Dalla logica alla metafisica, attraverso la scienza. Su Leibniz

1. Premessa

Il sistema della conoscenza di Leibniz, che fa tutt’uno con la sua filosofia, accresce la sua portata con la lettura del Saggio sull’intelletto umano, di Locke. Già prima — siamo intorno al 1685 — era riuscito a costruire delle solidissime basi logiche, tramite le sue riflessioni sulla scienza e la metafisica.

Possiamo dividere la teorie leibniziane sulla conoscenza in questo modo: quelle che concernono il pensare, di natura come accennato logica; e quelle che descrivono le condizioni entro cui il logos agisce, che definiamo metafisiche.1 Tuttavia né le une, né le altre possono essere pensate separatamente, in quanto, complessivamente, tutta la dottrina della conoscenza leibniziana si è determinata nel segno di una loro interdipendenza, attraverso una sorta di filigrana o matrice scientifica — benché l’ultima parte dei suoi lavori abbiano una più spiccata valenza metafisica.

2. Principi generali

Il pensiero del giovane Leibniz è imbevuto di suggestioni scolastiche e aristoteliche, dal momento che si pone come oggetti principali delle sue dimostrazioni filosofiche le verità morali, l’immaterialità e l’immortalità dell’anima nonché la natura puramente logica degli universali (una riflessione più estrema su questo punto si trova in un lavoro del 1666, la Dissertatio de arte combinatoria).

A seguito della lettura di Hobbes, ma soprattutto di Descartes, si dedicò più nello specifico alla matematica e alla filosofia meccanicistica, arrivando a convincersi che tutti i fenomeni naturali si possono spiegare nelle cause efficienti e materiali, senza dover ricorrere al formalismo o al finalismo.

È proprio così che si viene formando in nuce il pensiero del Leibniz più maturo, il quale stabilì che non era necessario scegliere tra il meccanicismo dei moderni e la metafisica aristotelica, perché entrambe le dottrine erano conciliabili. In questo contesto possiamo affermare che, nel dialogo infinito di logica e metafisica, si va tratteggiando un Leibniz teo-logo,2 in equilibrio tra immanenza e trascendenza, tra phýsis e télos. Infatti, il motivo di questo continuo scambio è dato dall’insoddisfazione che lo stesso Leibniz avvertiva nelle dottrine che riducono l’essere al logico ed il reale al possibile, essendo in lui molto vivo il senso dell’essere e della supremazia delle cose morali e divine.

Concretamente, il rapporto analogico della funzione tra simboli matematici, per Leibniz era intimamente legato alla metafisica: alla variazione di uno corrispondeva la variazione del altro, secondo un esatto parallelismo. Allo stesso tempo, per contro, sempre secondo il modulo della scienza matematica, talvolta Leibniz si sforzava di imporre come costante una delle due variabili (quella metafisica), dandole persino un primato, per dare statuto determinato alla forma imperfetta della reciprocità.

Descartes non era riuscito a risolvere la problematica di una verità razionale necessaria e applicabile alla realtà sensibile, e si era diretto verso i principi primi metafisici, usandoli come garanzia del suo universo matematico. Invece Leibniz volle ripensare le riduzioni matematiche nella loro valenza puramente scientifica, senza piegarle a un conflitto senza requie con le verità di religione. Anzi, proprio da qui è possibile una fondazione metafisica con motivi analitici, molto più di quanto proponesse la Scolastica. Riprendendo alcune note del Boutroux, potremmo dire che “Cartesio muove dalla matematica e vi ritorna con la metafisica, mentre Leibniz muove dalla metafisica e vi ritorna con la matematica”.3

3. Logica

Nel De arte combinatoria e nella Dissertatio de stylo philosophico Nizolii (1670) abbiamo le prime indicazioni di un metodo, finalizzato all’asserzione che la dimostrazione matematica, generalizzata si può applicare a tutto ciò che è. Il progetto cartesiano nell’aritmetica e nella geometria, condotto per mezzo dell’algebra e dell’analisi viene, perciò, esteso. Lo stesso Cartesio aveva pensato ad una matematica universale, senza però dare corpo al sillogismo con qualità e individualità. Per Leibniz il sillogismo non era compreso nella dimostrazione matematica, in quanto essa è in realtà un caso particolare di sillogismo.

