Recensione a Pavel Rebernik, Heidegger interprete di Kant. Finitezza e fondazione della metafisica

Pavel Rebernik, Heidegger interprete di Kant. Finitezza e fondazione della metafisica, ETS, Pisa 2006, pp. 285.

Il volume analizza e contestualizza l’interpretazione e il dialogo filosofico che Heidegger intraprende con Kant. Il testo a cui è d’obbligo far riferimento è la celebre opera heideggeriana del 1929, Kant e il problema della metafisica, in cui l’autore prende in esame La critica della ragion pura, di cui viene resa una lettura radicalizzante tendente a interpretare la Critica come una fondazione della metafisica, basandosi su di una idea guida: la finitezza essenziale dell’uomo. Heidegger trasforma l’opera kantiana in un rifugio, Kant diventa un precursore del problema dell’essere, nello specifico il rapporto tra l’essere finito e il tempo. Questa è anche la prospettiva di lettura che intende fornire questo testo che approfondisce in maniera puntuale la centralità della tematica della finitezza, indagandone anche la relazione alla domanda sull’essere.

Il lavoro si articola in sette capitoli. Nel primo capitolo si introduce l’orizzonte problematico in cui si forma l’incontro di Heidegger con Kant. Naturalmente si fa riferimento al testo del 1929, Kant und das Problem der Metaphysik, testo investito da Heidegger di un compito: riproporre la domanda sull’essere al fine di comprendere correttamente il suo rapporto con il tempo, in altri termini Heidegger opera un ripensamento radicale della finitezza dell’essere dell’esserci e una messa in questione in quanto possibilità — preparazione — per lo svelamento della finitezza dell’essere stesso. Heidegger intende andare oltre Kant, questo significa concretamente radicalizzare la struttura trascendentale della soggettività, piegandola alle esigenze del progetto speculativo heideggeriano. Rilevante è il contributo fornito dalla fenomenologia husserliana, anche se la riduzione fenomenologica viene interpretata e utilizzata in modi assai diversi dai due autori: Husserl approda a una coscienza trascendentale pura in cui gli oggetti si costituiscono come correlati della coscienza stessa; Heidegger indaga i tratti ontologico-costitutivi dell’essere dell’esserci seguendo un’analitica esistenziale. La fenomenologia husserliana permette ad Heidegger già a partire dal 1925 di interpretare Kant con «sguardo nuovo» ma è il pensiero kantiano a offrire sulla questione di fondo — il problema della connessione di soggettività e temporalità — gli spunti più interessanti. L’autore in questo primo capitolo analizza il retroterra culturale che ha influenzato e in un certo senso accompagnato questo avvicinamento di Heidegger a Kant. Tre sono gli aspetti principali da tenere in considerazione: la formazione accademica, il retroterra religioso e il contesto storico-filosofico in cui è immerso (Cfr. pp. 31-35). Tutti questi momenti che qui per ovvie ragioni non ripercorreremo, servono all’autore per far emergere la gradualità con cui Heidegger si accosta al pensiero kantiano.

