Tra occultamento e rivelazione. La parola in P.A. Florenskij

Ogni mia parola è una rivelazione. — V.V. Rozanov

1. Introduzione

La filosofia del linguaggio è, assieme all’estetica, senz’altro uno degli ambiti attualmente più studiati e più conosciuti del pensiero di Pavel A. Florenskij.1 Spiegare un tale fatto non è difficile: da una parte, gli scritti in cui il filosofo e teologo russo riflette sul tema della parola e del linguaggio sono stati tra i primi che i curatori russi dell’opera florenskijana hanno raccolto in un unico volume e pubblicato in un’edizione critica;2 dall’altra parte bisogna dire che si tratta degli scritti in cui Florenskij è riuscito a elaborare in una maniera concisa e chiara le idee e le prospettive di fondo di una delle sue discipline preferite — la filosofia del linguaggio, appunto —, cosa che, purtroppo, non gli è stata possibile del tutto in diversi altri settori della sua ricerca scientifica, filosofica e teologica.3

Per quanto riguarda l’interesse del Nostro per il tema della parola e del linguaggio, esso è rinvenibile già nelle sue prime opere filosofiche, scritte nei primi anni della sua docenza all’Accademia Teologica di Mosca. Comunque sia, egli se ne occupa in modo particolarmente intenso in un secondo periodo della sua attività di ricerca e di studio — ma anche della sua vita —, da lui stesso chiamato l’«antropodicea».4 Nel 1922 pubblica, sulla rivista moscovita Feniks, La scienza come descrizione simbolica, primo di una serie di saggi dedicati al complesso rapporto tra pensiero e linguaggio, scritti in vista di un’opera colossale in più volumi — mai realizzata — che doveva portare il titolo generale di Agli spartiacque del pensiero. Lineamenti di metafisica concreta. Si tratta dei saggi: La dialettica, Le antinomie del linguaggio, Il termine, La struttura della parola, La natura magica della parola, La venerazione del nome come presupposto filosofico, Sul nome di Dio, la cui stesura definitiva veniva completata già negli anni 1920-1922. A questi si aggiunge lo scritto I nomi (completato nel 1923-1926), in cui confluiscono le ricerche iniziate già nel 1907, e alcune lezioni de La filosofia del culto (un altro progetto che non ebbe il seguito), in particolare La liturgia della parola (La preghiera) del 1922.

Nonostante i saggi appena citati vengano giustamente riconosciuti il corpus principale della filosofia florenskijana del linguaggio, è opportuno ricordare che l’attrazione del filosofo russo per il tema della parola non si può del tutto circoscrivere al periodo, relativamente breve, della loro comparsa. Ne sono testimonianza alcuni altre opere minori o maggiori, come ad esempio: Empiria ed empirismo (1904), Il pianto della Madre di Dio (1907), Le radici universali dell’idealismo (1908), La colonna e il fondamento della Verità (1914), Il significato dell’idealismo (1915), come anche le lettere scritte ai famigliari dal lager staliniano (1933-1937),5 considerate un canto del cigno dell’opera di Florenskij. In questo senso si può senz’altro affermare che la centralità del tema della parola e del linguaggio è ciò che caratterizza il pensiero del Nostro in ogni tappa del suo sviluppo e che il suo «progetto di vita» — quello, cioè, di elaborare un «nuovo pensiero» fondato su una concezione olistica o «integrale» del mondo nella prospettiva di una «metafisica concreta»6 —, è riuscito a concretizzarsi di più, rispetto alle altre discipline di cui egli si è occupato (sia filosofiche che teologiche e scientifiche), proprio nella sua filosofia del linguaggio.

Il presente studio intende mettere a fuoco alcune delle sue originali intuizioni, soprattutto quelle legate più esplicitamente al tema della rivelazione.

2. Il progetto di una «terza via»

Prima di tutto occorre ricordare che l’intero sistema del pensiero filosofico e teologico di Florenskij poggia sulla gnoseologia e, più precisamente, sul suo progetto della cosiddetta «terza via» elaborato alla luce di una concezione «monista» della conoscenza.7 Secondo lui, la conoscenza non può essere ricondotta né a un suo «momento oggettivo» (la «prima via»), sottolineando con ciò l’immediatezza conoscitiva dell’oggetto e la sua superiorità nei confronti del soggetto (questo è il caso del sensualismo, positivismo, fenomenalismo, realismo, empirio-criticismo, immanentismo, empirismo mistico di Losskij…), né al «momento soggettivo» (la «seconda via»), deducendo l’oggetto dal soggetto (come fanno idealismo, razionalismo, panlogismo, panmetodismo di Cohen…).8 Essa, cioè, deve riconciliare e tener presente in sé, all’interno di un unico atto di conoscenza, entrambi i momenti, superando così uno dei dualismi più pericolosi del pensiero filosofico (e non solo): quello appunto del soggetto e oggetto. Florenskij scrive:

