Il Sogno in Platone

1. Repubblica. Sognatori ingenui e sogno della ragione

Nel V libro della Repubblica, proprio nel cuore della discussione sulla città ideale, Platone fornisce per bocca di Socrate una spiegazione apparentemente semplice di ciò che dovrebbe intendersi con l’espressione «sognare» o «fare sogni» (oneriòttein): scambiare per uguali cose che non sono uguali, ma soltanto simili. E ciò, viene specificato, può accadere sia nello stato di sonno sia nello stato di veglia. Con l’ironia che è tipica del suo personaggio, Socrate porge all’interlocutore la sua definizione in forma di domanda1 «Non è forse vero che il sognare è questo, quando uno sia nel sonno sia da sveglio creda che il simile sia non simile a un altro, ma lo stesso cui assomiglia?» Sognare è dunque operare uno scambio d’identità, per cui ciò che è identico a se stesso viene dislocato e trasposto in altro da sé. I presupposti di questo tipo di oneriòttein sono perlomeno due, uno positivo e uno negativo. Positivo è il requisito di una somiglianza, presuntivamente fedele, tra l’elemento fantasmatico che si rivela in sogno e ciò ch’esso pretende di essere. Il secondo requisito, negativo, è l’assenza di coscienza che veicola l’efficacia della sostituzione, per cui ciò che soltanto appare riesce effettivamente a passare per ciò che non è, o, per maggior precisione, per ciò di cui costituisce il fantasma. Come vedremo più avanti, però, questi due requisiti ci permettono di definire unicamente un certo tipo di sogno, lasciando invece del tutto scoperta l’attività del sognare propria del saggio. Per il momento ci basti rilevare che ai sensi di questa prima, basilare definizione, l’oneriòttein presuppone in pari grado una trasposizione del simile con il simile e l’annullamento della coscienza relativa alla trasposizione in atto. La coscienza riflessa cancella infatti la specificità del genere, sopprimendo la funzione del sognare in quanto tale. Assecondare il gioco della rappresentazione costituisce un presupposto minimo ed indispensabile per accedere allo stato di sogno inteso in questa sua prima, elementare definizione.

E non è certo un caso se tale definizione fa la sua comparsa in una fase del dialogo che vede Socrate impegnato a circoscrivere la figura del saggio a margine dell’uomo tragico e dell’amante di spettacoli. Il filosofo conquista la propria specifica identità distinguendosi inannzitutto dai visionari e dai sognatori più ingenui: fuori di metafora, dai tanti autori e fruitori di drammi che si contendono la scena delle pòleis greche. I poeti tragici e gli autori di miti creano effetti di suggestione che ammaliano lo spettatore, ne invalidano le capacità critiche e lo irretiscono in trappole illusionistiche da cui è difficile evadere perfino a spettacolo concluso. Il filosofo, al contrario, s’impegna a costruire il suo sogno di città ideale iniziando proprio con il mantenere i suoi interlocutori in uno stato di costante allerta sugli inganni della sensibilità e, come un tafano, li sprona a non intorpidirsi nel sonno della ragione.2 Mentre il teatro e l’arte in generale amplificano la sfera sensibile della soggettività, il dialogo filosofico apre i mondi privati ad un universo comune, spingendo i membri di una comunità politica ad abbracciare un sogno più ampio e dalle maglie più fini di quello che circoscrive l’esistenza dei singoli. Non bisogna infatti dimenticare che l’intera costruzione della repubblica rappresenta, agli occhi del suo autore, un autentico «sogno della ragione».3

L’identificazione della forma sogno con il lavoro teorico di fondazione della politica ha diritto di precedenza rispetto alla definizione del «fare sogni» sopra ricordata, e non soltanto perché la incontriamo già nel quarto libro, ma soprattutto perché va a toccare l’ambito di competenza e le finalità del filosofo, mentre l’ oneriòttein inquadra l’attività del sognare nella sua accezione ingenua e naturale, ed è in quanto tale facilmente accessibile anche al senso comune. Nel IV libro ad essere chiamato in causa è invece il sogno secondo una funzione specifica e forse inattesa, che è quella di fornire una guida orientante agli artefici della città ideale. Qui l’enùpnion4 è direttamente connesso con la sfera del tèleon, ovvero con quanto non esiste già di per sé ma è ancora da realizzare. Si tratta, nel caso specifico, del modello di giustizia in cui Socrate si è imbattuto per qualche volontà divina,5 e che chiede di essere portato allo scoperto grazie all’opera paziente del puntello teorico. Anche qui, il punto d’innesto del sogno (enùpnion) in accezione diversa e complementare rispetto a quella che verrà fornita in seguito, non è affatto casuale. Socrate ha appena dimostrato la corrispondenza tra città ed anima individuale, mettendo in evidenza come le virtù dell’una si riflettono nelle virtù dell’altra, cosi come la mancanza di ordine e di equilibrio che affliggono l’una necessariamente si ripercuotono anche sull’altra. Il termine enùpnion fa la sua comparsa proprio nel momento in cui si tratta di sottolineare il legame d’intima e reciproca dipendenza che vincola la sfera apparentemente privata del singolo alla comunità politica di cui è parte. Allora il sogno si rivela guida dell’audace percorso che ha permesso ai dialoganti di raggiungere il cuore del principio della giustizia, di scrutarlo nella sua verità e di eleggerlo a fondamento di un nuovo sistema di valori. Il fulcro di tale sistema di valori dovrà essere la corrispondenza tra i comportamenti esteriori e la personalità più intima dei soggetti politici. Solo la rispondenza della buona condotta richiesta dallo stato a una morale autenticamente vissuta può garantire la giustizia e la solidità della comunità politica. Parallelamente, l’anima individuale potrà dirsi veramente felice solo quando al suo interno sarà ripristinata la coerenza tra essere ed apparire. Ora però, come abbiamo visto, è proprio la discrasia tra sfera dell’essere e sfera dell’apparire che costituisce l’ossatura dell’oneriòttein nella sua forma ingenua e primitiva.

Occorre dunque distinguere, in prima battuta, almeno due diverse accezioni del sogno e del sognare che prendono corpo nella Repubblica: la prima, negativa, che ricalca l’analogia sonno-veglia di matrice più tradizionale e pseudo-eraclitea,6 e una seconda, positiva, dai confini più incerti, ma che assume tuttavia una rilevanza centrale nel progetto platonico di città ideale.

Và anzitutto rilevato come anche la prima accezione, a tutta prima riconducibile a un topos filosofico-letterario ampiamente diffuso, riveli, ad un esame più attento, un’intima complessità, poiché chiama in causa la densa problematica della sensibilità e dello statuto della realtà sensibile quale si viene delineando nei dialoghi platonici. Fare sogni significa, in questa prima accezione, lasciarsi andare allo spettacolo del mondo, smarrire il senso della propria condizione soggettiva ed abbandonarsi al profluvio d’immagini, sensazioni, passioni e sentimenti di cui il nostro apparato psicofisico è causa efficiente come se si trattasse di verità in sé sussistenti. Ma il libero abbandono alle esperienze veicolate dal corpo e dai sensi è, a ben vedere, la condizione naturale dell’umano essere nel mondo, ovvero l’atteggiamento con cui normalmente ci poniamo di fronte alle altre persone e alle cose che ricadono sotto la nostra percezione. In effetti, come già accennato, la definizione platonica del sognare cade nel contesto della tematizzazione delle idee e del loro statuto di verità sovraordinata rispetto agli oggetti della sensazione.