L’autore analizza tre termini heideggeriani in relazione alle tematiche di fondo di Kant e il problema della metafisica: domanda (Frage), presupposto (Voraussetzung) e problema (Problem). Una funzione di raccordo va attribuita al Fragen: nel domandare si pre-suppone ciò su cui si domanda, si presuppone che sia nota la datità della cosa che si pone in questione. In ambito heideggeriano la domanda riguarda l’essere: si tratta di una domanda sulle condizioni di possibilità della comprensione dell’essere che equivale a una domanda, nell’esserci, sulle condizioni di possibilità del sorgere della domanda (sull’essere). Questo è l’impianto metodologico attraverso il quale Heidegger interpreta fenomenologicamente la prima Critica kantiana. La novità attribuita a questa lettura va colta secondo l’autore nella sua capacità di scorgere nel testo kantiano una fondazione metafisica, da intendersi nel senso di presupposto della domanda sull’essere, ossia le sue condizioni di possibilità. A questo punto viene analizzato il senso del termine Voraussetzung (presupposto) in Heidegger che possiamo riassumere citando lo stesso Heidegger: «ogni filosofia al suo inizio e alla sua fine non fa che dispiegare il proprio presupposto. I presupposti — non sono questi né condizioni psicologiche né pettegolezzi biografici, ma la sostanza e configurazione di fatto del problema fondamentale» (Cit., p. 38). Spesso però proprio ciò che ogni filosofia presuppone viene assunto tacitamente, presupposto ma non problematizzato. Il problema per esempio sulla finitezza e infinità dice qualcosa secondo Heidegger solo a partire dalla domanda sull’essere (Cfr. p. 39). Per Heidegger la finitezza originaria da cui prende vita l’interrogazione filosofica necessita ancora di venire a verità, di essere disvelata. Questo il compito del pensiero, qui subentra la rilettura heideggeriana di Kant. Tra domanda e problema resta una differenza essenziale: la domanda ha una portata filosofica più ampia e originaria che non appartiene al problema. La domanda non si risolve in un punto problematico. Il domandare non è un semplice rappresentare, ma lascia sempre qualcosa aperto: ciò che il domandare è ultimamente si può solo vivere sperimentandolo totalmente, dunque si radica costitutivamente nella soggettività. Il domandare trova la sua giustificazione nella apertura costitutiva dell’esser-ci (Da-sein) in quanto essere-nel-mondo (In-der-Welt-sein); in quanto finitezza. Il problema trova la sua possibilità iscrivendosi nell’orizzonte di una domanda da cui sorge e di cui porta a espressione una parzialità. La domanda è una apertura. Il problema è una puntualizzazione della domanda. Il problema può essere sviluppato in due direzioni: 1) ponendosi, può misconoscere la sua provenienza, ignorando di fatto la domanda che lo sostiene; 2) nel suo porsi, può aprire la riflessione verso la domanda da cui trae origine, e quindi verso il presupposto della domanda. La prima modalità di problematizzazione è caratterizzata dal considerare una parte dell’ente, problematizza su di essa, attenendosi al suo ambito di pertinenza e appartenenza: ha a che fare con i problemi della scienza. La seconda modalità appartiene all’approccio filosofico ai problemi, volto a scrutare l’originarietà della domanda. L’autore ripercorre attraverso la lettura heideggeriana il senso delle tre domande kantiane presenti nella Critica della ragion pura: Che cosa posso sapere? Che cosa devo fare? Che cosa posso sperare? Nell’ottica heideggeriana la semplice posizione delle tre domande da parte della ragione umana, pre-suppone la sua finitezza essenziale e palesa una indigenza strutturale appartenente alla natura umana. Kant secondo Heidegger è legato a una impostazione scolastica della metafisica, a cui si aggiunge la concezione cristiana del mondo in cui la totalità dell’ente viene tripartita in uomo, natura, Dio. Heidegger vede nella rivoluzione copernicana una prospettiva ontologica, forzando per certi versi il dettato kantiano quando sostiene che Kant non intende ogni conoscenza da un punto di esclusivamente ontico, anzi nel momento in cui c’è conoscenza ontica, questa è resa possibile solo mediante una conoscenza ontologica (Cfr. p. 45). Il titolo dell’opera heideggeriana assume un valore ambivalente secondo l’autore e in tale ambivalenza consiste la posizione del problema: «poiché l’ente in quanto ente e non l’essere stesso è il problema della metafisica tradizionale (genitivo soggettivo), è la metafisica medesima in quanto scienza «ontica» a divenire problema (genitivo oggettivo). Con la rivoluzione copernicana il problema della metafisica (la conoscenza dell’ente) viene ricondotto e collocato nell’ambito dell’orizzonte della domanda (sull’essere), di cui viene palesato il presupposto (della finitezza)» (Cit., p. 46). Questo significa che il rapporto all’ente è possibile solo a condizione che l’ente manifesti se stesso; ma la manifestazione dell’ente si fonda sul preliminare svelarsi della struttura dell’essere dell’ente verità ontologica).

