Dai diritti umani ai diritti dei popoli

1. Considerazioni preliminari

I cinquant’anni della Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948 sono stati l’occasione per mettere l’accento sulla genesi della Dichiarazione, sull’affermarsi degli individui come soggetti del diritto internazionale, sulla tutela e sulla protezione dei diritti. Un tema poco dibattuto, ma che consente feconde riflessioni, è quello dei rapporti tra diritti umani e diritti dei popoli. Tratterò questo argomento mettendone in evidenza l’origine comune, la distinta evoluzione, la diversa considerazione da parte del diritto internazionale e, per concludere, le prospettive che aprono per il futuro. Se la nozione di diritti umani è chiara a tutti, meno scontata è la conoscenza del significato dei diritti dei popoli. Può essere utile pertanto introdurre alcune osservazioni.

La prima osservazione è che i diritti dei popoli si affermano allo stesso tempo dei diritti umani sotto la spinta delle rivoluzioni del XVIII secolo in Occidente. La Dichiarazione di indipendenza delle colonie americane del 4 luglio 1776 e la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 26 agosto 1789 riguardano sia gli individui che i popoli. La Dichiarazione americana comincia proprio così:

Quando nel corso degli eventi umani, diventa necessario per un popolo sciogliere i legami politici che l’hanno unito ad un altro e a prendere, tra le potenze della terra, il posto separato ed eguale al quale le leggi della natura e divine gli danno diritto, il rispetto dovuto all’opinione dell’umanità l’obbligano a dichiarare le cause che lo inducono alla separazione.

Noi consideriamo evidenti per se stesse le verità seguenti: tutti gli uomini sono creati eguali; sono dotati dal Creatore di certi diritti inalienabili; tra questi diritti si trovano la vita, la libertà e la ricerca della felicità.

Nel caso americano il diritto del popolo precede i diritti degli individui. Nella rivoluzione francese si ha invece un’esposizione esattamente inversa; la Dichiarazione del 1789 comincia con l’affermare i diritti umani, anche se a nome del popolo francese, ma all’art. 3 enuncia il principio della sovranità che risiede nella Nazione. L’omonima Dichiarazione del 1793 afferma che «la sovranità risiede nel popolo» (art. 25) e soprattutto che «Quando il governo viola i diritti del popolo, l’insurrezione è per il popolo e per ciascuna parte del popolo il più sacro dei diritti e il più indispensabile dei doveri». Il diritto di un popolo alla ribellione contro l’oppressione è peraltro contenuta anche nelle Dichiarazioni dei diritti delle colonie americane Massachussets, Maryland, New Hampshire, Virginia, ecc.

Da quanto visto dovrebbe essere chiaro che le carte dei diritti fondamentali del XVIII secolo affermano i diritti sia degli individui che dei popoli. Tali diritti appaiono ben distinti. Così ad esempio il diritto alla sovranità appartiene all’insieme del popolo e non a singole sue porzioni; anche se è vero che la si esercita attraverso il voto individuale.

La seconda osservazione è l’origine rivoluzionaria di questi diritti, tanto degli individui che dei popoli, e ciò avviene nel corso delle rivoluzioni del XVIII secolo come già ricordato. Questa osservazione è importante per più ragioni.

La spinta rivoluzionaria consente di proclamare principi ben oltre l’intenzione delle classi che hanno fatto o che hanno egemonizzato la rivoluzione. Negli Stati Uniti sarà necessaria la guerra di secessione per abolire la schiavitù poiché, nell’interpretazione data dai padri dell’indipendenza, gli schiavi non rientravano tra gli uomini che Dio aveva dotato dei diritti inalienabili affermati dalla Dichiarazione di indipendenza del 1776. Ancora duecento anni dopo il diritto all’autodeterminazione che aveva consentito la nascita degli Stati uniti veniva negato ai popoli coloniali. La spinta rivoluzionaria è l’espressione di una volontà collettiva, ed è proprio in questa dimensione, prima ancora che nella discussione teorica e dottrinale come vedremo, che si manifesta la complementarietà tra diritti dei popoli e diritti individuali. Inoltre l’azione rivoluzionaria all’origine dei diritti fondamentali legittima il diritto alla resistenza all’oppressione fino alla ribellione e alla lotta rivoluzionaria ogni qualvolta i diritti fondamentali non sono salvaguardati. Tale diritto alla ribellione tuttavia troverà raramente una sua codificazione.