Dopo aver dimostrato la necessità di un trattamento equo per le donne della repubblica e del controllo delle nascite, Socrate si accinge ad affrontare l’argomento più spinoso dell’intera trattazione: il governo dei filosofi. Preliminare al ruolo che dovrà assumere nella repubblica è la caratterizzazione del filosofo e la definizione delle sue specificità rispetto ad altre tipologie di uomini, in particolare rispetto alle altre figure d’intellettuale che avrebbero potuto aspirare alla guida della polis ai tempi di Platone. Il filosofo deve distinguersi ed acquisire un’identità propria nella troppo ampia sfera dei filotheàmones,7 dei generici amanti della contemplazione. A differenza dei contemplatori rozzi e superficiali, il filosofo non si accontenta di qualsiasi spettacolo, ma aspira a conoscere la verità. È l’unico a saper distinguere tra l’insieme delle cose belle e la bellezza in sé, tra la generica molteplicità di cose giuste e la giustizia in sé, tra la disordinata pluralità di cose buone ed il buono in sé. A differenza da quanti si fanno sedurre da feste e recite, il filosofo tira dritto per la sua strada, e privilegia la conversazione rispetto a qualsiasi altra forma di intrattenimento. Solo il dialogo con altri uomini, in effetti, può liberarci dall’illusione che la realtà si esaurisca nel circuito chiuso delle nostre percezioni, e solo lo scambio vivo con altri esseri simili a noi può farci evadere dal perimetro soggettivo delle sensazioni per immetterci in un mondo comune. Al contrario, gli spettacoli e le altre forme di esperienza condivisa che hanno una base prestabilita nell’illusionismo decettivo impediscono un confronto autentico ed ostacolano la costruzione di uno spazio comune di verità.

La distanza del filosofo dall’uomo tragico, però, non si risolve affatto in una semplice opposizione. Il saggio è e resta un certo genere di contemplatore, anche se di specie più evoluta e raffinata rispetto ai fruitori di spettacoli. Di qui deriva la complessità del rapporto tra ònar e ùpar,8 tra sonno e veglia, che sin dall’inizio, almeno per il saggio, non si escludono a vicenda ma si implicano reciprocamente. Anche il filosofo è un contemplatore, e, per la precisione, un contemplatore d’idee. La contemplazione delle idee implica un’abilità «oneirottomatica», ovvero la predisposizione a fare sogni, e, contestualmente, la capacità di mantenere un distacco critico dalle produzioni dell’immaginario, in modo da poterle raffinarare e negoziare nel dialogo con altre persone. In questo senso l’enùpnion del IV libro della Repubblica costituisce un’alternativa radicale all’attività dispersiva ed illusionistica che contrassegna l’ oneriòttein del V libro. L’enùpnion del IV libro implica, da un lato, l’esistenza di un modello, di una matrice da cui prendere le mosse e con cui mantenere aperto il confronto, e, dall’altro, un atto realizzante, un compimento, un passaggio — direbbe Aristotele — dalla potenza all’atto. L’ oneriòttein è, viceversa, un’attività fine a se stessa, un gioco gratuito privo di finalità ed impossibilitato a rapportarsi ad alcunché. In effetti gli uditori di spettacoli, che dell’ oneriòttein di segno negativo offrono un esempio paradigmatico, ci vengono descritti come faccendieri occupati solo a correre da una rappresentazione all’altra, come se, ironizza Platone, avessero dato le proprie orecchie a cottimo e potessero quindi acquisire guadagni in proporzione alla quantità di rappresentazioni di cui si rendono fruitori. È evidente che dietro la parodia qui si nasconde la polemica nei confronti di un presunto sapere che procede per nozioni e per accumulazione. Diversa è la saggezza del filosofo, che anche quando parte dalle stesse esperienze comuni che si offrono agli altri uomini, non perde il senso della finalità e non smette di cercare la verità nel profondo di ogni situazione.

2. Il sogno del Critone. Evidenza dell’ambiguità

Nello sguardo e nelle mani del filosofo l’oneriòttein, il fare sogni, da faccenda privata e gratuita si trasforma in un’impresa densa di significati e carica di rischi. La dimensione in cui sin dall’inizio viene a collocarsi il sogno della fondazione della città ideale è quella del rischio: una dimensione che impone di esporsi, mettersi in gioco, attivarsi entro un contesto di possibilità o di probabilità che non garantisce alcuna certezza.9 In tutto il processo di costruzione della repubblica è senz’altro implicita una spinta di ulteriorità e trascendenza che proviene dal mondo ideale, ma tale spinta non annulla né mette in secondo piano la libera creazione del politico-filosofo, che è anzi qui, come negli altri dialoghi socratici di Platone, si espone continuamente al rischio dello scacco. L’enùpnion esige rischio e fatica, lavoro e pazienza. Di più: l’enùpnion esige di essere portato a compimento.

Il verbo apotelèo che accompagna il sostantivo indica infatti l’atto dell’adempimento, del realizzare e portare a termine ciò che ha avuto un inizio. Anche nel Critone10 la dimensione sogno è accompagnata da un predicato molto vicino ad apotelèo e sempre incentrato sul riferimento al tèlos. Qui incontriamo, pregno di ambiguità, il verbo teleutào,11 che significa ««finire, compiere, portare a compimento», ma anche «portare a perfezione» e «morire». A pronunciarlo è Socrate, nell’atto di riferire all’amico che è venuto a trovarlo per l’ultima volta il sogno che gli ha predetto la morte. Il resoconto onirico del filosofo offre preziosi indizi per chiarire il senso della definizione del sognare del V libro di Repubblica. Critone si è recato di buon mattino nella cella del condannato per avvertirlo del prossimo rientro del battello cui è legato il suo destino finale. Secondo le previsioni dei naviganti, l’imbarcazione sarebbe approdata nel porto di Atene il giorno stesso, fissando cosi all’indomani la data dell’esecuzione. Ma Socrate smentisce il pronostico di Critone. Il battello non sarebbe rientrato prima del giorno successivo a quello in cui si svolge la conversazione, e la sua esecuzione avrebbe avuto luogo non all’indomani, bensì due giorni dopo. Ci soffermeremo in seguito su altri aspetti di questo sogno. Per il momento rileviamo la costellazione di termini in cui esso trova il proprio contesto di definizione e che possono utilmente integrare l’ambito semantico circoscritto in Repubblica V. Ciò che innanzitutto merita attenzione è il verbo dokèo12 in costruzione impersonale con cui Socrate si riferisce all’apparizione del sogno e che assume in sé i significati di «sembrare, avere l’apparenza di, valere per», in costruzione soprattutto impersonale, e «credere, opinare», perlopiù in costruzione personale. Nel linguaggio tradizionale dei tempi di Platone dokèo utilizzato in costruzione personale ha spesso ad oggetto l’immaginario onirico. I fantasmi dei sogni assumono le sembianze di oggetti e persone del mondo diurno, e vengono perciò scambiati dal sognatore per ciò che non sono. Indipendentemente dal tipo di concezione che investe lo statuto ontologico del sogno, questo diventa oggetto diretto di un credere e di un opinare. Ora, però questo credere e quest’opinare sono, nella filosofia platonica, qualche cosa di estremamente specifico e determinato proprio a partire dal passo successivo alla definizione del sogno che abbiamo esaminato, in Repubblica V 476 d. Qui Socrate conduce Glaucone a distinguere l’opinione dalla conoscenza sulla base dell’analogia tra sonno e veglia. Diversamente da ciò che è designato dall’espressione italiana «conoscenza», la gnòme di Platone consiste nella capacità di attingere all’universo dei valori, rapportando la varietà e la molteplicità delle esperienze soggettive a un nucleo inossidabile ed in sé sussistente che coincide con il bello in sé, il buono in sé, il giusto in sé, e via dicendo. L’opinione, che è originariamente definita in antitesi alla conoscenza, assume quindi la sua prima caratterizzazione dal suo porsi necessariamente a margine di ciò che è oggettivabile e in sé stabilmente definito. Ai tempi del Critone, Platone non ha ancora tematizzato esplicitamente la dòxa, che, dopo essere stata inquadrata, in Repubblica, nell’ambito della teoria della conoscenza, diventa, nel Teeteto, oggetto di un’ulteriore problematizzazione. L’impiego del verbo edòkei per introdurre la visione del sogno sembrerebbe quindi rientrare nell’uso comune del linguaggio, anche se ci sarebbe da chiedersi perché Platone abbia privilegiato la costruzione personale. Va infatti sottolineato che qui il soggetto non è né l’apparizione onirica che «appare» e «si rende simile» a qualche cosa del mondo della veglia, né Socrate, che «crede» nel suo sogno: in entrambi i casi si sarebbe dovuto supporre che il sognatore abbia in qualche modo ceduto all’inganno, ritenendo in sé vere ed autosussistenti le immagini che lo hanno visitato in sonno. È possibile che tramite la costruzione impersonale Platone abbia voluto tenere sia la visione onirica sia chi l’ha ricevuta al di fuori dell’oneiròttein, ossia del «fare sogni» in senso decettivo. Viene cosi esclusa l’ipotesi dell’inganno da entrambe le parti. L’immagine che appare a Socrate, infatti, non ha alcun proposito di spacciarsi per ciò che non è, né Socrate si rapporta ad essa come se si trattasse di qualcosa di diverso da un sogno. Ma cos’è che si manifesta nel sonno del filosofo e in che modo possiamo dire che si presenta senza alcun intento illusionistico? Si tratta di una donna (tìs guné), ovvero non di una divinità o di un’identità specifica, ma di un soggetto a tutta prima indeterminato. Nonostante l’indetereminatezza dell’identità, l’apparizione onirica è contrassegnata da attributi di percezione ben individuati, che esaltano la natura visuale del sogno. Ella è infatti bella (calè) e ben formata (euedès), ed indossa un mantello bianco. Avanza elegantemente in direzione del sognatore e gli si rivolge con un annuncio che suona però come un’ingiunzione o un comando. «Oh Socrate, che nel terzo giorno tu sia alle alte zolle di Ftia». La traduzione italiana è piuttosto stonata. L’ottativo greco, congiungendosi al vocativo, esprime al contempo un invito e un comando nel tono di una saggezza oracolare che ha come nucleo portante la polivalenza dei significati. La figura femminile potrebbe rappresentare la musa della filosofia cui lo stesso Socrate accenna nel Filebo.13

