Levinas: esempio ed eredità

«Aveva lo scintillio tenace e lontano di una stella»: è sempre così che ho percepito Emmanuel Levinas. Un personaggio estremamente riservato, molto modesto, assente dai giornali a differenza dei suoi contemporanei, Sartre e Aron, e allo stesso tempo un uomo molto forte, in ragione della necessità del pensiero che lo abitava. E in definitiva, se si considera ciò che ne è stato dei due precedenti, Sartre, la cui opera filosofica è quasi del tutto bandita dall’università ed il cui teatro datato e dimenticato, e Aron, che persiste solamente come cronista politico, è Levinas che s’impone come il filosofo francese del XX secolo: il solo ad aver elaborato un’opera, un pensiero personale dopo Bergson.

1. Giovinezza in Yiddishland

Levinas francese? Certamente, ha tenuto ad essere naturalizzato nel 1931. Era fiero di indossare l’uniforme durante la seconda guerra mondiale, fiero del suo libretto militare che mostrava ancora a suo figlio molto tempo dopo. Ma, intellettualmente, ciò che ha plasmato il suo pensiero e motivato la sua principale confidenza biografica, è il fatto che egli sia nato russo ed ebreo a Kovno [Kaunas] nel 1906, in un paese dove respirava l’antisemitismo come l’ossigeno, ma la cui letteratura gli ispirò le sue prime interrogazioni metafisiche. In effetti agli inizi del secolo scorso la Lituania è ancora inglobata nell’impero dei Romanov, benché ai suoi margini: lì dove si discriminano i non ortodossi, dove gli Ebrei sono esclusi dall’insegnamento, dalla vita civile come regola generale, disprezzati finanche nella letteratura, visto che perfino il buon Tolstoj diffida di loro! (Si pensi al fratello di Anna Karenina, mal visto perché «fa affari con gli Ebrei»). Poco importa, perché gli abitanti di questo yiddishland approfittano di tale ostracismo per fondare una cultura vivace e ricca. Sin dal XVIII secolo, essa conferirà a Vilna, nelle parole di Napoleone, la reputazione di Gerusalemme del Nord.

Hanno le loro scuole, i loro licei, i loro scrittori, i loro editori, i loro giornali, le loro lingue (russo, yiddish, ebraico), le loro convinzioni ed i loro impegni. Theodor Herzl venne a predicarvi il sionismo, il ritorno nella terra promessa; ma Vilna fu anche sede della prima organizzazione marxista, il Bund, dove Lenin fece apprendistato. I Levinas appaiono come piccoli borghesi. Il padre ha una libreria/cartoleria. I genitori parlano in russo (e non in yiddish) ai figli. Trascorrono le vacanze in campagna. Una zia possiede una biblioteca di prestito. In questo modo Levinas scoprirà non solo la letteratura russa ma anche quella mondiale, Goethe, Shakespeare, Victor Hugo, Dante, etc. A quell’epoca, ricorda, i bambini non giocavano: leggevano o studiavano. A maggior ragione a casa, dai Levinas, si praticava quell’ebraismo razionalista che valse ai lituani il soprannome, dato loro del poeta ebreo tedesco Heinrich Heine, di “atleti della dialettica”. In poco tempo, sotto l’autorità e nella tradizione del famoso Gaon di Vilna, si era sviluppato un approccio scientifico alla Scrittura che si cercava di comprendere partendo dalla matematica, dalle scienze naturali, dalla conoscenza oggettiva, piuttosto che partendo dai sentimenti, dall’intuizione o dal cuore, così come veniva praticato intorno a Baal Shem Tov, fondatore del giudaismo mistico e sentimentale dei Chassidim polacchi. Gli ebrei lituani (i Litvaks) sono dei Mitnagdim, delle persone che rifiutano sia il sistema di Mendelssohn (si è ebrei a casa propria e tedeschi in pubblico), sia il chassidismo con la sua pretesa di un accesso immediato alla trascendenza. L’ebraismo è lo studio e sempre sarà così per Levinas, sia perché suo padre gli procura, come ai suoi due fratelli, un professore privato per l’insegnamento dell’Antico Testamento (quando la famiglia deve trasferirsi in Ucraina durante la prima guerra mondiale — gli ebrei, nemici religiosi, diventavano, con il bolscevismo, nemici di classe — la prima preoccupazione del padre di Levinas, ad ogni tappa dell’esodo, è quella di trovare un professore per i suoi figli), sia perché Levinas adulto, dopo la seconda guerra mondiale, si pone sotto la ferula dello stravagante e onnisciente maestro Chouchani, che gli insegnerà a riconoscere il Talmud come «un libro dove tutto si rinnova», e forse grazie al quale noi abbiamo quelle magnifiche e fondamentali lezioni talmudiche che Levinas pronunciava ogni anno alla fine del Convegno degli intellettuali ebrei di lingua francese.

Questo rigore razionalista è temperato da un altro maestro lituano, Rabbi Chaim di Volozin, l’autore de L’anima della vita, (di cui Levinas redigerà la prefazione per la traduzione francese), più aperto, anche se con una certa riserva, alla Cabala e che, nella sua accademia talmudica, insegnò la conciliazione delle tendenze razionaliste e mistiche.

