Recensione a Paul Ricœur, Ricordare, dimenticare, perdonare. L’enigma del passato

P. Ricœur, Ricordare, dimenticare, perdonare. L’enigma del passato, Il Mulino, Bologna 2004, 124 pp.

Il libro Ricordare, dimenticare, perdonare riunisce due saggi di Paul Ricœur sui rapporti tra la memoria e la storia precedenti a La mémoire, l’histoire, l’oubli (Seuil, Paris 2000), e che ne costituiscono in qualche modo il lavoro preparatorio.

Il primo di essi, intitolato L’enigma del passato e pubblicato da Ricœur nel 1998, si colloca al confine tra epistemologia e ontologia.

Sul versante ontologico la domanda investe la passeità. Se Aristotele dice che «la memoria è del passato», come Ricœur non si stanca mai di ripetere, cosa significa del passato? Cosa significa «essere passato»?

La decisione iniziale è quella di considerare il passato indipendentemente dal futuro. Una simile scelta, tuttavia, si rivela successivamente inadeguata, provocando la frammentazione dell’enigma iniziale.

Viene posto in primo piano il problema della dualità tra l’«essente stato» e il «non essere più».

Mentre Heidegger promuove il primo facendolo l’autentico e originario significato del passato, Ricœur, invece, lo critica e sostiene il pari diritto di entrambe le definizioni. Il passato come «perduto», «trascorso», non va inteso soltanto come quel che non è più a portata di mano, ma anche come quel che abbiamo irrimediabilmente perduto, non però in un senso semplicemente privativo. L’idea di perdita, secondo lui, va riconsiderata: definire il passato come essente stato, «passa attraverso la prova della perdita e quindi attraverso il non esser più» (p. 11), dunque l’oblio si pone quale condizione di possibilità della memoria e della storia: «solo a condizione della separazione la distanza diviene significativa e si pone l’essente stato» (p. 11).

Questa oscillazione tra i due sensi di passato è in realtà il filo problematico che attraversa tutto il saggio. Lo ritroviamo anche nel secondo enigma, quello dell’eikon. Fa qui problema la doppia significazione dell’immagine o impronta impressa nella mente, in quanto contemporaneamente presenza e rinvio all’assente (sia esso reale o irreale). A ciò inoltre si lega la questione della somiglianza che intercorre tra l’evocazione presente del ricordo e l’impronta stessa: da che cosa si riconosce che un’immagine è veridica o meno? Il ricordo è un’immagine somigliante al fatto di cui custodisce l’impronta? Il discorso dello storico non oscilla pericolosamente tra fantasia e realtà? Sarà questo il tema centrale della prima parte di La mémoire, l’histoire, l’oubli.

Ricœur sostiene che bisogna fortemente dissociare memoria e immaginazione mostrando l’eterogeneità delle loro mire intenzionali, anche se in questo modo la problematicità dei loro rapporti non diminuisce affatto. Come sottolinea Bergson, il ricordo «puro» ritorna comunque sempre sotto forma di immagine. E nemmeno la storiografia è capace di attenuare la questione (che ripete nel suo concetto di traccia) con lo strumento della testimonianza (una delle categorie centrali dell’ultimo Ricœur).

Tutta questa crisi sul piano ontologico si riflette su quello epistemologico provocando l’indecidibilità radicale sullo statuto veritativo della memoria e della storia.

Si esce dalla impasse solo togliendo le parentesi al futuro e ripensando daccapo il passato in una più vasta dialettica delle tre dimensioni temporali, costruita grazie ad una libera meditazione sui testi di Agostino e Heidegger. Lo scopo di Ricœur è quello di mantenere passato, presente e futuro allo stesso livello di originarietà, denunciando al tempo stesso l’impossibilità di una loro totalizzazione, dunque la loro diaspora originaria. Si delinea allora il progetto di una «fenomenologia aperta della futurità, di contro alla fenomenologia chiusa dell’essere per la morte» (p. 27-28); una fenomenologia fondata su una particolare polisemia nata dalla applicazione al futuro della triade costituita dal proprio, il prossimo e il lontano: «propongo quindi di abbinare, d’ora in poi, la triade passato, presente, futuro alla triade del proprio, del prossimo e del lontano» (p. 28). Occorre separare l’esperienza del futuro, del «poter-essere», da quella della morte, esplicitando tutte le risorse non sfruttate da Heidegger. Sotto questo profilo diventa recuperabile il problema epistemologico.

La dialettica delle tre dimensioni temporali è la dialettica della «coscienza storica», la quale, riprendendo i termini di Koselleck, si configura come una polarità tra «spazio di esperienza» e «orizzonte di attesa».

La storia, nonostante la sua impostazione retrospettiva, subisce l’effetto secondario dell’orientamento verso il futuro, l’orizzonte di attesa, presente comunque nello storico, in quanto cittadino e uomo. Si apre così un quadro assai paradossale: nella rappresentazione storica si incrociano passato e futuro, influenzandosi reciprocamente. Lo mostrano infatti due esperienze: il limite della colpa e del perdono. La prima è «il fardello che il passato fa pesare sul futuro» (p. 36). Il secondo invece è una re-interpretazione di quel che è accaduto, il cui senso non è fissato una volta per tutte. La memoria viene rivisitata dal progetto del futuro e offre un modello alla conoscenza storica. In tal modo la fedeltà della memoria aiuta la verità della storia e viceversa.

