridice (il mitico poeta e musico non era riuscito a strapparla — a causa di uno sguardo incauto — alle tenebre dell’aldilà), segno consolante che l’arte e la letteratura sopravvivranno, anche se profondamente mutate e avulse dal corpo isterilito della modernità.

L’importanza dell’opera di Hassan, quindi, sta nel tentativo di dare una «coscienza» al movimento postmoderno,11 la cui struttura di significato viene costruita per mezzo di una serie di opposizioni stilistiche allo scopo di identificare i modi attraverso i quali il postmodernismo si sarebbe posto come reazione al modernismo delle avanguardie artistico-letterarie del Novecento:12

| Modernismo | Postmodernismo | |———————————————-|——————————————————| | Romanticismo / Simbolismo | Patafisica / Dadaismo | | Forma (chiusa, congiuntiva) | Antiforma (aperta, disgiuntiva) | | Scopo | Gioco | | Disegno | Caso | | Gerarchia | Anarchia | | Mestria / Logos | Esaurimento / Silenzio | | Oggetto d’arte / Opera finita | Processo / Performance / Happening | | Distanza | Partecipazione | | Creazione / Totalizzazione | Decreazione / Decostruzione | | Sintesi | Antitesi | | Presenza | Assenza | | Accentramento | Dispersione | | Genere / Confine | Testo / Intertesto | | Paradigma | Sintagma | | Ipotassi | Paratassi | | Metafora | Metonimia | | Selezione | Combinazione | | Radice / Profondità | Rizoma / Superficie | | Interpretazione / Leggere | Disinterpretare | | Significato | Significante | | Lisible (Leggibile) | Scriptible (Scrivibile) | | Narrativo | Antinarrativo | | Dio Padre | Lo Spirito Santo | | Sintomo | Desiderio | | Fallico / Genitale | Androgino / Polimorfo | | Paranoia | Schizofrenia | | Origine / Causa | Differenza — Differanza / Traccia | | Metafisica | Ironia | | Determinazione | Indeterminazione | | Trascendenza | Immanenza |

Come si può notare, lo schematismo bipolare di Hassan attinge idee a molti campi — retorica, linguistica, teoria della letteratura, filosofia, antropologia, scienze politiche, psicanalisi e persino teologia — e a molti autori — Jakobson, de Saussure, Derrida, Lévi-Strauss, Robbe-Grillet, Lacan, Deleuze, Foucault, Barthes, Kristeva, ma anche Rosenberg, Bloom, Steiner, Auerbach, de Man, Cage, Brown, Barth, McLuhan — , eppure lo stesso Hassan riconosce come questo non possa che essere una lista «momentanea», coerentemente con quel principio di indeterminatezza che è la stessa essenza della colonna del postmodernismo, nello schema riportato. Le differenze enucleate «mutano, differiscono, crollano; i concetti di una delle due colonne verticali non sono tutti equivalenti; inversioni ed eccezioni abbondano».13

La metodologia di Hassan, che per il suo ormai codificato carattere di interdisciplinareità ermeneutica fu, all’epoca, denominata «paracriticismo», si giovava inoltre di una serie di definizioni che tendevano a delineare un concetto per mezzo di coordinazioni di frasi indipendenti e «slegate» o per semplice accostamento semiotico: le cosiddette proposizioni paratattiche. Ne fanno parte le cinque preposizioni paratattiche sulla cultura del postmodernismo,14 celeberrime per aver fornito un ulteriore chiarimento della nozione di postmoderno:

  1. Il postmodernismo dipende dalla violenta transumanizzazione della Terra, in cui terrore e totalitarismo, frazioni e insiemi, povertà e potere, si richiamano a vicenda. La fine potrebbe essere […] l’inizio di una genuina planetarizzazione, una nuova era per l’Uno e i Molti […].
  2. Il postmodernismo deriva dall’estensione tecnologica della coscienza, un tipo di gnosi del XX secolo, cui contribuiscono il computer e tutti i nostri vari media (compreso quel medium mongoloide che chiamiamo televisone). Il risultato è una visione paradossale della coscienza come informazione e della storia come happening.
  3. Il postmodernismo si rivela, allo stesso tempo, nella dispersione dell’umano (cioè del linguaggio), nell’immanenza del discorso e della mente. […] Qui, forse, potremmo sperare di imbatterci in aspetti più propizi del nuovo gnosticismo.
  4. Il postmodernismo, quale modalità di cambiamento letterario, potrebbe distinguersi dalle avanguardie più vecchie (cubismo, futurismo, dadaismo, surrealismo, ecc.), come pure del modernismo. […].
  5. In quanto fenomeno artistico e filosofico, erotico e sociale, il postmodernismo si rivolge verso forme giocose, desiderative, disgiuntive, dislocate o indeterminate, verso un discorso di frammenti, un’ideologia della frattura, una volontà di disfacimento, un’invocazione dei silenzi […].

Ci si potrebbe ancora domandare: ma è all’opera in mezzo a noi qualche mutazione epistemica o sociale — coinvolgente arte e scienza, cultura alta e bassa, i principi del maschile e del femminile, frammenti e totalità di ogni tipo? Non ci resta che congetturare in continuazione: la scrittura invisibile, l’inchiostro del tempo, diventa leggibile come storia.15

Appare fin troppo evidente nel brano riportato, come una serie di temi propri della metodologia di Hassan — la planetarizzazione, la transumanizzazione, l’estensione tecnologica della coscienza, la centralità dei media, la storia come happening, l’immanenza del discorso, la distinzione dalle avanguardie storiche, il gioco, la disgiunzione, il dislocamento, l’autodisfacimento, la frammentazione, la mutazione epistemica-, saranno assorbiti non solo dal postmodernismo filosofico, ma anche dalle derivazioni più recenti di quest’ultimo, dalla sociologia dei media alla sociologia della globalizzazione e alla filosofia ciberpunk.

3. Il poststrutturalismo e il decostruzionismo

Più che un contributo teorico, si può affermare che il cosiddetto poststrutturalismo francese abbia rappresentato per la riflessione filosofica intorno al postmoderno, un vero e proprio armamentario di nozioni e di strumenti d’interpretazione. Temi come «de-centramento», «proliferazione», «dis-locamento», di importanza fondamentale per la comprensione dell’allontanamento del postmodernismo da concetti quali «centro», «struttura», «campo», sono infatti mutuati dal vasto e immaginifico serbatoio filosofico poststrutturalista.16 Come giustamente osserva Gaetano Chiurazzi, il poststrutturalismo può essere considerato la versione «postmoderna» dello strutturalismo:17 come, infatti, il postmoderno ha rappresentato una presa di coscienza dei limiti del moderno e il suo superamento, così il poststrutturalismo lo è stato dello strutturalismo.18 Esso, infatti, affermatosi in Francia alla metà degli anni Sessanta (e la cui fortuna in Europa risale al decennio successivo), deve il suo nome non all’autocomprensione del movimento, ma alla necessità di collocare temporalmente un gruppo di pensatori (come Gilles Deleuze, «il secondo» Michel Foucault, Jacques Derrida e il giovane Jean-François Lyotard) i cui ascendenti teorici e le cui conclusioni (nonché una certa affinità di linguaggio) partivano da un comune discostamento rispetto ai maestri strutturalisti degli anni Cinquanta.