In effetti, è probabile che la protagonista della breve e fugace visione onirica del filosofo abbia anche un elevato valore simbolico. L’avvenente damigella velata potrebbe cioè rappresentare l’ineffabile sublimità del sapere che il sognatore ha inseguito per tutta la vita e che ha dato senso alla sua esistenza. Al filosofo nella sua ora fatale si rivela finalmente la direzione che ha orientato il suo percorso e che fecondamente continuerà ad orientare il pensiero di chi vorrà seguirne le tracce. Non a caso Ftia, la mitica terra di Peleo ed Achille, viene definita erìbolon, ossia «fertile» o, più letteralmente, «dall’alta zolla». Si tratta di un epiteto in perfetto stile omerico, e che tuttavia costituisce un’aggiunta rispetto al verso 253 dell’Iliade IX cui è ispirata la sentenza del sogno di Socrate. Le parole pronunciate dalla misteriosa apparizione (èmati ken tritato Ftìen erìbolon ìkoio) ricordano la formula con cui Odisseo rammenta ad un Achille adirato il tempo in cui suo padre Peleo lo aveva incitato a lasciare Ftia per correre in soccorso di Agamennone. Nell’Iliade il giorno della partenza dell’eroe (èmati) e la sua città natia rappresentano lo spazio-tempo della pace e dell’assennatezza che precede le ire funeste della battaglia. Così Platone, facendo allusione al verso omerico, vuole accennare all’approdo quieto e benefico che attende l’eroe-filosofo dopo la morte. L’attributo erìbolon. in congiunzione a Ftia sta forse a significare che la fine del filosofo e il modo in cui è destinato a morire non saranno certo senza frutto per la filosofia. Il sacrificio della vita guadagnerà al filosofo serenità senza fine, ma anche, grazie ai dialoghi di Platone, fama immortale e pensiero fecondo per chi vorrà avvantaggiarsi del suo esempio. Nell’apparizione onirica e nel suo breve annuncio c’è quindi almeno un messaggio cifrato. E tuttavia il senso del sogno non si esaurisce a livello di uno o più simboli. A vietarcelo è lo stesso sognatore, che lo definisce enargès, ossia «chiaro», «manifesto», ma anche «visibile», «corporeo». Il senso letterale non solo non deve essere scartato, ma va considerato come prioritario rispetto a qualsiasi altro possibile significato. L’apparizione onirica è trasparente perché viene dal corpo stesso del sognatore e si manifesta, prima che attraverso le parole, attraverso la visibilità, cioè attraverso il senso che più di ogni altro è meritevole di un certo credito. «Gli occhi sono migliori testimoni degli orecchi», aveva detto Eraclito, e con ciò aveva confermato la tradizione popolare secondo cui dobbiamo considerare veritieri soltanto i sogni dei geni che escono dalle porte di corno, ossia dei sogni veicolati dalla cornea dell’occhio piuttosto che all’avorio della bocca. La parola può mentire, mentre ciò che si rivela all’occhio non può che manifestarsi nella sua verità. Considereremo in seguito l’ipotesi che Platone si stia rapportando anche in senso ironico a quest’idea cosi radicata nel senso comune e nella cultura del suo tempo. Per il momento va rilevata la discrasia tra l’aura di vaghezza che circonda la donna del sogno e il modo in cui essa viene invece percepita dal filosofo, che la definisce in termini di evidenza (enargès). L’immagine femminile si presenta velata. La sua apparizione è repentina e subito sfuggente. L’avvolge un senso di mistero ed enigmaticità che è dato soprattutto dalla sua evanescenza. Eppure il sogno è di un’evidenza lampante, tanto che il filosofo lo definisce «trasparente», «manifesto». Cos’è che rende l’immagine onirica così chiara agli occhi del filosofo? Non sarà forse, paradossalmente, proprio la sua enigmaticità? L’immagine della donna non fa nulla per sembrare qualche cosa che non è, ovvero per acquistare un’identità separata dal contesto onirico in cui si è generata. Il suo mistero si fa presente annullandosi. L’evidenza dell’immaginario è talmente trasparente che non si lascia neppure interpretare, se con interpretazione intendiamo un dare significato che sorvola il senso letterale. La pluralità di strade che si aprono all’interpretazione restano tutte implicate nella potenza dell’immagine che si offre al sognatore per cosi dire nuda, senza far mistero di sé. «Atopon»- singolare — dice Critone a proposito dell’apparizione. Ma Socrate lo corregge «enargès».