Nel secondo capitolo l’autore indaga il rapporto tra intuizione e pensiero, ovvero la relazione tra l’ambito sensibile e quello categoriale. È una delle parti più delicate e importanti dell’opera, dato che tale relazione funge da filo rosso e termine di confronto critico rispetto ad altre questioni. Il presupposto kantiano che sorregge la Critica è la finitezza: tale presupposto resta secondo Heidegger inespresso. Occorre dunque liberare i «germi potenziali» che costituiscono la possibilità della conoscenza ontologica: la trascendenza dell’esserci essenzialmente finito dell’uomo. Con questa sua impostazione speculativa Heidegger critica la posizione postkantiana di impostazione hegeliana che intende la ragione infinita — e la prospettiva logico-trascendentale della scuola di Marburgo e più in generale la tendenza a far confluire e dissolvere l’estetica trascendentale nella logica trascendentale. Heidegger legge la Critica come una tematizzazione della ragione umana finita: questo significa contrapporre alla lettura dei marburghesi un ripensamento fenomenologico. Il problema di Heidegger è comprendere la costituzione dell’essere dell’ente (Ursprungsfeld). La finitezza della ragione concerne la sua stessa essenza. Questo punto cruciale dell’interpretazione heideggeriana si dispiega a partire dalla rilettura che lo stesso autore fornisce della Estetica trascendentale. Il nodo teoretico e filologico interessa l’interpretazione di als Mittel: l’interpretazione tradizionale lo interpreta come strumentalità dell’intuizione nei confronti del pensiero, quindi ne deriva un primato della Logica trascendentale sulla Estetica trascendentale. La lettura heideggeriana interpreta il pensiero als Mittel dell’intuizione, cioè al servizio dell’intuizione. Occorre comprendere che conoscere è in primo luogo ed essenzialmente intuire, una visione (Anschauung) e non un pensare o un giudicare; altrimenti non si riesce a cogliere secondo Heidegger il vero senso della Critica. Dunque risulta che il pensiero è al servizio dell’intuizione. Tuttavia occorre che ci sia una intrinseca affinità tra i due affinché quest’ultimo possa unirsi all’intuizione stessa. Il genere in comune non è altro che la rappresentazione (Vorstellung): la rappresentazione indica qualcosa (il rappresentato) mediante qualcosa (il rappresentare). L’atto di rappresentazione compiuto con coscienza è percezione, una rappresentazione riferita a un oggetto si dice oggettiva. La conoscenza è rappresentazione nel senso di percezione oggettiva. Il conoscere è un’intuizione pensante (denkendes Anschauen). Senza questa unione non può esserci conoscenza, ma soltanto intuizioni e pensiero come semplici rappresentazioni. In questa reciprocità di rapporto, tra intuizione e pensiero, non sussiste una perfetta simmetria, ma sempre una subordinazione del pensiero verso l’intuizione. L’intuizione finita (tipica dell’essere umano) non è ricettiva in quanto intuizione, ma lo è in quanto finita. Ma affinché l’intuizione possa ricevere l’intuibile, è necessario che permetta a quest’ultimo di annunciarsi (melden); annunciandosi, l’intuibile modifica (affiziert) l’intuizione e l’intuizione può ricevere l’intuibile. Per essere ricettiva nei confronti di ciò che l’affeziona è necessario che sia sensibile: la sensibilità è la capacità di essere ricettivi, l’essenza della sensibilità consiste nella finitezza dell’intuizione. Questo equivale ad affermare la possibilità di una sensibilità non empirica, passaggio molto importante all’interno della problematica heideggeriana, da qui inizia la possibilità della conoscenza ontologica e qui sarà determinante l’influenza di Emil Lask, di cui l’autore fornisce un’analisi più esauriente nel quarto capitolo dell’opera. Tra intuizione e pensiero occorre dunque una sintesi che permetta all’oggetto di divenire manifesto; Heidegger nomina questo processo sintetico sintesi veritativa (veritative Synthesis): una sintesi che rende vero (manifesto), in grado di integrare al suo interno, la sintesi predicativa e la sintesi apofantica (Cfr. p. 64). La sintesi veritativa è il rendere manifesto in qualità di oggetto l’ente incontrato, mostrarlo nella sua verità: l’oggetto in quanto Gegen-stand può darsi esclusivamente per la conoscenza finita. Conoscere ciò che si