La terza considerazione è che, malgrado la comune origine, l’affermazione dei diritti umani si fa in modo più rapido rispetto ai diritti dei popoli.

Sul piano interno l’affermazione dei diritti umani è abbastanza rapida, anche se con continui ritorni indietro. Lo spirito del’89 francese si propaga in Europa e in America latina tra la fine del ’700 e l’inizio dell’800. Le due guerre mondiali provocano l’integrazione dei diritti umani nelle Costituzioni degli Stati, compresi quelli asiatici e africani di nuova indipendenza con l’ondata della decolonizzazione. È noto inoltre che questa progressiva affermazione procede con l’arricchimento del suo contenuto: dai diritti esclusivamente civili e politici si passa a quelli economici e sociali sulla spinta in particolare dei movimenti operai a seguito della rivoluzione industriale. Per i diritti dei popoli, superato il momento rivoluzionario, il diritto al cambiamento del governo fino all’insurrezione è presto messo da parte quando non espressamente vietato. La Costituzione francese del 1793 che prevede il diritto all’insurrezione viene immediatamente sospesa, e il diritto non è più citato. Anche attraverso questa evoluzione si comprende la natura di classe di quelle rivoluzioni, e di quella francese in special modo.

Sul piano internazionale la consacrazione dei diritti umani così come dei popoli è molto lenta. Sul piano internazionale contano solo gli Stati. Per ciò che riguarda i diritti umani, paradossalmente sono i diritti economici ad essere riconosciuti per primi, tra le due guerre mondiali, attraverso le Convenzioni dell’OIL sull’abolizione della schiavitù, del lavoro forzato. Ma è con la Dichiarazione universale del 1948 che i diritti umani sono internazionalmente riconosciuti, anche se si discute ancora in quegli anni se facciano parte o meno del diritto internazionale positivo. I successivi Patti internazionali del 1966 (Patto internazionale relativo ai diritti economici, sociali e culturali, e il Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici), entrati in vigore dieci anni più tardi, regolano definitivamente tale questione. E con questi anche gli individui diventano soggetti del diritto internazionale, benché non tutti gli autori siano d’accordo con questa interpretazione. Nel corso del dopoguerra altre norme di diritto internazionale approfondiranno il campo dei diritti umani (Convenzione contro la discriminazione razziale, 1965; Convenzione relativa allo status dei rifugiati, 1951; Convenzione contro la tortura, 1984; Convenzione sui diritti dei bambini, 1989; ecc.).

Per i diritti dei popoli l’affermazione è più lenta e contrastata. Poiché i popoli non hanno una personalità giuridica internazionalmente riconosciuta, i loro diritti si confondono con i diritti degli Stati, così come il popolo si confonde con lo Stato.

A lungo il principio dell’autodeterminazione è di fatto applicato ai soli popoli europei per l’edificazione degli stati nazionali, o successivamente per smembrare l’impero ottomano. Le indipendenze delle colonie spagnole in America latina sono il frutto di lotte per l’indipendenza e non dell’applicazione di principi internazionalmente riconosciuti. La limitazione dell’autodeterminazione al caso europeo rimane di fatto anche nell’enunciazione del principio dell’autodeterminazione nel programma in quattordici punti del presidente americano Wilson (8 gennaio 1918), mentre il principio di autodeterminazione dei popoli proclamato dalla rivoluzione russa rimane una mera petizione di principio, senza possibilità alcuna di essere realizzato.

Senza mai essere definito con esattezza, il concetto di popolo entra a partire dal XX secolo nelle enunciazioni internazionali. Il passo decisivo è compiuto nel 1945 dalla Carta delle Nazioni Unite che nel suo «Preambolo» inizia proprio così: «Noi, popoli delle Nazioni unite, decisi a salvare le future generazioni dal flagello della guerra». Nel 2º paragrafo dell’art. 1 inoltre si afferma il «principio dell’eguaglianza dei diritti e dell’autodecisione dei popoli»; principio poi ripetuto nell’art. 55. Tuttavia l’impiego del concetto di popolo appare qui ideologico, e comunque non in rottura con la tradizionale identificazione tra popolo e Stato, tanto che questa formulazione darà la stura ad interpretazioni diverse sul senso da attribuire al principio dell’autodeterminazione, se applicabile cioè ai soli popoli costituiti in Stato, oppure anche ai popoli coloniali e a quelli dipendenti.