Si potrebbe dire che Levinas acquisisca nel suo paese d’origine, la Russia, un’interrogazione ed un metodo. L’interrogazione è di due tipi. Innanzitutto d’ordine filosofico. È ciò che Levinas chiama “esperienze pre-filosofiche”, tratte dal romanzo russo, ad esempio, sul senso della vita ma anche sull’esigenza morale. Così dalla Tatiana dell’Eugenio Onieghin di Puskin, che Levinas citava ancora a più di 80 anni: «Io vi amo ancora, ma ho dato la mia parola ad un altro». La giovane donna mette il suo onore prima del suo amore. Levinas trova anche, questa volta in Dostoevskij, ciò che diventerà l’emblema ripetuto del suo pensiero: «Colpevoli, noi siamo tutti quanti colpevoli di tutto al cospetto di tutti, ed io più degli altri». Questa formula iperbolica è tratta, come sapete, da I Fratelli Karamazov, dove compare a più riprese. Essa è portatrice, come scoprirete, della specificità della relazione etica secondo Levinas. Tornerò su questo.

L’altra interrogazione proviene dal confronto con la trascendenza, dalla lettura comprensiva delle Sante Scritture, dell’Antico testamento. Quando constatate fino a che punto il tema della religione, del rapporto con Dio, è presente in Dostoevskij, voi vedete in particolare ciò che esso può suscitare nella riflessione di un personaggio la cui coscienza è già fortemente sollecitata dal suo ambiente.

Per quel che riguarda il confronto e la risonanza dei testi biblici o rabbinici, e più specificatamente il Talmud (che Levinas affronterà più tardi), questi vengono assunti come documenti che vanno anzitutto ben conosciuti, la cui comprensione, ottenuta con il metodo della dialettica, non parte dall’emozione personale ed empatica; di modo che leggere, studiare la Bibbia o il Talmud, sia entrare con questi libri in quello che, per riprendere i termini di Blanchot, si potrebbe definire “l’infinito intrattenimento”, con ciò che questo comporta come responsabilità da parte di ciascuno. Non ci limitiamo ad obbedire alle Scritture. Ci tocca capire, scrutare, comprendere, perfino applicare — ma questa è già un’altra questione. Levinas più tardi sottolineerà la forma interrogativa della celebre frase di Caino: «Sono forse io il guardiano di mio fratello? ».

Vorrei che teneste bene in mente questo approccio speculativo alle Scritture, che vi mette sulla via molto speciale dell’etica levinasiana. Sarebbe un controsenso farne un percorso spontaneo, proveniente da un cuore compassionevole o generato da una lezione di tipo giovanneo, del tipo «figli amatevi». Arrivare a ciò che Levinas chiama “la saggezza dell’amore” nasce, come testimoniato dalla costruzione invertita della formula (noi diciamo abitualmente che la filosofia è amore della saggezza), da un percorso lungo e sofisticato, non privo di humour e di illusione antropologica. In una delle sue inversioni abituali (in questo caso il Gorgia di Platone), Levinas dirà che «nessuno fa del bene volontariamente».

Fin dall’infanzia, dunque, Levinas è trascinato verso una virtuosità intellettuale che ci deve mettere in guardia dall’idea di prenderlo alla lettera. Ed è questo giovane, nutrito di pathos esistenzialista russo e di razionalismo ebreo, che arriva a Strasburgo nel 1923.

2. Strasburgo 1923-1929

Legge e parla il russo e il tedesco. Sul luogo impara, da solo e nell’arco di un anno, il francese e il latino (vi ricordo che, all’epoca, si leggeva Cartesio in latino, ed è spesso in questa lingua che Levinas lo citerà). Nel 1924 si iscrive all’Istituto di filosofia. All’università incontra l’amico di tutta una vita, Maurice Blanchot, con cui condivide un’alta conoscenza della letteratura, un’alta esigenza filosofica, un’alta idea della lingua francese, elaborata, precisa, preziosa, che farà di Levinas (direi assieme a Deleuze) uno stilista della filosofia francese, e l’eleganza dei bastoni col pomo d’argento (non penso che Levinas ne abbia conosciuto la portata ideologica, ma era il segno d’appartenenza all’Action française nella quale Blanchot militò a lungo, così come il loro comune professore, Henri Carteron). È a Strasburgo che Levinas conosce le sue grandi folgorazioni filosofiche: Cartesio, Bergson. Grazie ad un teologo protestante (Jean Héring) che rintraccia da sé, scopre Husserl e la fenomenologia, e fin dalla pubblicazione nel 1927 scopre, o meglio gli viene indicato solennemente dal suo maestro, Essere e tempo di Heidegger (vi ricordo che Levinas è germanofono e che quei testi non gli danno alcun problema linguistico).

Prende rispettivamente da Cartesio l’eccesso del pensato sul pensiero, da Bergson la concezione interiorizzata del tempo che non è più «il fallimento dell’eternità», dice Levinas, ma «la presenza dell’infinito in noi» e, dalla fenomenologia, un certo modo di collocare l’umano nel cuore della riflessione. Sono tanti stimoli a perseguire un pensiero dell’evasione, — titolo del suo primo testo filosofico -, della fuga dalla totalità politica — che si tratti dell’impero russo prima, del totalitarismo poi, bolscevico e nazionalsocialista -, fuori dalla totalità filosofica — hegeliana ad esempio, ma anche heideggeriana -, che contempla l’esistenza umana a partire dalla sua fine, come nel caso del racconto di Tolstoj La morte di Ivan Illich, che il pensatore tedesco apprezzava particolarmente. Sostengo che Levinas abbia mantenuto, sin dal suo ingresso in filosofia, la distanza dal pensiero heideggeriano: non ha cambiato bandiera dopo la seconda guerra mondiale. Conosceva già dagli anni Trenta, come ha affermato nel 1988, le inclinazioni politiche del suo vecchio professore e, anche se le condanna, tuttavia non rinnega nulla di quello che il suo pensiero, ricevuto direttamente alla fonte, ha potuto avere di stimolante per lui.