3. Un’apparizione ricorrente. Onirismo vigile e crittografia del destino nel Fedone

Anche a proposito di un altro sogno, sempre in prossimità della morte, il filosofo scarta l’interpretazione simbolica a favore di una più letterale, cedendo alla potenza autoevidente dell’immaginario onirico. Stavolta non si tratta di un episodio isolato, ma di una fantasia notturna ricorrente. Al posto dell’immagine nitida, per quanto evanescente, dell’apparizione del Critone, il sogno del Fedone appare molto più astratto e sfumato. Ci troviamo all’inizio del dialogo14 che ha come cornice generale il resoconto della morte di Socrate che Fedone fornisce ad Echecrate. Cebete pitagorico è venuto a far visita al prigioniero per condividere con lui e con la ristretta cerchia di fedelissimi le ultime ore di vita del filosofo. Sono momenti decisivi. A Socrate resta oramai poco tempo per consolare gli amici e per rinsaldare in loro il senso della ricerca. Gli ultimi discorsi si appunteranno, come è naturale che sia, sulla morte e sulla possibilità di una continuazione della vita dell’anima dopo di essa. Quando i seguaci del condannato si presentano in carcere è ancora mattina presto. Il giorno prima hanno ricevuto notizia dell’arrivo del battello che deve precedere di ventiquattro ore l’esecuzione, perciò si sono presentati prima del solito. Non ci saranno altre opportunità per dialogare con Socrate, e non intendono perdere neppure un istante. Quando il carceriere li lascia entrare s’imbattono in Santippe, la moglie del filosofo, che vedendoli si commuove e per questo viene portata via dagli inservienti di Critone. A chiederlo è Socrate stesso, che preferisce trascorrere le sue ultime ore in sobrie riflessioni e non gradisce lamentazioni. Appena la moglie esce, massaggiandosi le gambe finalmente libere dalle catene, il filosofo inizia a riflettere ad alta voce sull’intreccio indissolubile di piacere e dolore che struttura la vita umana. La necessaria alternanza tra benessere e sofferenza, osserva Socrate, potrebbe costituire l’oggetto di una favola di Esopo, che per spiegarla avrebbe potuto ricorrere a una delle sue fantasiose invenzioni. E qui il filosofo non si limita a un’enunciazione di principio, ma immagina anche la storia che Esopo avrebbe potuto inventare, abbandonandosi cosi alla fantasia del mitografo. Il piacere e il dolore diventano, nell’immaginazione del poeta, acerrimi nemici che, a causa delle loro liti incessanti, vengono condannati da una divinità ad avere un’unica testa per due.

È qui che Cebete interviene. Incoraggiato dalla citazione di Esopo, domanda a Socrate per quale motivo da quando è in carcere si sia messo a comporre, quando prima non lo aveva mai fatto. La risposta del filosofo è cristallina: «Volevo mettere alla prova certi miei sogni, per sperimentare che cosa dicessero» (enupnìon tinòn apopeiròmenos tì lègoi). Per sua natura, quindi, il sogno non richiede alla veglia tanto di essere interpretato, quanto piuttosto di essere messo alla prova. Il verbo apopeirào significa anche «are un esperimento, fare un tentativo» e poi «provocare» ed «indagare». La veglia indaga ciò che il sogno suggerisce. Che il sogno possa fornire indicazioni e direttive alla vita di veglia risulta chiaro anche dalla scelta dei termini «tekmàire»«tekmàiromai» nel Critone.

«Tekmairèin» significa infatti «dedurre da segni». Il sogno annuncia quindi un suo messaggio che la veglia è chiamata a verificare attraverso dei comportamenti pratici più che con spiegazioni teoriche.

Tra il mettere alla prova e l’interpretare c’è comunque una radice comune: l’atteggiamento inquisitorio che contraddistingue il filosofo non soltanto di fronte al sogno ma di fronte a qualsiasi esperienza della vita. Il sogno richiede un’indagine in quanto parte integrante dell’esistenza più che come fatto separato. Nel sonno il saggio mette all’attivo capacità di ricerca diverse ma complementari a quelle della veglia. Se la vita da svegli può costituire una verifica dei nostri sogni, ciò che ci accade nel sonno può essere una prova di ciò che abbiamo vissuto durante il giorno, secondo un rapporto di reciproca continuità. Il sogno ricorrente intende forse provocarci in una certa direzione e il suo ripresentarsi ogni volta significa che tale direzione non è stata ancora presa, oppure che ha bisogno di essere ribadita per vincere l’incertezza di chi la segue tentennando un po’. Questa, almeno, è la spiegazione data Socrate ai suoi fantasmi notturni. Ma qual è il contenuto di un sogno tanto insistente? Sotto certi aspetti è simile a quello del Critone. Anche qui ci viene riferito attraverso il discorso diretto; anche qui la visione si rivolge direttamente al sognatore, appellandosi a lui con un vocativo; anche qui, infine, non c’è alcun tentativo, da parte dell’apparizione onirica, di mettere in atto un meccanismo decettivo. Le formule con cui i personaggi si rivolgono al sognatore, in particolare, sono brevi, enigmatiche e coincise, e proprio nella loro laconica incisività manifestano apertamente la propria appartenenza ad un orizzonte oracolare A parte questi punti di contatto, per cosi dire strutturali, i due sogni si caratterizzano entrambi anche per il momento particolare in cui ci vengono riferiti, di prossimità alla morte, e per il tipo di reazione che sollecitano nel sognatore, una reazione più conseguente e legata al destino individuale del sognatore rispetto alle riflessioni sollecitate dai sogni riferiti in altri dialoghi.

Anche nel Carmide e nel Cratilo,15 infatti, Socrate riferisce dei sogni come propri, ma si tratta di sogni di tipo diverso e che svolgono una diversa funzione rispetto a quelli dei dialoghi della morte. Nel Carmide Socrate presenta nella veste di un sogno l’idea di un mondo in cui la scienza regni sovrana e la temperanza possa orientare i suoi sforzi in direzione del bene. E anche l’intera costruzione della Repubblica, come più sopra rilevato, ci viene presentata alla stregua di un grande affresco onirico. In effetti in ogni dialogo che ha Socrate come protagonista, il filosofo mette in campo un suo sogno di razionalità che entra in dialettica con le concezioni del senso comune rappresentate dagli interlocutori e che concorre in maniera determinante al gioco delle definizioni. E tuttavia si tratta pur sempre di sogni di razionalità, che in quanto tali si oppongono sia all’oneiròttein che contraddistingue la vita da svegli della maggior parte delle persone, sia pure ai sogni di tipo oracolare che si rivolgono personalmente e direttamente all’uomo Socrate.

Le apparizioni del Fedone e del Critone non possono essere ascritte all’oneiròttein del senso comune perché, come abbiamo visto, si mantengono fuori dall’inganno e non comportano nessun intento decettivo. Ma c’è di più: mentre il sogno comunemente dato e le percezioni dei sensi fondate sull’analogia del sonno c’inducono a riposare sul proprio assenso, le visioni oniriche dei due dialoghi della morte si dischiudono in una strutturale polivalenza di senso, creano intorno a sé un’atmosfera di enigmaticità e di attesa, e spingono così il sognatore ad interrogarsi. Laddove la sensazione in senso ingenuo sollecita la credenza, la sensibilità dei sogni di Socrate sollecita il dubbio e la sperimentazione.

