Il paradigma analogico. Radicalizzazione e crisi della fenomenologia in Enzo Melandri

Sì, Julie, è molto strano. Vorrei non pensare più, se tutto si mette così a parlare. Ci sono pensieri, Julie, per cui non dovrebbero esserci orecchi. Non è bene che strillino già nascendo, come bambini, non è bene. (G. Büchner, La morte di Danton, 1835)

1. Premessa1

Il presente saggio intende ripercorrere la continuità del percorso di Enzo Melandri attorno al tema cruciale della fenomenologia.2 La tesi proposta è che l’interesse per l’analogia sorge in Melandri come una risposta al problema della fondazione del programma fenomenologico e della possibilità dell’intuizione eidetica, che del primo rappresenta il nucleo più autentico. Si dà perciò, in Melandri, il tentativo di una fondazione analogica della fenomenologia. Tale progetto risulta particolarmente evidente già in Logica ed esperienza in Husserl (1960) e, pur subendo importanti modifiche in testi come l’introduzione al manuale di Copi o Alcune note in margine all’Organon aristotelico (1964), trova la sua massima espressione in La linea e il circolo, l’opus magnum del 1968.

Il secondo capitolo di Logica ed esperienza in Husserl si apre con un’affermazione secca e concisa: «Il più importante problema della fenomenologia, nel senso che da esso dipende la sua stessa esistenza, è l’intuizione eidetica». La fenomenologia «è basata sull’intuizione eidetica3: se questa cade, cade anche la fenomenologia».4 Nell’ottica melandriana, ciò che rende possibile l’intuizione eidetica, e dunque la fenomenologia stessa, è l’analogia. In un passo dei Paradossi dell’infinito, questo punto è espresso molto chiaramente: «L’unico principio di analogia entis che tiene insieme tutti questi modi [dell’essere] impendendone il disgregarsi nell’acosmico di una continua pluralità è costituito dalla nozione di intenzionalità»; infatti, «la caratteristica proprietà transitiva degli atti di coscienza rimane identica in tutti i modi, e consente all’intenzionalità di assolvere la funzione universale di schema trascendentale. Proprio questo fondamento analogico permette a Husserl di parlare di una intuizione intellettuale».5 Melandri richiama qui la formula storica, non aristotelica, della analogia entis, carica di senso e di tradizione,6 applicandola all’intenzionalità. Esiste un’unità analogica tra le diverse accezioni dell’essere corrispondenti ai diversi modi di datità del fenomeno e questo rende plausibile l’intuizione eidetica.

In Logica ed esperienza in Husserl e nei Paradossi, l’analogia assume sempre maggiore importanza e si trasforma fino a diventare qualcosa di più che un tema descrittivo. Diventa infatti un principio meta-teorico, meta-fenomenologico, una «dialettica dei distinti» che permette, orienta e dirige lo sguardo stesso del fenomenologo, lo statuto della descrizione. Se la fenomenologia è possibile, l’analogia dev’esserne il fondamento.

In La linea e il circolo, Melandri compie il passo successivo, ponendosi la domanda radicale: che cos’è l’analogia? È vero che, come vuole il logico, «non si possono definire esplicitamente quei termini che abbiamo promosso al rango di primitivi proprio allo scopo di determinare per loro mezzo tutti gli altri».7 Tuttavia c’è da colmare una distanza: «fra la prassi e la teoria dell’analogia il divario è immenso».8 A quel punto la fenomenologia si trasformerà in archeologia. Questo gesto aprirà una crisi profonda della fenomenologia stessa. L’analogia è infatti a sua volta analogica: richiama una famiglia di concetti, tesi, problemi, discipline e prassi tenuti insieme da un centro, un principio di analogia, che però alla fine si rivela vuoto, una chimera. La famiglia è destinata alla disgregazione, al dissidio.

Il nostro schema interpretativo punta quindi sull’unità e sulla coerenza del percorso melandriano, considerandolo un’originale proposta filosofica, e fenomenologica nello specifico.

2. Le idee si vedono

Intuizionismo è la parola chiave. Esiste un’apprensione diretta di entità non individuali, cioè di essenze, idealità essenziali. Le idee si vedono. L’affermazione, tuttavia, parrebbe oscura e, comunque, per nulla originale, se non ne cogliessimo l’autentica tonalità fenomenologica. E questa tonalità può essere afferrata soltanto alla condizione di comprendere quest’affermazione a partire da due concetti chiave: il trascendentale e l’intenzionalità. In effetti, le essenze sono i) strutture trascendentali — condizioni di possibilità — ii) dell’intenzionalità, e cioè della stessa relazione tra soggetto e oggetto. Wesen per Husserl è sinonimo di operativo: l’essenza opera, costruisce, orienta l’esperienza. Ciò che è effettivamente dato — il mero dato fenomenologico: l’Ur-Impression, il campo della datità — contiene in se stesso una matrice strutturale che costruisce, ogni volta secondo modalità diverse, un polo soggettivo e un polo oggettivo. Ecco che allora ogni esperienza diventa prospettica: una formazione dinamica che si articola progressivamente seguendo il filo di un asse centrale — l’essenza. La fenomenologia è un empirismo eidetico.

Connettendo l’intuizione eidetico-categoriale al concetto di trascendentale e al principio generale di intenzionalità, Husserl fa tre cose fondamentali: i) si libera di Kant e del neokantismo,9 e cioè si sbarazza di una concezione gnoseologica basata sulla dicotomia radicale tra esterno e interno, tra sensibile e intelligibile, tra ricettività e spontaneità, tra oggetto e soggetto, e con ciò si libera anche dell’immensa questione dello schematismo trascendentale; ii) si libera poi di Platone, perché le idee di cui ci parla Husserl non sono sostanze, enti separati dalle cose individuali, bensì operazioni, nessi strutturali che legano l’esperienza o, come scrive Melandri, «un complesso dinamico di relazioni».10 iii) Si libera, infine, di Brentano, poiché «il distacco di Husserl da Brentano dipende da una diversa interpretazione del senso dell’intenzionalità».11

L’intuizione eidetica fenomenologica — indistinguibile dal postulato di una visione impregiudicata della realtà, «di una dedizione all’oggetto colto intuitivamente»12 — non è affatto un «vago possesso mistico dai contorni irrazionali, con una capacità divinatoria abilitata a guardare dentro le cose»,13 bensì un procedimento, un metodo attraverso cui «si volge lo sguardo conoscitivo non direttamente ai dati sensibili da cui ogni oggetto è composto, bensì alla rispettiva struttura categoriale che isola il sistema di nessi relazionali non più riportabili alla forma meramente associativa, in quanto latori di una congruenza che promuove lo scandalo di un’intuizione intellettuale».14 L’intuizionismo fenomenologico punta dunque verso un’ontologia pensata come chiarificazione dell’essenza, «analitica delle leggi di essenza portatrici di un a priori non ancorato alla pura veste concettuale».15 Sul senso di questa ontologia si consumerà la rottura tra Husserl — con la sua svolta trascendentalista post 1907 — e i primi circoli fenomenologici realisti lippsiani di Monaco e di Gottinga, il cui esponente di spicco resta Adolf Reinach.16

Melandri si pone in un’ottica strettamente realista17 — sottolinea la derivazione del concetto di a priori materiale dalla scoperta dei «momenti figurali» con cui von Ehrenfels aveva fondato la Gestaltpsychologie18 — ma compie un passo in più. Nel senso ch’egli interroga direttamente il nesso in questione: essenza-trascendentale-intenzionalità. L’analogia si pone al di qua di questo nesso, poiché lo fonda e ne garantisce la dinamicità.19

Della visione eidetica, autentico organon della fenomenologia, Melandri distingue tre fasi: a) la formalizzazione, nella quale un oggetto è considerato come un esemplare astratto, un modello universale, il filo conduttore dell’analisi; b) la variazione, nella quale il modello è usato per produrre una serie, cioè una molteplicità illimitata di variazioni ad libitum — l’immaginazione produce tante possibili variazioni di quello stesso tema; c) la scoperta di una unità funzionalmente identica che attraversa tutta la serie — una struttura immanente e invariante, una forma necessaria.20

Che cosa differenzia questo processo dall’induzione o dalla generalizzazione? Si direbbe, a prima vista, nulla. In realtà, una differenza c’è, ed è essenziale: la visione eidetica si rivolge a tutte le datità, sensibili e intellettuali — e non solo alle prime. In fenomenologia non esistono datità assolute. Dunque la visione eidetica diventa un elemento strutturale interno al campo stesso delle datità; è possibile solo perché il campo delle datità dal quale il fenomenologo prende le mosse possiede una certa unità, un’equiparazione tra sensibile e intellettuale. L’intuizione intellettuale è un’intuizione come l’intuizione empirica; il Wesen dev’essere posto sullo stesso piano del Tatsache. Datità empiriche e datità concettuali, così come le rispettive grammatiche e sintassi, hanno uguale importanza e possono essere entrambe, con uguale diritto, assunte quali filo conduttore dell’indagine sul dato. Ciò, tuttavia, non significa identificare le une alle altre. L’unità del campo delle datità fenomenologiche conserva e rispetta l’alterità dei dati stessi: l’intuizione eidetica non è l’intuizione empirica, il Wesen non è il Tatsache. Parleremo, allora, di un’unità fluida, che tiene insieme identità e differenza: un’unità analogica.21