Aristotele aveva mostrato come siano possibili dimostrazioni in quegli argomenti che non si lasciano ridurre a grandezza, ma non seppe dare uno statuto a quella che i retorici chiamarono inventio, e da qui Leibniz si servì della teoria delle combinazioni e trasposizioni matematiche, per tutte le altre scienze. Questa teoria sostiene che ogni nozione data può essere scissa in un certo numero di elementi semplici non in contraddizione tra loro, a cui bisogna trovare una nota esatta. Le note saranno quel che l’alfabeto è per le parole. In questo modo dovrebbe essere possibile ricostruire l’intero universo.

Sostituendo le note con dei caratteri, il parallelismo tra esperienza e ragione diviene molto più stretto rispetto a quello presente nel concetto aristotelico: la giusta corrispondenza permette una rappresentazione legittima e feconda delle cose. Il mondo dei caratteri potrebbe sembrare ancora troppo astratto, ma Leibniz, professandosi in una certa misura nominalista, ritenne che il problema non risiedeva nell’esistenza isolata degli universali, ma nella loro definizione. Se Nizolio li riteneva collezioni di cose singole, è chiaro che dalla dimostrazione si passerà ad un criterio induttivo. Di fronte ad una deriva scettica della scienza, Leibniz affermò però che nella totalità discreta (distributiva) dell’universale (es: Ogni uomo è un animale, quindi Tutti gli uomini sono animali) non c’è una realtà in sé — come vorrebbero i realisti — o un’astrazione — come vorrebbero i nominalisti. Il carattere universale rappresenta solo una possibilità indefinita guidata dal criterio di somiglianza.

Tra il tutto collettivo dei nominalisti e le unità indivisibili dei realisti, la distribuzione assicura l’adeguazione degli universali alla realtà tramite una legge (e non sostanza), che tratta gli universali come se fossero reali. In base a questo processo analitico gli esseri reali piegati alla dimostrazione sillogistica possono dotarsi di qualità e quantità.

4. Metafisica

L’articolato impianto appena illustrato doveva fungere da metodo per tutti gli oggetti possibili, ma soprattutto nasceva dal desiderio di rendere finalmente salde e sicure quelle verità, ad esempio quelle morali e metafisiche come l’esistenza di Dio e l’immortalità dell’anima, che appartengono alla realtà più alta. Le verità infatti della filosofia del movimento, rilanciata dal razionalismo cartesiano, deve presupporre a livello eziologico una filosofia dello spirito, come voleva Aristotele rispetto all’equazione assoluta di materia e movimento rilanciata dall’epicureismo. Dunque rimane da reintegrare nuovamente la fisica aristotelica e il meccanicismo cartesiano.

In una lettera del 1669 a J. Thomassin, Leibniz affermò che non la fisica aristotelica, bensì quella scolastica, era contraria al modello cartesiano. Il vero Aristotele aveva asserito che il nóus opera solo come causa universale, mentre i principi propri della fisica sono la materia, la forma e il cambiamento. A questi, Leibniz aggiunse il concetto di molteplicità che Cartesio non aveva integrato nemmeno nelle sue ricerche sulle qualità secondarie, parlando dei colori come di sensazioni senza oggetti reali. Invece Leibniz poté descrivere come alla nostra percezione di movimento corrisponde un ‘movimento di insieme’,4 causato dalla motilità di innumerevoli piccole particelle.