In effetti, dopo la laurea, Levinas intraprende la tesi La teoria dell’intuizione nella fenomenologia di Husserl. Va a studiare con quest’ultimo a Friburgo in Brisgovia. Seguirà ugualmente i corsi di Heidegger. Nel 1929 (dal 17 marzo al 6 aprile), partecipa ai famosi incontri di Davos, i secondi. In effetti, nello spirito di Locarno (città svizzera dove nel 1928 si sono tenute le conferenze chiamate “della pace”) con il ritorno della pace in Europa, sono invitati a Davos, ai piedi delle montagne, gli intellettuali europei, i maestri che parlano e i migliori allievi che ascoltano. Fra gli allievi tedeschi c’è Eugen Fink, di cui abbiamo tutti utilizzato la propedeutica fenomenologica. Fra i francesi c’è Jean Cavaillès (futuro resistente, assassinato dai nazisti) ed «uno studente lituano», Levinas. Gli oratori francesi sono, per non citare che i più conosciuti, Henri Lichtenberger e Léon Brunschvicg. I tedeschi si chiamano Ernst Cassirer e Martin Heidegger. La controversia avrà luogo fra questi ultimi due a proposito, in un certo qual modo, della vecchia e della nuova filosofia.

Levinas si distingue fra i suoi colleghi per il fatto che conosce già il nuovo pensiero tedesco, e lo spiega loro. Nel momento del bilancio di fine soggiorno, con la sua folta capigliatura nera imbiancata dal talco, si farà beffe della vecchia “Humboldt Kultur” rappresentata da Cassirer. Si pronuncerà in favore di Heidegger, che ha sì trattato anch’egli dell’essere finito dell’uomo ma proclamando, come riferisce Jean Cavaillès, «la distruzione dei fondamenti della metafisica occidentale, ovvero l’intelligenza, il logos e la ragione». Questa volta Levinas ha scelto di dimenticare la Germania kantiana ed il suo approccio storico e razionalista della filosofia. La celebrerà quindici anni più tardi, con un cane, Bobby, il solo essere vivente che lo saluta amichevolmente, che riconosce in lui, soldato ebreo prigioniero, una umanità che gli altri uomini gli negavano…

3. Fino alla seconda guerra mondiale

Levinas è uno studioso brillante. La sua tesi su Husserl è pubblicata nel 1930. Tuttavia non sostiene i concorsi per l’insegnamento che gli avrebbero permesso di intraprendere una carriera professorale alla francese (Ricœur, quando lo accoglierà a Nanterre, rimprovererà ancora all’autore di Totalité et infini di non essere né professore aggregato né diplomato della Scuola Normale Superiore).

Levinas va ad abitare a Parigi. Sposa la sua vicina di pianerottolo a Kovno, Raïssa, una pianista, allieva di Lazare Lévy (come parlare al giorno d’oggi di Pollini) ed entra nelle opere scolastiche dell’Alleanza israelita universale. Ci resterà per la quasi totalità della sua vita professionale, prima come sorvegliante, poi finalmente come direttore della Scuola Normale Israelita Orientale, l’ENIO.

In questo edificio viene creato un pensionato per gli istitutori che tornano in patria per istruire le comunità ebraiche del perimetro mediterraneo, al fine di strapparli alla loro miseria. Per finire, le scuole ebraiche del mediterraneo avranno una tale fama che le popolazioni musulmane dominanti e notoriamente antisemite vi iscriveranno i loro figli.

Levinas resta filosoficamente aggiornato, pubblicando regolarmente degli articoli sulla fenomenologia tedesca, che egli ha introdotto in Francia, come Sartre riconoscerà di fronte a Simone de Beauvoir (che ne parla nelle sue memorie). Frequenta Léon Brunschvicg e Gabriel Marcel. Il primo ha più o meno suggerito il modello di Bloch nella Recherche du temps perdu di Proust. Appartiene all’alta borghesia ebraica ed all’alta borghesia in genere. Sua moglie sarà ministro dell’educazione nel governo del Fronte Popolare di Léon Blum. È filosoficamente garante di una filosofia rigorosa, autore di un libro sulla storia del pensiero europeo, Les étapes de la pensée mathématique. Nonostante l’ammirazione e l’affetto che gli porta (conserva infatti la sua foto nella sua biblioteca), Levinas dirà di lui che «la matematica sostituiva la sua vita interiore». Gabriel Marcel è più espansivo. Presto professore aggregato è autore di opere teatrali; tiene a casa sua una sorta di salotto che permette di perseguire una riflessione filosofica non accademica, di cui Levinas sarà uno dei frequentatori più assidui (senza che nessuno si ricordi di lui). Si lancia un’idea ed ognuno, nell’uditorio, ne discute a suo modo. Il terzo mentore filosofico parigino di Levinas è l’inestimabile Jean Wahl, “tête d’oiseau” [testa di uccello], di una curiosità filosofica incomparabile. Le stanze del suo appartamento sono delimitate da muraglie di libri. Egli è uno dei primi ad essersi interessato alla filosofia oxfordiana, detta analitica. Nella sua rivista «Deucalion» accoglierà uno dei primi articoli di Levinas su l’“il y a”, preludio a De l’existant à l’existence, pubblicato al suo ritorno dalla seconda guerra mondiale. È ancora lui che spingerà un Levinas decisamente molto riservato a presentare Totalité et infini come tesi di stato e ad entrare nell’università francese a cinquant’anni passati.