Alla dimensione del dubbio e dell’attesa nel Critone non si sottrae neppure l’annuncio della donna velata. Le parole della donna, infatti, più che trasmettere una sentenza di morte esprimono l’incombenza del destino in forma cifrata. In effetti tutto ciò che Socrate e Critone si dicono dopo il resoconto del sogno deve portarci ad escludere che il messaggio della misteriosa figura femminile corrisponda a un semplice pronunciamento di morte. Il nucleo portante del dialogo è infatti la libertà di scelta in virtù della quale il filosofo rinuncia a una facile evasione e assume su di sé il proprio destino finale. Sia la tensione drammatica sia il senso filosofico dell’opera esigono che la questione della morte resti aperta per tutta la durata del dialogo. Le terre di Ftia simboleggiano uno stato di quiete e di tranquillità, un’assenza di problemi che Socrate avrebbe potuto raggiungere accettando la morte ma anche, altrettanto facilmente, accettando di andare in esilio secondo quanto gli amici andavano caldeggiando. A questo proposito non dovrebbe sfuggire un dettaglio certo di non poco conto, e cioè che la proposta d’evasione formulata da Critone poco dopo il resoconto del sogno si appunta proprio sulla Tessaglia. «Se tu volessi andare in Tessaglia» insiste il fedele amico di Socrate «là io avrei chi potrebbe ospitarti, chi molto farebbe per te e ti procurerebbe una posizione sicura cosicché in tutta la Tessaglia non ci sarebbe nessuno a darti fastidio». Dunque ai sensi del dialogo la fertile terra di Ftia non è, primariamente, terra simbolica di morte, ma luogo di evasione e geografia reale. Assecondando il desiderio di chi vorrebbe salvargli la vita e il senso più letterale del sogno, Socrate avrebbe dovuto dunque fuggire dalla prigione e recarsi in Tessaglia, dove, al posto delle tribolazioni e dell’irriconoscenza dei suoi concittadini, avrebbe potuto godere di calorosa ospitalità e sicura accoglienza. Eppure non è questo l’unico senso «letterale» del sogno, perché Ftia, per quanto ci è dato sapere, non è una località greca dei tempi di Socrate ma una città mitica che forse non è mai esistita. Ftia appartiene, sotto questo punto di vista, a una geografia mitica più che reale. In quanto tale, appare più vicina al regno dell’Ade descritto con dovizia di particolari nel Fedone che non alla terra di salvezza terrena di cui ci parla Critone nel dialogo omonimo. Dunque il lettore contemporaneo di Platone, messo di fronte alla proposta di fuga avanzata da Critone, sarebbe facilmente caduto nell’espediente drammatico di credere che fosse proprio l’esilio in Tessaglia il contenuto del messaggio cifrato del sogno, ma sarebbe stato al contempo avvertito, grazie anche alla fermezza e alla determinazione di Socrate, che la Ftia annunciata dalla misteriosa figura onirica poteva benissimo risiedere fuori dalla Tessaglia e dal mondo terreno, in un regno mitico e lontano di cui soltanto l’immaginazione poetica e un’immaginazione comunque libera dalle catene del corpo possiedono la chiave. Congeniale allo svolgimento drammatico è dunque mantenere questo doppio binario, per cui la Ftia preannunciata dal sogno resta in bilico tra la fuga e la resa, tra la vita e la morte, tra la determinazione del destino in un senso o nell’altro.

4. Tensione monoeidetica e interpretazione letterale

Il permanere della molteplicità dei possibili rispetto al senso del sogno fino alla scelta definitiva fa della fantasia onirica di Socrate un tipico esempio di ciò che Maria Zambrano chiama ««ogno della persona» Si tratta di quei sogni in cui, secondo la filosofa spagnola, «si manifestano come teoremi i luoghi della persona, gli “inferi” della vita personale da cui la persona deve uscire attraverso il tempo, nell’esercizio della libertà».16 Il sogno della persona ha quindi la propria naturale continuazione nella veglia, da cui non è propriamente disgiunto e dalla quale esige l’azione trascendente che ne deciderà il senso. La capacità di sognare della persona va dunque distinta, seconda la Zambrano, da quel sognare trapassato alla veglia che contraddistingue gli individui intrappolati nel proprio personaggio. La differenza tra il sognare autentico, quel sognare che prepara e rende possibile la veglia cosciente della persona, e il sognare trapassato alla veglia che immerge invece il soggetto in una veglia paradossale, simile a uno stato di sonno, richiama la distanza platonica tra l’oneiròttein dei molti e il sognare di chi, credendo fermamente nelle idee, persiste nel proprio progetto portandolo avanti al confronto con ciò che è dato. La Zambrano suggerisce anche che chi è in grado di coltivare la forma sogno nel contatto con la realtà tenderà a fare sogni sempre più rarefatti, ovvero sogni sempre più astratti e vicini al piano dell’essere e sempre meno vincolati al piano fantasmatico delle apparenze. A questo proposito la Zambiano parla di sogni monoeidetici.

L’astrazione e lo svincolamento dal piano fantasmatico è anche ciò che caratterizza il sogno ricorrente del Fedone rispetto all’apparizione del Critone. Alla predominanza dell’elemento visuale della figura di donna nel Critone fa infatti da contrappunto la dichiarata indifferenza rispetto ai connotati della vista che caratterizza il sogno ricorrente del Fedone. «Cosi è andata» confida Socrate ai suoi interlocutori «Ripetutamente, nel corso della mia vita passata, mi ha visitato uno stesso sogno, manifestandosi alla vista ora in un modo ora in un altro». Il verbo foitào che ho tradotto con «visitare ripetutamente» significa anche «frequentare, andare e venire, recarsi ripetutamente»: indica cioé un movimento di frequentazione assidua e continuativa nel tempo, che può avere come soggetto sia esseri viventi, come uomini ed animali, sia anche cose inanimate, come per esempio merci, o cose astratte, quali la fama e l’onore. Il foitào riferito alle immagini sempre cangianti del sogno sembrerebbe quindi implicare un’entità reale, concreta o simbolica, quale suo soggetto. È il sogno a presentarsi ripetutamente al sognatore, assumendo di volta in volta diverse sembianze, ma al contempo rendendosi riconoscibile per la sua ipseità (autò). In altre parole, è il sogno a rendersi soggetto d’azione, facendo si che il suo pur vario repertorio d’immagini possa rinviare il suo spettatore sempre ad uno stesso ed identico contenuto. Per poter visitare ripetutamente il sognatore, il sogno deve possedere un’identità stabile, o quanto meno un nucleo distinguibile che lo caratterizzi in quanto tale e che lo differenzi rispetto ad ogni manifestazione altra, sia del sonno che della veglia. Quale soggetto di un’azione uniforme nel tempo, il repertorio d’immagini deve possedere in sé uno statuto ontologico che gli permetta in qualche modo di «essere» e di «essere diverso» nel senso che Platone chiarirà nel Sofista.17 In realtà, spiega Socrate, la riconoscibilità del sogno in quanto tale è legata al messaggio che viene rivolto al sognatore e che si ripete sempre uguale sotto le diverse spoglie dei fantasmi onirici. «Apparendomi di volta in volta alla vista (il sogno) mi diceva sempre la stessa cosa: “Oh Socrate”, diceva, “crea musica ed eseguila”» A rinviare ad un’identità di contenuto è dunque la sequenza verbale di cui il protagonista onirico di turno si rende mediatore. L’identificazione di episodi diversi e staccati con un unico sogno è subordinata a un insieme di parole che rimandano a un significato, o forse a un insieme di significati: in ogni caso a un elemento non visuale ma comunque in parte rientrante in un apparato fenomenico. Le parole pronunciate dalle varie comparse hanno infatti uno statuto ambiguo, in parte ascrivibile, in quanto processo sonoro, al campo del fenomeno, ed in parte ascrivibile alla sfera dei significati astratti. Evidentemente qui ciò che permette a Socrate di ricondurre le singole apparizioni ad un nucleo stabile è il senso della formula, e non la voce di chi la pronuncia, che dobbiamo supporre cangiante in relazione al tipo di comparsa messa in scena dal sogno stesso.

L’identità di repertorio appartiene dunque a una dimensione di significato che si consegna al suo fruitore in forma stabile, mantenendosi intatta nella sua letteralità. A costituire il nucleo identitario del sogno non è né il fenomeno visivo né il fenomeno sonoro, ma la ripetizione di una formula a prescindere da ogni involucro fantasmatico. Si tratta quindi di un sogno monoeidetico nel senso chiarito sopra.