Il fenomenologo realista deve presupporre questo tipo di continuità tra l’analitico e l’estetico, tra l’apodittico e l’assertorio, altrimenti non potrebbe mai concepire qualcosa come un’«intuizione eidetica» e un «a priori materiale», e una descrizione integrale del dato risulterebbe impraticabile. Tanto l’analitico quanto l’estetico vanno ricondotti a un unico fondo prassico, antepredicativo, storico, Lebenspraxis. La dedizione all’analisi del dato fa tutt’uno con un’ammissione analogica circa la natura della datità stessa, che è sempre la stessa pur cambiando. Ci atteniamo ai dati — ecco; ma per farlo davvero dobbiamo considerarli tutti, metterli tutti «sullo stesso piano», pur senza confonderli. Scrive Melandri:

Il modo intuitivo di apprensione dell’Eidos va inteso cum grano salis: l’ideazione non sta sullo stesso piano della percezione, né può sostituirla o avere luogo in sua assenza. Anche quando pongo le categorie stesse a oggetto del mio pensiero, l’intuizione categoriale avviene sempre sulla base e attraverso di una qualche percezione simbolica, o rappresentativa, di esse. Mentre la Wahrnehmung è schietta intuizione di una qualità ontica, la Wesensschau è invece quasi-intuizione di una quasi-qualità. Si tenga presente che il quasi tedesco va letto alla latina (quasi, also-ob, «come-se»): piuttosto che di approssimazione, ha un significato di analogia. L’approssimazione è un concetto quantitativo di relazione: essa concerne due termini che si trovano sullo stesso piano e sono quindi almeno per un verso omogenei. L’analogia è invece una relazione fra i piani diversi di due termini essenzialmente eterogenei. Perciò tutti questi «quasi-» vogliono dire che l’intuizione eideitica non è né identica né approssimativamente comparabile all’intuizione vera e propria, o sensibile; ma solo analoga: e cioè identica soltanto nella funzione. Di fronte a ogni ideazione, la percezione, in quanto è la forma più semplice, schietta e immediata di esperienza, conserva sempre il suo primato ontico. Affondando le sue radici nel fondamento antepredicativo dell’esperienza, l’estasi percettiva, ed essa sola, fa sì che l’oggetto possa venirci incontro nella sua vivente presenza. Confrontata a essa, la Wesensschau non è vera intuizione, ma pseudo-intuizione. Il suo oggetto non è mai un individuo reale, bensì una «specie» irreale, una cosa che «è» ma che propriamente non «esiste»: in una parola, un’«essenza». Tuttavia essa può dirsi «analoga» alla percezione in un senso nient’affatto superficiale: poiché ha in comune con ogni intuizione l’unità e la presenza immediata del suo oggetto. Solo che qui la presenza non ha carattere né individuale, né reale, né temporale.22

L’analogia non si presenta, allora, come un concetto operativo cui il fenomenologo farebbe ricorso nelle sue analisi, bensì come qualcosa di talmente intrinseco allo sguardo fenomenologico che viene alla luce solo in una riflessione di secondo grado su questo stesso sguardo, a un livello meta-teorico. In tal senso, l’analogia non è una super-essenza che si sovrapporrebbe ad altre essenze, né una sorta di schema trascendentale, come una funzione mediatrice universale interna alla conoscenza. La «correlazione omogeneizzatrice» dell’analogia si dà nell’operare stesso del fenomenologo, consentendogli di non cedere alla tentazione di una banale sovrapposizione tra empirismo e razionalismo.

Una cosa è certa: prima di Husserl nessuno si era mai posto esplicitamente il problema del carattere assertorio dello stesso apodittico. Dove ciò avveniva, era per convalidare una qualche tesi metafisica di realismo trascendente, per cui il vero problema passava subito in secondo piano o subiva una irrimediabile degenerazione. A differenza di Brentano, Husserl non cerca di ridurre direttamente l’apodittico all’assertorio, ma si sforza di trovare una correlazione omogeneizzatrice fra i due. La mediazione può avvenire in due sensi. Si tratterà, da un lato, di imparare a leggere in ogni Dasein il suo apodittico Sosein; e, dall’altro, di riuscire a cogliere il diretto carattere evidenziale delle essenze. Qui ci interessa soprattutto quest’ultimo punto. Infatti scoprire l’assertorio nell’apodittico vorrebbe dire dare una base estetica all’intera analitica. Ove questo risultasse possibile, le obbiezioni dirette contro l’intuizione intellettuale verrebbero a cadere, poiché questa disporrebbe allora di un concreto fondamento. «Dare una base estetica all’analitica» o «fondare empiricamente la logica» sono qui due espressioni equivalenti: perché in un caso o nell’altro bisogna ammettere che l’apprensione degli oggetti intellettuali ha un genuino momento intuitivo.23

Sempre in Logica ed esperienza, l’analogizzazione che fonda la logica fenomenologica («la logica fenomenologica è fondata sulla correlazione stessa»)24 è chiamata da Melandri anche «dialettica dei distinti». Analogia e dialettica si presentano fin dall’inizio come due concetti correlativi. Tra l’assertorio e l’apodittico, «solo quando avremo trovato il modo di trasformare la classificazione dei distinti in una concreta «dialettica dei distinti» si potrà pensare di essere sulla buona strada».25 Infatti «non bisogna mai dimenticare che anche la distinzione, e perfino l’opposizione non sono in fondo che casi particolari di relazione; di cui occorre, infine, ricuperare il nesso implicitamente unitario».26 Ed è a questa «dialettica dei distinti» che richiama direttamente il paragrafo 16 di Logica ed esperienza in Husserl. La possibilità della visione eidetica esige un’ontologia analogica, nella quale il principio di intenzionalità gioca il ruolo di analogia entis, permettendo di superare la dicotomia tra analitico ed estetico.

L’essere, osserva Aristotele, si dice in molti modi: to on legetai pollakos. Tuttavia, benché si definisca in molti modi, ogni volta l’essere va inteso come relativo a uno solo, secondo questo o quel carattere intrinseco, e non equivocamente: […] Questa osservazione può a sua volta essere intesa in molti modi. Tirando le somme, si possono delineare due grandi classi di modalità ontiche: una a carattere analitico, che comprende altrettanti modi di essere per quante sono le forme di categoria […]; e una a carattere estetico, che considera esclusivamente la presenza attuale dell’essere nei suoi due modi fondamentali: dynamei kai energheia […] .27

Husserl si distacca da Brentano con l’ammettere il principio di una essenziale equivocità dell’essere: l’essere sarà sempre relativo al modo del suo darsi, e non potrà mai essere univoco se non volta per volta, rispetto alla situazione considerata. Così, dovremo riconoscere che, accanto all’attualità della percezione sensibile, accanto all’essere reale, anche il categoriale, l’essere ideale, è una modalità ontica, una forma di datità originaria, Selbstgegebenheit. Infatti, «non si tratta di erigere degli edifici speculativi, ma di indicare esattamente il senso, la natura e la modalità di ciò che si dice «dato»: das sind Hinweise, nicht Theorien».28 Ma il principio della equivocità dell’essere può condurre a conseguenze paradossali:

Se dunque l’essere è essenzialmente equivoco, e cioè volta per volta relativo al modo del suo darsi, ne discende che è impossibile indicare un ente privilegiato, con funzione di esemplare di datità assoluta. In corrispondenza dei diversi modi di datità avremo quindi distinti tipi di evidenza. Anziché un’unica, avremo poi varie estetiche trascendentali coordinate. E perciò, anziché un’unica fenomenologia, ne avremo tutta una serie: una fenomenologia dell’arte, una della scienza (anzi: di questa o di quella scienza), una dell’esperienza religiosa, della prassi giuridica, della vita quotidiana, ecc.: in ciascuna delle quali l’intero problema fenomenologico si ripropone ogni volta. Ciascuna di esse ha infatti un suo particolare criterio di datità, ossia una diversa modalità ontica da eleggere a modello esemplare. In quanto «distinti», questi e tutti gli altri possibili modi di datità saranno quindi anche autonomi: ossia capaci ciascuno di una propria diretta evidenza ostensiva. Il numero dei possibili distinti deve poi tenersi per illimitato. In linea di principio, bisogna ammettere che ogni uomo ha i suoi particolari pregiudizi e che ognuno ha il diritto di assumere a criterio di datità quel che più gli aggrada. Per ogni singola persona, quindi, avremo una diversa fenomenologia, anzi, di nuovo una serie di diverse fenomenologie: secondo l’età, le compagnie che si frequentano o l’umore momentaneo. In queste condizioni, porsi il problema di un’evidenza assoluta, intermodale e capace di fungere da norma universale, è chiaro che non può avere alcun senso. Il principio della equivocità dell’essere va dunque limitato. Ma come?29