Più che in termini di contrapposizione, è infatti possibile pensare al poststrutturalismo come a un «ultimo sviluppo, in senso in parte antagonistico, dello strutturalismo classico»19 pensato in termini di prosecuzione e correzione del medesimo e le cui componenti essenziali sono rintracciabili all’interno della cosiddetta «Nietzsche-Reinassance» dei primi anni Sessanta, ovvero all’innesto del pensiero di Nietzsche sulla metodologia della struttura e, in maniera più pregnante, la polemica nietzschiana contro la ricerca di un fondamento ultimo, il cui ruolo era, ancora allora, identificato dalla struttura stessa. I punti di riferimento non sono più dunque De Saussure, Jakobson, le scienze umane e la linguistica, ma il trinomio della cosiddetta «scuola del sospetto», ovvero Freud e l’energetica degli istinti, Marx e l’analisi economico-energetica della società, Nietzsche e l’antropologia vitalistica, le teorie del nichilismo «attivo» e della volontà di potenza, lo smascheramento del Soggetto cartesiano e idealistico. In quest’ottica, gli stilemi degli strutturalisti vengono spinti dai loro epigoni fino alle conseguenze più estreme: se per i primi la struttura (linguistica, sociale, letteraria, antropologica, economica) è la forma apollinea della rappresentazione e del senso, per i secondi essa perde il carattere di depositaria del «senso» e viene spinta fino ai limiti dell’irrappresentabile;20 se per i primi il senso delle cose viene scoperto attraverso le differenze, per i secondi queste vengono sovvertite e decostruite.

Proprio nella diversa concezione del concetto di differenza, probabilmente, è possibile mostrare la consistente eppure sottile distanza tra il sentire strutturalista e quello poststrutturalista. Da principio organizzatore, classificatore, tassonomico e quindi razionalizzante del reale, la differenza, da Deleuze riproposta col neologismo differance — talvolta tradotta in italiano con differenza — diventa principio sovversivo e destabilizzante, simbolo della negazione di qualsiasi centralizzazione e unità (fosse anche quella della struttura quale meta-principio di catalogazione e sistemazione). Ogni espressione è un tessuto di ripetizioni, rinvii, innesti che rendono impossibile il pervenimento a un significato ultimo e «trascendentale», il cui dominio sfugge, essendo disseminato e ibridato. Il poststrutturalismo propone, dunque, una realtà completamente desoggettivizzata in cui le differenze, libere e molteplici, non sono assoggettate a nessuna struttura o «centro» organizzatore, ma in continuo processo e divenire.

Anche il linguaggio, infine, è considerato, in quanto struttura, un elemento di neutralizzazione e canalizzazione delle energie; la rivoluzione e la liberazione del desiderio deve allora giocarsi anche sul piano linguistico: questa la tesi che costituisce l’essenza stessa del pensiero e dell’opera filosofica di Jacques Derrida, dai cui scritti ha preso vita una corrente, il decostruzionismo, che prende appunto il nome dalla pratica della «decostruzione», possibile traduzione del termine heideggeriano Destruktion,21 ovvero la doverosa distruzione della storia della metafisica e del sistema concettuale da cui, per secoli, è stata dominata. Come gli altri pensatori francesi della sua generazione, Derrida avversa il «logocentrismo della stuttura», ovvero la proiezione del Soggetto22 della metafisica classica che, nello strumento eristico per eccellenza degli strutturalisti, ha messo radici e detta legge. Il progetto filosofico di Derrida, quindi, si identifica in una programmatica decostruzione della «metafisica della presenza»23 che ha caratterizzato la tradizione filosofica occidentale. La metafisica europea, infatti, avrebbe considerato l’Essere come un ente attingibile e reso «presente» attraverso la parola — il logos- e la voce (da cui il termine logocentrismo), cui Derrida contrappone un Essere che, proprio in quanto definibile solo per differenza e irriducibile a ogni tipo di identità originaria, detiene, invece, gli attributi dell’assenza, di cui non si danno rappresentazioni, ma esclusivamente tracce. In quest’ottica, all’idea metafisica del primato della voce/logos sulla scrittura, ovvero del primato della presenza dell’Essere sull’assenza dell’Essere, viene sostituito il primato della scrittura sulla voce.24