Eppure, pur nel suo rendersi riconoscibile attraverso un significato, il sogno s’iscrive a pieno titolo nel campo del fenomeno. Sin dalla sua comparsa e fin tanto che agisce, si muove unicamente nella sfera di ciò che sembra, senza poter mai veramente accedere all’essere e alla sostanza. Di esso Socrate dice che «appariva» (fainòmenon) alla vista ora in questa ora in quella veste, riportando sempre lo stesso messaggio. Dobbiamo dunque supporre che in relazione al sogno esista un ambito di significati che attiene esclusivamente al campo dei fenomeni e ad esso immanente. Il significato del sogno e la sua verità si manifestano, in questo caso, attraverso la voce ma indipendentemente da essa. Il fatto di affidare la matrice stabile del sogno ad un contenuto verbale ha qui forse anche un senso ironico nei confronti delle credenze popolari, che, lo abbiamo già accennato, ritenevano l’elemento visuale del sogno più affidabile rispetto a quello uditivo.

Omero18 aveva espresso poeticamente tale credenza dividendo le apparizioni del sonno in due diverse classi, la prima, veritiera, veniva portata da geni che passavano attraverso una porta di corno, ovvero legata alla cornea oculare, mentre la seconda, era veicolata da geni che si servivano di porte ricoperte di avorio, legato alla bocca e quindi al contenuto verbale dell’apparizione. Solo ciò che passa attraverso l’astrazione della parola può essere suscettibile d’inganno, mentre non può ingannare ciò che ricade sotto il nostro sguardo. Per un critico raffinato delle apparenze sensibili quale Platone era, una spiegazione di questo tipo non doveva essere troppo convincente. Il visibile in quanto tale non può dirmi la verità, ma soltanto riflettere un campo limitato di esperienze. La parola, al contrario, staccandosi dalle apparenze sensibili, ne fa astrazione e consente di emanciparsi dal proprio angolo visuale. Finché si mantiene disponibile al discorso e diversamente interpretabile nei suoi significati, la parola consente di affacciarsi alla realtà con un’apertura molto maggiore rispetto a qualsiasi medium sensibile. Riprova di questa maggiore apertura è proprio l’atteggiamento di Socrate rispetto al contenuto verbale del sogno, che subisce un’evoluzione nel passaggio dalla «vita passata» (en tò parelthònta bìo) agli ultimi giorni in carcere.

Quando, prima del processo, il sogno lo visitava per incitarlo a comporre musica, il filosofo interpretava la formula del messaggio in senso metaforico, dando per assodato che la musica cui alludeva fosse quella stessa filosofia cui lui aveva comunque già deciso di consacrare la vita. Stando all’interpretazione simbolica, le melodie invocate dalle comparse oniriche avrebbero dovuto rappresentare i discorsi filosofici, e il sogno ripetuto non avrebbe fatto altro che riconfermare l’uomo Socrate nella sua identità di filosofo, senza nulla mettere in questione rispetto alla sua condotta di vita e al senso complessivo della sua esistenza. «In passato» spiega Socrate ai suoi interlocutori «accoglievo questo sogno come se mi facesse da sprone e da incoraggiamento a fare ciò che facevo, in modo simile a chi incita i corridori, cosi io ritenevo che anche il sogno mi incitasse a ciò, a comporre musica, perché la filosofia è la musica più nobile, ed io questo facevo». Simile a un atleta in corsa, Socrate fa appello ai propri sogni per trovare la forza e il senso necessari a sostenere l’impegno del pensiero. Negli episodi ripetuti ed insistenti che lo pongono sempre di fronte allo stesso messaggio, il filosofo cerca soprattutto una conferma della propria missione, e tralascia quindi di considerare altri significati che potrebbero essere implicati nella formula di comando, a partire dal suo senso più letterale. Il ripetersi incalzante dell’ingiunzione sotto spoglie di volta in volta diverse non impedisce al filosofo di mantenersi fermo nella propria attitudine di fronte al contenuto del sogno. Del resto la metafora del corridore parla chiaro. La replica del comando risponde perfettamente al bisogno di sentirsi costantemente incoraggiato e spronato, che a sua volta è conforme sia a una posizione esistenziale di umiltà sia anche ad un impegno con la realtà che sia veramente autentico, e che necessiti quindi di rinnovarsi continuamente.

Ciò che ad un certo punto detta a Socrate un cambiamento di prospettiva rispetto al senso del sogno non è quindi il suo ripetersi incalzante né un mutamento inerente al suo contenuto, bensì una serie concatenata di fatti che ha luogo nella vita di veglia. Si tratta del processo, dell’incarcerazione e della dilazione della condanna a causa delle celebrazioni in onore del dio Apollo. Una combinatoria di eventi che introduce uno stacco netto nell’esistenza di Socrate e che lo induce forse a mettere in questione ogni certezza ad un punto ancor più estremo rispetto a quello toccato in precedenza dalla sua filosofia e dal metodo di ricerca delle definizioni. La nettezza dello stacco tra il «prima» e il «dopo» del processo è sottolineata da una serie di locuzioni temporali (en tò parelthònta bìo, en tò pròsthen cròno, nun, epeidè, etc.).

Ora, dopo il processo e dopo che la solennità del Dio ha impedito la mia morte, mi è parso che bisognasse, se tante volte il sogno mi avesse ordinato di comporre musica ordinaria, che non bisognava disobbedirgli ma comporla. È più prudente infatti non andarsene prima di aver coscienziosamente fatto ciò che è da fare ed ubbidito al sogno.

Nel passaggio dall’interpretazione simbolica a quella letterale sembra dunque essere in gioco la scelta esistenziale cui Socrate ha improntato la sua intera condotta di vita. Forse, si dice il filosofo, il fatto che io non sia ancora morto e che mi resti del tempo a disposizione significa che c’è qualcosa che ho trascurato e che ho ora occasione di portare a compimento. Paradossalmente, proprio nel momento in cui arriva a mettere in questione l’appropriatezza della precedente interpretazione, e quindi anche della sua missione nella vita, Socrate la riconferma nel modo più radicale. Se infatti il senso più profondo della ricerca socratica consiste nel mantenere sempre acceso nel dubbio il lume della ragione, proprio questa ultima, estrema disponibilità a spogliarsi delle proprie convinzioni acquista il senso di riconfermare il ruolo ineludibile della coscienza rispetto ad ogni circostanza, tanto nel sapere quanto nella vita. Quindi, come ha giustamente osservato Serafina Rotondaro,19 qui le due interpretazioni del sogno, quella letterale e quella metaforica, non sono in competizione ma si rafforzano reciprocamente. Tuttavia dovrebbe costituire ancora oggetto di riflessione il fatto che Socrate negli ultimi istanti della sua vita sia propenso più a un’interpretazione letterale dell’immagine che a una simbolica. La mia ipotesi di spiegazione è che il sogno fornisca al saggio un modello dell’agire, e che Socrate, giunto al culmine della propria esistenza, abbia oramai ridotto al minimo la distanza tra finalità e condotta di vita. Il sognare del saggio consiste nell’attivarsi coscientemente per rendere l’esistente al suo archetipo ideale. L’immagine costituisce il prototipo cui la realtà deve adeguarsi mediante un processo di approssimazione graduale. Al termine del suo percorso, il filosofo ha raggiunto il grado di massima conformità del proprio essere e del proprio agire al modello di trascendenza imposto dal sogno della ragione.