Nell’atto della conoscenza il soggetto non può essere separato dal suo oggetto: la conoscenza è contemporaneamente l’una e l’altra cosa insieme; più precisamente, è conoscenza dell’oggetto attraverso il soggetto, un’unità in cui si può distinguere l’uno dall’altro soltanto nell’astrazione, mentre attraverso tale unità l’oggetto non viene distrutto nel soggetto, né il soggetto si dissolve nell’oggetto della conoscenza che esiste al di fuori di esso. Unendosi, essi non si fagocitano a vicenda, sebbene, pur mantenendo la loro autonomia, non rimangano neppure separati. La formula teologica «non mescolati e non separati», adottata nel Concilio di Calcedonia, è pienamente applicabile alla correlazione gnoseologica di soggetto e oggetto, così come è stata ed è tuttora intesa dall’umanità.9

Il filosofo russo insiste molto su una tale soluzione del problema gnoseologico, convinto che la «terza via» sia in qualche modo connaturale non solo alle capacità conoscitive dell’uomo, ma soprattutto alla sua «struttura ontologica» in quanto essere vivente. Infatti, ogni essere vivente possiede un lato interiore, con cui è rivolto verso se stesso, e un lato esteriore, con cui è rivolto verso gli altri. I due lati sono originariamente una cosa sola. Il primo serve alla conferma di sé, il secondo alla rivelazione della propria identità. Si può dire: «tutto quello che veramente è porta in sé vita e la rivela, testimonia la propria esistenza con la rivelazione della vita e la testimonia non solo agli altri, ma anche a se stesso».10 Nell’antica terminologia questi due lati vengono chiamati sostanza o essenza e attività o energia.

Tale bipolare struttura di ogni realtà esistente, è la condizione ontologica che rende possibile e, anzi, richiede come la più adatta, la conoscenza secondo il modello della «terza via». Perché se, da una parte, gli esseri viventi sono irriducibili l’uno all’altro a causa della loro singolare identità, dall’altra essi possono giungere a una vera unità solo attraverso le loro energie. Una tale unità — spiega Florenskij — «può essere pensata non come una somma di attività, come un contatto meccanico, bensì come un compenetrarsi delle energie, synérgeia: non più l’una e l’altra energia separate, ma qualcosa di nuovo».11 La relazione tra i due, dunque, nella loro correlazione e rivelazione, «rappresenta essa stessa una realtà che, pur non separandosi dai centri che attraverso di essa sono collegati, non è a questi riconducibile».12 Non è identica né con l’uno né con l’altro, allo stesso tempo è ognuno dei due e ciò nella misura in cui sia l’uno che l’altro si rivelano per mezzo di essa. La dipendenza dei due da una tale relazione è sostanziale. Nel senso che al di fuori di essa, non accogliendo la sua energia, rimangono non rivelati, non manifestati, e di conseguenza non riconosciuti. Il fenomeno delle onde elettromagnetiche — per non parlare dei fenomeni del mondo della psicologia, sociologia, ecc. — è solo uno dei tanti esempi che confermano un tale fatto.

Florenskij ribadisce con molta forza che la correlazione dei due deve essere compresa come un vero e proprio «connubio» dal quale nasce un terzo, un «figlio». E soprattutto ricorda che questo «figlio», seppur partecipa dell’essere materno e dell’essere paterno, è da considerare come uno che «è sicuramente più grande della somma dell’energia ontologica dell’autorivelazione dei due genitori».13 Questo figlio è la «conoscenza», frutto della comunanza tra colui che conosce e colui che è conosciuto. Un frutto — fa intuire il filosofo russo — che viene tenuto in vita grazie al perpetuarsi dell’«unione gnoseologica» (di cui fa parte essenziale la sfera «spirituale», ossia metafisica della realtà).

La conditio sine qua non affinché tutto ciò possa accadere è la disponibilità del soggetto di entrare in una relazione synergetica con il suo oggetto. In questo tipo di relazione — spiega Florenskij — non c’è una correlazione tra me e una realtà esistente al di fuori di me, «ma io stesso percepisco per mezzo della mia energia il suo rivelarsi a me e in me».14 Tale rivelazione, in cui si manifesta l’essenza della realtà conosciuta, si unisce all’energia della percezione del soggetto e pone così la base per tutto l’ulteriore processo conoscitivo.

La successiva conoscenza, scaturita da questa intensa «unione gnoseologica», non sarà mai più grande della sinergia presente in essa dall’inizio. Essa «non guadagna nulla di nuovo, ma tende a conservare, per colui che conosce, la rivelazione sinergetica della verità, e fa sì che nella coscienza continuamente si rinnovi da sé ciò che si è rivelato una volta in modo inatteso, così che le rinnovate rivelazioni della verità perdano il meno possibile della piena validità della rivelazione originaria».15

Ebbene, secondo Florenskij, l’organo della costruzione spontanea di ogni «unione gnoseologica» è in primo luogo la parola.