Ho chiesto a Levinas perché, nonostante la sua tesi magistrale (tesi di terzo ciclo), non avesse mai iniziato la carriera universitaria in Francia. Non mi ha mai risposto. Ricœur mi ha spiegato che, all’epoca, la sua poca dimestichezza col francese gli impediva di superare il concorso per diventare professore aggregato. Non di meno prosegue con la sua opera filosofica, le sue pubblicazioni, Martin Heidegger et l’ontologie (1932), Quelques réflexions sur la philosophie de l’hitlérisme (1934), De l’évasion (1935), L’œuvre d’Edmund Husserl (1940). Tiene in uniforme una conferenza su Heidegger alla Sorbona e parte a fare «la strana guerra». Sua moglie e la loro figlia maggiore, Simone, sono per un po’ ospitate da Blanchot, poi, di nascondiglio in nascondiglio, arrivano in un convento normanno dove accoglieranno con gioia la notizia dello sbarco nel 1944. La madre di Raïssa, che viveva con loro, andò a dichiarare di essere ebrea al commissariato, obbedendo alle leggi sugli Ebrei durante l’occupazione. Non è mai più tornata. La famiglia rimasta in Lituania è decimata. Fatto prigioniero, protetto dagli accordi di Ginevra, Levinas è inviato al nord della Germania in un campo riservato ai soldati ebrei, un campo di lavoro. Vi svolgerà dei lavori forestali. Gli resterà l’abitudine di conservare tutti i pezzetti di carta su cui si possa ancora scrivere. Secondo sua figlia, Simone Hansel, ci sarebbero fra i suoi inediti, dei quaderni di prigionia.1

4. Ritorno dalla guerra, ingresso nell’Università

Senso di colpa del sopravvissuto… Sentimento di debito nei confronti della sua comunità… Fierezza di insegnante… Levinas, rientrato dalla prigionia, ritorna all’ENIO. Vi è chiamato da René Cassin, compagno della prima ora del generale de Gaulle a Londra, e redattore della dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. È lui che, più tardi, decorerà Levinas con la Legione d’onore. Egli avrà altri due figli, Andrée Eliane, scomparsa presto, alla quale è dedicato De l’existence à l’existant, e Michael, erede del talento musicale della famiglia materna.

Il filosofo diventa direttore di questa Scuola Normale, che si trasforma in liceo ordinario per la preparazione alla maturità. Sua moglie Raïssa si occupa dell’amministrazione. Non so se voi possiate immaginare questa esistenza di uno dei più grandi filosofi della storia, fra corsi, compiti amministrativi, ma anche con responsabilità di fronte alle più alte istanze dell’Alleanza israelita universale (i presidenti appartengono all’alta borghesia liberale, sono chirurghi, banchieri, politici, gente di potere) per le quali lui, Emmanuel Levinas, non è che un meccanismo fra gli altri. Deve fornire dei resoconti. Deve ricevere annualmente i capi dell’Alleanza, presentare la sua scuola, i suoi risultati. Ma questo lo turbava meno di quanto possa turbare me.

Levinas prosegue le proprie attività intellettuali. Partecipa al Collège de philosophie fondato e animato da Jean Wahl fra il 1946 ed il 1966. È un luogo extra-accademico dove si ascolta il giovane Deleuze, tutto vestito di nero, fare uno studio analitico della stupidità, ma anche Jeanne Hersch, Alexandre Koyré, Sartre stesso che riempie la sala. Per Jean Wahl, si tratta di un «centro di filosofia vivente», dove vuole far coabitare la filosofia classica, il bergsonismo, il marxismo, l’esistenzialismo e Whitehead (la filosofia della matematica). Levinas vi tiene le quattro conferenze che produrranno Le temps et l’autre. Parla ancora nel 1961 su “La signification”, nel 1963 su “La trace”. Il Collège è travolto dall’onda sessantottina, per proteggerlo dalla quale il suo animatore è troppo vecchio, troppo stanco, per di più senza successore.

Bisogna capire che era un ambiente non universitario, ma assolutamente serio; molti si sono sentiti offesi per non essere stati invitati. Non era un luogo di scambio spontaneo, di trasmissione di opinioni come nei “Cafés philo”, né di volgarizzazione della storia della filosofia per un pubblico interessato ma ignorante, come in certi ritrovi parigini di oggi. Bisognava non solo preparare una conferenza ma anche avere qualche cosa di inedito da dire, di innovativo. Wahl stesso, nel suo Traité de métaphysique, formulava una critica a Hegel per chiedere la riabilitazione dell’immanenza, ciò che Levinas saluta come una «critica della storia nella quale l’uomo si iscrive solo come concetto», e un ritorno all’uomo vivente, alla dialettica come dramma.

Il Collège di Wahl fa parte di quelle imprese di ricostruzione intellettuale (e forse civiche) europee nate al termine della seconda guerra mondiale, quando bisognava ravvivare la vita spirituale, suscitare, incoraggiare nuovi pensieri. Alcune imprese hanno da allora svelato le loro imbarazzanti motivazioni, come la “Fondazione europea della cultura”, emanazione di una CIA preoccupata per la spinta marxista e che reclutò i più grandi, talvolta i più naïfs (pensiamo a Bertrand Russell in Inghilterra, a Heinrich Böll in Germania, a Raymond Aron in Francia) per arginarla. Per alcuni si trattava di riunire dei pensatori attorno ad un tavolo, spesso ex combattenti di nazioni nemiche. Era andata così per il professore e nobiluomo Enrico Castelli, che istituì nel 1961 i Colloqui che portano il suo nome, riguardanti ogni volta una tematica di filosofia della religione, ai quali Levinas — sempre riservato, sempre accompagnato da sua moglie Raïssa — fu invitato regolarmente. È il professor Marco Maria Olivetti che proseguì il progetto di Castelli e noi oggi omaggiamo la sua memoria. A Roma si riunivano professori venuti dall’intera Europa. C’era anche un giapponese, il professor Imamichi, che si ritagliava regolarmente un franco successo durante le discussioni sull’Incarnazione ricordando che, nella sua religione, ci sono circa tremila divinità (immaginate la sovrappopolazione che sarebbe potuta risultare da questa incarnazione di gruppo). È durante uno di questi incontri che Levinas pronunciò la sua conferenza Du sacré au saint, passaggio dall’apprensione irrazionale del divino alla sua comprensione illuminata.