Nella Theoria motus concreti, Theoria motus abstracti (1671) Leibniz si chiede se anche però la molteplicità non abbia bisogno a sua volta di una realtà unitaria alla base, e con i concetti di sottile, di interno nascosto, di infinito e molteplicità suggerisce che la visione in apparenza più semplice, in realtà è sempre più complessa. Il continuo, essendo divisibile all’infinito, fa sì che anche le cose possano essere divise all’infinito, e ciascun atomo sarà un mondo tra i mondi di differenti specie, in cui saranno presenti mondi più piccoli sino all’infinito. Ciò che permette il moto e l’aggregazione delle particelle è una sorta di etere, il cui agitarsi è anche motivo dei fenomeni di luce e rifrazione.

Ma Leibniz non si accontentò e decise di capire quali sono i principi per cui il moto agisce, per cui l’etere combina e si combina in quelle determinazioni. Il movimento di un corpo è quel che lo sforzo è in un istante, ma lo sforzo, senza il movimento, rimane nello spirito; nel corpo, invece, non dura oltre l’istante: “Omne corpus et mens momentanea, seu carens recordatione”. Dunque, veramente indivisibile è solo lo spirito, che muove tutto ma dei corpi non è che estensione e movimento, mai parte.

È dopo il ’71 che Leibniz meditò su una sostanza intermedia tra corpo e spirito, che si distinguesse dalla massa e ne fosse il fondamento necessario.

Il dogma della transustanziazione eucaristica aveva condannato la dottrina dell’estensione come sostanza dei corpi, di Cartesio: la differenza suprema di sensibile e soprasensibile, pur tralasciando alcuni fenomeni di osmosi, doveva rimanere così com’era.

In questo contesto le ricerche sulla dinamica di Leibniz giunsero a sostenere che fra i corpi non ci fossero elementi indivisibili, ma elementi inestesi, ed i fenomeni di coesione e stabilità (il moto e la quiete) non esistono in realtà. Non ci sarebbe differenza tra un corpo a riposo ed uno spazio vuoto. La sostanza dei corpi è perciò il movimento inesteso e il riposo nient’altro che uno sforzo (conatus).

In un certo senso il concetto di sostanza è il fondamento di tutta la metafisica leibniziana, nonché la forma sistematica di svolgimento della realtà e del movimento. La necessità di Leibniz divenne quella di dare uno statuto essenziale e finale a questa scoperta, aiutandosi con la matematica. Ed è così che, con le ricerche sull’omogeneo e l’eterogeneo, sul continuo e il discontinuo, arrivò al calcolo infinitesimale.5

Fino all’incontro con lo Huygens, databile al 1673, Leibniz poteva considerarsi un ottimo geometra autodidatta, ma successivamente, collegando le sue antiche osservazioni sulle serie dei numeri con la geometria, arrivò a teorizzare la decomposizione delle grandezze finite in numeri infinitamente piccoli, che sono omogenei alla grandezza finita. Il piccolo per Leibniz non corrisponde però ad una qualità, bensì ad una possibilità di divisione in via probatoria.

Prendiamo di dover dimostrare: A - B = 0. Introduciamo l’infinitamente piccolo x e due funzioni infinitamente piccole di questa variabile: f(x) e φ(x). Adesso diciamo che A - B = f(x) - φ(x). La differenza A - B è dunque uguale a un infinitamente piccolo; tende dunque verso 0 quando x decresce indefinitamente; ma è indipendente da x, e, poiché A e B sono quantità finite, essa stessa è finita.

Dunque è rigorosamente nulla.

Così si applicano le regole del finito all’infinito, e viceversa, gettando le basi scientifiche per studi sempre più approfonditi. D’ora in poi, infatti, sarà possibile l’accordo universale di geometria e aritmetica. Anche in metafisica, oltretutto, i concetti di discontinuità e infinito si rendono più disponibili e concreti. Il concetto di infinito è incompiuto ed è una finzione assai utile.