3. L’ontologia della parola e l’antinomia

Certo, un simile percorso di riflessione fa apparire la parola prima di tutto come qualcosa che appartiene alla sfera ontologica della realtà: essa, cioè, non è altro che la rivelazione dell’essere vivente nel suo rivolgersi verso un altro da sé. Per dirla in altri termini: tutto quello che esiste è, perché parla di sé a — ma anche in e per mezzo di — un altro da sé. Il che significa che per la parola bisogna intendere prima di tutto il pronunciarsi dell’intero organismo di chi partecipa all’«unione gnoseologica». Ponendosi in questa prospettiva Florenskij constata: «Esiste solo una lingua: quella dell’autorivelazione attiva attraverso l’organismo nella sua totalità; ed esiste solo un unico tipo di parole: quelle che sono articolate dal corpo intero».16 E ancora: «In senso più ampio, per parola si deve intendere ogni autonoma manifestazione della nostra essenza verso l’esterno […]».17

Data una tale concezione della parola non sorprende l’idea di paragonare il parlare all’attività sessuale. In fondo sia l’una che l’altra attività sono legate alle sfere più profonde dell’esistenza di un essere vivente. Si tratta di un tipo di parlare in qualche modo primordiale, spontaneo, inscritto nello stesso essere della realtà vivente.18

Ad esso si aggiunge un altro tipo di parlare: quello che si attua per mezzo degli organi del corpo, tra i quali il più adatto è l’organo della voce.

L’atto di pronunciare una parola è un momento estremamente importante dell’“unione gnoseologica”. Florenskij spiega:

Due energie, quella della realtà e quella del conoscente, sono prossime l’una all’altra, e forse si mescolano, ma tale mescolanza fluttuante non rappresenta un’unità e suscita, a seguito della lotta dei suoi elementi nel nostro intero organismo, un forte desiderio di equilibrio. La tensione cresce, e sempre più forte si percepisce il contrasto tra colui che conosce e ciò che deve essere conosciuto. È come prima del temporale: la parola è il lampo che straccia il cielo da est a ovest e rivela il senso incarnato; nella parola vengono compensate e unite le energie accumulate. La parola è un lampo, non è l’una o l’altra energia, ma un nuovo fenomeno energetico, costituito da due unità, una nuova realtà del mondo: un canale di collegamento tra ciò che finora era separato.19

È chiaro che la parola racchiude, e quindi unisce in sé, ciò che è diviso; non si identifica, però, né con l’uno né con l’altro. Il rapporto con i due poli dell’«unione gnoseologica» è, ad ogni modo, fondamentale per la parola, data la particolare struttura sinergica del suo essere. Infatti, non si può dire che essa «è se stessa in sé», perché essa non esiste senza i poli da collegare. La parola — spiega Florenskij — «dipende completamente dai suoi sostegni, come il ponte che unisce due rive non è né l’una né l’altra riva e muore nella qualità di ponte se perde uno dei punti d’appoggio».20

Pensato in questi termini, il rapporto tra la parola e i due poli della conoscenza (soggetto-oggetto) solleva necessariamente la domanda circa l’identità della prima. Un’identità che non può non essere paradossale o antinomica. La parola è, da una parte, una realtà nuova, assolutamente non riducibile né al soggetto né all’oggetto della conoscenza. Essa, dall’altra parte, è sostanzialmente legata sia all’uno che all’altro e ciò al punto che, in qualche modo, può essere identificata con entrambi. Vista in questa prospettiva, la parola può essere definita così: essa «è il soggetto conoscente e l’oggetto da conoscere, le cui energie unite la tengono in essere».21

Una maggiore chiarificazione di questo punto — riguardante, cioè, la natura paradossale o antinomica della parola — si ottiene quando ci si chiede come la parola viene percepita da parte del soggetto e dell’oggetto della conoscenza. Per quanto riguarda quest’ultimo, la parola appare come attività del soggetto. Un’attività per mezzo della quale il soggetto penetra in un altro da sé. La penetrazione del soggetto è talmente reale che ad un altro è possibile addentrarsi, attraverso la parola, nell’energia della sua essenza. Sì, è «proprio così», — spiega Florenskij —: «dalle sue parole noi conosciamo una persona, un essere ragionevole in generale, poiché siamo convinti che le sue parole riproducono direttamente l’attività del suo sé, e che attraverso di esse si rivela la sua essenza nascosta: siamo convinti che la parola è il parlante stesso».22 Quanto al soggetto, la parola da lui pronunciata gli appare come qualcosa che gli è proprio, che nasce da lui, ma prima di tutto, come rivelazione dell’oggetto stesso. Percepita in questa prospettiva, la «parola è la realtà, quella stessa realtà di cui la parola parla»: «la realtà nella sua autenticità, nella sua identità numerica con sé stessa». Si può dire: «nella parola riconosciamo la realtà e la parola è la realtà stessa».23

A questo punto non sorprende se Florenskij arriva a considerare la parola un simbolo. Ovviamente, un simbolo che egli definisce come «ciò che è più grande di se stesso»; «più grande» in quanto esso è il luogo in cui si rivela, anzi, rende presente il simboleggiato stesso.24 Anche della parola si può dire che «essa è più di se stessa» e ciò sia per chi la sente sia per chi la pronuncia. Comunque sia, essa può essere considerata un simbolo non solo perché contiene, custodisce e rende presenti le energie sprigionatesi dall’incontro tra il soggetto e l’oggetto, ma anche perché la sua stessa struttura interna è simbolica. La parola, infatti, viene «costruita» da un atto rivelativo di rapporti interni che si attua su diversi piani.