Questo progetto di ricostruzione intellettuale era ancora più necessario per la comunità ebraica dopo la Shoah. «È durante la guerra che Léon Algazi — un musicista — ebbe quell’idea di ricercare le scintille perdute o che rischiavano di perdersi, di offrire un aiuto morale, intellettuale e spirituale agli intellettuali ebrei che la Francia, l’Europa, aveva appena rigettato dal seno delle società intellettuali organizzate ed in essere».2 Il primo Colloquio degli intellettuali ebrei di lingua francese si tenne il 24 maggio 1957, riunendo persone che avevano in comune l’essere vivi, sopravvissuti: Vladimir Jankélévitch, l’editore Jérôme Lindon, Pierre Maxime Schuhl (il filosofo specialista di Platone), Emmanuel Levinas. Immaginatevi delle persone che escono dalle rovine di un terremoto: era un po’ il loro caso dopo la distruzione degli ebrei d’Europa. Jankélévitch è venuto ad ascoltare «quelli che parlano di cose veramente ebraiche», di una identità così indistruttibile come quella degli schiavi del Nabucco di Verdi, che si esprime nel “Va’ pensiero”. Per il secondo Colloquio Levinas scrive il suo omaggio a Franz Rosenzweig. È a partire dal terzo Colloquio che pronuncia la sua famosa Lezione talmudica, quella che fino al 1991 sancirà, insieme alla lezione biblica di Néher, la fine della conferenza, insegnando la sapienza ebraica ad uditori sempre più numerosi e più giovani e spesso assimilati. Per Levinas non si tratta di storia o restaurazione ma di «trovare una nuova energia spirituale nella rilettura dei testi».

Insomma persiste nel giudaismo lituano quell’approccio scientifico e dialettico che fa del Talmud un testo ancora contemporaneo, purché lo si sappia interpretare. Come diceva di lui Gershom Scholem, «è più Litvak di quanto voglia ammettere», in particolare in questo rifiuto della mistica e della cabala, di quelle grandi correnti della mistica ebraica che lui stesso, Scholem, aveva descritto e presentato nella sua opera di riepilogo del pensiero e della cultura ebraica. Scholem mirava così a fornire una definizione storica e culturale dell’ebraismo, a differenza dell’ identificazione sociale, economica e religiosa stabilita, di cui la Shoah aveva mostrato le funeste conseguenze.

Quanto a Levinas, non so se voi percepiate fino a che punto per lui essere un uomo, vivere, significasse essere ebreo. Non nel senso dell’osservanza di una legge, del rispetto di una credenza, dell’adesione a una religione. Quando partecipa ai Colloqui degli intellettuali ebrei non si tratta per lui solamente di ricostruire il mondo ed il pensiero ebraici. Non è un’impresa comunitaria o, come si direbbe oggi, “comunitarista”. È perché per lui la sapienza ebraica è una sapienza umana che riguarda tutti gli uomini, e che — direi — alimenta la sua impresa filosofica e, in particolare, un libro come Humanisme de l’autre homme, dal titolo eloquente. Questo titolo si capisce a partire dalla battuta con la quale, negli anni Settanta, Levinas ribatté, senza dare ragione a nessuno, a partigiani e avversari della morte del soggetto: «Io sono soggetto all’affezione di altri», diceva. Manteneva dunque il soggetto, ma nella passività: passione dell’ascolto dell’altro, passaggio dall’altro a me — vedete come si delinea la relazione etica in Levinas -, relazione dunque di debito, debito impagabile dirà lui, di una risposta, di una responsabilità infinita. Pensare all’uomo è pensare all’altro, rispondergli, rispondere di lui ed essergli riconoscenti per questa responsabilità.

Il padre di Levinas aveva l’abitudine di dire che la prima bassezza era quella di abiurare l’ebraismo. E l’ebraismo è rimasto veramente, nella vita e nel pensiero di Levinas, una sorta di spina dorsale che l’ha tenuto ugualmente lontano da quello che chiamava «i bei viali dell’assimilazione» e dall’alyah, il ritorno alla terra promessa, visto che per lui, secondo una di quelle formule che gli vengono durante i suoi rari dialoghi, i libri ci sostengono e preservano meglio dei territori e delle frontiere. Come voi sapete, o forse non sapete, Levinas aveva in Francia diversi editori. Jérôme Lindon, direttore di Les Éditions de Minuit, accoglieva specificamente ciò che Levinas chiamava i suoi “testi confessionali”, ovvero, in breve, le lezioni talmudiche pronunciate a conclusione del Colloquio degli intellettuali ebrei. Questo non significa che fosse “religioso” a casa o nell’oratorio dell’ENIO durante lo Shabbat, e filosofo il resto della settimana e in pubblico. Nel vivo di una discussione, durante un Colloquio degli intellettuali ebrei, diede una definizione filosofica dell’ebraismo come «comprensione dell’essere», come ciò che sembra molto filosofico, molto «ontologico». Allo stesso modo, la sua filosofia è ricca di pensiero ebraico. Tuttavia, quando gli si chiedeva se fosse un “greek-jew” sul modello di Joyce, rispondeva che, all’itinerario di Ulisse che rientrava ad Itaca, preferiva quello di Abramo che abbandonava il suo paese natale per seguire la stella nel cielo. La sua filosofia della responsabilità, della ricerca, del dialogo infinito, è una filosofia ebraica o, più esattamente, umanistica, che ci riguarda tutti: in quanto etica, pratica dei rapporti interumani, e anche in quanto epistemologia, poiché sapere tutto è qualcosa di soltanto temporaneo, costantemente rimesso in causa dall’evoluzione delle conoscenze. Sono tentata di dire che è proprio il pensiero ebraico, il dialogo infinito con i testi, il pensiero della responsabilità nei confronti dell’altro, ma anche quello nato dal desiderio di evasione suscitato da una condizione umiliata, marginalizzata, ciò che ha suggerito a Levinas la sua critica della totalità, totalità hegeliana della storia, totalità heideggeriana dell’esistenza, così come traspare nel suo opus magnum, Totalité et Infini, pubblicato nel 1961, di cui noi quest’anno celebriamo il cinquantenario.