La risposta a questa domanda è trovata da Melandri nel principio di intenzionalità. Il riferimento alla soggettività trascendentale quale senso della stessa distinzione naturalistica tra soggetto e oggetto — con tutto l’apparato disgiuntivo che questa trascina dietro di sé — funge da principio limitativo dell’equivocità dell’essere come essere-dato. L’intenzionalità

è infatti una proprietà esclusiva della «noesi»: è ciò per cui anche la stessa matematica può infine definirsi un’opinione. Spariscono con ciò i confini regionali fra esterno e interno, fra oggetto e soggetto, fra scienza e opinione, fra noumeno e fenomeno, fra essere e cogito, e così via; non però il senso della loro distinzione. Che questo senso sia, in ultima analisi, di nuovo soggettivo, non vuol dire ricadere al punto di partenza. La soggettività di cui si tratta in questo caso non è quella naturalistica, per cui oggetto e soggetto stanno sullo stesso piano. Il significato del trascendentale può anche essere espresso dicendo che, in tutte le coppie correlative di termini opposti del tipo citato, uno dei termini della coppia è asimmetrico e svolge, oltre a quella normale di opposto, anche un’altra funzione. Mentre cioè il termine oggettivo è statico e conserva un valore semplicemente ontico, quale punto di riferimento convenzionale, quello soggettivo ne ha anche uno ontologico o meglio trascendentalmente costitutivo. Per questo l’intenzionalità può fungere da principio universale di analogia entis: come ciò che consente di considerare tutti i modi, le specie e le regioni di enti in una maniera che sia insieme flessibile e rigorosa, articolata e unitaria, particolare e universale.30

La riduzione trascendentale non cancella il mondo reale, bensì svela l’autentico senso della distinzione tra immanenza e trascendenza. «Per la prima volta diventa così possibile un empirismo veramente radicale».31 Nella distinzione tra soggetto e oggetto appare un’asimmetria: mentre l’oggetto resta quel che è — il riferimento ontico — il soggetto assume un duplice ruolo, quello di correlato oggettivo — e quindi ontico esso stesso — e quello di principio trascendentale e intenzionale. In questo secondo ruolo, il soggetto diventa il fondamento della considerazione sinottica — la «correlazione omogeneizzatrice» — del momento soggettivo e del momento oggettivo. La distinzione iniziale è così oltrepassata, senza essere cancellata, in un’unità di grado più elevato e sintetico, finalistica in un certo senso.

3. Oltre la logica: zurück zu Kant

Il terzo capitolo di Logica ed esperienza in Husserl, che ha come titolo: Il senso della compromissione cosmologica del pensiero, approfondisce la linea appena tracciata. Posto che l’intuizione eidetica è l’organon della fenomenologia, la condizione di un’autentica descrizione, condizione dell’intuizione eidetica è un’ammissione analogica di fondo riguardante la datità stessa.

In questo capitolo Melandri chiarisce un aspetto chiave: la fenomenologia non è riconducibile né al trascendentalismo di marca kantiana e neo-kantiana né al qualsivoglia intellettualismo razionalistico o formalistico. Tra Kant e Husserl, il senso del trascendentale si trasforma profondamente. E l’analogia gioca un ruolo chiave in questo passaggio, perché la logica fenomenologica è una logica analogica. Se la grande svolta della fenomenologia — alimentata dalla scoperta dei momenti figurali — è quella del primato della relazionalità oltre la distinzione tra logica ed esperienza, è solo attraverso l’analogia che possiamo e dobbiamo portare fino in fondo questa inesauribile scoperta. Per questo motivo, anche le critiche allo psicologismo e all’empirismo vanno ridimensionate e ricomprese: Husserl condanna soltanto lo psicologismo e l’empirismo «male intesi», ovvero basati su una visione ingenua, naturalistica delle cose, che si ferma al dato di fatto.32 In tal senso, la fenomenologia «si candida a essere la forma, forse più autentica, di empirismo radicale».33

Al centro della teoria fenomenologica troviamo l’intenzionalità pensata come una «operatività recondita in tutto il divenire mondano»;34 ma ancor più centrale è il nesso tra l’intenzionalità e il flusso temporale. Tutto parte da- e tutto torna a- questo flusso vivente, che è pura relazionalità. Il flusso presenta due lati connessi: a) il lato passivo, o potenziale, l’intenzionalità pensata come «una forza quasi fisica, immanente nel flusso e operante quale causa motrice dello stesso»,35 che rinvierà aa) oggettivamente agli a priori materiali, le strutture antepredicative, che riguardano i contenuti dell’esperienza, aaa) soggettivamente alle sintesi temporali della ritenzione, della percezione e della protensione; b) il lato attivo, o attuale, che invece comprenderà bb) oggettivamente la logica classica e l’assiomatica generale, completamente pura — i concetti formali di «cosa» e di «connessione», declinati sui tre livelli distinti da Husserl in Logica formale e trascendentale: Formenlehre, Konsequenzlehre, Wahrheitslehre), bbb) soggettivamente le sintesi temporali della memoria, della riflessione e dell’anticipazione. Tra i due lati c’è una continuità dinamica, nel senso che l’uno fonda l’altro. La fenomenologia si definisce come una «scienza eidetica materiale»36 e mette a tema questa continuità. Va dunque evitato il pregiudizio della esemplarità della matematica e della logica formale; nessuna matematica, nessuna logica formale può reclamare un primato fondazionale, perché il formale e il materiale debbono comprendersi reciprocamente, l’uno mediante l’altro.

In base a tali presupposti, la pretesa di una logica assolutamente formale risulta acritica e dogmatica. Per Melandri, la logica formale non basta a se stessa. Lo dimostra bene la situazione del suo principio tradizionalmente più rappresentativo: «Benché non si possa senz’altro asserire che il principio di non-contraddizione (e di terzo escluso) contiene già un elemento empirico, bisogna nondimeno riconoscere che la sua motivazione oltrepassa l’ambito della pura e semplice formalità».37 E nella misura in cui «una motivazione immanente forma sempre il nesso operativo che rende possibile la costituzione di una certa regione di oggettività intenzionali (in questo caso l’ontologia e l’apofantica formale), anche il principio di non-contraddizione assume un significato trascendentale».38 In altre parole, non riconoscere la motivazione del principio di non-contraddizione significa condannarsi al dogmatismo e al solipsismo. E per chiarire il significato di tale motivazione — qui ovviamente non si può non riconoscere in Melandri l’impronta, oltre che di Husserl, anche di Paul Lorenzen e della konstruktive Wissenschaftstheorie — dobbiamo rivolgerci ai due difetti congeniti che Melandri individua nella logica formale: a) non è abbastanza formale, poiché si riduce infine a essere soltanto un’apofantica, cioè unicamente una teoria delle forme del giudizio; b) è troppo formale, poiché in essa gli oggetti logici sono troppo separati dal loro contesto operativo, e diventano «cose completamente alienate».39

In Logica ed esperienza la critica al formalismo logico si lega a un secondo aspetto, d’importanza capitale: l’affermazione della distanza tra fenomenologia e kantismo. La fenomenologia inverte il «senso di marcia» della logica trascendentale kantiana. Negando la possibilità dell’intuizione eidetica e dell’a priori materiale, cioè di un accesso diretto al trascendentale, il kantismo era costretto a pensare l’intelletto in maniera soltanto simbolica, a radicalizzare la distinzione tra logica ed esperienza, tra spontaneità e ricettività, che infatti assumeva in esso i tratti di una dicotomia radicale, e quindi a seguire un andamento regressivo e apagogico. Se infatti non esiste un accesso diretto al trascendentale, quest’ultimo diventa il punto di arrivo di una regressione che va dal dato alle condizioni di conoscibilità soggettive del dato stesso. «In queste condizioni, è umano che il richiamo al trascendentale finisca o in una mera petitio principii o in una surrettizia costruzione metafisica».40

Escludendo la relativizzazione antropologica della kantiana «mitologia delle facoltà», la fenomenologia cambia il senso della ricerca trascendentale. Husserl non dice soltanto che l’intuizione eidetica è possibile, e che su di essa si fonda la fenomenologia. Dice anche — e questa è la mossa veramente rivoluzionaria — che l’intuizione eidetica è un processo, non una visione immediata, inspiegabile, improvvisa, un atto mistico-contemplativo o una forma di conoscenza originaria e autofondata. Per Husserl, l’intuizione eidetica è una procedura costruttiva (un insieme di confronti, verifiche, scelte, ecc.), un processo controllabile porta alla forma invariante (semantica e ontologica) e «salva i fenomeni»;41 è un organon che il fenomenologo può e deve gestire in base ai suoi scopi, come una sorta di microscopio attivabile a diversi livelli e su diversi materiali. «Il trascendentale dev’essere inteso come la sede di ogni a priori sintetico».42 Così, se Kant risale dal dato alla condizione di possibilità, abbandonando il primo, Husserl mostra la condizione di possibilità del dato nel- e grazie al- dato stesso. La riflessione deve spingersi in avanti, assumere un senso progressivo, dal basso: possiamo conoscere il trascendentale poiché esso sta già nelle cose che ci circondano e con le quali siamo sempre, necessariamente in relazione. La fenomenologia è una logica euristica.43 Ma leggiamo uno dei passaggi più significativi di Logica ed esperienza, dove torna a farsi valere il potere dell’analogia:

In virtù di questo essenziale carattere sintetico, intuitivo e materiale, la logica fenomenologica non è mai una logica della mera identità; non è mai, vale a dire, tautologica. E proprio perché in essa l’analitico ha valore solo fin tanto che se ne possa considerare insieme il fondamento estetico, la logica fenomenologica oltrepassa il livello dei truismi e assume un valore euristico. Essa opera con un particolare concetto di identità, non equazionale ma schematico: e che appunto per questa ragione non può mai esser tautologico, in quanto vi si confondono due momenti eterogenei. In opposizione a quella vera e propria, o formale, l’identità fenomenologica è sintetica, dinamica e analogica. Nella concreta «identificazione», di fatto — ossia nell’operazione con cui si stabilisce una relazione di identità — è sempre insito un momento sintetico. Di questo nessuno vorrà dubitare. La questione è se tale fatto abbia valore logico. Per la logica fenomenologica la risposta non può che essere affermativa. Il concetto logico di identità non deve separarsi dal concreto processo di identificazione cui appartiene; in ogni caso, non prima di aver accertato se e come ed entro quali limiti tale astrazione risulta innocua. E invero, come si è visto, l’orizzonte trascendentalmente operativo in cui risulta di necessità collocato ogni ente (anche quello logico), non è senza conseguenze per la determinazione del suo senso. Il fatto che l’identità sia concepita a partire dall’identificazione e che l’identificazione venga intesa come la scoperta di un tratto di identità nell’eterogeneo e nel diverso, fa sì che la logica possa conservare, a onta di tutte le formalizzazioni, un essenziale valore euristico e che in essa diventi visibile l’emergenza del razionale sul fatto.44

4. Dalla logica alla prassi: alla scuola di Lorenzen

Con l’accentuazione del tema dell’analogia, La linea e il circolo è figlia della critica della logica formale e del convenzionalismo neopositivista avviata in Logica ed esperienza e presente persino negli ultimi lavori di Melandri: dalle lezioni raccolte in Contro il simbolico al commento della Prima Ricerca logica e oltre.45 È figlia, più precisamente, della volontà di un superamento fenomenologico — preteoretico, antepredicativo, estetico — della logica, o meglio: delle logiche. L’analogia vuole essere il fondamento fenomenologico delle logiche. Il problema è che a un certo punto, in questo cammino, si apre una crisi interna ed estrema: la scoperta del «chiasma ontologico», una frattura tra la logica e l’esperienza talmente profonda che nemmeno all’analogia riesce il recuperarla. Crisi, tuttavia, non significa affatto fallimento del progetto bensì trasformazione di quest’ultimo nel più classico dei «passi indietro» di heideggeriana memoria.

Ma non spingiamoci troppo avanti. L’attacco alla pretesa di una logica puramente formale è un tema ripreso, approfondito e ricalibrato da Melandri nei lavori immediatamente successivi a Logica ed esperienza, e in particolare nell’importantissima introduzione al manuale di Irving M. Copi, che segna un punto di svolta verso La linea e il circolo. In essa si ripropone la critica della logica formale: diventa acquisito che il superamento del formalismo può e deve realizzarsi soltanto attraverso il formalismo stesso. «La lotta contro il formalismo va condotta con le sue stesse armi. Vale senz’altro la pena di sostenere questa lotta, anche se pare certo che non ci sarà mai qualcosa come una vittoria definitiva».46 La tesi, dunque, di una fondazione materiale, fenomenologica, della logica dev’essere riformulata dall’interno della logica stessa.

Questa svolta, tuttavia, non sarebbe pienamente comprensibile se non ci rifacessimo al percorso esistenziale e accademico di Melandri, che, dopo la laurea nel 1958 all’università di Bologna, forse su suggerimento di Felice Battaglia, suo relatore e mentore, decide di trasferirsi in Germania come lettore di italiano presso l’ateneo di Kiel. Qui resterà fino al 1961, prima di ottenere, nel luglio 1962, l’abilitazione all’insegnamento della Filosofia teoretica e quindi un incarico all’università di Lecce (dove si occupa della filosofia delle forme simboliche di Cassirer e svolge un’analisi testuale della Critica della ragione pura di Kant) .47 Gli anni di Kiel rivestono un’importanza fondamentale nella maturazione intellettuale di Melandri. È qui ch’egli ha modo non solo di confrontarsi con la scena filosofica internazionale, ma anche di incontrare, frequentandone i corsi, una personalità che lo segnerà in maniera indelebile: Paul Lorenzen, uno dei padri della logica operativa, che insegna a Kiel dal 1956 al 1962. E molto probabilmente, si deve proprio all’insegnamento di Lorenzen l’approfondimento delle tematiche legate alla logica formale e alla filosofia del linguaggio nei corsi tenuti da Melandri alla Facoltà di Magistero di Bologna nel 1963/64, «Istituzioni di logica e il metodo scientifico di verificazione», nel 1964/65, «Wittgenstein: dall’anatomia alla fisiologia nell’analisi del linguaggio», nel 1965/66, «La nozione di analiticità nel neo positivismo logico», e nel 1966/67, «Il logicismo: dagli Eleati a Bertrand Russel».48

La logica operativa, o costruttivismo metodico, è una corrente epistemologica che si propone di far interagire le due grandi tradizioni della filosofia contemporanea: da un lato, l’ermeneutica della fatticità di matrice fenomenologico-heideggeriana, e tardo-husserliana, rivolta verso una filosofia della prassi e della storia; dall’altro, la riflessione sui fondamenti della logica e della matematica a partire dai lavori di Frege, Russel e Gödel.49 La scienza è vista come un’operazione costruttiva che rinvia, in ultimo luogo, al soggetto reale, alle sue azioni concrete, dettate da esigenze e scopi. Si tratta allora, sulla scorta soprattutto di Kant e di Leibniz, di rincondurre i costrutti logici ed epistemologici al senso funzionale e operativo che li ha generati, impedendone così l’ipostatizzazione e l’eccessiva formalizzazione, e allargando il concetto stesso di razionalità.

Fin dalla sua prima opera pubblicata nel 1950, Konstruktive Begründung der Mathematik,50 Paul Lorenzen — allievo di Oskar Becker,51 intraprende studi di matematica, fisica, chimica e filosofia a Kiel, Berlino e Gottinga — s’inserisce nel contesto della crisi dei fondamenti della matematica (aperta dai paradossi scoperti nella prima formulazione della teoria degli insiemi), cercando di adottare una prospettiva genetica che non si pone in contrasto col metodo analitico, ma che giustifica «la struttura della sintesi concettuale a partire dall’analisi stessa».52 Egli s’interroga sul senso di concetti basilari come «calcolo» e «dimostrazione» senza assumere una posizione formalista né intuizionista né convenzionalista, bensì cercando di restare aderente all’operare del matematico e mettendo a fuoco le procedure finite di apprendimento, costruzione e ri-costruzione dei sistemi simbolici utilizzati. Ciò significa che «ogni proposizione appare sensata o non contraddittoria nella misura in cui essa rientra in un procedimento che definisce i caratteri e i limiti della sua ammissibilità, talché anche le assiomatizzazioni possano essere riconducibili alle costruzioni che ne sono alla base».53 Dobbiamo sempre poter giustificare pragmaticamente la scelta e l’uso di un certo linguaggio e di un certo sistema assiomatico; infatti, «anche ammettendo che le strutture formali si presentino come sistemi chiusi rispetto all’interpretazione, ovvero come puri «giochi linguistici», esse vengono accettate perché permettono l’effettuabilità di una determinata prassi calcolistica».54

Dal punto di vista costruttivista, l’esperienza è pratica (è fatta di azioni, scopi, procedimenti), ma non in un senso prettamente ermeneutico — perché anche l’ermeneutica è a sua volta una teoria della cultura, e perciò stesso tradisce l’esperienza. L’esperienza è pratica nel senso che la sua razionalità s’incarna, prima dell’intervento del pensiero oggettivante e delle relative grammatiche logico-linguistiche, in forme di azione. Beninteso, tale prospettiva pragmatica non equivale al ricorso a considerazioni dialettiche, storico-culturali: nell’impossibilità di porsi in un astratto «dietro» le nostre teorie, Lorenzen guarda in direzione delle prassi operative, degli schemi di azione (Handlungsschemata), delle modalità di azione (Handlungsweisen), delle situazioni esemplificative e della teleologia intenzionale di tali prassi.