Non c’è un numero, una grandezza, un soggetto o un tutto infinitamente grande o piccolo, ma solo per ogni numero una serie infinita:

1/2 + 1/4 + 1/8 + 1/16 …

Se considerassimo il numero infinito come esistente, dovremmo ammettere che il tutto sia prima delle parti, il che non può che accadere nelle cose ideali, perché nelle cose attuali il semplice è prima del composto.6 Allora come può l’indivisibile materiale, che sarebbe niente, essendo moltiplicato diventare una grandezza? Ammettendo una molteplicità infinita, si dimostra semplicemente che ci sono più termini in una stessa designazione. La continuità, come detto, è e rimane una finzione, allo stesso modo dell’infinito, ma si presenta come composta di un uno attuale, perché i tutti dell’intelletto non hanno che parti in potenza. Ogni singola determinazione di essenza si ha per reductio ad absurdum (es: il riposo non è il movimento, l’uguaglianza non è una disuguaglianza, ecc.), tramite cui tutto avviene come se il suo contrario fosse infinitamente piccolo ed insensibile.

L’impossibilità dell’infinito-tutto e dell’uno-elemento mina non certamente la possibilità universale dell’uno e dell’infinito, che possono sussistere come attività e assoluto rimanendo fuori l’infinità del molteplice: “omnia e nihil sono, rispetto al numero, gli estremi esclusi, non inclusi”,7 come il dio di Aristotele è fuori dal tempo e dal numero. La parte col tutto stanno in un rapporto di condizione e condizionato, secondo un montaggio analogico degli elementi comuni. Dunque, sia il processo che porta all’identità, sia quello che porta alla separazione sono estremamente vani, in quanti fondati su mere astrazioni.

In una corrispondenza con Arnauld che parte dal 1686 al 1690, Leibniz riferiva l’enorme progresso che questa scoperta scientifica riusciva ad apportare al suo concetto di sostanza. Con queste acquisizioni, Leibniz riuscì a negare del tutto che la sostanza dei corpi era l’estensione, e che essa, oltre la sua natura fenomenica, avesse anche una sua unità. L’unità dell’estensione, mostrò Leibniz, può essere solo assegnata, ma non può far parte della massa del corpo: è un predicato della sostanza, non della quantità, quindi va pensata come forma dinamica o legame (nexus) di stati successivi.

Cercato prima nella fisica, poi nella meccanica, questo principio unificatore (o principio interno) finirà per impregnare tutta la materia vivente. Se voglio intendere ancor meglio il concetto incompiuto di sostanza individuale, sarà necessario rivolgermi all’Io, su cui più direttamente sono in grado di riflettere:

Da quanto detto segue che i cambiamenti naturali delle monadi provengono da un principio interno, poiché una causa esterna non può influire sul loro interno. E in generale è lecito affermare che la forza non è altro che il principio del cambiamento.8

Ogni monade, o sostanza semplice, è costituita da due attributi essenziali: percezione e appetizione. È proprio nella percezione unitaria che il soggetto coglie di colpo ed in successione l’unità meta-oggettuale9 del reale: “Lo stato transitorio che implica e rappresenta una moltitudine nell’unità o nella sostanza semplice non è altro che ciò che si chiama percezione […]”.10 La “moltitudine”, o molteplicità, delle sostanze ha da intendersi non in maniera fenomenica, o quantitativa, ma a livello qualitativo come manifestazione di una totalità in sé armonica formata da punti di grado insensibile e continui. Secondo la formula generale che esprime Erdmann, la differenza fra due casi può essere minore di qualunque grandezza data in ciò che è posto (in datis) e ciò che risulta (in quaesitis):11Datis ordinatis, etiam quaesita sunt ordinata”.

5. Dottrina della conoscenza

Gli elementi. Sulle questioni poste, Leibniz cercò di difendersi dagli attacchi dei filosofi più acuti, come Locke, lavorando molto alla disposizione del materiale su cui aveva riflettuto.