Il concetto di «popolo delle Nazioni unite» è ripetuto nel «Preambolo» della Dichiarazione universale, nella quale peraltro il principio all’autodeterminazione non è affermato, e ciò in virtù di una insanabile contraddizione contenuta nella Dichiarazione stessa poiché il rispetto dei diritti e delle libertà fondamentali prescinde dalle eventuali limitazioni della sovranità cui è sottoposto un intero popolo. La contraddizione, è facile intuire, è il frutto della volontà degli Stati europei di non mettere in causa la colonizzazione.

È invece proprio la decolonizzazione a riproporre il protagonismo dei popoli sulla scena internazionale e a dare inizio alla consacrazione dei loro diritti. Così le lotte di liberazione nazionale dei popoli coloniali e la battaglia diplomatica degli Stati del Sud del mondo consentono l’approvazione da parte dell’Assemblea generale dell’ONU il 14 dicembre 1960, a decolonizzazione ormai avanzata, della Dichiarazione sulla concessione dell’indipendenza ai paesi e ai popoli coloniali. Il principio è ripreso poi dai Patti del 1966 hanno in comune l’art. 1, quello che proclama senza equivoci il diritto all’autodeterminazione che definiamo «interna», vale a dire il diritto a scegliersi le proprie istituzioni:

  1. Tutti i popoli hanno il diritto all’autodeterminazione. In virtù di questo diritto, essi decidono liberamente del loro statuto politico e perseguono liberamente il loro sviluppo economico, sociale e culturale.

  2. Per raggiungere i loro fini, tutti i popoli possono disporre liberamente delle proprie ricchezze e delle proprie risorse naturali, senza pregiudizio degli obblighi derivanti dalla cooperazione economica internazionale, fondata sul principio del mutuo interesse, e dal diritto internazionale. In nessun caso un popolo può essere privato dei propri mezzi di sussistenza.

  3. Gli Stati parti del presente Patto, ivi compresi quelli che sono responsabili dell’amministrazione di territori non autonomi e di territori in amministrazione fiduciaria, debbono promuovere l’attuazione del diritto di autodeterminazione dei popoli e rispettare tale diritto, in conformità alle disposizioni dello Statuto delle Nazioni Unite.

Questa consacrazione nel diritto positivo non è tuttavia priva di difficoltà. Il diritto di autodeterminazione «esterna», vale a dire la possibilità per un popolo di costituirsi in uno Stato indipendente, fino dove si può spingere? Riguarda solo i popoli coloniali o sotto dominazione o anche altri? Che cosa si deve intendere per popolo? Proprio il fatto che il concetto di popolo non sia mai stato chiaramente definito nel diritto internazionale fa concludere ad alcuni autori dell’inesistenza dei popoli come soggetti del diritto internazionale.

Altri diritti dei popoli vengono introdotti nel corso degli anni, soprattutto da parte delle Nazioni Unite. Così si parla di diritto allo sviluppo, alla pace, ecc. L’affermazione più coerente dei diritti dei popoli è dovuta tuttavia ad una Dichiarazione «privata», La Dichiarazione universale dei diritti dei popoli, approvata il 4 luglio 1976 ad Algeri da rappresentanti dei movimenti di liberazione e delle organizzazioni di difesa dei diritti umani, da esponenti della solidarietà internazionale. È ispirandosi a questo documento che è nata la Lega internazionale per i diritti e la liberazione dei popoli, organizzazione oggi riconosciuta dall’ONU e da altri organismi internazionali.

Non accennerò qui alle norme regionali, basterà ricordare la Carta africana sui diritti dell’uomo e dei popoli (giugno 1981) approvata nell’ambito dell’Organizzazione dell’unità africana (OUA), che è il primo strumento del diritto internazionale dove i due ordini di diritti sono trattati congiuntamente.