Così, la protologica illustrata nel volume del 1955, Einführung in die operative Logik und Mathematik,55 si fonda sull’assunzione dell’impossibilità di separare nettamente semantica e sintassi del simbolo logico, perché di fatto, in quanto suscettibile di una concreta forma d’uso, entro una determinata situazione, ogni simbolo di per sé gode sempre e già di un minimo livello di semantica e di sintassi. In tal modo «le regole e le proposizioni del calcolo non derivano la loro necessità da una pretesa «evidenza» o «verità», ma dal porsi come condizioni di realizzabilità che, nella prassi operativa quotidiana, sono già note a ognuno nel momento in cui si tratta di agire in base a schemi, ad esempio nella costruzione di un muro, oppure nella produzione del filato di un tessuto».56 Ecco che allora, senza fare riferimento a oscure «intuizioni», all’astrazione o ad altri assiomi, possiamo fondare la matematica sulla semplice nozione di calcolo inteso come un «operare schematico con figure». Abbiamo alcune figure fondamentali, o «inizi», insieme alle regole operative per riprodurre o modificare questi «inizi», e la possibilità della ripetizione dell’operazione sarà fondamentale. La matematica non ha a che fare con oggetti, bensì con schemi operativi che illustrano determinate procedure.

Negli anni Sessanta, tale approccio assume un carattere dialogico. Il dialogo, infatti, è sempre di più considerato da Lorenzen come lo schema operativo essenziale, il criterio ultimativo di definitezza delle proposizioni. Nello sforzo di una tale riformulazione s’inserisce il volume, autentica «Bibbia» del costruttivismo, Logische Propädeutik,57 pubblicato nel 1967 e scritto in collaborazione con Wilhelm Kamlah. L’obiettivo di Lorenzen è mettere in luce il livello del linguaggio più vicino alla connessione con l’azione e con la teleologia intenzionale; assistiamo così alla costituzione progressiva di una grammatica razionale «sorretta da un lato dal predicatore di attività e dall’altro dal predicatore di cosa, nonché da una serie di funzioni linguistiche accessorie che Lorenzen chiama «appredicatori» — ovvero, nella grammatica tradizionale: l’aggettivo, l’avverbio, e i metapredicati «vero» e «falso»».58 La fondazione di questa grammatica razionale andrà cercata — coerentemente con l’approccio dialettico — nell’intesa comunicativa tra i soggetti comunicanti e agenti.

L’interesse per l’etica e la politica che caratterizza l’ultima produzione di Lorenzen e molti lavori della «Scuola di Erlangen» non è soltanto la conseguenza della semplice volontà di riabilitare la filosofia pratica, bensì lo sbocco necessario di una ricostruzione critica del pensiero metodico. Ciò equivale a dire che «ogni giustificazione pragmatica, per quanto strumentale possa apparire, si lega a una dimensione etica che vede, kantianamente, la ragione non come un fatto, bensì come un compito che dev’essere portato a termine».59 L’interesse di Lorenzen si volge quindi alle forme di azione che stanno alla radice del giudizio morale. In se stessa, l’etica si configura come la scienza dei principi del superamento dei conflitti, rendendo compatibili tra loro richieste sociali opposte. Etica, politica e gnoseologia operativa vanno a braccetto, e quindi non è certo per scherzo, per il puro gusto di una boutade intellettuale fine a se stessa, se nel 1964 Melandri, profondamente imbevuto della lezione lorenziana, intitola l’introduzione al manuale di Copi Logica, introduzione alla democrazia, titolo che appunto «a primo acchito, potrebbe suonare alquanto bizzarro».60

Tutta l’introduzione al Copi richiama la propedeutica di Lorenzen. Fin dal problema iniziale («a che serve la logica?»),61 cui Melandri risponde connettendo la logica formale al tema della comunicazione. Ne risulta che la logica svolge un’indispensabile funzione purificatrice: wittgenstianamente, essa deve mantenere in efficienza i nostri «canali di ricezione e trasmissione»,62 liberandoci da sofismi inutili o nocivi. Tuttavia, per fare questo dobbiamo evitare due rischi congeniti alla logica stessa: quello di ricadere in un punto di vista radicalmente tecnico, per cui la logica diventa un mero strumento rivolto a qualcosa di diverso da lui, e allora «viene in mente il vecchio adagio scolastico: purus logicus est asinus»,63 e quello, inverso, di trasformare la logica in retorica, flatus vocis volto alla seduzione delle menti, ma privo di base e contenuto. Per smettere di fare l’asinus, il logicus dovrà tornare alla sua vera vocazione, che è quella di «liberarci dai sofismi, specialmente da quelli che commettiamo non per deliberata nequizia, ma per assuefazione a certi idiotismi linguistici».64 Il lavoro teorico e quello pratico non possono scindersi: l’uno deve assimilare l’altro, e così la teoria è destinata a farsi «prassi comportamentistica».65 Asinus sarà invece chi si chiude nella gabbia della logica, fino a ricadere in quel che Melandri chiama «solipsismo formalistico», il quale «consiste nel ridurre ogni questione alle sue sole cause formali».66

Come sconfiggere il solipsismo formalistico? Nell’introduzione al Copi — l’abbiamo già accennato — l’attacco alla pretesa di una logica totalmente formale, pura e autonoma si presenta in una veste nuova, nel senso che ora Melandri avverte l’esigenza di emanciparsi in maniera netta dallo storico dettame kantiano — valido anche per Husserl, anche se in un senso molto diverso — che imponeva, dato l’aspetto chiuso e compiuto della logica formale, la ricomprensione (o il «raddoppiamento») trascendentale di quest’ultima. Dobbiamo prendere la logica formale per quello che è: una disciplina che nasce dalla rivoluzione innescata da Frege con l’emancipazione dall’aristotelismo e dall’analisi della proposizione nei termini del soggetto e del predicato. Il nocciolo di quest’emancipazione sta nel rifiuto del naturalismo aristotelico, e cioè «la credenza che esista un sistema formale, una proiezione segnica del mondo privilegiata e anzi garantita dalla natura stessa delle cose».67 Esistono tante possibili logiche, e nessuna gode di privilegi rispetto alle altre. Tra tutte le logiche, la logica classica o «logistica» si presenta come una logica bivalente (a due valori di verità: vero e falso, non sono ammessi casi intermedi — tertium non datur) e proposizionale (l’unità elementare del pensiero razionale è la proposizione: un’affermazione suscettibile di verità o falsità) .68

Per Melandri ogni logica rinvia a una determinata semantica e, quindi, riflette una certa visione ontologica. Dall’isomorfismo aristotelico tra pensiero e realtà discendono i due cardini della semantica classica: il privilegio conferito alla denominazione, alla denotazione ostensiva (la convinzione per cui intendere il senso di un nome corrisponde al gesto con cui se ne indica il referente, o quantomeno alla percezione diretta o indiretta della realtà corrispondente); la nozione di nesso causale, per cui c’è «qualcosa come una grande catena dell’essere che si scatena nel tempo»,69 una concezione ontologica dalle solide fondamenta nel linguaggio ordinario (la connessione condizionale tra due proposizioni). In definitiva, la semantica classica è una semantica del nome — e dei nomi propri, soprattutto — perché sono questi «con la loro combinatoria e permutatoria»70 a definire il senso del logos. L’isomorfismo semantico equivale al monismo ontologico — esiste una sola realtà, tutto ciò che è è eterno e immutabile — incapace di afferrare la ricchezza dell’essere.

Rifiutando l’isomorfismo aristotelico tra pensiero e realtà, la logica moderna si fonda su una semantica del contesto. Per la semantica moderna, il senso del logos non deriva dalla combinatoria dei nomi, bensì dalla struttura e dalla funzione (linguistica, sociale, psicologica) del discorso stesso. Il primo a enunciare questo principio è stato Frege: soltanto negli enunciati le parole hanno un senso — e questo assunto sta alla base di tutta la semantica vero-funzionale del Tractatus, per cui il significato di un enunciato consiste nelle sue condizioni di verità, il che non equivale affatto a sapere che questo è vero o che è falso perché accade o non accade: so che cosa significa X se so quali sono le circostanze che lo rendono vero o falso. Per dirlo in maniera ancora più diretta: il tutto precede le parti e le definisce. Non esiste un’unica logica, non esiste un’unica realtà. L’estremizzazione di questa posizione porta al relativismo assoluto: non esiste una realtà in sé poiché questa, essendo sempre diversa da sé, non potrà mai essere la stessa, e quindi non solo non potrò mai immergermi due volte nello stesso fiume, ma non potrò neanche immergermi una sola volta in quel fiume. Resta aperto il problema dell’unità tra semantica del nome e semantica del contesto, tra monismo e relativismo.