In primo luogo diede preminenza al concetto di idea semplice, suddividendo le idee in chiare e oscure. Le idee chiare si suddividono a loro volta in distinte (dall’accezione cartesiana, danno origine alle definizioni nominali) e confuse12 (che si hanno quando non si possono enumerare separatamente caratteri di una cosa dall’altra). A loro volta le idee distinte si suddividono in adeguate, quando i caratteri sono conosciuti nitidamente attraverso una conoscenza intuitiva della natura della cosa, e inadeguate. L’algebra e l’aritmetica sono degli esempi di conoscenza simbolica, in quanto non si può mai essere certi che i segni matematici siano conosciuti intuitivamente.

La conferma del processo intuitivo arriva solo tramite le idee vere, che implicano una possibilità, mentre la sua smentita giunge con le idee false, ovvero contraddittorie. La possibilità dell’idea vera si può conoscere a priori (quando risolviamo l’idea nei suoi elementi e ne controlliamo la compatibilità causale) o a posteriori (cioè a seguito di una verifica sperimentale empirica).

Le idee semplici, come si vede, sono in realtà più complesse di quanto appare, e per la maggior parte degli uomini persino inarrivabili, per la loro tendenza a conoscere la natura attraverso l’imitazione. Senza contare, inoltre, che l’idea semplice sembra scaturire da un’analisi serratissima che si ferma al termine ultimo che non è da spiegare. In fondo alla verità che si poggia sull’esperienza vi è una ragione, la cui claritas raggiunge il culmine in un progressivo processo analitico co-estensivo all’essere.

Proposizioni. Come il criterio di verità dell’idea si trova nell’idea stessa, così il criterio di verità delle proposizioni è nei rapporti tra i termini di cui sono composte. Ad esse possiamo applicare due tipi di analisi: finita, che riguarda verità logiche necessarie, ed infinita che riguarda le verità de facto, contingenti, che si danno solo secondo decreto libero della volontà divina (es: Cogito ergo sum). Quante più verità primitive saremo in grado di far emergere da quella proposizione, quanto più la nostra intuizione avrà ridotto le proposizioni derivate a definizioni indimostrabili e identiche, tanto più la nostra conoscenza sarà ampia ed esaustiva.

La riduzione al derivato primitivo, o ragionamento, si opera per principio di contraddizione, “in forza del quale giudichiamo falso ciò che implica contraddizione e vero ciò che è opposto o contraddittorio rispetto al falso”,13 o per principio di ragion sufficiente, “in forza del quale consideriamo di non poter trovare vero o esistente alcun fatto, veritiero alcun enunciato, senza che vi sia una ragione sufficiente del suo essere così e non diversamente, per quanto tali ragioni ci restino per lo più ignote”.14

Così presi, questi principi di eminente derivazione aristotelica sembrano essere specifici per alcuni elementi (definizioni, verità d’esperienza, ecc.), ma Leibniz li descrive come forme universali di una scienza perfetta (“Ma la ragion sufficiente deve trovarsi anche nelle verità contingenti o di fatto”). Oggetti dell’esperienza e definizioni sono cose reali solamente grazie alle perfezioni divine che ne costituiscono la base. Cosa vuol dire quindi dedurre la fisica dalla metafisica? Per Leibniz vuol dire dedurre (nel senso stretto di “portare fuori”) le cose da un ordine generale, per dare loro una corrispondenza in datis et quaesitis tale da farci scorgere le origini delle verità eterne come attributi di Dio. Dio, secondo quel che può parere un paradosso, si rende depositario delle idee distinte, in quanto luogo dei possibili e nesso armonico dei compossibili,15 portatore nell’intellectus degli infiniti e nella volontà dal passaggio da un infinito all’altro (proprio come il passaggio dei géne aristotelici: metábasis eis állo génos). Dio calcola senza segni, secondo forme pure, dunque è ratio rerum per analogia con le cose, di cui ci permette l’astrazione infinitesimale per assicurarne la conoscibilità. La materia divina non è in aggiunta ai principi di contraddizione e di ragione sufficiente, ma è l’adequatio assoluta di essi.