2. I rapporti tra diritti umani e diritti dei popoli

Dopo queste osservazioni preliminari è possibile affrontare le questioni principali del rapporto tra diritti umani e diritti dei popoli.

In primo luogo, i diritti dei popoli fanno parte dei diritti umani? È diventato abituale parlare di generazioni dei diritti umani. La prima generazione comprende i diritti civili e politici, consacrati fin dalle rivoluzioni del XVIII secolo; la seconda i diritti economici e sociali, affermatisi in questo secolo nelle costituzioni attorno alla prima guerra mondiale, a cominciare dalla Costituzione messicana del 1917; la terza i diritti dei popoli all’autodeterminazione, alla pace, allo sviluppo. E già si parla di una quarta generazione legata alle nuove tecnologie, comprese quelle per la manipolazione genetica. Questa suddivisione se è molto comoda per enunciare le tappe che hanno portato al progressivo affermarsi dei diritti fondamentali, non è tuttavia priva di ambiguità quanto al problema di sapere se i diritti dei popoli sono diritti umani, quindi degli individui, o qualcosa di diverso.

È stato soprattutto la discussione attorno ai futuri Patti del 1966, cominciata all’inizio degli anni ’50, a focalizzare questo problema. Infatti l’Assemblea generale dell’ONU nel 1952 decide di inserire il diritto all’autodeterminazione nei futuri Patti sui diritti umani. La Dichiarazione sulla concessione dell’indipendenza ai paesi e ai popoli coloniali del 1960 afferma che il sottoporre un popolo ad una dominazione costituisce una negazione dei diritti fondamentali dell’uomo. Inoltre la successiva ed effettiva inserzione dell’autodeterminazione nell’art. 1 dei due Patti rafforza tale interpretazione.

Sul piano teorico tuttavia molti commentatori rifiutano una tale assimilazione. Infatti la protezione dei diritti umani è destinata agli individui in quanto tali, mentre è il popolo nel suo insieme che esercita il diritto all’autodeterminazione. È vero che certi diritti umani sono collettivi, come ad esempio il diritto ad associarsi, a formare sindacati, ecc., ma tale diritto deriva pur sempre da una scelta individuale.

Inoltre è vero che a proposito dei nuovi diritti dei popoli, come quelli alla pace, allo sviluppo, allo sfruttamento delle proprie ricchezze naturali, ecc. ci si riferisce sia agli individui che ai popoli, tuttavia si tratta di due diritti distinti. Così l’individuo ha diritto allo sviluppo personale (della personalità, delle sue capacità, ecc.) ma questo sviluppo non va confuso con il diritto di un popolo allo sviluppo economico e sociale e alla scelta del modello di tale sviluppo. Lo stesso si può dire riguardo alla cultura: un conto è il diritto di ciascun individuo di accesso alla cultura e altra cosa è il diritto di un popolo al rispetto della propria cultura.

Se riteniamo inopportuno confondere diritti della persona umana e diritti dei popoli, dobbiamo però interrogarci sulle loro relazioni. In quale rapporto stanno dunque i diritti umani e i diritti dei popoli? La Dichiarazione universale del 1948 afferma, non senza ambiguità come già sottolineato, che i diritti umani spettano anche ai territori sotto colonizzazione. Se si pensa alla pratica della colonizzazione è davvero difficile immaginare una contraddizione più evidente. Tuttavia in questo contesto le cose evolvono rapidamente. Già nel 1952 l’Assemblea generale dichiara che il diritto dei popoli all’autodeterminazione è una condizione preliminare al godimento dei loro diritti fondamentali. E infatti l’art.1 comune ai due Patti del 1966, laddove si fa riferimento al diritto di autodeterminazione dei popoli, può essere letto come una condizione per i diritti degli individui enunciati negli articoli successivi.

Tuttavia i diritti dei popoli sono una condizione necessaria, ma non sufficiente. La conclusione che si può trarre è che i diritti dei popoli sono la condizione necessaria al godimento dei diritti umani, ma il rispetto effettivo dei diritti e delle libertà fondamentali è una condizione necessaria affinché i popoli possano autodeterminarsi, poiché assicurano il corretto funzionamento delle istituzioni rappresentative. La relazione è dunque dialettica.