Tra semantica del nome e semantica del contesto — sostiene Melandri — non può esserci unità né coincidenza. Avviene un chiasma, un’inversione dei rapporti tra logica e ontologia nelle due semantiche. Se infatti ci poniamo nella prospettiva di una semantica del nome, e quindi interpretiamo il rapporto tra nomi e cose in una maniera biunivoca e fissa, allora siamo portati ad assumere, sul piano ontologico, un’ottica realista e quindi a pensare l’essere in maniera univoca. «Ma allora è la natura dell’ente a decidere in anticipo in quali relazioni esso possa entrare a far parte oppure no».71 Alla logica resta l’equivocità: «ci sarà cioè una diversa logica per ogni diversa categoria di enti individuabili».72 Se conferiamo il primato alla semantica del contesto, avviene il contrario: la logica si presenta univoca (visto il primato della struttura) e l’ontologia equivoca (il tipo di ente è deciso dalla struttura, non l’inverso). Nella semantica del nome, il pensiero «dipende» dall’essere; nella semantica del contesto, l’essere «dipende» dal pensiero. Insomma: Parmenide o Eraclito. La scoperta di questa disgiunzione esclusiva sarà uno degli approdi decisivi di La linea e il circolo. E l’analogia? In realtà, la disgiunzione non risulta così esclusiva: «La tesi intermedia — quella dell’analogia entis — non merita qui alcuna trattazione speciale. È la tesi generale del presente lavoro».73 Melandri si limita a osservare «come essa non sia «intermedia» alla maniera di un compromesso; bensì in quella, ben più fondamentale, di un asse di simmetria capace di coordinare — nel senso del «chiasma ontologico» — tutte le opposizioni speculari; anche quelle che, da un punto di vista positivamente logico, appaiono del tutto irrelate».74 Il chiasma è il segno dell’analogia, l’analogia il segno del chiasma.

L’attacco al formalismo logico conduce quindi Melandri a tematizzare il divario radicale tra semantica del nome e semantica del contesto, tra monismo e relativismo, tra struttura e forma. Il problema dei rapporti tra logica ed esperienza diventa allora quello del punto di unità tra questi estremi. Ma su quale piano (sintattico, semantico, trascendentale, ecc.) dobbiamo affrontare tale problema? È proprio qui che Melandri recupera l’insegnamento di Lorenzen, fondendolo con quello di Husserl: dobbiamo procedere guardando alle nostre pratiche, ai nostri schemi operativi, e infine alla Unhintergehbarkeit, la «non aggirabilità» della vita. Per questo motivo, in La linea e il circolo, l’analogia è ogni volta ritrovata e analizzata non nel senso di un principio o di una forma d’unità superiore, bensì in quello di una prassi non concettualizzabile, sgusciante, indefinibile. L’analogia è la radice pratica della nostra capacità di ragionare, e un discorso filosofico su di essa non potrà non trasformare la nostra stessa pratica, farsi pratica esso stesso.

5. Un’archeologia dell’uomo moderno: Blumenberg

La gnoseologia operativa non è l’unico interesse di Melandri negli anni Kiel. In Germania avviene anche un altro grande incontro che si rivela determinante per la sua formazione intellettuale: quello con il padre della metaforologia Hans Blumenberg, che insegna a Kiel dal 1958 al 1960. Testimonianze concrete dell’incidenza di Blumenberg sono soprattutto la recensione a Die Legitimität der Neuzeit su «Lingua e Stile»75 e l’introduzione alla traduzione italiana dei Paradigmen zu einer Metaphorologie, entrambi del 1969. Ma la gittata teorica di questo rapporto la si coglie ancora meglio se si guarda alla fine del XVI capitolo di La linea e il circolo, dove Melandri accosta la metaforologia di Blumenberg alle analogie dell’esperienza di Kant. Accostamento, questo, al contempo illuminante, perché apre una nuova interpretazione delle analogie kantiane, e oscuro, difficile. Da una parte, infatti, Melandri arriva a interpretare le analogie kantiane come «metafore» interne a ogni percezione e celate da esse, e in tal senso «le possibili analogie dell’esperienza sono infinite»;76 dall’altra, questa interpretazione sembra non essere condotta fino in fondo, o almeno non se ne coglie immediatamente l’effettiva portata nel quadro generale dell’indagine.

Paradigmen zu einer Metaphorologie: il titolo dell’opera di Blumenberg già ne racchiude l’essenza, che si concentra tutta in quel zu einer, «per una». Si tratta però — dice Melandri nell’introduzione alla prima traduzione italiana del volume — di «un titolo insolito, che rischia di apparire non poco astruso» e che tuttavia non si potrebbe modificare senza tradirne l’intenzione fondamentale dell’autore, «il senso incoativo e vorrei dire ottativo di quel per una, l’indicazione di metodo contenuta nella menzione stessa dei paradigmi, e il tema principale del lavoro: la metaforologia».77 La metaforologia è auspicata: un progetto da compiere, una missione per il futuro. E per questo il metodo di Blumenberg è paradigmatico ma non classificatorio; è archeologico nel senso per cui risale dal derivato all’originario per poi, una volta formulata l’ipotesi, ritornare al derivato seguendo il filo conduttore dell’ipotesi, che si trasforma in regola, modello, paradigma appunto. Ma il paradigma — insegna Kuhn — non è una legge, e quindi è suscettibile di infinite variazioni, trasformazioni, sostituzioni, influenze storiche. Ciò rende l’indagine sempre in bilico, congetturale, contaminante, ma non chiusa o riduttiva. «Siccome il metodo paradigmatico, fondato com’è su congetture archeologico-culturali non verificabili direttamente, risulta suscettibile di infinite variazione tematiche, e quindi di diverse archetipologie possibili, non si può presumere da esso alcun risultato definitivo».78

Ma indagine su che cosa? Se la noesi è paradigmatica, il noema — il correlato oggettuale dell’intenzione significante — che tipo di oggettività presenta? L’archeologia di Blumenberg va alla ricerca della «metafora assoluta», dove per assoluta s’intende «originaria, indeducibile per traslato, e rispetto a cui anche il cosiddetto senso letterale, se conserva un momento di contrasto con l’altro, lo conserva solo perché anch’esso non è che lo stadio estremo di degenerazione di antichissime, ormai dimenticate metafore un tempo assolute».79 Il terreno della metaforologia è dunque «il terreno alluvionale, si potrebbe dire, formato dalla disgregazione e commistione di originarie rocce magmatiche».80 Ed è proprio il riferimento alle «rocce magmatiche» a farci capire l’estraneità del tentativo di Blumenberg rispetto a tutte le altre forme di metoforologia di cui è costellato il pensiero contemporaneo.

Estraneità che si manifesta anzitutto nella rinuncia di Blumenberg a spiegare il meccanismo semantico della metafora a partire dalla coppia senso letterale/senso traslato — strada percorsa invece dalle classiche teorizzazioni di Jakobson, Ricœur, Black, Perelman. La metafora assoluta non si riduce a questo binomio: è inderivabile per traslazione dai modi letterali di dire o da altre metafore già in uso. Blumenberg sottolinea che «l’usuale contrapposizione del senso traslato al senso letterale di un’espressione non è una spiegazione; è piuttosto il sintomo di una rinuncia a capire, non si dice solamente il meccanismo della metaforicità, ma addirittura l’intero fenomeno semantico» e questo perché «una teoria non è teoria se consente delle anomalie; l’eccezione non vi è ammissibile che provvisoriamente, come preludio a una teoria più alta, nella quale sia l’eccezione sia la vecchia teoria scompariranno».81 Blumenberg, tuttavia, non è interessato a una «teoria più alta»; la sua, piuttosto, è un’indagine che parte dall’eccezione, conscia che «l’eccezione è sempre più importante della regola, perché più ricca di sviluppi teoretici».82

Nell’introduzione ai Paradigmen, Melandri rimette in gioco i termini della questione, distinguendo anzitutto il problema semantico dal problema retorico della metafora. Una cosa è trattare dello spostamento di senso che avviene nella predicazione metaforica — l’irregolarità rispetto al piano letterale e univoco — , un’altra indagare gli effetti persuasivi che un tale spostamento, in quanto figura elocutionis, induce nel suo ricettore. Tra la pragmatica e la tropologia bisogna però considerare maggiormente l’altra accezione retorica della metafora, quella di figura sententiae, che la rende un oggetto di inventio. A quest’accezione vanno ricondotte le metafore assolute, espressioni non solo della pura creatività umana, ma anche di una originale concezione del mondo. Una metafora assoluta «è in potenza una nuova ermeneutica, una matrice di nuove valutazioni, un codice interpretativo che, una volta compreso, è capace di mutare indefinitamente, per estensione pura e semplice del medesimo criterio, la nostra consueta valutazione delle cose»,83 come dimostra la metafora assoluta che ha segnato il mondo moderno: la rivoluzione copernicana. Questa ha dato legittimità alla nuova epoca, inaugurando un modo affatto originale di vedere e di valutare il mondo, che non può essere ridotto hegelianamente a un effetto della secolarizzazione del teologico — è la tesi dell’altra grande opera di Blumenberg: Die Legitimität der Neuzeit. La metafora assoluta è dunque «la favola più la morale»; lo spostamento di senso guarda verso la riflessione morale, pratica, un’intelligenza fronetica.