Dall’idea della scrittura come fenomeno risultante dall’oralità, si passa all’idea secondo la quale è il linguaggio a essere anticipato dalla scrittura, poiché, come argomenta Derrida, si parla riferendosi a testi, ovvero a un nodo di tracce che rimandano a un’assenza: quella dell’autore, che nella rappresentazione del testo attua il proprio autodisfacimento. Ecco che in quest’opera di «rovesciamento» dei fondamenti del linguaggio, indicativa risulta la pregnanza della nozione derridiana di testualità, una concezione del testo scritto non come sistema definito e dato in maniera ultima, ma come circolarità aperta, continuamente ri-definibile e non riconducibile a un’unità, nella quale non è mai possibile pervenire a un’origine, né a un originario referente. Si ha sempre e solo a che fare con una catena di rinvii senza soluzione di continuità che viene a essere definita esclusivamente mediante il meccanismo della differance: per negazione, cioè, di ogni composizione unitaria, di ogni telos, di ogni razionalità onnicomprensiva, scardinando l’egemonia del «centro».

Appare chiaro, dunque, come l’eredità di questo approccio sia fondamentale per comprendere il tema della pluralità dei codici e dei linguaggi, centrale nella teoria postmoderna, nonché sia applicabile ante litteram alla situazione contemporanea della multimedialità, dell’ipertestualità e della contaminazione «in rete», che della teoria postmoderna sono l’esito ultimo e più complesso.

4. La società post-industriale

La nostra ipotesi di lavoro è che il sapere cambi di statuto nel momento in cui le società entrano nell’età detta postindustriale e le culture nell’età detta postmoderna. Questa rivoluzione è iniziata almeno a partire dalla fine degli anni Cinquanta, che in Europa segnano la fine della ricostruzione.25

Questo l’incipit del capitolo I (Il campo: le società informatizzate) de La condizione postmoderna. Com’è evidente, Lyotard parte programmaticamente dai testi di Alain Touraine26 e Daniel Bell27 (indicati in nota dall’autore all’interno del brano riportato), per costruire l’impianto dell’opera che lo renderà celebre nel dibattito filosofico degli anni Ottanta. In effetti le mutazioni strutturali connesse con la fine dell’età moderna intorno agli anni Settanta sono saldamente collegate e quasi ancillari alla messa in luce del ruolo decisivo svolto dal sapere teorico nell’innovazione sociale, e locuzioni quali «condizione postmoderna», «avvento postindustriale», «società dell’informazione», «società tecnotronica» e così via, appartengono a un’infosfera comune che ha come tratto d’unione l’idea che la società contemporanea sia caratterizzata dal ruolo istituzionale svolto dalla scienza, dai valori posti dal sapere, dall’accentuazione del carattere tecnico delle decisioni da prendere, dall’accresciuta partecipazione di nuove elites tecniche alla vita sociale.

Lyotard afferma che l’evoluzione verso la società postmoderna dell’informazione è iniziata alla fine degli anni Cinquanta con l’avvento e l’introduzione dei sistemi informatici. In realtà, anche se intuibili dalle menti più acute, la rivoluzione informatica non comportò cambiamenti significativi negli assetti dell’organizzazione sociale in cui andava ad inserirsi: con la sua centralizzazione, con il suo essere fondamentalmente computazionale e gestionale, l’informatica del mainframe rappresentava sicuramente un’innovazione tecnologica importantissima ma non una vera «anomalia» tale da modificare assetti e paradigmi sociali; era uno strumento tecnico al servizio, almeno inizialmente, dei paradigmi dominanti (basati, essenzialmente, sul principio del controllo verticale) della società industriale che stava uscendo «trionfalmente» dalle rovine del suo secondo conflitto mondiale. Già dalla fine degli anni Sessanta, la configurazione geopolitica che legittimava, in nuce, le nozioni di società dell’informazione o di società globale si trovava esplicitata nell’analisi delle conseguenze internazionali della convergenza tra informatica e telecomunicazioni di Zbigniew Brzezinski, ricercatore sociale e storico dei problemi del comunismo, divenuto poi consigliere per la sicurezza nazionale del presidente americano James Carter.