Queste considerazioni ci consentono ora di trarre alcune conclusioni non tanto sul piano teorico quanto su quello della pratica dei diritti, soprattutto nell’esperienza della Lega per i diritti dei popoli.

3. Il punto di vista dei diritti dei popoli: un’occasione per i diritti umani

In primo luogo si consideri il principio di autodeterminazione «interna». Questo consente di mettere in evidenza uno dei presupposti dei diritti fondamentali: l’esistenza di uno Stato ordinato secondo principi giuridici che rispettino i diritti fondamentali. Tale principio comprende un insieme di elementi che caratterizzano il processo democratico il quale se da una parte si fonda su alcuni requisiti minimi universali (elettività dei rappresentanti, suffragio universale, uguaglianza del voto, libertà di ogni cittadino di eleggere e di essere eletto con la sola limitazione dell’età e di altri gravi impedimenti, esistenza di alternative nella scelta) dall’altra non propone modelli specifici di democrazia proprio in virtù della libertà lasciata ad ogni popolo di decidere le forme del proprio statuto politico-istituzionale.

I diritti dei popoli consentono di superare la tradizionale identificazione del popolo con lo Stato. Questa identificazione avanzata dalle dottrine classiche, anche del XX secolo, non resiste alla prova dei fatti. Si pensi ad esempio all’identificazione che veniva fatta dalle potenze coloniali tra lo Stato e i popoli coloniali che in quello Stato non potevano certo identificarsi e contro il quale combatteranno la lotta per l’indipendenza. Il fatto di rifiutare tale identificazione significa concedere al popolo il diritto di contrastare e se necessario abbattere un determinato ordine statale, come sarà appunto per le lotte di liberazione nazionale.

Il punto di vista dei diritti dei popoli permette di affrontare in modo più completo il problema delle «diversità». Se accennerò più avanti, a proposito dell’universalità dei diritti umani, alle differenze culturali in generale, qui è sufficiente ricordare come esempio il problema dei popoli indigeni. Ovunque questi popoli sono sottoposti ad ogni tipo di discriminazioni. I numerosi soprusi di cui sono vittime sono talvolta giustificati anche in virtù di principi di uguaglianza o universali, che consentono alle entità più forti (apparati dello Stato, multinazionali, cercatori d’oro, ecc.) di spogliare questi popoli delle condizioni stesse di esistenza. È evidente che in questo caso non si tratta solo di salvaguardare la vita dei singoli quanto di affermare il diritto di interi gruppi sociali (che peraltro costituiscono la maggioranza della popolazione in alcuni paesi) alla proprietà delle proprie terre, al controllo delle risorse naturali da cui dipende unicamente la propria sopravvivenza materiale e non, alla propria identità culturale. Anche in questo caso il principio di un popolo all’autodeterminazione interna consente a questi gruppi, così come alle minoranze di altra natura, di risolvere i problemi pratici della loro convivenza con le popolazioni non autoctone.

La necessità di individuare le cause e le responsabilità delle violazioni dei diritti individuali trova nell’approccio dei diritti dei popoli un contributo decisivo. L’esperienza storica della violazione sistematica dei diritti individuali dimostra che tali violazioni risiedono nel mancato esercizio del diritto all’autodeterminazione interna, ed in particolare della scelta del proprio governo. Si pensi all’esperienza del governo dei bianchi in Sudafrica durante gli anni dell’apartheid; un approccio che si fosse fondato esclusivamente sui diritti individuali non avrebbe consentito di porre il problema razziale nella sua giusta dimensione, e quindi della responsabilità di quella parte della popolazione bianca che aveva imposto la propria ideologia razzista.

Si prenda ad esempio il caso dell’ex dittatore cileno Pinochet, che in queste settimane ha suscitato grande scalpore con il suo arresto in Inghilterra. Se da una parte appare indispensabile assicurare alla giustizia il dittatore che si è macchiato della violazione massiccia dei diritti della stragrande maggioranza di un popolo, dall’altra è necessario analizzare altre responsabilità, come quella di un’intera casta militare e quelle internazionali (appoggio al colpo di Stato da parte della CIA e della multinazionale americana ITT).