4. La parola come «evento»

L’ultima affermazione invita a riflettere sulla natura rivelativa della parola da un altro punto di vista: quello riguardante la parola in sé o meglio, la sua singolare costituzione ontologica. Singolare, perché richiamandosi alle teorie linguistiche di W. von Humboldt e del linguista russo-ucraino A.A. Potebnja, Florenskij definisce la parola una realtà antinomica. Essa, infatti, nella sua sostanziale unità, è composta da due opposti: la forma esterna e la forma interna.25

La forma esterna rappresenta «quell’insieme costitutivo immutabile, necessariamente condiviso da tutti, rigido sul quale si regge tutta la parola».26 Se essa non ci fosse, non potrebbe esistere nemmeno la parola come fenomeno sovraindividuale. La forma esterna, paragonabile al corpo di un organismo, è creazione monumentale attuata dalla persona di tutto il popolo nel suo insieme, in virtù della sua energia collettiva. Certo, l’energia vitale della forma esterna emana solo una luce fioca, «incapace di riscaldare e illuminare lo spazio circostante».27 Ad ogni modo, il suo ruolo è grande: essa assicura che la lingua non venga ridotta alla res privata di una sola persona o di un piccolo gruppo di persone, ma che continui a rimanere il patrimonio dell’intero popolo.

La forma interna, paragonabile invece all’anima dello stesso corpo, rappresenta l’aspetto soggettivo o individuale della parola. Essa è chiusa, impotente in se stessa, ma sprigiona la sua luce fino a grandi distanze, appena possiede un organo di manifestazione esterna. La forma interna rappresenta la dimensione istantanea della parola, intimamente legata all’atto istantaneo dell’animo: un «atto singolo nella sua peculiarità e per di più proprio nella sua realizzazione concreta». Grazie ad essa è possibile dire che «l’uomo è creatore della lingua, divinamente libero nella sua creazione linguistica, completamente definito dalla sua vita spirituale, dal di dentro».28

La differenza tra le due forme è più che evidente: se da un lato è possibile considerare la forma esterna come qualcosa di immutabile, dall’altro è giusto concepire la forma interna come manifestazione della vita individuale e, quindi, come una realtà in costante crescita.29 Un tale fatto permette di vedere nella parola il punto di connessione del singolo parlante con il sovraindividuale, il luogo di incontro tra l’energia dello spirito individuale e l’energia del popolo.

Questa struttura duale della parola emerge ancora di più quando la parola viene contemplata come parte di un insieme: la lingua. Anche la lingua è, ovviamente, un equilibrio vivo di érgon ed energia, di «prodotti finiti» e «vita». Essa, da un lato, è eterna, incrollabile. Dall’altro, invece, è sempre individuale in ogni suo istante, in ogni suo movimento esprimente l’individualità di chi la utilizza. Florenskij spiega:

La lingua — imponente e monumentale — è l’enorme grembo del pensiero umano, è l’ambiente in cui ci muoviamo, è l’aria che respiriamo. Ma nello stesso tempo la lingua è la nostra intimità che stentiamo a esprimere, cuore trepido di bimbo, canto segreto del nostro intimo, anima della nostra anima. Noi abbiamo cara la lingua, in quanto la riconosciamo obiettiva, dataci anzi quasi come condizione impostataci dalle circostanze della nostra stessa vita; ma parliamo davvero soltanto allorquando proprio noi, automaticamente, dopo aver fuso di nuovo la lingua fino nelle sue più piccole inflessioni, nuovamente la riversiamo secondo il nostro essere, continuando tuttavia a credere in toto nella sua oggettività. E siamo nel giusto: poiché il nostro pensiero personale poggia non su un intelletto isolato, che di per se stesso non esiste affatto, ma sulla Ragione Superiore, sul Lógos Universale, e la parola individuale non è pronunciata da altra attività, se non da quella che la stessa lingua genera e accresce. Non esiste una lingua individuale che non sia universale nelle sue radici; non esiste una lingua universale, che non sia individuale nel suo manifestarsi.30

Una tale comprensione della parola invita a contemplare la sua natura rivelativa secondo un’altra prospettiva: quella di essere un punto d’incontro e di comunicazione tra il singolare e l’universale, anzi, di essere essa stessa l’«atto» («evento») della loro reciproca rivelazione e manifestazione.

È da aggiungere che anche se un tale «atto» coinvolge la parola nella sua totalità, essa riesce comunque a mantenere in ogni momento della propria azione rivelatrice il necessario equilibrio antinomico. Ciò è possibile grazie al fatto che la struttura antinomica della parola, oltre a essere costituita dalla diade ergon ed energeia, è anche tricotomica, in quanto composta dalle tre sfere: il fonema, il morfema e il semema.31

5. La costituzione tricotomica della parola

La parola è innanzitutto suono (phoné) o per lo meno un suono che si predispone a diventare tale. Questo suono insorge non solo sul piano meramente fisico, ma anche fisiologico e psico-fisiologico e in quanto tale non è distinto dagli sforzi articolatori di chi lo produce, né dagli sforzi uditivo-ricettivi di chi lo percepisce. Florenskij chiama questa prima sfera il fonema.