«Ma esistono metafore assolute?»84 Qui si coglie l’accento critico di Melandri che traspare da queste pagine del 1969. Rispondendo alla domanda, Melandri si limita a dire che «il giudizio va lasciato al lettore», constatando che il numero delle metafore assolute è «molto piccolo» e che «per quanto grande possa essere l’inventiva, il numero delle metafore assolute compossibili in un certo periodo storico converge rapidamente verso un limite oltre il quale non è possibile procedere coi mezzi dell’immaginazione creativa».85

Ciò equivale a un rifiuto del metodo di Blumenberg? Nient’affatto, piuttosto a una sua riformulazione in un senso analogico, come dimostrerà La linea e il circolo. Esiste un fondo analogico dell’esperienza che non può essere formalizzato o ricondotto a predefinite strutture semantiche o concettuali. Per questo occorre un’indagine archeologica che sappia, muovendosi in direzione opposta a quella storica, superare il concetto — categorie e trascendentali — e tematizzare l’analogia. Ed è di fatto con il progetto di una storia critica dell’analogia — dove l’insegnamento di Blumenberg si fonde con quello di Nietzsche, di Freud e, ancor di più, con quello di Foucault — che si apre La linea e il circolo. La cosa più difficile «è concepire l’idea stessa di un’archeologia dell’uomo moderno».86

6. Conclusioni: analogia e chiasma

Torniamo dunque, ancora una volta, al punto di partenza. L’attacco al formalismo della logica classica costringe Melandri ad allargare il terreno della sua indagine e del suo problema iniziale: i rapporti tra logica ed esperienza.

La sconfitta del solipsismo logicista ha un prezzo molto alto: la scoperta del divario radicale tra la semantica del nome e la semantica della frase, tra il monismo e il relativismo. Questo chiasma non è un problema — se fosse così, seguendo Wittgenstein, implicherebbe necessariamente la possibilità di una soluzione — bensì un paradosso che continuamente si ripete nella storia del pensiero occidentale, costituendone una sorta di asse di simmetria;87 è un paradosso che non paralizza il pensiero, bensì lo vivifica, rendendo inevitabile la strada di uscita dell’analogia. C’è analogia perché c’è il chiasma. Al cospetto del divario tra semantica del nome e semantica del concetto, «la legge del «chiasma ontologico» non risolve certo il problema; essa si limita a farci vedere perché questo sia aporetico e perché, dati certi presupposti, non possa non presentarsi».88

Di fronte al chiasma e al suo ripetersi ossessivo nella storia, Melandri imbocca ancora la strada dell’analogia riletta attraverso Lorenzen e Blumenberg. Così l’analogia, resasi necessaria grazie al chiasma, diventa, da una parte, una prassi non concettualizzabile ma alla radice del concettualizzare e della logica stessa, dall’altra, un osservatorio speciale a partire dal quale ricomprendere il senso della nostra modernità.


  1. Nel testo useremo le seguenti sigle: Logica ed esperienza per indicare E. Melandri, Logica ed esperienza in Husserl, Bologna, Il Mulino, 1960; La linea e il circolo per indicare E. Melandri, La linea e il circolo. Studio logico-filosofico sull’analogia, Macerata, Quodlibet, 2004. ↩︎

  2. Due precisazioni necessarie: 1) la collocazione storica dello sviluppo del pensiero melandriano non sarà l’oggetto centrale di questo saggio: l’obiettivo è infatti più ricostruire la linea di evoluzione interna di questo pensiero che definirne con esattezza le coordinate storiche — per le quali sarebbe necessario un altro saggio. 2) Dovendo opportunamente limitare il campo dell’indagine e della verifica della tesi, il lavoro si concentrerà soprattutto sulla fase anteriore alla pubblicazione de La linea e il circolo — opera cui peraltro si farà un costante riferimento — e quindi soprattutto sui primi lavori melandriani dedicati a Husserl. Si tratta appunto di «note a margine» storico-teoretiche, che vogliono preparare il terreno e auspicare una rilettura critica più ampia di La linea e il circolo↩︎

  3. Logica ed esperienza, p. 48. ↩︎

  4. Logica ed esperienza, p. 51. ↩︎

  5. E. Melandri, «I paradossi dell’infinito nell’orizzonte fenomenologico» in E. Paci (ed.), Omaggio a Husserl, Milano, Il Saggiatore, 1960 p. 101. ↩︎

  6. Cfr. J.-F. Courtine, Inventio analogiae. Métaphysique et ontothéologie, Paris, Vrin, 2005. ↩︎

  7. E. Melandri, «Logica, introduzione alla democrazia», in I. M. Copi, Introduzione alla logica, tr. it. di M. Stringa, introduzione di E. Melandri, Bologna, Il Mulino, 1964, p. XXXIII. ↩︎

  8. La linea e il circolo, p. 9. ↩︎

  9. Va detto che i rapporti tra Husserl e Kant sono ovviamente ben più complessi di quanto non emerga da queste osservazioni, che sono da leggersi come semplici indicazioni generali e preliminari. Cfr. a questo proposito, il classico P. Ricœur, «Husserl et Kant», in P. Ricœur, À l’école de la phénoménologie, Paris, Vrin, 1986, p. 45-56. ↩︎

  10. Logica ed esperienza, p. 57. ↩︎

  11. Logica ed esperienza, p. 21. ↩︎

  12. Cfr. S. Besoli, «La pregnanza del metodo descrittivo e il rispetto delle datità. Adolf Reinach e la traccia di una «vera fenomenologia»», in A. Reinach, La visione delle idee, a cura di S. Besoli, A. Salice, Macerata, Quodlibet, 2008, p. XX. ↩︎

  13. Ibid↩︎

  14. Ibid↩︎

  15. Ivi, p. XVIII. ↩︎

  16. Cfr. H. Spiegelberg, The Phenomenological Movement. A Historical Introduction, 2 voll., The Hague, Nijhoff, 1965; S. Besoli, L. Guidetti (a cura di), Il realismo fenomenologico. Sulla filosofia dei circoli di Monaco e Gottinga, Macerata, Quodlibet, 2000. ↩︎

  17. Melandri s’inserisce in un’ottica fenomenologica di stampo realista, pur restando estraneo ai rischi impliciti in un’eccessiva ontologizzazione dell’a priori che hanno caratterizzato questo indirizzo, e in particolare Reinach. Prendendo le mosse da una riattualizzazione del problema dell’a priori e della distinzione tra sintetico e analitico, l’approccio realista pone al centro l’analisi dell’essenze e il metodo intuitivo votato alla chiarezza e all’evidenza (apodittica e assertoria), presentandosi come un lavoro di esplicitazione delle grammatiche dell’esperienza in connessione diretta con le scienze — anche se Husserl la considerava soltanto una forma sbiadita di psicologia descrittiva. In Reinach soprattutto, l’approccio realista si basa sulla critica dell’interpretazione kantiana di Hume. Questi ha infatti superato Kant, cogliendo la possibilità di un a priori materiale, non soggettivo, di una necessità intrinseca agli stati di cose accidentali, e non dipendente da un sovraordinato Gemut. Hume ha scoperto che «ogni oggetto presenta — in ragione della natura che gli è propria — quella forma di oggettualità che è l’a priori, in quanto le «connessioni d’essenza» — come caratterizzazioni degli stati di cose — non appartengono solo al regno sovrastante dell’ontologia formale, ma sono accreditabili a pieno titolo anche ai materiali dell’esperienza, rimuovendo così la prospettiva di un riduzionismo atomistico che impediva il riconoscimento di fatto delle stesse essenze, rese simili ad aggregazioni indistinte di elementi sottratti all’intuizione» (S. Besoli, «La pregnanza del metodo descrittivo e il rispetto delle datità», cit., p. LV). I rischi di ricadute metafisiche di un approccio che, ontologizzando l’a priori materiale, stabilisce il primato del versante oggettuale dell’esperienza, sono evidenti: cfr. J. Benoist, «Ressemblance sans égalité: la phénoménologie, l’empirisme et l’invention de l’a priori matériel», Le temps philosophique, n. 6, 1998, p. 151-172; J. Benoist, L’a priori conceptuel. Bolzano, Husserl, Schlick, Paris, Vrin, 1999; R. Lanfredini (a cura di), A priori materiale. Uno studio fenomenologico, Milano, Guerini, 2006. Resta aperto, sullo sfondo di questi temi, l’immenso problema, che qui ci limitiamo a segnalare, dello statuto della necessità e dell’universalità dell’a priori materiale. Cfr. a questo proposito, le critiche del positivismo logico, a partire dal celebre saggio di Moritz Schlick, «Gibt es ein materiales A priori?» (Wissenschaftlicher Jahresbericht der Philosophischen Gesellschaft an der Universität zu Wien: Ortsgruppe Wien der Kant-Gesellschaft für das Vereinsjahr 1931-1932, Vienne, 1932, p. 55-65). Ma non si possono non considerare anche le tesi di Kripke in Naming and Necessity (Oxford, Balckwell, 1980) e l’argomento della hidden analyticity di Quine in From a Logical Point of View (Cambridge, Harvard, 1953). ↩︎

  18. Cfr. C. Sini, «Lo schematismo figurale», in S. Besoli, F. Paris (a cura di), Studi su Enzo Melandri, Faenza, Polaris, 2000, p. 106-108. ↩︎

  19. Il libro di Melandri uscì all’inizio della Husserl-Renaissance italiana inaugurata da Enzo Paci nei primi anni Sessanta e in qualche misura rappresenta un’alternativa alla linea proposta dallo stesso Paci, incentrata sulla rivalutazione della Lebenswelt di Husserl in vista di un possibile connubio con il marxismo. Le connessioni tra Melandri e la filosofia italiana del Novecento non è però un tema che potrà essere adeguatamente trattato in questo saggio, che si limita a tracciare un’ipotesi di lettura interna a Melandri. ↩︎