Il secondo saggio di questa raccolta, intitolato Passato, memoria, storia, oblio (1996), riprende i problemi sollevati dal primo in una forma più analitica.

Un esame privilegiato è riservato al problema della natura del ricordo, se esso cioè possa definirsi individuale o intersoggettivo. Ricœur oppone la tradizione riflessiva e intimistica di Agostino e Husserl alle tesi del sociologo francese Maurice Halbwachs sul primato della memoria collettiva. Grazie ad una rilettura della Quinta meditazione cartesiana, integrata da alcune osservazioni desunte dalla sociologia e dalla psicoanalisi, egli elabora la tesi della costituzione reciproca e simultanea del ricordo soggettivo e di quello sociale. L’attenzione viene in seguito concentrata sul problema ancor più urgente degli usi e abusi della memoria. Esiste infatti una patologia della memoria, sia a livello sociale che personale, la cui condizione è la fragilità estrema dell’identità personale o collettiva. Vengono allora scelti due testi di Freud, Ricordare, rielaborare, ripetere e Lutto e melanconia, su cui è esercitata un’analisi particolarmente attenta alla nozione di lavoro. Ricordarsi, nella situazione analitica, è un lavoro, «lavoro di rimemorazione contro coazione a ripetere» (p. 74). Il lavoro di lutto è accostato al lavoro di memoria: «il lavoro del lutto è il prezzo del lavoro della memoria, e il lavoro della memoria è il beneficio del lavoro del lutto» (p. 79).

Troppa o troppo poca memoria sono le forme di un passato che resta ancora troppo legato al presente. È il «passato che non vuole passare». Un autentico lavoro della memoria deve prendere le distanze da questo tempo malato. La storia allora si aggancia alla memoria, sfrutta la sua capacità di distanziazione, e a sua volta esercita, per contraccolpo, una funzione critica su di essa, nel senso di una terapeutica delle sue patologie, e lo fa operando su tre livelli: la ricerca dei documenti, la spiegazione storica e la composizione dei grandi quadri storici cioè gli enormi affreschi narrativi di un’epoca. La memoria tuttavia conserva un ultimo privilegio: «quello di ricollocare la storia, in quanto disciplina puramente retrospettiva, nel movimento della coscienza storica» (p. 92).

L’ultima parte del saggio è un prolungamento in direzione dell’oblio e del perdono. Ricœur ipotizza la distinzione di due livelli di profondità del primo: l’oblio profondo (operante contro la memoria come ritenzione e conservazione) e quello manifesto (contro la memoria come rimemorazione, richiamo). Il secondo livello dell’oblio si divide in tre diverse tipologie: l’oblio «passivo» è la coazione a ripetere, il passaggio all’atto che sostituisce il ricordo; l’oblio «semi-attivo» e «semi-passivo» rappresentano la fuga, un «non volerne sapere» ambiguo e irresponsabile. L’oblio attivo, proprio del racconto, è invece selettivo e risponde ad una necessità inerente al compito stesso di raccontare. Il perdono è una forma di oblio attivo indirizzato alla colpa e il cui oggetto non è il passato come tale ma il suo senso. È un dono di riconciliazione che si offre, ma che lascia sempre il debitore o l’assassino insolvente. Per quanto l’agente valga sempre di più dei suoi atti, per quanto questi ultimi siano separabili da lui, per quanto egli possa fare dichiarazioni del suo pentimento e del suo rammarico, tali atti continuano comunque a seguirlo e a condannarlo. Ci troviamo allora collocati in un’economia al di fuori di ogni forma di scambio, un rapporto non commerciale: «l’amore ai nemici è la misura assoluta del dono, alla quale è associata l’idea di prestito senza speranza di ritorno» (p. 115). A queste considerazioni Ricœur aggiunge l’idea di perdono difficile. Egli dice: «il perdono difficile è quello che, prendendo sul serio il tragico dell’azione, punta alla radice degli atti, alla fonte dei conflitti e dei torti che richiedono il perdono: non si tratta di cancellare un debito su una tabella dei conti, al livello di un bilancio contabile, si tratta di sciogliere dei nodi» (p. 116). Il perdono inteso come perdono difficile è il perdono esercitato in situazioni estreme. È Hegel qui, a fare da guida: «esso esigerebbe, dice Ricœur (commentando il termine del capitolo sesto della Fenomenologia dello spirito), un abbandono simmetrico e simultaneo della unilateralità, mentre la coscienza “giudicante”, erede dell’“anima bella”, riconosce il proprio altro, la coscienza “operante”, che appartiene all’“eroe dell’azione”, e viceversa» (p. 117). Dunque il perdono va inteso come riconciliazione, un «riconoscere reciproco che è lo spirito assoluto» dice Hegel. E questo soprattutto nei casi di torti irreparabili.

Diventa chiaro, alla fine, il senso della distinzione tra l’«essente stato» e il «non esser più», da cui abbiamo preso le mosse: il perdono è una forma di oblio che ci aiuta a ricordare meglio, a rivisitare le nostre tradizioni, è un prendere serenamente congedo da un passato che non vuole passare. La memoria diventa così strumento per la costruzione di un futuro consapevole.