La parola, poi, è anche una rappresentazione o un concetto. Essa, infatti, viene posta davanti a noi, come qualcosa di oggettivo che sta al di fuori di noi, proprio quando i dati psichici di un determinato momento vengono sottoposti a un qualche concetto generale. In altri termini: «Per diventare oggettiva, la sensazione si stacca dalla sua cieca datità per sottoporsi alla sintesi della categoria. Così si struttura il morfema della parola, dal greco morphé che etimologicamente e per significato corrisponde al latino forma, ovvero phormé nel senso di un aspetto esterno, come espressione di una legge o di una norma della realtà».32 Si tratta di un concetto che, successivamente, riceverà una precisa forma grammaticale, terminante con una desinenza, per mezzo della quale il tema entra in veste corporea nella composizione del discorso, dando luogo a un tutto unitario.

Finalmente, la parola è anche il significato, il semema, che è la sua forma interna. Il semema è la parte più libera della parola. Esso è ciò che «è mio», — spiega Florenskij — «è la mia personale manifestazione verso l’esterno». Il semema rappresenta un intero mondo di senso, con i suoi abissi e sommità, come anche «un insieme di sfumature emozionali quasi percettibili, di cui è costituita la parte più emozionalmente penetrante di ciò che il parlante, proprio ora, in questo caso specifico, ripone nella parola nel momento stesso in cui la pronuncia. Il semema ha la facoltà di estendersi senza limiti, modificando la struttura degli elementi spirituali in esso correlati, di mutare i propri contorni, di assorbire in sé un contenuto nuovo, per quanto connesso a quello precedente, di attenuare quello vecchio. In una parola, il semema vive, come qualsiasi anima, e la sua vita è in continuo divenire».33

Come già accennato, il rapporto tra fonema, morfema e semema è un rapporto di reciproca dipendenza su cui si fonda la dinamica rivelativa della parola. Nel senso che il fonema appare come simbolo del morfema che, da parte sua, è simbolo del semema che, allo stesso tempo, è il fine e il senso del morfema, mentre il morfema è il fine e il senso del fonema. Scrive Florenskij: «Se nel fonema bisogna vedere la reazione spirituale alle impressioni e, quindi, un processo tramite il quale una sensazione viene resa cosciente, il morfema va visto allora come reazione spirituale a quella sensazione già resa cosciente e, dunque, come un processo per mezzo del quale prende forma il concetto, la rappresentazione. Il semema, infine, come reazione spirituale al concetto, concorre alla formazione dell’idea».34

È evidente che ognuno dei tre elementi della parola viene «costruito» dagli altri due, conservando, nel contempo, una propria singolare autonomia. Il che permette di poter pensare la parola come una realtà unita e allo stesso tempo divisa in tre strati, ciascuno dei quali può essere soggetto a una interpretazione particolare.

6. La magia della parola

Pensata così, la parola si presenta come una realtà complessa, un vero e proprio microcosmo. Non solo perché a ogni livello della sua struttura si rivela un mondo diverso, ma anche perché si tratta di una realtà composta dai innumerevoli fili di connessione, di natura tutta particolare, tra i diversi «mondi» (o sfere), in mezzo ai quali il «mondo interno» e il «mondo esterno» — «esterno» rispetto al soggetto parlante — rappresentano la più radicale antinomia che essa sostiene. La parola è come un anfibio, capace di vivere in diversi ambienti e, soprattutto, in grado di mediare tra di essi. Tutto questo permette di poter definire la natura della parola una natura «magica» o «occulta».35

Secondo Florenskij, la parola rientra nell’ambito propriamente occulto, dove per occulto si intende una realtà relazionale che, vissuta con la massima densità energetica, permette di praticare «l’arte di spostare il confine del corpo rispetto alla sua posizione attuale».36 Prendiamo, ad esempio, la sua sfera del semema, del significato. Essa non è fissa e compatta come un blocco di pietra, ma è stratificata. I molteplici strati del semema vengono formati nel tempo da atti creativi specifici, ciascuno dei quali presuppone il compimento di una qualche crescita spirituale vissuta, in genere, da un intero popolo. Si potrebbe dire: ogni singolo strato è una sedimentazione, nella parola, di un processo spirituale («è lo spirito che si fa carne») che passa dal subconscio (semiconscio) alla coscienza e si concentra in un punto, una estremità acuminata. Questa concentrazione, che Florenskij chiama il «monodeismo», è la condizione più importante affinché siano possibili gli effetti magici della parola. L’essenza di questi effetti è legata al modo cui avviene la stratificazione del semema: i suoi strati, cioè, si sedimentano non arbitrariamente e nemmeno secondo un ordine meramente logico, ma «a spirale».

Dunque, il corretto uso della parola richiede che l’attenzione di chi parla si «avviti» dentro il semema penetrando nelle molteplici stratificazioni depositate da molte generazioni di un popolo. Facendo così, una determinata parola viene messa in condizione di far ri-vivere, ri-pensare, ri-sentire — in (e per mezzo di) chi la pronuncia — tutti gli strati del suo significato sedimentatisi nel tempo, orientando il parlante nella direzione prestabilita dal semema, facendolo partecipe della manifestazione, verso l’esterno, di quella o, meglio, di quelle «volontà di concentrazione» che durante i secoli hanno «ri-costruito» il significato di tale parola. Trattata in questa maniera, la parola — ulteriormente rafforzata nel suo essere un condensatore di volontà, di attenzione dell’intera vita spirituale — agisce sulla «vita spirituale», innanzitutto di colui che la proferisce, successivamente agisce anche sull’oggetto verso il quale viene diretta.37

Ogni nuovo «avvitarsi» nel semema, che accresce il significato della parola, comporta l’innalzamento del suo livello occulto, arricchendo la multiforme natura occulta della parola stessa. Si può dire: grazie a una tale «discesa» a spirale nel semema, la «parola «si-impregna-di se-stessa», così come il violino «si-sazia-di-se-stesso» ed è simile a una goccia di miele che fonde in sé i nettari più disparati delle piante più diverse».38 Al contrario, vi possono essere delle cause interne ed esterne che fanno diminuire la natura magica della parola, potendo provocare la sua totale distruzione e morte.