Colgo così una suggestione offertami da Serafina Rotondaro quando, spiegando come in Platone l’anima dell’uomo arrivi ad essere effettivamente umana, scrive che: «(la giustizia) è possibile solo se l’anima diventa conforme all’immagine esterna che la esprime» e quindi, «paradossalmente, da questo punto di vista, non è il significante a doversi adattare al significato, ma il significato al significante, non l’apparire all’essere, ma l’essere all’apparire.20 In fondo è proprio questo il presupposto che sorregge l’intero edificio teorico della Repubblica. La giustizia, suo materiale di costruzione, è un tendere a ciò che mi è offerto come modello dallo sforzo progettuale dell’immaginazione, e non può essere definita a partire dall’esistente, come vorrebbe Trasimaco.

Il sognare autentico parte dal riconoscimento di una distanza tra ciò che mi è dato e ciò che è ancora da realizzare, e si sviluppa nella tensione per consumare tale distanza. È esattamente il contrario del sonno che s’insinua nella veglia e che condanna la realtà nei margini sempre troppo esigui dell’esperienza soggettiva. All’egotismo e all’autoreferenzialità dell’oneiròttein, l’enùpnion del filosofo contrappone la capacità di trascendersi in vista di altro. In Repubblica IV è una capacità di inquadrare i fenomeni in prospettiva, rapportandoli a quell’intelligibile che solo è abilitato a fornirci un metro di giudizio. Imparare a sognare è imparare a rapportarsi all’esistente come se lo si guardasse dall’alto di una vedetta,21 in una visione d’insieme che può permette di coglierne il senso e le finalità. Questo senso e queste finalità non risiedono, secondo un’ottica moderna ed intimista, nell’interiorità chiusa ed autotrasparente dell’anima, ma in una costante apertura della coscienza, che si rivolge criticamente ai suoi oggetti e che continuamente si trascende in vista di altro.

Qui Platone accoglie e rielabora la lezione di Protagora. Se io non posso in alcun modo uscire dalle mie sensazioni, posso però stabilirne i limiti e le direzioni, incanalandole in un orizzonte di senso che costituisce valori. In tale processo costitutivo di valori, e segnatamente nella Repubblica, non mi è consentito procedere in solitudine. Nella misura in cui è autentico, il mio sognare implicherà già in sé ciò che è altro da me, una spinta costruttiva a dirigermi fuori ed oltre il mio essere attuale. Nel Fedone la seconda spiegazione che un Socrate oramai prossimo alla morte offre del proprio sogno mira proprio a recuperare l’elemento di alterità e di ulteriorità trascendente che l’interpretazione simbolica aveva eluso.

Il Socrate che crede che il proprio sogno sia soltanto un incitamento a vivere la vita che già sta vivendo e che trascura il contenuto esplicito di un comando ripetuto più volte è un Socrate che rischia pericolosamente di scivolare nell’ oneiròttein, di rimanere incastrato in un labirinto chiuso di convinzioni e di bei propositi che però non tengono il passo con la realtà esterna. Le diverse figure che di volta in volta si affacciano sulla scena del sogno e che si fanno portatrici sempre dello stesso messaggio rappresentano le molteplici sembianze del reale esterno. Il repertorio onirico qui non è espressione di un universo privato, ma cifra di un’esteriorità trascendente che chiama a sé il sognatore premendo per la sua realizzazione. Il sogno è il mondo di fuori che penetra dentro e chiede di essere interiorizzato.

5. Ritorno alla fisiologia. Il Timeo e il fuoco di verità

Si spiega così, credo, un passo sul sogno piuttosto controverso che troviamo nel Timeo e che ha dato luogo a diverse interpretazioni: il 45 e-46 a. Timeo illustra la creazione del corpo umano da parte di esseri divini. L’elemento dominante è il capo, di forma sferica a imitazione dei circoli celesti. Il tronco e gli arti vengono posti al servizio del capo, simili a un carro per il suo cocchiere. Al volto vengono attribuiti gli organi di senso di cui l’anima potrà disporre come propri strumenti per le sue previsioni. La vista, il più nobile dei sensi, merita un discorso a parte perché permette le osservazioni che costituiscono la materia prima della filosofia. La sensibilità degli occhi è veicolo di passaggio e trasformazione della luce tra interno ed esterno, ed equivale pertanto a una capacità metafisica di penetrazione nella realtà circostante. Sono proprio le mutate condizioni di visibilità in cui l’occhio si trova ad esercitare le sue funzioni naturali a definire la specificità del sonno e della visione onirica.

Dunque, quando attorno alla corrente degli occhi c’è la luce del giorno, il simile si getta sul simile, e diventa suo congiunto, si colloca nel corpo come a casa propria dritto nella direzione degli occhi, dove, viceversa, ciò che viene da dentro, andando incontro a ciò che viene da fuori, ad esso si congiunge… (…)… . Ma quando sopraggiunge la notte, il fuoco congenito si separa, si trasforma rispetto al suo dissimile esteriore, si altera e si spegne, non essendo più unito all’aria circostante, non ha fuoco. Smette di vedere, ed allora diventa un attrattore del sonno. Gli dei hanno escogitato la natura delle palpebre a salvaguardia dell’occhio, quando lo racchiude in sé, imprigiona la forza del fuoco che c’è dentro, la quale forza dissolve e rende uniformi i movimenti interni, e, una volta che questi sono appianati, giunge la quiete, e quando c’è molta quiete, si verifica un sonno con brevi sogni, quando invece restano dei movimenti più grandi, a seconda dei luoghi in cui permangono, ci passano sopra tante e tali immagini, che dentro si rendono simili a quelle esterne e che vengono ricordate una volta svegli.22

Il punto che ha sollevato maggiori problemi ermeneutici è quello in cui Timeo-Platone fornisce una spiegazione dei phantasmata onirici di più lunga durata e si condensa in un gruppo di parole tradotte diversamente a seconda delle interpretazioni: «Toiàuta kai tosàuta parèsconto afomoiomthènta èntos èxo te egerthèisin apomnemoneuòmena fantàsmata». Pegone traduce: «Si producono all’interno tali e tanti visioni che rassomigliano a quelle esterne che da svegli ci ricordiamo» ma Serafina Rotondaro, con un’ampia argomentazione, propone una traduzione alternativa che modificherebbe sostanzialmente il senso della frase: «producono altrettante apparenze che diventano somiglianti dentro e che sono ricordate fuori da quelli che sono svegli». La vexata questio riguarda l’accostamento tra afoiothènta, che significa «rendersi rassomiglianti», «imitare», o, anche «diventare simile», e la coppia di opposti èntos ed èxo, rispettivamente: «dentro» e «fuori». Il fuori (èxo) va riferito al dentro che in qualche modo si rende ad esso simile oppure va legato alla proposizione successiva e riguarda unicamente ciò che accade al risveglio?

Si tratta di un punto cruciale perché decide se e in che misura il sogno possa essere, per Platone, un processo legato al mondo esterno nel senso di un tendere immanente e aldilà della propri origine, oppure se, fuori dei possibili usi metaforici, debba sempre e comunque restare un fatto privato, che prende corpo unicamente nell’interiorità del nostro animo e nel foro chiuso della coscienza. Ovviamente, sia che propendiamo per la prima sia che propendiamo per la seconda ipotesi resta la complessità del sogno in quanto simbolo che, come abbiamo visto nel confronto tra IV e V libro della Repubblica, non può essere ridotto ad un significato univoco.

Proprio la complessità del simbolo può aiutarci a riflettere meglio sul quadro fisiologico del Timeo, in cui i processi somatici che hanno come effetto diverse tipologie di sogni non sono né semplici né lineari. I phantàsmata che coinvolgono in modo cosi problematico il dentro e il fuori sono costituiscono essi stessi soltanto una delle possibilità a disposizione dell’immaginazione onirica. L’altra è data dai brevi sogni (bracuòneiroi ùpnoi), quelli che si producono quando la quiete è molta come risultato dei movimenti della giornata che vanno via via dissolvendosi. Dunque, almeno per questa seconda tipologia di sogni (prima nell’ordine platonico) si dovrà ammettere un’origine esterna, per quanto la specificità dei movimenti che si esprimono nel sonno sembra essere data proprio dalla loro chiusura al mondo di fuori, e dal graduale affievolirsi che tale chiusura comporta. Abbiamo però detto che ciò che il riferimento esterno che qui interessa non è quello dell’origine, bensì quello del tendere e della direzione che prende il sogno.