5. Ingresso nell’Università

È Jean Wahl, ancora lui, che spinge Levinas a presentare come tesi di stato questo lavoro che ha pensato e redatto nel tempo libero che gli lasciava la sua funzione di direttore di liceo. Merleau-Ponty, interpellato come possibile membro della commissione, muore prima della discussione. Jankélévitch è lì, con la sua voce sottile, la sua elocuzione impressionista, il suo linguaggio luminoso: «Signor Jankélévitch, lei fa poesia, io faccio filosofia», finì per “lanciargli” Levinas. Senza lasciare la direzione dell’ENIO, viene ammesso immediatamente all’Università di Poitiers come insegnante di sociologia. Fra gli altri, sarà in loco il collega Roger Garaudy, a proposito del quale noterà placidamente che «cambiava molte religioni» (vi ricordo che Garaudy ha finito con l’essere musulmano dopo aver provato il buddismo ed il marxismo). Da lì la sua carriera andrà molto velocemente. È presto a Nanterre dove lo chiama Mikel Dufrenne, suo collega a Poitiers — A proposito di un controsenso: «Era il nostro Spinoza», dice il fenomenologo dell’esperienza estetica, ma ora Levinas, pensatore della trascendenza, non è affatto un partigiano della formula “Deus sive Natura”! A Nanterre Levinas incontra Paul Ricœur, dal 1967 al 1972. Finisce la sua carriera alla Sorbona nel 1979, fra colleghi che lo considerano più o meno un rabbino, e che gli daranno come successore un filosofo escluso dopo la guerra dall’insegnamento per fatti di collaborazionismo e di antisemitismo…

È Jacques Taminiaux a decidere la pubblicazione di Totalité et Infini nel 1961 presso la casa editrice “Martinus Nijhoff”. È Jacques Derrida ad aver largamente contribuito alla divulgazione ed al riconoscimento del libro in Violence et métaphysique, un articolo allo stesso tempo ammirativo e critico, che Levinas qualificherà «come assassinio sotto narcosi». Come mi disse una volta Alberto Moravia a proposito della critica in generale: «Poco importa che si parli bene o male dei libri, l’essenziale è che se ne parli». L’affetto ed il rispetto di Derrida per Levinas sono reali. Non impediscono la perspicacia speculativa. Derrida rileva in Levinas la persistenza, nonché la ripetizione, dell’interrogazione: come un’onda che torna instancabilmente sulla stessa roccia, lui dice. Si riferisce all’etica levinasiana e a questa costruzione non dialettica, diacronica — come dice Levinas — di un’alterità che gli sembrava colpevole, visto che per lui, Derrida, l’altro è sempre l’altro di uno stesso. Come se Levinas, nel pensiero del tempo con Bergson, come in quello dell’alterità, rifiutasse il soccorso dell’identità, della perseveranza nell’essere, l’immobilità dell’eternità, la certezza dell’interlocuzione riuscita, del Tu, fosse anche trascendente, al quale Martin Buber, per esempio, non poteva mancare di collegare il suo Io. Il pensiero di Levinas, come lo qualificò Blanchot, è un pensiero della “verità nomade”, pensiero sempre desto, mai soddisfatto, mosso dal desiderio, dalla traccia dell’altro, del totalmente altro, in me.

6. Il riconoscimento

Levinas riceverà in seguito un certo numero di premi internazionali, uno anche dalla Germania, che non andrà mai a ritirare in loco ma lì vicino, in ragione di un voto che aveva formulato alla fine della seconda guerra mondiale. Quando gli ho fatto notare che era comunque del denaro tedesco, mi ha risposto: «Ho fatto voto di non mettere più piede in Germania, non di non riceverne del denaro». Quando ne ho parlato a suo figlio, quest’ultimo mi ha detto che ci voleva molto denaro per pagare i suoi studi musicali. Levinas riceve una mezza dozzina di dottorati honoris causa, negli Stati Uniti, in Olanda etc. È anche l’invitato del papa filosofo Giovanni Paolo II, polacco e fenomenologo, già allievo di Roman Ingarden a Cracovia. Nella sua residenza estiva di Castel Gandolfo, dove l’Institut für die Wissenschaft vom Menschen di Vienna (sotto la guida di un polacco), finanziato in parte da Geoges Soros, organizza degli incontri annuali, Giovanni Paolo II si rallegra di essere seduto fra Levinas e Ricœur, fra l’ebreo ed il protestante, dai quali si aspetta profonde riflessioni sull’avvenire del mondo, in particolare nel momento della “liberazione” dell’Europa dell’Est.