6. Conclusione

È importante, alla fine di questo percorso selettivo, delineare la novità leibniziana nella sua dottrina della conoscenza.

Il grande merito di Leibniz è stato quello di porre la forma dell’individualità nell’infinita mescolanza dei generi. Si è trattato, nella prospettiva della storia delle idee, di conciliare la logica della qualità aristotelica, concettuale e rappresentativa, con la capacità astratta delle forme e dei rapporti cartesiani. Il passaggio da un genere all’altro, per Aristotele impossibile, in Leibniz trova la sua possibilità nell’analogia che ne divenne la sua stessa dimostrazione, a patto di trovare note correlative a quelle del calcolo infinitesimale. In questo senso è possibile parlare sicuramente di un passaggio da una logica statica ad una logica dinamica, che sarà fondamentale per l’impianto kantiano.16

Per Leibniz, le scienze matematiche, quando non fossero studiate a fondo possono condurre a teorie contrarie alla metafisica, ma, se rettamente adoperate, conducono ad una più salda convinzione e pratica della conoscenza di Dio.


  1. Per una chiarificazione ancora maggiore su questa suddivisione, si può consultare M. Mugnai, Introduzione alla filosofia di Leibniz, Einaudi, Torino 2001. ↩︎

  2. L’intreccio di logica e teologia, da me espresso col termine teo-logia, non deve far pensare al Leibniz del Systema Theologicum del 1686, che in chiave storica tentò la conciliazione tra chiesa protestante e chiesa cattolica. ↩︎

  3. E. Boutroux, La philosophie allemande au XVII siècle : Les prédécesseurs de Leibniz, Locke et la philosophie de Leibniz, Vrin, Paris 1929. ↩︎

  4. Importanti riflessioni sul movimento in Leibniz le ha effettuate per ultimo G. Deleuze, in La Piega, Leibniz e il Barocco, Einaudi, Torino 1990, in cui il concetto di velocità infinita come formula metafisica riprende proprio queste suggestioni. ↩︎

  5. Sull’importanza del calcolo infinitesimale nel sistema computazionale e informatico moderno, si veda M. Davis, Il calcolatore universale, Adelphi, Milano 2003. ↩︎

  6. Kuno Fischer, Geschichte der neueren Philosophie, in G.W. Leibniz, Heidelberg, 1920. ↩︎

  7. Cfr. Boutroux, 1929. ↩︎

  8. G.W. Leibniz, Monadologia, Bompiani, Milano 2001, p. 2. ↩︎

  9. Utile alla comprensione di questo uso di “meta-oggettuale” può essere il libro di E. Garroni, Immagine, linguaggio, figura, Laterza, Roma-Bari 2005. ↩︎

  10. G.W. Leibniz, Monadologia, Bompiani, Milano 2001, p. 4. ↩︎

  11. J.E. Erdmann, Vita Leibnitii a se ipso breviter delineata, Foucher de Careil, 1857. ↩︎

  12. Alla “cognitio confusa” Baumgarten darà una forte valenza nel campo della “scienza della conoscenza sensbile” (o estetica). ↩︎

  13. G.W. Leibniz, Monadologia, Bompiani, Milano 2001, p. 6. ↩︎

  14. Ibid↩︎

  15. Sulla volontà divina, sui mondi possibili, interessanti le osservazioni di S. Givone, Il bibliotecario di Leibniz, Filosofia e romanzo, Einaudi, Torino 2005, insieme al suo più recente intervento, dal titolo Dal romanzo della ragione al romanzo della follia, in Sapere e narrare, Figure della follia, a cura di M. Bresciani Califano, Leo S. Olschki, Firenze 2005. ↩︎

  16. Le influenze di Leibniz sulla cultura tedesca post-razionalista sino a Kant le ha ben delineate G. Tonelli, in Da Leibniz a Kant. Saggi sul pensiero del Settecento, a cura di C. Cesa, Prismi, Napoli 1987. ↩︎