Recensione a Arthur C. Danto, Nietzsche filosofo

Arthur C. Danto, Nietzsche filosofo, traduzione italiana di N. Sansone, con una nota introduttiva di T. Andina, Mimesis, Milano-Udine 2012.

Basta poco per rendersi conto che Nietzsche as philosopher è un libro importante, se non decisivo per capire la storia della filosofia contemporanea. Pubblicato nel 1965, a tre anni di distanza dall’altro Nietzsche, quello deleuziano del Nietzsche et la philosophie, e quattro anni prima del Nietzsche et le cercle vicieux di Klossowski, il testo di Danto — ora tradotto in italiano da Natale Sansone, con un’introduzione di Tiziana Andina, per la casa editrice Mimesis — riesce a trasmettere una nuova immagine del filosofo, libera dagli schermi interpretativi europei, quasi schematica, essenziale. Un’immagine analitica, frutto di un’indagine che non si perde nei mille rivoli dell’ermeneutica e dell’esegesi testuale ma punta dritto «all’osso», cioè all’argomentazione, alla logica, alla struttura del ragionamento. Il maggiore merito di Danto sta nell’insistere sulla «natura sistematica della filosofia stessa» perché «nello specifico della disciplina filosofica non esiste nulla di simile a una risposta isolata per un problema isolato» (p. 32). Quel che conta, allora, è l’architettonica delle idee: il senso filosofico del discorso. Ed è appunto questo quel che dobbiamo cercare anche in Nietzsche, al di sotto della scrittura aforistica, rapsodica, paradossale, del gusto per lo scandalo e la dissacrazione, delle immagini liriche, della schermaglia polemica, della follia. Nietzsche «soltanto come filosofo» (p. 23).

Chi era il filosofo Nietzsche? Un nichilista, risponde Danto. Perché il nichilismo è l’asse portante di tutto il suo pensiero. C’è un filo diretto che tiene insieme il nichilismo ontologico, l’amor fati, la dottrina dell’eterno ritorno e il concetto di superuomo. E solo in questo quadro complessivo ciascuno di tali elementi assume un senso. Ovviamente, se rappresenta la chiave di volta della concezione nietzscheana, il nichilismo va inteso in un senso tecnico, che si distanza tanto dal pessimismo di Schopenhauer quanto dal nichilismo classico di matrice russa. Nichilismo è l’affermazione per cui «dal fatto che nel mondo non c’è nulla a cui si possa sensatamente attribuire valore, ne consegue che esso non ne ha alcuno. Non c’è ordine né scopo, non ci sono cose e neppure fatti, niente a cui corrispondano le nostre credenze. Così tutte le credenze sono false» (p. 42). Il nichilismo è un’affermazione ontologica — non c’è niente: nessun ordine, nessuna struttura oggettiva, nessun senso, se non l’ordine, la struttura e il senso che noi diamo al mondo — un’affermazione che Nietzsche cerca di portare fino in fondo.

Danto ricostruisce la fisionomia interna di un tale gesto nel primo capitolo del libro per poi approfondire il tema nel secondo, trattando dell’arte, e nel terzo, che invece si rivolge al prospettivismo. I primi tre capitoli sono quindi strettamente connessi: la natura metaforica del linguaggio e del concetto è l’asse portante. Danto coglie il nucleo gnoseologico di questa tesi in quattro punti: a) il linguaggio è espressione di certe esperienze fondamentali — le Intuitionen; b) non possiamo mai uscire dalle nostre idee verso la realtà, che di per sé ci resta inaccessibile; c) possiamo però abbandonare un sistema concettuale per un altro — il che ci garantisce una certa libertà concettuale; d) questa libertà ci è data dall’arte, che permette di mettere in discussione un sistema concettuale e di crearne o di sceglierne un altro. Si aprono così le porte del prospettivismo e dell’abbandono della verità-corrispondenza: «Lasciateci allora sperimentare con la verità, direbbe Nietzsche, e vedere se siamo capaci di trovare un linguaggio e una filosofia migliore di quanto sia quella che abbiamo» (p. 120). Non esistono né cose né fatti, così come siamo soliti immaginarli, ma solo la volontà di potenza. È un’ipotesi minimalista e prudente: oltre il soggetto, esiste qualcosa e questo qualcosa ha la caratteristica di una forza, di un flusso di energie. Tale assunto Danto lo interpreta in un senso pragmatista, strumentale: x è vero e y è falso, se x è utile e y no. L’utilità sta nella capacità di controllare o modellare il flusso.

I successivi tre capitoli (IV-V-VI) sviluppano queste tesi sul terreno psicologico, nel senso di una psicologia filosofica intesa come «analisi del comportamento logico dei concetti mentalistici», scrive Danto (p. 127). Qui il discorso si fa circolare: la nostra psicologia (morale, religione, costumi, ecc.) è frutto della nostra prospettiva, ma a sua volta questa prospettiva dev’essere spiegata a partire da questi fatti psicologici. Su questa linea vanno interpretate le pagine che Danto dedica all’analisi di coscienza e autocoscienza, che derivano dal bisogno di comunicazione, di pubblicità, e dove Nietzsche è accostato a filosofi come Austin e Wittgenstein. Ma c’è anche qualcosa di più: il nostro modo di parlare, di pensare, di vedere noi stessi e il mondo è dettato dal pregiudizio morale. La morale, dice Nietzsche, è una menzogna, perché ha avuto una genealogia: è un derivato, non qualcosa di originario, impartito dall’alto da un mitico legislatore. Così come menzogna è la religione. In realtà tutto è menzogna, se tutto, compresa la scienza, viene colto mediante gli occhi della morale.

Gli ultimi due capitoli (VII-VIII) di Nietzsche as philosopher sono dedicati alle tre «idee affermative» di Nietzsche: l’Übermensch, l’eterno ritorno e la volontà di potenza. Danto li passa al vaglio con un argomentare strettamente analitico, teso a ricostruire e mettere in risalto la struttura del ragionamento, non solo confrontandola con i risultati delle scoperte e delle teorie scientifiche, ma anche evitando di ricadere nei luoghi comuni che ossessionano l’esegesi nietzscheana. Così la volontà di potenza, «la chiave per tutto il pensiero di Nietzsche» (p. 260), costituisce per Danto «un tratto generale delle creature viventi», non un istinto specifico (sessuale, della fame o della sete, ecc.), ma «l’istinto fondamentale, e sta di fronte agli altri istinti come la sostanza sta all’accidente» (ibid.). Dunque, la volontà di potenza non è qualcosa che abbiamo, ma qualcosa che siamo, o meglio qualcosa che è: la dimensione ontologica originaria. Ed è questa intuizione — nella lettura di Danto — a fondare il nichilismo nietzscheano, permettendo il sistema.