Curiosamente, è da Israele che il riconoscimento sarà più tardivo. Mi è stato rimproverato di voler “cristianizzare” Levinas. Probabilmente perché ho ricordato il fatto che il primo riconoscimento gli era venuto dai teologi olandesi, dai filosofi della religione in maggioranza cristiani, e dal Papa stesso. Forse anche perché ho sottolineato un punto sul quale non ho mai ricevuto spiegazioni né da lui né dagli altri: il suo ripetuto comparare la Shoah con la Passione di Cristo. Ma non facevo altro che dire ciò che era successo, riportare ciò che era scritto. Penso che Levinas avesse letto il Nuovo Testamento (gli capita di menzionare Matteo 25 e di compararlo a Isaia 58) ,3 ma le sue parole abbastanza dure in Difficile liberté a proposito di Claudel mostrano chiaramente che non si situava affatto in una prospettiva giudaico-cristiana. Bisogna dire che Claudel era un partigiano convinto della visione paolina, secondo la quale la fine dei tempi (la redenzione) sarebbe giunta dopo la conversione degli Ebrei. Dunque il riconoscimento internazionale arriva a Levinas prima dai cristiani, tra cui il professor Peperzak, attualmente professore all’Università gesuita di Chicago (Loyola). Levinas si reca con emozione in Israele — il paese dove hanno parlato i profeti, diceva — a partire dal 1952, poi regolarmente. Ma sul posto, gli viene rimproverato in primo luogo di non essersi ricongiunto alla terra rifugio degli antenati. Si critica il suo ebraico storico, letterario, che ne fa come una lingua morta. Infine, gli viene rimproverata molto la sua appartenenza alla filosofia di tradizione tedesca, alla fenomenologia, a Husserl e Heidegger. Ai nostri giorni si studia Heidegger all’Università di Tel Aviv. È stato meno “apprezzato” subito dopo la guerra e solleva ancora delle polemiche a Gerusalemme. La tradizione filosofica dominante in Israele è anglosassone, analitica. Ed è per intercessione di uno dei suoi rappresentanti americani riconosciuto in Israele, Hillary Putnam, la cui moglie ebrea conosceva e apprezzava l’opera di Levinas, che quest’ultimo uscì da una sorta di purgatorio dove lo collocavano sia i filosofi “modernisti” che gli ebrei religiosi tradizionalisti. Successivamente ha beneficiato — oltre che delle proprie qualità — dell’energia in loco dei suoi nipoti, Joëlle e David Hansel, che hanno organizzato in diverse occasioni, a Gerusalemme, importanti Colloqui internazionali, tre, di cui l’ultimo per l’anno del centenario. Si occupano oggi, soprattutto Joëlle, della traduzione dell’opera di Levinas in ebraico. Quella di Totalité et Infini è stata pubblicata solo l’anno scorso.

Sicuramente Levinas non era indifferente a questo mancato riconoscimento. Ciò spiega forse il suo silenzio riguardo lo scacco subito all’Accademia di Scienze Morali e Politiche, quando i suoi eventuali “pari” gli preferirono un chiassoso domenicano cineasta che si vantava pubblicamente di aver sciolto i suoi voti. Quando evocai l’avventura davanti a lui, Levinas mi disse: «Ah! Ve ne hanno parlato». Lui non me ne aveva fatto cenno. Ciò l’aveva forse un po’ offeso. Ma l’accademia francese era ben riuscita a mettere da parte Paul Claudel. Molto tempo dopo, lo squisito Henri Gouhier, cartesiano, uomo di teatro, fine intellettuale, se ne indignava ancora, lui che si era augurato che Levinas succedesse a Raymond Aron.

Tuttavia, e la presenza continua di sua moglie lo testimonia, quello che conta per Levinas non è questo. Accetta, onora gli impegni, ma non li cerca. La società importante ai suoi occhi è altrove, fuori dalle aule universitarie, dalle sale dei Colloqui. Incontra, legge, rispetta. Se la sua salute lo permette si sposta, come per l’omaggio reso a Jean Wahl al Centro Nazionale di Lettere di Parigi una sera del 1992. Ma le sue esigenze umane oltrepassano le relazioni di convenienza o di gerarchia. Si augurava che la sua casa restasse un’autentica casa ebrea, aperta. E c’era sempre gente, ex alunni, membri della comunità, colleghi, giovani, vecchi, attorno al tavolo che ci accoglieva fin dall’ingresso, con o senza quel Cointreau indigesto con il quale si deliziava. Non c’era strategia di riconoscimento o di conquista in quest’accoglienza (soprattutto con il Cointreau), semplicemente la convinzione del dovere di ospitalità. Rendiamo omaggio alla signora Levinas, modello di eleganza fisica e morale, civica, calorosa, che negli ultimi anni affrontò con equanimità gli sbalzi di umore di suo marito.

7. L’esempio e l’eredità

Voi mi direte: l’umano al centro della filosofia, l’etica come filosofia prima, l’umanesimo dell’altro uomo… non siamo forse davanti ad uno sproloquio, benpensante per di più? Le esposizioni a venire vi convinceranno del tenore filosofico dell’opera di Levinas, delle sue invenzioni concettuali e della loro necessità. D’altronde, che cosa ha fatto Levinas stesso nella sua vita, nella sua esistenza, di conforme a queste convinzioni e precetti, se non aprire la porta alle persone e consacrarsi all’opera scolastica della sua comunità, e poi a quella del suo paese?