Ci si potrebbe a questo punto chiedere se sia lecito ipotizzare una distinzione anche etica ed esistenziale, oltre che fisiologica, tra i due modi di sognare descritti da Timeo. Nel primo caso, quello dei brevi sogni, siamo messi di fronte al riflesso passivo di residui di sensazioni, mentre nel secondo caso c’è un “rendersi simile” che potrebbe coincidere sia a positivo attivarsi della coscienza, sia anche un oneiròttein in senso decettivo. Ma si tratta di un terreno scivoloso e su cui forse non è lecito imbattersi. L’ottica che il Timeo ci offre sul sogno è fisiologica e l’unico modo in cui si lascia comprendere è approfondendo la teoria della sensazione al cui intero prende corpo. Per illuminare i possibili sensi del passo sopra riportato occorre riferirsi alla spiegazione della visione che l’ha preceduto.

Come si può dedurre dalla lettura del passo che ho riportato sopra, il processo della visione che presiede alla formazione d’immagini è relazionale e bidirezionale. L’immagine non prende corpo né nell’occhio né nell’oggetto esterno, ma soltanto dopo che il fuoco interno e il fuoco esterno hanno costituito una nuova identità, nell’anima. Il fuoco interno isolato dal mondo di fuori ha pur sempre un’origine nel mondo esterno, cui naturalmente tende per mantenersi vivo. Le palpebre hanno il compito di preservarlo laddove l’impossibilità di un incontro con la luce esterna minaccia di estinguerlo.

Le immagini che si producono nel sonno, al pari delle visioni della veglia, possono essere solo in parte autoindotte, ma, a causa del meccanismo difensivo delle palpebre, il processo endogeno si rivela con maggior trasparenza di quanto non avvenga nel corso della veglia. Sembra scontato che ad occhi chiusi gli oggetti della visione siano prodotti internamente, mentre quando solleviamo le palpebre siamo naturalmente esposti alla tentazione di ricondurre ciò che ricade sotto la nostra percezione a una realtà in sé sussistente. Cosi, paradossalmente, le visioni da svegli sono più ingannevoli di quelle del sonno perché laddove il riferimento all’esterno è più evidente più facilmente sorge l’inganno che gli oggetti dell’esperienza siano indipendenti dal nostro fuoco interiore.

È facile fare sogni da svegli. Basta perdere, anche solo temporaneamente, coscienza della propria identità e cedere all’illusione che le situazioni di cui siamo partecipi siano totalmente autogenerate, ovvero dimenticare che si producano attraverso di noi e solo all’interno del nostro angolo visuale. Sognare è muoversi in un universo di certezze supposte tali. Ma a Platone questo genere di certezze non possono bastare. Nasce allora un sognare di secondo grado, un sognare rispetto al quale l’opinione sensibile non è qualche cosa da scartare ma una sorta di anticamera, un percorso obbligato che conduce alla scienza e alla conoscenza in senso proprio. Gnòme ed Epistème non implicano il rifiuto delle percezioni, bensì la capacità di ritrovare in esse le idee. Coerentemente con questo quadro il filosofo non è colui che rinuncia al sogno e allo spettacolo del mondo, ma chi trasforma ogni spettacolo, e perfino l’intrattenimento, in una nuova occasione per ricercare la verità.


  1. Repubblica, V 476 C. Traduzione mia. Testo di riferimento: Platone, Le Opere, Newton, Roma 20052, vol. IV. ↩︎

  2. Apologia, 30 E 1 - 31 A 7. ↩︎

  3. Rep., IV, 443 B -C. ↩︎

  4. Enùpnion è uno dei termini che in greco designano il sogno. Frequente è anche l’òneiros. La molteplicità di espressioni che si riferiscono al sonno e all’attività del sognare cogliendone diverse sfumature evidenziano la ricchezza e la varietà della fenomenologia onirica nel mondo classico. ↩︎

  5. Socrate mette in relazione il sogno da realizzare con «qualcosa di divino» (theòn tina). ↩︎

  6. V. Luisa De Paula, Tra mondo proprio e mondo comune. Poiésis ed intenzionalità nel Discorso Sacro di Eraclito, “Isonomia”, rivista dell’Istituto di filosofia “Arturo Massolo” dell’università di Urbino, disponibile in linea all’indirizzo http://www.uniurb.it/Filosofia/isonomia/2009depaula.pdf↩︎

  7. Rep., 475. È Glaucone a fornirci pittoresche allusioni sulla stravagante categoria dei filotheàmones, gli amanti della contemplazione. Si tratta di persone che trascorrono il proprio tempo tra recite ed agoni drammatici, amano le feste popolari perché danno loro occasione di assistere a ogni genere di spettacoli e non si curano affatto dei discorsi fondati razionalmente né si prestano ai nobili discorsi e all’arte della conversazione. ↩︎

  8. Il binomio ònar e ùpar, sonno e veglia, ricorre frequentemente nei poeti e negli autori greci sin dall’epoca arcaica, venendo a costituire una coppia antropologica e concettuale ampiamente sfruttata anche dai primi filosofi. A questo riguardo v. C. Brillante, Studi sulla rappresentazione del sogno nella Grecia antica, Sellerio, Palermo 1991. ↩︎

  9. Rep., IV, 443 C. Socrate osserva che arrivando a definire la giustizia dell’anima e della città gli interlocutori hanno finalmente realizzato il fondamento e il tipo della giustizia in cui si sono imbattuti per qualche tramite divino. Il verbo che indica l’imbattersi è kindunèuein, che significa anche «esporsi al pericolo, arrischiarsi, osare». ↩︎

  10. Critone, 43 A 10. ↩︎

  11. Rep., IV, 443 B. Qui la dimensione della teleologia e del compimento, è resa ed incrementata dall’accostamento di due termini entrambi rinvianti al tèlos: l’avverbio tèleon ed il verbo apotelèo, composto di telèo↩︎

  12. Crit., 44 a 10. «Mi sembrava (Edòkei)», dice Socrate a Critone a proposito del proprio sogno. ↩︎

  13. Flebo, 67b1-7. ↩︎

  14. Fedone, 60e. ↩︎

  15. Carmide, 173a-c; Cratilo, 439c 6-440d1. ↩︎

  16. María Zambrano, Il sogno creatore, Mondadori, Milano 2002, p. 77. ↩︎

  17. Sofista, 257b-c ↩︎

  18. Odissea, XIX, 560-567 ↩︎

  19. Serafina Rotondaro, Il sogno in Platone. Fisiologia di una metafora, Loffredo, Napoli 1998, pp. 112-116. L’autrice si sofferma in maggior dettaglio su altri passi dell’opera platonica. Oltre ad essere denso e ricco di suggestioni, il suo studio sul sogno in Platone è, tra quelli pubblicati in Italia, il più ricco e completo che conosca. ↩︎

  20. Serafina Rotondaro, Il sogno in Platone. Fisiologia di una metafora, Loffredo, Napoli 1998, p. 178. ↩︎

  21. Platone, Repubblica, libro IV, 445 C (ed. Newton, Roma 19972, p. 237). ↩︎

  22. Traduzione mia. L’edizione di riferimento è sempre Platone, Le Opere, Newton, Roma 20052, vol. IV. ↩︎