La tesi centrale del suo lavoro più fortunato, Between two Ages (Tra due età),28 è che, grazie al dominio delle reti mondiali, gli Stati uniti sono diventati la prima società globale della storia, quella in cui la comunicazione è ai massimi livelli; il modello di “società globale” da essa rappresentato, prefigura il destino delle altre nazioni: i nuovi valori universali irradiati dall’America cattureranno inevitabilmente l’immaginazione dell’intera umanità e questo è stato possibile principalmente grazie al ruolo di testa assunto dalla «classe tecnica» statunitense. In ogni caso, Alain Touraine rimane il primo sociologo che usa l’aggettivo «postindustriale» in maniera sistematica: nel suo noto saggio del 1969,29 infatti, egli definisce la società postindustriale come un campo in cui giocano nuovi attori sociali che si collocano al di là del conflitto precedente tra operai e classe imprenditoriale; dopo il declino del movimento operaio il conflitto si è spostato dal mondo del lavoro al campo della cultura.

Di fatto, per Touraine, le nuove lotte e i nuovi movimenti di contestazione si dirigono contro quelle forme di dominazione che, estendendosi ben al di là della produzione materiale, toccano l’insieme della vita sociale a livello dei consumi, dell’informazione, dell’educazione. Tuttavia l’accezione di postindustriale che è rimasta in maniera più pervicace nell’immaginario sociologico contemporaneo è sicuramente quella — meno socio-politica e più socio-economica — di Daniel Bell.

Nel 1973, appena quattro anni dopo l’uscita del lavoro di Touraine in Francia, Daniel Bell, un ricercatore americano che si era interessato durante tutti gli anni Cinquanta quasi esclusivamente di sociologia dei movimenti politici e che nel 1960 aveva elaborato con La fine dell’ideologia30 una prospettiva teorica sulla messa in crisi delle ideologie politiche o «di partito» nelle società contemporanee, pubblicò The Coming of Post-Industrial Society31 (L’avvento della società postindustriale), in cui la sua precedente tesi della fine dell’ideologia si collega al concetto di un nuovo tipo di società industriali avanzate che sarebbero, appunto, scevre da incanalamenti ideologici e caratterizzate da una radicale trasformazione dei modi di produzione.

Nel 1956, per la prima volta in un paese del mondo — gli Stati Uniti — i colletti bianchi (impiegati, professionisti, tecnici) superarono, per numero, i colletti blu (operai); Bell individuò in quella data l’inizio simbolico della società post-industriale, evento storico paragonabile a quello che, nell’Inghilterra di cento anni prima, aveva segnato il sorpasso dei lavoratori industriali sui contadini.

L’ordine post-industriale si contraddistingue per una crescita del settore dei servizi a discapito dell’occupazione nel settore della produzione di beni materiali; gli operai nelle fabbriche e in officina e, già da prima, quelli agricoli, non rappresentano più la categoria paradigmatica di lavoratori: il numero degli impiegati (di ufficio o liberi professionisti) ha superato quello dei lavoratori manuali e in particolare si richiedono sempre più competenze tecniche e professionali; chi svolge lavori impiegatizi di elevato livello è specializzato nella produzione di oggetti d’informazione e di sapere; la produzione ed il controllo di quello che Bell chiama «sapere codificato» (l’informazione coordinata e sistematica) rappresenta la principale risorsa strategica da cui dipende la moderna società e coloro che sono impiegati nella sua produzione e diffusione acquistano sempre più potere e si sostituiscono ai vecchi gruppi sociali dominanti (industriali e imprenditori). Nell’ambito della società post-industriale si ha un indebolimento della «disciplina», caratteristica della società industriale: gli individui sono ora più liberi di intraprendere condotte innovative sia nel campo lavorativo che nella vita privata. Detto coi termini dell’autore, questo nuovo assetto si caratterizzerebbe attraverso cinque «dimensioni»:

  1. settore economico: il passaggio da un’economia fondata sulla produzione di beni a un’economia di servizio;
  2. struttura occupazionale: la preminenza della classe professionale e tecnica;
  3. principio assiale: la centralità della conoscenza teorica come fonte di innovazione e di formulazione delle scelte politiche della società;
  4. orientamento futuro: il controllo della tecnologia e la valutazione tecnologica;
  5. processi decisori: la creazione di una nuova «tecnologia intellettuale».32

Come indica il sottotitolo del libro, A Venture of Social Forecasting (Un tentativo di previsione sociale), Bell formula una serie di pronostici, e costruisce, estrapolando alcune tendenze (trends) strutturali osservate negli Stati uniti, una società-tipo ideale, caratterizzata dall’ascesa di nuove élites (il cui potere risiederebbe nella nuova «tecnologia intellettuale» concepita in funzione dei processi decisionali) e dalla preminenza della «comunità scientifica», una «comunità carismatica», universalista e disinteressata, «senza ideologia». Una società gerarchizzata orizzontalmente e governata da uno stato sociale accentratore e pianificatore del cambiamento,33 una società allergica all’idea di rete e al tema della «democrazia partecipativa». In questa società dove l’economia si sposta verso i servizi tecnici e professionali, la crescita è lineare ed esponenziale.

Nel 1995, per la prima volta al mondo, sempre negli Stati Uniti, si sono venduti più computer che televisori34 e sono stati scambiati più messaggi tramite Internet che tramite le poste: ormai, infatti, il 40% delle famiglie americane ha un computer, il 25% ha due computer e per dieci anni consecutivi gli abbonamenti a Internet sono aumentati del 5% ogni anno.35 Nel settore dell’informatica il cambiamento è così veloce che l’80% del fatturato attuale deriva da prodotti che due anni fa neppure esistevano.36 Il suo business articolato nel settore dell’informatica vera e propria, dei comunicatori e della commutazione, rappresenta ormai il 6% dell’intera economia mondiale. La presenza di un computer in ogni ufficio e in ogni casa ha agevolato un atteggiamento radicalmente nuovo verso le categorie ancestrali del tempo e dello spazio.


  1. G. Patella, Sul postmoderno. Per un postmoderno della resistenza Studium, Roma, 1990, p. 7. ↩︎

  2. A questo proposito è interessante la proposta di Umberto Eco, secondo il quale il postmoderno non è una tendenza circoscrivibile cronologicamente, ma una categoria spirituale: «ogni epoca ha il proprio postmoderno, così come ogni epoca avrebbe il proprio manierismo […] La risposta postmoderna al moderno consiste nel riconoscere che il passato, visto che non può essere distrutto, perché la sua distruzione porta al silenzio, deve essere rivisitato: con ironia, in modo non innocente.» (Postilla a Il nome della rosa, Bompiani, Milano 1984). ↩︎

  3. M. Köhler, «Postmodernismus»: Ein Begriffgeschichtlicher Überblik, in «Amerikastudien/American Studies», n. 22, 1977, pp. 8-18; trad. it. «Postmodernismo»: un panorama storico-concettuale, in AA. VV., Postmoderno e letteratura. Percorsi e visioni della critica in America, Bompiani, Milano 1984, pp. 109-122. ↩︎

  4. Inteso, in questa accezione, semplicemente come Weltanschauung complessiva dei movimenti d’avanguardia dell’Ottocento e inizio Novecento. ↩︎