Questa riflessione conduce ad una nuova pratica nella difesa dei diritti umani. Se la denuncia delle responsabilità individuali è essenziale, altrettanto importante è la denuncia e la rimozione delle cause, politiche, istituzionali, economiche, ecc, della violazione dei diritti fondamentali. Senza tale rimozione la battaglia per l’affermazione dei diritti fondamentali rischia di essere inefficace e non aderente alle situazioni di fatto. Da questo punto di vista l’approccio dei diritti dei popoli consente di affrontare la giustizia per i crimini contro l’umanità in modo più realistico. Il principio della responsabilità individuale non deve fare schermo alla denuncia e alla repressione di tutte quelle forme organizzate, dallo Stato autoritario ai gruppi paramilitari, che sono all’origine di questi crimini.

Un altro aspetto che i diritti dei popoli consentono di mettere in evidenza sono i soggetti che si fanno propugnatori e difensori dei diritti fondamentali, siano essi umani o dei popoli. Ieri erano i movimenti di liberazione nazionale i soggetti non solo della liberazione dal giogo coloniale ma delle libertà fondamentali. Oggi tali soggetti sono da cercare nella società civile. In Brasile sono i contadini poveri, i Sem terra, all’avanguardia di un movimento popolare che rivendica, attraverso la richieste di terre, quel complesso di diritti che sono il presupposto tanto per una vita dignitosa dei singoli individui quanto per uno sviluppo economico e sociale equilibrato dell’intero Brasile. In Algeria la società stretta nella morsa da un regime militare autoritario e un terrorismo fondamentalista reagisce organizzandosi per combattere i due fronti; pur con grandi difficoltà dovute all’insicurezza e alla mancanza di vere libertà civili e politiche, le associazioni, in particolare quelle di donne, costituiscono una forma di partecipazione e momenti di promozione dei diritti ricchi di prospettive, anche rispetto ad un sistema di partiti il più delle volte contaminato da antichi o nuovi compromessi col potere.

Un altro esempio, su un fronte del tutto diverso, può essere dato dal problema del debito. In vista anche del Giubileo del 2000 da più parti si ripropone la necessità non solo di annullare il debito e di rivedere i meccanismi che stanno alla sua base della sua continua riproduzione, ma anche di restituirlo poiché il servizio del debito (capitale più interessi) pagato dai paesi indebitati è ormai largamente superiore a quanto ricevuto. Ebbene alcuni movimenti, ad esempio quello dei contadini del Senegal, reclamano che la restituzione del debito non venga fatto genericamente allo Stato, che è all’origine con le sue élites corrotte del debito stesso, ma ai contadini, i quali, in ultima analisi, sono quelli che hanno pagato concretamente il debito, col proprio lavoro e con lo sfruttamento di cui sono vittime.

Si potrà obiettare che dagli esempi fatti emergono forme associative che non includono la totalità di un popolo, ma sue specifiche categorie (contadini, opposizione, donne, ecc.). Ma questa è anche l’esperienza storica di tutti i movimenti nazionali e di popolo. Oggi, come ieri, si tratta dell’emergere dalla società di avanguardie organizzate che esprimono interessi e rivendicazioni che vanno oltre la loro capacità di aggregazione. È questo stesso approccio che consente dunque di mettere in evidenza quali sono le forze che si adoperano per il consolidamento dei diritti già affermati e l’emergere di nuovi diritti fondamentali.

Il punto di vista dei popoli consente di affrontare problemi risorgenti: nazionalismi, pulizia etnica. Questo tema rinvia, fra l’altro, a quello della definizione di popolo che fin qui non abbiamo neppure abbozzato. La scelta di un progetto politico è un attributo fondamentale per la definizione di un popolo. L’esercizio dell’autodeterminazione deve però salvaguardare il rispetto degli altri popoli e dei diritti umani. Nel caso ex Jugoslavia il diritto all’autodeterminazione non è stato applicato rispettando questi principi, poiché non è pensabile che l’autodeterminazione di un popolo sia fatta reprimendo o cacciando dal territorio minoranze etniche, religiose o altro.