7. Conclusione

Concludendo, voglio ricordare che Florenskij insegnò per tutta la sua vita un atteggiamento di profonda stima e di grande responsabilità nei confronti della parola,39 un atteggiamento in grado di intravedere nella parola ciò che essa è: l’incarnazione di chi la pronuncia.40 Secondo lui, la parola — sia essa intelligente o stolta, profonda o superficiale — è «la cosa più grande in assoluto che una data persona in una data situazione comunicativa abbia potuto dare. Essa è tutto ciò a cui è potuta in quel momento approdare la vita interiore».41 È «la più alta manifestazione dell’attività dell’uomo preso nel suo insieme, la sintesi di tutte le sue azioni e reazioni, una scarica di vita interiore aumentata di livello, una forte emozione resa manifesta». Persino la propria corporeità viene deposta o incarnata in essa. Non bisogna, infatti, dimenticare «che la massa d’aria che forma nella fase iniziale la parola proviene dal centro stesso del nostro corpo e quindi è imbevuta, impregnata, penetrata da energia òdica, nella misura in cui ciò sia possibile per un dato organismo in quella data condizione del suo massimo grado di vita interiore».42

Ma la parola richiede un senso di stima e responsabilità anche per il fatto di essere una rivelazione che oggettiva il parlante in modo da perpetuare per sempre la sua esistenza (relativa ad un determinato momento della sua vita). La parola, pur essendo generata, ha una sua inviolabile autonomia. Essa è paragonabile ad un pellegrino ormai molto distante dalla sua città di provenienza o ad un messaggero troppo veloce per essere richiamato indietro da chi l’ha inviato con la notizia. La parola, insomma, è una realtà che «si trova tanto all’interno di noi quanto all’esterno e se abbiamo ragione a ritenere la parola un avvenimento della nostra vita recondita, non dobbiamo però dimenticare che essa è un qualcosa che ha già cessato di essere in nostro potere e si trova in natura separata dalla nostra volontà».43

Ecco perché Florenskij invitò a frequentare quei «luoghi» dove si crede alla «magia» della parola e, quindi, dove la parola viene presa sul serio: le opere dei grandi classici della letteratura (Goethe, Racine, Puškin, Tjutčev…) e, in particolare, l’ambito liturgico (cultuale) della preghiera. Il filosofo russo fu costantemente attratto da tutti e due i luoghi, ma l’assoluta priorità del secondo la sentì nelle radici stesse della propria esistenza.44 Egli, infatti, considerò la recita della preghiera — quale cuore di ogni azione liturgica — un evento linguistico per eccellenza, in quanto caratterizzato dalla massima intensità rivelativa possibile. Esso, da una parte, è l’uscita esistenziale dell’orante da sé stesso verso Colui al quale le parole della preghiera sono indirizzate, ossia è la rivelazione della propria verità a Dio, Origine di ogni verità e vita; dall’altra, è la discesa/rivelazione di Dio verso l’uomo il quale accogliendo e contemplando la rivelazione del mistero della Verità e della Vita accoglie e contempla la rivelazione del mistero della sua stessa umana esistenza.45

Si capisce, le parole della preghiera — di una preghiera vera! — sono efficaci perché non vengono mai pronunciate a caso o superficialmente. «Queste parole non si scrivono con l’inchiostro, ma con il sangue, con gocce rade che stillano dal petto e questo sangue (nel quale è la vita) non si esaurisce, né si secca mai. Con una forza sempre nuova la vita, dilatata da questo sangue misterioso, rigenera la vita: nell’oceano della vita interiore dell’umanità viene scagliata la parola e la forza dell’anima, dal punto della caduta, moltiplica infinitamente i suoi cerchi».46


  1. Per una presentazione, in italiano, dei principali concetti della filosofia florenskijana del linguaggio cfr. N. Valentini, Pavel A. Florenskij: la sapienza dell’amore. Teologia della bellezza e linguaggio della verità, EDB, Bologna 1997, in part. la parte 4: Pensiero e linguaggio, pp. 267-310. ↩︎