  20. Logica ed esperienza, p. 55-59. ↩︎

  21. Melandri non dà — e non vuole dare — una definizione dell’analogia, che, in Logica ed esperienza, si limita quasi sempre ad accostare al concetto di mediazione, o «correlazione omogeneizzatrice», senza approfondire. Sembra perciò del tutto condivisibile quanto scrive E. Mariani: «Una definizione minimale [dell’analogia] dovrà limitarsi a riconoscere che un concetto è analogico nella misura in cui non sia univoco, senza però dissolversi in una completa equivocità. Più che di un concetto vero e proprio, sarà allora opportuno parlare di una famiglia di concetti affini, tenuti insieme da un unico denominatore comune — una sorta di principio d’analogia — incapace di ergersi a concetto supremo. L’analogia — ecco il paradosso — è a sua volta analogica […]» («Enzo Melandri e il labirinto delle analogie. La civetta di Minerva», Segni e comprensione, n. 70, XXIV (2010), p. 98-99). ↩︎

  22. Logica ed esperienza, p. 61. ↩︎

  23. Ivi, p. 52. ↩︎

  24. Ivi, p. 31. ↩︎

  25. Ivi, p. 39. ↩︎

  26. Ibid↩︎

  27. Ivi, p. 63. ↩︎

  28. Ivi, p. 65. ↩︎

  29. Ivi, p. 66. ↩︎

  30. Ivi, p. 71-72. ↩︎

  31. Ivi, p. 72. ↩︎

  32. Da notare l’acutezza interpretativa con cui Melandri fa emergere questo punto, distinguendo, tanto per l’empirismo quanto per lo psicologismo, una versione naturalistica (rifiutata) e una versione attualistica (accolta e radicalizzata). Cfr. Logica ed esperienza, p. 32-40. Cfr. inoltre S. Besoli, «Per una lettura non naturalistica dell’esperienza. Intorno all’interpretazione fenomenologica di Enzo Melandri», in S. Besoli, F. Paris (a cura di), Studi su Enzo Melandri, cit., p. 129-133. ↩︎

  33. S. Besoli, «Per una lettura non naturalistica dell’esperienza. Intorno all’interpretazione fenomenologica di Enzo Melandri», cit., p. 134. ↩︎

  34. Logica ed esperienza, p. 149. ↩︎

  35. Ivi, p. 141. ↩︎

  36. Ivi, p. 84. ↩︎

  37. Ivi, p. 88. ↩︎

  38. Ibid (corsivo mio). ↩︎

  39. Ibid↩︎

  40. Ivi, p. 110. ↩︎

  41. Cfr. per questa concezione del «salvare i fenomeni», P. Duhem, Essai sur la notion de théorie physique de Platon à Galilée, Paris, Hermann, 1908. ↩︎

  42. Logica ed esperienza, p. 110. ↩︎

  43. Besoli sottolinea come questo punto — la differenza tra il senso dell’a priori in Kant e in Husserl — venga ripreso e approfondito in La linea e il circolo. Cfr. S. Besoli, «Per una lettura non naturalistica dell’esperienza. Intorno all’interpretazione fenomenologica di Enzo Melandri», cit., p. 127, nota 12. ↩︎

  44. Logica ed esperienza, p. 111. ↩︎

  45. Cfr. ad esempio E. Melandri, «Prefazione: ambiguità del formalismo», in M. Palágyi, Kant e Bolzano. Un confronto critico, tr. it. di L. Guidetti, Faenza, Spazio Libri, 1993, p. 4-12. ↩︎

  46. E. Melandri, «Logica, introduzione alla democrazia», cit., p. XII. ↩︎

  47. È quanto si evince dall’estratto dal verbale della seduta del Consiglio della Facoltà di Magistero del giorno 14 luglio 1967 (presidente il prof. G. M. Bertin, preside della Facoltà) per la conferma definitiva dell’abilitazione all’esercizio della libera docenza in filosofia teoretica di Melandri. Questi ha ricevuto l’abilitazione con Decreto Ministeriale in data 2 luglio 1962. Il 19 ottobre 1967 è invece la data del Decreto che conferma ufficialmente l’abilitazione. ↩︎

  48. L’elenco dei titoli dei corsi risulta sempre dall’estratto dal verbale della seduta del Consiglio della Facoltà di Magistero del giorno 14 luglio 1967. Melandri riceve l’incarico di filosofia presso la Facoltà di Magistero con decreto amministrativo il 27 ottobre 1962. ↩︎

  49. Cfr. a tal proposito: G. Lolli, Da Euclide a Gödel, Bologna, Il Mulino, 2009. ↩︎

  50. P. Lorenzen, «Konstruktive Begründung der Mathematik», Mathematische Zeitschrift, 53, 1950, p. 162-202. ↩︎

  51. Autore dagli interessi molteplici — le sue opere spaziano dal problema dei fondamenti della matematica agli sviluppi della logica modale, all’estetica e al confronto con l’opera di Heidegger — Oskar Becker (1889-1964) è stato uno dei massimi allievi di Husserl, con il quale consegue la libera docenza in Filosofia nel 1922 a Friburgo, dove frequenta anche i corsi di Heidegger. Insegna quindi filosofia a Bonn dal 1931 al 1955, collaborando con Husserl alla pubblicazione dello Jahrbuch für Philosophie und phänomenologische Forschung. La sua è una delle più originali riformulazioni della fenomenologia husserliana. Dominante, in essa, il tentativo di recuperare e ampliare il nucleo dell’antico pitagorismo, in un senso profondamente antiheideggeriano e antiformalista. La matematica non è quindi soltanto una mera costruzione di segni vuoti, bensì l’essenza stessa dell’essere. Cfr. Mathematische Existenz. Untersuchungen zur Logik und Ontologie mathematischer Phänomene, in Jahrbuch für Philosophie und phänomenologische Forschung, 8 (1927), p. 439-809; Grundlagen der Mathematik in geschichtlicher Entwicklung, Berlin, Suhrkamp, 1995 (I ed. 1954); Das mathematische Denken der Antike, Göttingen, Vandenhoeck, 1957. ↩︎

  52. L. Guidetti, La costruzione della materia. Paul Lorenzen e la «Scuola di Erlangen», Macerata, Quodlibet, 2008, p. 86. ↩︎

  53. Ivi, p. 87. ↩︎

  54. Ivi, p. 88. ↩︎

  55. P. Lorenzen, Einführung in die operative Logik und Mathematik, Berlin/Göttingen/Heidelberg, Springer, 1955. ↩︎

  56. L. Guidetti, La costruzione della materia, cit., p. 89. ↩︎

  57. P. Lorenzen, W. Kamlah, Logische Propädeutik oder Vorschule des vernünftigen Redens, Mannheim, Bibliographisches Institut, 1967. ↩︎

  58. Ivi, p. 140. ↩︎

  59. Ivi, p. 170. ↩︎

  60. E. Mariani, «Enzo Melandri e il labirinto delle analogie. La civetta di Minerva», cit., p. 100. ↩︎

  61. E. Melandri, «Logica, introduzione alla democrazia», p. VII. ↩︎

  62. Ivi, p. VIII. ↩︎

  63. Ivi, p. X. ↩︎

  64. Ibid↩︎

  65. Ivi, p. XI. ↩︎

  66. Ivi, p. X. ↩︎

  67. Ivi, p. XVIII. ↩︎

  68. Per la distinzione tra proposizione ed enunciato, cfr. Alcune note sull’Organon aristotelico, p. 84-85. ↩︎

  69. E. Melandri, «Logica, introduzione alla democrazia», p. XXIX. ↩︎

  70. Ivi, p. XXVII. ↩︎

  71. La linea e il circolo, p. 352. ↩︎

  72. Ibid↩︎

  73. Ibid↩︎

  74. Ibid↩︎

  75. E. Melandri, recensione a H. Blumenberg, Die Legitimität der Neuzeit, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 1966, «Lingua e stile», IV, 1969, p. 280-282. ↩︎

  76. E. Melandri, La linea e il circolo, Macerata, Quodlibet, 2004 (I ed. 1968), p. 603. ↩︎

  77. E. Melandri, «Per una filosofia della metafora», in H. Blumenberg, Paradigmi per una metaforologia, tr. it. di M. V. Serra Hansberg, Milano, Raffaello Cortina, 2009, p. 157. ↩︎

  78. Ivi, p. 158. ↩︎

  79. Ibid↩︎

  80. Ibid↩︎

  81. E. Melandri, «Per una filosofia della metafora», cit., p. 158. ↩︎

  82. Ibid↩︎

  83. Ivi, p. 160. ↩︎

  84. Ibid↩︎

  85. Ibid↩︎

  86. Ivi, p. 163. ↩︎

  87. Si vedano gli esempi che Melandri offre in La linea e il circolo, p. 353-366, dove il chiasma è visto nella teoria degli attributi e dei modi di Spinoza e nella distinzione russelliana tra individuo e funzione. ↩︎

  88. La linea e il circolo, p. 353. ↩︎