Si pensi anche alla rivendicazione da parte del Marocco di diritti storici sul territorio del Sahara Occidentale, già colonia spagnola. Oltre alla violazione del principio dell’intangibilità delle frontiere ereditate dal colonialismo sancito dall’OUA, la rivendicazione marocchina prescinde totalmente dalla volontà del popolo sahrawi. Non a caso il piano di pace concordato sotto gli auspici dell’ONU dal Marocco e dal Fronte Polisario (il movimento di liberazione che rivendica l’indipendenza del Sahara Occidentale), che prevede un referendum di autodeterminazione incentrato sull’alternativa tra indipendenza e annessione al Marocco, è continuamente ostacolato e boicottato dal governo di Rabat.

Il punto di vista dei diritti dei popoli consente di comprendere meglio il problema dell’universalità dei diritti fondamentali. Anche nel corso di questo cinquantesimo anniversario da più parti si è sentito ripetere che i diritti fondamentali, e particolarmente quelli affermati dalla Dichiarazione del 1948 sono, per origine e cultura, «occidentali». Uno degli argomenti decisivi per avanzare questa affermazione sarebbe il fatto che al momento del voto la maggior parte dei paesi rappresentati alle Nazioni Unite erano occidentali. Si dimentica in questo modo la storia stessa dei diritti che, come abbiamo accennato, sono il frutto di un percorso tortuoso, fatto di continui arretramenti del potere e di nuove spinte in avanti delle lotte popolari che hanno investito tutti i paesi del mondo, e che hanno trovato nell’Occidente stesso fortissime resistenze prima di imporsi. Se la filiazione di questi diritti fosse unicamente occidentale non si capisce perché l’Occidente stesso non li rispetti (si pensi solo al nazismo e al fascismo) e sia, talvolta, all’avanguardia di tali violazioni (si pensi alle nuove tecnologie), al di là dell’uso ideologico e strumentale che l’Occidente è portato a fare della cultura dei diritti fondamentali.

Ciò non significa ignorare i problemi specifici delle singole aree del mondo, per i quali una generica esposizione dei principi universali può risultare poco efficace. Proprio per questo il diritto internazionale ha imboccato la strada anche degli strumenti regionali per la promozione e la tutela dei diritti. Non si deve dimenticare inoltre che la stessa codificazione dei diritti fondamentali è un processo ancora in corso al quale partecipano i rappresentanti dei paesi del Sud del mondo.

Un altro argomento avanzato contro l’universalità è che la cultura occidentale e cristiana della Dichiarazione del 1948 sarebbe in contrasto con la tradizione culturale religiosa di altre aree del mondo. In primo luogo la nozione di tradizione deve essere storicamente relativizzata poiché nulla è storicamente più mutevole della cosiddetta «tradizione». Proprio perché i diritti fondamentali si sono affermati attraverso le lotte che hanno rotto antichi schemi non si può prendere come riferimento la tradizione. Se si fosse presa la «tradizione» occidentale e cristiana della prima metà di questo millennio questi diritti non si sarebbero mai potuti affermare. Inoltre ciò che è importante sottolineare è che nelle stesse società, per le quali si rivendica il rispetto della «tradizione», sono nati movimenti di contestazione dell’ordine politico o culturale; si pensi così alle associazioni di donne africane che contestano le mutilazioni sessuali, o alle élites musulmane che contestano una interpretazione del Corano vecchia di secoli in nome di quella stessa contemporaneità con la quale venne allora elaborata.

Si deve in sostanza respingere ogni tentativo di introdurre in materia di diritti fondamentali quel relativismo culturale che spesso fa da supporto teorico alle diverse forme di fondamentalismo e integralismo delle quali nessuna società, a priori, è immune. Dovrebbe inoltre destare motivo di riflessione il fatto che le maggiori contestazioni al principio dell’universalità provengano da governi autoritari che violano i diritti e le libertà fondamentali.