Mi sono a lungo posta questa domanda in altre occasioni. Ricorderò oggi solamente qualche situazione storica, certi avvenimenti nel corso dei quali si è reso manifesto quanto il pensiero levinasiano funzionasse. Rifiuto del sacro, questa comprensione, questa dissoluzione immediata della trascendenza nell’idolatria dell’essere o del suolo, rifiuto della totalità come comprensione, circoscrizione umana della vita, del tempo, del suolo, constatazione della passività, della secondarietà di ogni soggettività, che mette ognuno in un rapporto d’obbligo in relazione all’altro… in che cosa questo poté aiutare Levinas in una vita che lui stesso ha definito contenuta nel presentimento dell’orrore nazista e nella sopravvivenza successiva? Lo dice incessantemente in Totalité et Infini: si tratta di mettere la ragione al servizio della pace. Ma ciò non gli ha impedito di cedere alle sirene dell’heideggerismo, e ciò non l’ha protetto da un sionismo riconosciuto, che lo distanziava ad esempio da un Raymond Aron o da una Hannah Arendt.

L’ho già detto, Levinas non è mai salito su un barile all’uscita delle fabbriche per proclamare le sue convinzioni proletarie, non è mai stato editorialista, coscienza morale di un quotidiano. Non è mai stato intellettuale né “organico” (intellettuale del Vaticano come Jean Luc Marion), né “totale”, che ha un parere su tutto, come Sartre. Ma durante la seconda guerra mondiale, mentre quest’ultimo si sottraeva ai combattimenti proclamando che grazie alla forza del pensiero «noi non siamo mai stati così liberi come sotto l’Occupazione», Levinas si impegnava (con tutta la risonanza sartriana che questo termine possiede), si batteva, per poi trascorrere cinque anni in prigionia. Al ritorno, dedica la sua vita all’insegnamento, agli altri, ai giovani altri. Si attende la sua parola su qualche grande problema filosofico e politico: il caso di Heidegger, il conflitto israelo-palestinese. Sembra tacere perché non occupa le prime pagine delle gazzette. La sua lezione è altrove, nei suoi libri, nei suoi articoli, nel suo atteggiamento. Ad ogni modo, proprio in ragione del movimento della sua filosofia, non saprebbe erigersi a maestro, a guida di una collettività.

Quando venne alla ribalta la “questione Heidegger” nel 1988, con la scoperta della sua tessera di membro durevole del partito nazista, risponde che queste cose erano conosciute da prima della guerra. La critica che muove al filosofo tedesco non porta la data dell’anno 1933. Essa è implicita fin dalle sue prime intuizioni, spirituali e antitotalitarie. È sicuramente stato colui che ha introdotto la fenomenologia ed il pensiero heideggeriano in Francia, ma ne ha recepito solo quello che serviva alle proprie convinzioni umanistiche, esistenziali, che ho già detto risalivano alle sue letture russe, senza mai, ad esempio, cadere nell’irrazionalismo caro a certi heideggeriani. Nei suoi rapporti con Heidegger, Levinas reagisce da filosofo, al di là di ogni motivazione aneddotica (penso al libro di Emmanuel Faye) che, da una parte, ci farebbe vergognare, imbarazzati per aver amato questo pensatore, dall’altra ci condurrebbe a difenderlo ostinatamente con una certa indulgenza ostile a qualsiasi critica.

Si aspettava una sua parola anche a proposito del conflitto israelo-palestinese. Ciò che gli viene amaramente rimproverato lì è non aver adempiuto alla sua alyah. Tuttavia, ed è per lui un punto di attrito nei confronti di Aron e Arendt, si mostra di una fedeltà inflessibile al piccolo e giovane stato ebraico. Ma che dire allora, al momento dei massacri di Sabra e Chatila, al momento della morte di donne e bambini palestinesi sotto i colpi delle milizie cristiano-libanesi, sotto gli occhi dell’esercito israeliano impassibile? Come sempre la risposta sarà di principio: nessun suolo è così santo come la vita umana,4 e ciò vale sia per gli uni che per gli altri, tanto impegnati in questa diaspora, in questa dispersione che non conosce legame se non quello di un libro con l’altro, di una lettura con l’altra. Ed il dialogo infinito con i libri, con il Libro, si prolunga in dialogo con l’altro, questa certezza che una decisione, un accordo, non si prende se non si è almeno in due. Lo dirà durante il Colloquio degli intellettuali ebrei riguardante il problema palestinese, sottolineando che l’altro partito non era lì per esprimersi.

Va da sé, Levinas non ha tutte le risposte, e la sua filosofia si presta, come tutte, ad obiezioni, e al commento anche, come lo testimoniano i numerosi volumi dedicati al suo pensiero, ed in particolare gli atti dei Colloqui del centenario pubblicati presso Peeters e che riuniscono i testi dei levinasiani del mondo intero. Ma per cominciare, di questo personaggio noi possiamo recepire una lezione fondamentale, questa concezione di una soggettività attraversata dall’altro, che definisce l’essere o, più esattamente, che definisce l’umanità non più nella persistenza ma nell’ascolto.


  1. Ora pubblicati in: E. Levinas, Œuvres complètes, vol. I, a cura di J. L. Marion, Grasset-Imec, Paris 2009. ↩︎

  2. André Néher, nel suo discorso di benvenuto al settimo colloquio del 1965. ↩︎

  3. Si veda: E. Levinas, A l’heure des nations, Les Éditions de Minuit, Paris 1988, p. 190; tr. it., Nell’ora delle Nazioni, Jaca Book, Milano 2000, p. 190. ↩︎

  4. Cfr.: A. Finkielkraut, «Le risque du politique», in C. Chalier et M. Abensour, Cahier de l’Herne. Emmanuel Lévinas, l’Herne, Paris 1991, p. 268. ↩︎