  5. Nasce negli USA, in questi anni, la tendenza a sfidare in nome del pop l’elitismo dell’arte moderna: l’anello di congiunzione tra le avanguardie e i prodromi della pop-art (vera alter-ego del postmodernismo nelle arti figurative) è costituito da Marcel Duchamp e dalla sua estetica del ready-made, secondo la quale un oggetto di uso quotidiano, firmato dall’artista costituisce un’opera d’arte che diviene oggetto di scambio, perdendo il valore auratico originale. La famosa massima «usare un Rembrandt come asse da stiro» è la sintesi di questa dissacrante estetica iconoclasta che vedrà nella pratica della serializzazione di Andy Warhol (il più rappresentativo e innovativo esponente della pop-art) l’esito più maturo della particolarissima «morte dell’arte» di matrice postmoderna (cfr. R. Barilli, L’arte contemporanea. Da Cézanne alle ultime tendenze, Feltrinelli, Milano 1988, pp. 300-310). ↩︎

  6. Intorno agli anni Sessanta, Hassan e altri studiosi statunitensi (Fiedler, Kristeva) presero ad applicare categorie estetico-teoriche tipiche del post-strutturalismo francese e della Nietzsche-Reinassance europea (come le nozioni di de-costruzione, écriture, soggetto in processo, differance, piacere del testo) alle opere di autori americani, insistendo sulla perdita del «senso umanistico» e pseudo-ideologico che aveva caratterizzato la Beat Generation e la produzione letteraria precedente (cfr. AA. VV., Postmoderno e letteratura, op. cit.). ↩︎

  7. Per quanto riguarda l’architettura è possibile fissare al 1972 la data simbolica di passaggio al postmodernismo, anno in cui il complesso di Pruitt-Igoe di Saint Louis — una realizzazione di quella «macchina per abitare» teorizzata da Le Corbusier — venne demolito in quanto ritenuto ambiente inabitabile anche per le persone di basso reddito che vi vivevano. Gli architetti iniziarono a pensare che bisognasse costruire non più per l’Uomo, ma per la gente, per gli uomini concreti, tenendo presenti le loro condizioni effettive di vita e le loro esigenze. Potremmo sintetizzare così questo passaggio: da un tipo di prospettiva che voleva cogliere sì le differenze, le singolarità, ma sempre inscrivendole in una realtà sottostante, sebbene complessa e multiforme, si passò con il postmodernismo a spostare l’accento solo sulle singolarità, sulle differenze, sulla coesistenza e collisione di realtà radicalmente diverse e multiformi. Il postmodernismo rifiutò qualsiasi riferimento ad una realtà sottostante e unificatrice, ritenendo fondamentale solo l’attenzione per ciò che registrava ed evidenziava il senso di frammentazione, di caos, di singolarità, di discontinuità (cfr. D. Harvey, The Condition of Posmodernity, Basil Blackwell, 1990; trad. it. La crisi della modernità, Il Saggiatore, Milano, 1993.) ↩︎

  8. È evidente quanto nella transizione dal rock colto al punk e alla new wave e alla conseguente carnevalizzazione e performatività dei gruppi musicali anni ’70 e ’80, sia risultata pregnante la temperie culturale postmoderna (cfr. M. McLarhen, The Great Rock’n’Roll Swindle, Arcana Editrice, Milano 1982). ↩︎

  9. J.-F. Lyotard, La condition postmoderne, Minuit, Paris, 1979; trad. it. La condizione postmoderna, Feltrinelli, Milano 1980. ↩︎

  10. I. Hassan, The Dismberment of Orpheus. Toward a Postmodern Literature, The University of Milwaukee Press, Madison, 1971. ↩︎

  11. Definizione, peraltro, rifiutata da Hassan, che reputa «indefinibile» il clima culturale analizzato. ↩︎

  12. Cfr. I. Hassan, Pluralism in Postmodern Perspective, in Critical Inquiry, 12, n. 3, 1986. ↩︎

  13. Ibidem, p. 100. ↩︎

  14. Ibidem, p. 102. ↩︎

  15. Ibidem, p. 106. ↩︎

  16. Cfr. G. Fornero e F. Restaino, Nicola Abbagnano. Storia della Filosofia, vol. X, «La filosofia contemporanea», tomo IV, pp. 3-16. ↩︎