  2. Cfr. P.A. Florenskij, Allo spartiacque del pensiero, vol. 2, a c. di A. Trubačev, M.S. Trubačeva, P.V. Florenskij, in russo, Pravda, Mosca 1990. Gli stessi scritti vennero ripubblicati in P.A. Florenskij, Opere in quattro volumi, vol. 3(1), in russo, Mysl’, Mosca 1999. Trad. italiana: P.A. Florenskij, Attualità della parola. La lingua tra scienza e mito, a c. di E. Treu, Guerini e Associati, Milano 1989; trad. a. c. di E. Treu in D. Ferrari-Bravo, Slovo. Geometrie della parola nel pensiero russo tra ’800 e ’900, Edizioni ETS, Pisa 2000, pp. 129-223; P. Florenskij, Il valore magico della parola, a c. di G. Lingua, Medusa, Milano 2001. ↩︎

  3. A questa spiegazione si aggiunge una forte impressione, in chi si avvicina al pensiero e all’opera del padre Pavel, che il tema della parola e del linguaggio gli sia in qualche modo congeniale, in quanto tocca alcuni aspetti del suo stesso modo di essere e di interpretare la realtà. Ciò viene testimoniato dagli stessi contemporanei di Florenskij, i quali lo ricordavano come un «uomo riservato» e «di poca parola», ossia come uno che dava impressione di sentire una grande responsabilità per ogni parola pronunciata. «Mai rispondeva subito alla domanda» — ricorda il pittore L. Zegin — «[Prima di rispondere] si è come chiuso in sé, è entrato in sé. Successivamente, come le grandi gocce d’acqua che si gonfiano, concentrano e [staccandosi] cadono come un pezzo di piombo, venivano pronunciate quelle due o tre parole che lasciano nell’anima un’impronta indelebile. Le parole alle quali tornerai per tutta la vita e sulle quali, in seguito, costruirai tutto» (L. Zegin, Ricordi di P.A. Florenskij, in P.A. Florenskij: pro et contra, a c. di K.G. Isupov, in russo, Izd. RChGI, San Pietroburgo 1996, p. 168). Un’altra testimonianza sono le lettere di Florenskij dal lager. In una di esse scrive alla figlia Ol’ga (12. 11. 1933): «[…] leggi ogni giorno almeno una pagina, ma assolutamente a voce alta, e cerca le parole sconosciute nel vocabolario. […] In generale cerca di far sì che le lingue, quella russa come quelle straniere, siano per te un suono vivo e non solo segni sulla carta. Ricorda pertanto di leggere ad alta voce anche gli scritti russi, se non interi, almeno in parte, cogliendo la perfezione del suono e il ritmo della costruzione, sia dal punto di vista sonoro, sia da quello contenutistico ed espressivo. Leggi immancabilmente a voce alta belle poesie, soprattutto quelle di Puškin e di Tjučev; anche gli altri (a casa) ascoltino, per imparare a riposarsi. Mi sono imbattuto qui in un volume di Puškin, dell’edizione di Polivanov. Quanto è stato bello, dopo il pranzo, in riva al fiume Urjum, leggere le poesie di Puškin a voce alta e meditare sulla somma perfezione di ogni parola, di ogni modo di dire, senza parlare della costruzione del tutto!» (P.A. Florenskij, Non dimenticatemi, a c. di N. Valentini e L. Zak, Mondadori, Milano 20012, p. 68). ↩︎

  4. Cfr. L. Zak, Verità come ethos. La teodicea trinitaria di P.A. Florenskij, Città Nuova, Roma 1998, pp. 195-202. ↩︎

  5. P.A. Florenskij, Opere in quattro volumi (Le lettere dal Lontano Oriente e dalle Solovki), vol. 4, in russo, Mysl’, Mosca 1998 (trad. it. P.A. Florenskij, Non dimenticatemi…). Per una sintetica presentazione dell’epistolario cfr. N. Valentini, Le lettere dal lager di padre Pavel Florenskij, in A. Mainardi (ed.), L’autunno della Santa Russia, Qiqajon, Magnano 1999, pp. 251-266. ↩︎

  6. Cfr. P.A. Florenskij, Opere in quattro volumi, vol. 1, in russo, Mysl’, Mosca 1994, p. 38; P.A. Florenskij, Non dimenticatemi…, pp. 379-380. ↩︎

  7. Cfr. L. Zak, Verità come ethos…, pp. 290-293. ↩︎

  8. P.A. Florenskij; I limiti della gnoseologia, in russo, in Id., Opere in quattro volumi, vol. 2, Mysl’, Mosca 1996, pp. 35-36. ↩︎

  9. P.A. Florenskij, La venerazione del nome come presupposto teologico, trad. it., in Id., Il valore magico della parola…, pp. 24-25. ↩︎

  10. Ibid., p. 26. ↩︎

  11. Ibid. ↩︎

  12. Ibid. ↩︎

  13. Ibid. ↩︎

  14. Su una tale concezione dell’atto conoscitivo, riformulata in chiave ontologico-trinitaria, si fonda la originale proposta teologica de La colonna e il fondamento della Verità, trad. it. a c. di P. Modesto, Rusconi, Milano 19982↩︎

  15. P.A. Florenskij, La venerazione del nome, pp. 29-30. ↩︎

  16. Ibid., p. 31. ↩︎

  17. Ibid., p. 30. ↩︎

  18. Ibid., p. 32; cfr. P.A. Florenskij, La natura magica della parola, trad. it. in D. Ferrari-Bravo, Slovo…, p. 204ss. ↩︎