Il punto di vista dei diritti dei popoli consente di affrontare il problema del rapporto tra sviluppo e diritti fondamentali. Pur partendo da premesse teoriche diverse l’esperienza storica dello sviluppo dei paesi capitalisti e di quelli a regime socialista ha dimostrato una separazione tra sviluppo, diritti umani e democrazia. Entrambi hanno privilegiato la crescita economica, i primi a scapito dei diritti economici e sociali, i secondi di quelli civili e politici. Hanno in sostanza adottato un approccio dei due tempi (prima la crescita poi il completo soddisfacimento dei diritti fondamentali), dando al concetto di sviluppo un contenuto puramente economico. La politica volta alla crescita economica ha prodotto indubbiamente un notevole aumento della produzione, ma ha lasciato irrisolto, per esempio, il problema della distribuzione della ricchezza accumulata. Ne consegue che non solo l’accesso alla ricchezza è fortemente diseguale ma anche il realizzarsi dei diritti fondamentali è condizionato dalla situazione economica di partenza. I diritti sono dunque alla mercé delle leggi di mercato: per pochi privilegiati sono veramente inalienabili, per altri, la maggioranza, saranno soddisfatti solo in parte. Questa disuguaglianza si manifesta non solo nei singoli paesi, ma anche a livello planetario, soprattutto tra Nord e Sud del mondo. Ed è proprio all’interno del Sud che si sono rivelate forti difformità nella crescita economica, anche in paesi che per ricchezza sono ai primi posti. La fine della contrapposizione tra i due modelli di sviluppo (capitalista e socialista) e la politica oggi generalmente accettata di liberalizzazione dei mercati, di riduzione della spesa statale e di ridimensionamento conseguente del welfare state ha accentuato in modo ancora più evidente la dipendenza dei diritti fondamentali dal mercato.

A rafforzare le politiche neoliberiste sono intervenuti gli organismi finanziari internazionali, il Fondo Monetario Internazionale (FMI) e la Banca mondiale (WB) in primo luogo. Soprattutto dagli anni ’80, a partire dalla crisi del debito estero dei paesi del Sud, questi organismi hanno imposto politiche di aggiustamento strutturale che hanno gravemente inciso sui diritti umani. Il risanamento dell’economia attraverso la riduzione della spesa statale non è avvenuta mediante una oculata analisi della spesa statale, ma solo con tagli alla spesa pubblica nei settori che toccano gli strati sociali più deboli. Così i tagli all’educazione e alla sanità hanno causato danno soprattutto ai più poveri che non hanno altre risorse se non quelle fornite dalle strutture pubbliche a prezzi politici (gratuità totale o parziale dell’istruzione e dell’assistenza sanitaria). I licenziamenti nel pubblico impiego hanno causato un aumento della disoccupazione con la conseguente ulteriore diminuzione dei salari, oltre a quella verificatasi con la riduzione delle retribuzioni. Indebolendo la base materiale degli strati più poveri della popolazione sono venute meno le precondizioni per soddisfare taluni diritti fondamentali: alla vita, alla salute, all’istruzione, al lavoro, alla casa.

Ma il fatto più significativo è che il ridimensionamento dello Stato non è avvenuto attraverso la sua democratizzazione. Anzi la necessità di controllare la reazione sociale di protesta alle misure antipopolari ha semmai incoraggiato gli Stati a rafforzare gli apparati repressivi, a limitare la partecipazione politica e ogni sorta di libertà, a ostacolare i diritti sindacali in modo particolare.

Per uscire da questa palese contraddizione è necessario ristabilire i nessi, dialettici e non meccanici, tra sviluppo, inteso non solo come crescita economica, diritti fondamentali e democrazia. Perché questa dialettica possa concretizzarsi è necessario non solo un nuovo approccio teorico (come quello del concetto di «sviluppo umano» elaborato dall’UNDP) ma anche un nuovo protagonismo dei popoli e dei soggetti collettivi, una più concreta applicazione del principio di autodeterminazione. Sono necessarie in particolare nuove scelte di politica economica, e queste non possono essere compiute se non attraverso la partecipazione effettiva degli individui e dei gruppi interessati alla vita politica, economica e sociale del paese. Affinché tale partecipazione sia effettiva è necessario che le libertà individuali e collettive siano garantite.

Mi pare sia questa la sfida per il prossimo millennio di un mondo che oscilla tra la globalizzazione e l’approfondimento della povertà.

Testo della relazione al Convegno A cinquant’anni dalla Dichiarazione universale dei diritti umani: una sfida per l’avvenire, tenuto all’Università di Roma «Tor Vergata» il 15 dicembre 1998, i cui Atti sono in corso di stampa.