  17. Cfr. Chiurazzi, Il postmoderno, Bruno Mondadori, Milano 2002. ↩︎

  18. Orientamento teorico e metodologico risalente, con diramazioni successive, all’opera del linguista svizzero Ferdinand de Saussure, che considera la lingua come un insieme strutturato di elementi interagenti e interdipendenti; successivamente la definizione è stata adottata anche per indicare gli indirizzi di pensiero che hanno esteso alle scienze umane i principi dello strutturalismo linguistico, per cui i fenomeni culturali sono visti come insiemi organici tra i cui componenti vigono relazioni costanti e sistematiche: l’antropologia (con Claude Levi-Strauss), la critica letteraria (con Roland Barthes), la psicanalisi (con Jacques Lacan), l’esegesi marxista (con Louis Althusser), la filosofia della cultura (con Michel Foucault) e la neo-liguistica (con Roland Jakobson). Per una comprensione analitica del fenomeno cfr. G. FORNERO e F. RESTAINO, Nicola Abbagnano — Storia della Filosofia, volume decimo -la filosofia contemporanea-, tomo primo pagg. 314-483. ↩︎

  19. F. D’Agostini, Analitici e Continentali. Guida alla filosofia degli ultimi trent’anni, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1997, p. 405. ↩︎

  20. Lo spazio dell’irrappresentabile, per i poststrutturalisti corrisponde a quello «spazio di significazione» i cui motivi trainanti sono le forze pulsionali, il gioco, il desiderio, i «principii dinamici», ovvero tutti quelle strutture psico-energetiche (Deleuze) che alimentano le forze di produzione (culturale, artistica, economica), normalmente inibite e imprigionate dai vari tipi di «struttura» (nuova traduzione «scientistica» di concetti quali «Dio», «Soggetto», «Stato», «Ideologia»). ↩︎

  21. M. Heidegger, Sein und Zeit, Niemeyer, Tübingen 1927. ↩︎

  22. Inteso come «fodamento» che soggiace a ogni fede metafisica tradizionalmente acquisita. Per una definizione analitica del termine, cfr. la voce «soggetto» dell’Enciclopedia Garzanti di Filosofia, ed. 1993. ↩︎

  23. Cfr. N. Abbagnano, G. Fornero, Filosofi e filosofie nella storia, Paravia, Torino 1990, vol. III, p. 611. ↩︎

  24. Cfr. G. Deleuze, La scrittura e la differenza (1967), trad. it. Einaudi, Torino, 1991. ↩︎

  25. J.-F. Lyotard, La Condition Postmoderne, Minuit, Paris, 1979; trad. it. La condizione postmoderna, Feltrinelli, Milano, 1980, p. 9. ↩︎

  26. A. Touraine, La società post-industriale (1969), Il Mulino, Bologna 1970. ↩︎

  27. D. Bell, The coming of post-industrial society. A Venture of Social Forecasting, Basic Books, New York 1973. ↩︎

  28. Z. Brzezinski, Between Two Ages, The Viking Press, New York 1970. ↩︎

  29. A. Touraine, op. cit. ↩︎

  30. D. Bell, The End of Ideology, Glencoe, III., Free Press, 1960. ↩︎

  31. D. Bell, 1973. ↩︎

  32. D. Bell, op. cit., p. 161. ↩︎

  33. Da qui l’insistenza sul ruolo dei metodi di «monitoring» e di «assessment» delle mutazioni tecnologiche. ↩︎

  34. Dati ricavati da http://www.census.gov/epcd/www/econ97.html↩︎

  35. Ibidem. ↩︎

  36. Ibidem. ↩︎