  19. P.A. Florenskij, La venerazione del nome…, p. 33. ↩︎

  20. Ibid. ↩︎

  21. Ibid. ↩︎

  22. Ibid., p. 34. ↩︎

  23. Ibid. ↩︎

  24. Cfr. ibid., p. 28; P.A. Florenskij, Il simbolismo delle visioni, in Id., Opere…, vol. 3(1), pp. 422-433; sul tema del simbolo in Florenskij si veda L. Zak, Das symbolische Denken bei Florenskij und seine Bedeutung für die Epistemologie, in N. Franz-M. Hagemeister-F. Haney (edd.), Pavel Florenskij — Tradition und Moderne, Peter Lang, Frankfurt am Main 2001, pp. 195-213. ↩︎

  25. Cfr. P.A. Florenskij, Le antinomie del linguaggio…, in Id., Attualità della parola…, p. 62; Id., Il termine, in Id., Attualità della parola…, pp. 120-121. ↩︎

  26. P.A. Florenskij, La struttura della parola, in D. Ferrari-Bravo, Slovo…, p. 132. ↩︎

  27. Ibid. ↩︎

  28. P.A. Florenskij, Le antinomie del linguaggio…, p. 62. ↩︎

  29. P.A. Florenskij, La struttura della parola…, p. 132. Per dirla in altri termini: «[…] produciamo degli enunciati individuali attraverso uno strumento linguistico collettivo» (ibid., p. 133). ↩︎

  30. P.A. Florenskij, Le antinomie del linguaggio…, pp. 73-74. ↩︎

  31. Da questo punto di vista, la parola «si può rappresentare come dei cerchi che si abbracciano vicendevolmente tra loro in successione» (P.A. Florenskij, La struttura della parola…, p. 132); cfr. P.A. Florenskij, Sul nome di Dio, in Id., Il valore magico della parola…, pp. 83-84. ↩︎

  32. P.A. Florenskij, La struttura della parola…, p. 136. ↩︎

  33. Ibid., pp. 143-144. ↩︎

  34. Ibid., p. 144. ↩︎

  35. Florenskij intende per «magia» quel tipo di conoscenza che intravede nella natura un essere vivo, un organo composto da varie parti in cui tutto è reciprocamente unito grazie a misteriosi legami di parentela, dove ogni particolare partecipa alla vita dell’insieme, dove ogni cosa fa parte del tutto e il tutto è presente in ogni cosa. Il mago, poi, è colui che lotta con la natura per confluire interiormente in essa. Quando vince, «egli non è più solo un uomo, un soggetto per il quale il mondo è semplicemente un oggetto. Qui non vi è più né soggetto né oggetto. Questa distinzione viene persa nell’amichevole oppure ostile fusione con la natura, essa si perde in questo abbraccio, in questa mischia con le misteriose forze. Il mago fa parte della natura; ed essa fa parte di lui» (P.A. Florenskij, Origini dell’idealismo comuni a tutta l’umanità, in Id., Opere in quattro volumi, vol. 3[2], Mysl’, Mosca 1999, p. 155). ↩︎

  36. P.A. Florenskij, La proiezione degli organi, in Id., Opere in quattro volumi, vol. 3(1), p. 403. ↩︎

  37. P.A. Florenskij, La natura magica della parola…, p. 189. ↩︎

  38. Ibid., pp. 201-202. ↩︎

  39. Ne parla anche in una lettera inviata a Ol’ga dal lager (20-21.7.1935): «[…] di qualsiasi cosa ti occuperai in futuro, è necessario assimilare bene le premesse generali di qualsiasi occupazione: le lingue, il disegno tecnico e artistico (almeno un po’), la matematica, la fisica e le scienze naturali, l’ortografia, lo stile, la capacità di esprimere i propri pensieri in modo esatto, chiaro, elegante e la cultura della parola; il senso del suo valore, della sua responsabilità, organicità ed essenzialità. Per ottenere ciò, cerca di meditare le parole dei migliori scrittori, di penetrare nel testo, nel significato delle loro parole e nei motivi per i quali le cose sono dette in quel modo e non in un altro» (P.A. Florenskij, Non dimenticatemi…, p. 193). ↩︎

  40. Cfr. P.A. Florenskij, La liturgia della parola. La preghiera, in L’eredità teologica del sacerdote Pavel Florenskij, in Bogoslovskie trudy 17(1977), in russo, p. 194. ↩︎

  41. P.A. Florenskij, La natura magica della parola…, p. 200. ↩︎

  42. Ibid., p. 201. ↩︎

  43. Ibid., p. 165. ↩︎

  44. Il celebre scrittore e filosofo V.V. Rozanov definì l’amico Pavel Florenskij con un’unica parola: l’iereús, il sacerdote, compresa nel senso più profondo del termine greco. Cfr. S.N. Bulgakov, Sacerdote p. Pavel Florenskij, in P.A. Florenskij: pro et contra…, p. 396. ↩︎

  45. Cfr. P.A. Florenskij, La liturgia della parola…, p. 172-195. ↩︎

  46. P.A. Florenskij, Il pianto della Madre di Dio, trad. it. in Id., Il cuore cherubico. Scritti teologici e mistici, a c. di N. Valentini e L. Zak, Piemme, Casale Monferrato 1999, p. 190. ↩︎