mostra significa nella lettura hiedeggeriana conoscere il fenomeno, ovvero conoscere l’ente stesso, la cosa in sé. Questa lettura fenomenologica del fenomeno implica una rielaborazione mutata del concetto stesso di fenomeno: in esso non si conosce solo l’oggetto ma l’ente stesso. Più in generale la finitezza è la sottaciuta pietra angolare per la retta interpretazione della Critica e come afferma lo stesso Heidegger: «i concetti di fenomeno e cosa in sé […] possono divenire comprensibili e costituire i termini di un nuovo problema solo se si ponga esplicitamente come base la problematica della finitezza dell’essere umano» (Cit., p. 66). Il problema successivo riguarda la possibilità della sintesi ontologica che concerne il fondamento essenziale della trascendenza: «come dev’essere, secondo la sua più intima essenza, l’ente finito che chiamiamo uomo, per poter, in generale, essere aperto all’ente, che non è l’uomo stesso e che quindi deve potersi mostrare da sé?» (Cit., p. 67). La questione solleva molteplici problemi che l’autore cerca di chiarire analizzando l’intuizione pura o sintesi veritativa pura e il pensiero puro. Per quanto riguarda l’intuizione pura si ricorre al tempo come possibilità di tutte le intuizioni, sia interne che esterne. Al tempo dunque bisogna attribuire una funzione ontologica decisiva rispetto alla possibilità di una conoscenza ontologica sintetica a priori. Questo il primo punto fondativo dell’ontologia heideggeriana. Il secondo elemento costitutivo è il pensiero puro, che determina per mezzo del concetto il contenuto dell’intuizione, quelli che Heidegger chiama predicati ontologici. Ma quale è l’origine di questi predicati? Secondo Heidegger il pensiero puro (quindi le nozioni di intelletto) è relazionato all’intuizione non in maniera collaterale, bensì strutturale ed è al servizio dell’intuizione. Questo significa che è impossibile considerare le categorie dell’intelletto, le nozioni, isolatamente perdendo la relazione ancillare del pensiero nei confronti dell’intuizione. Ciò che garantisce l’unità essenziale della conoscenza pura è la finitezza della conoscenza che rende ragione della intrinseca unità degli elementi. Il problema già presente in Kant e riletto da Heidegger è quello della sintesi originaria, una sorta di sintesi della sintesi che Kant analizza nel paragrafo dieci dell’Analitica dei concetti, passaggio essenziale secondo Heidegger per comprendere la Critica come fondazione della metafisica. In sostanza Heidegger vuole attestare che la Logica trascendentale non può trovare dinanzi a sé il molteplice della sensibilità a priori e del tempo, poiché questo stato esprime una relazionalità estrinseca del pensiero puro verso l’intuizione pura, e non rende giustizia dell’essenziale stato di assegnazione del pensiero all’intuizione, derivante dalla finitezza del conoscere. Questa relazione intrinseca dei due elementi fa sì che il pensiero puro sia continuamente affetto dal tempo dell’intuizione pura, tempo che il pensiero puro non trova dinanzi a sé. Il passaggio successivo è chiarire l’atto che sintetizza il molteplice dell’intuizione per essere determinato attraverso concetti puri. Deve poter svolgere una funzione di mediazione tra i due elementi puri: dev’essere un atto di rappresentazione (Vorstellen). La conoscenza ontologica concerne la sintesi pura del molteplice puro e della rappresentazione unificante: le tre figure della conoscenza ontologica sono il molteplice puro dell’intuizione, la sintesi dell’immaginazione e l’unità del concetto. Per chiarire ulteriormente il modo in cui la sintesi pura unifica tempo e nozione occorre far ricorso alla deduzione trascendentale delle categorie. In questo passaggio è posto sotto osservazione l’«oggetto di rappresentazione»: quel qualcosa di necessario che si impone come ciò che è di contro (was dawider ist) all’interno del puro lasciar star di contro, che Kant attribuisce all’intelletto, il quale rappresenta un atto di unificazione originario. L’intelletto si erge a padrone dell’intuizione empirica, manifestando la sua massima ancillarità nei confronti dell’intuizione pura: «la natura dell’intelletto è la finitezza stessa» (Cit., p. 79) e ancora: «l’intelletto perde il suo primato, e con questa perdita, si rivela nella sua essenza, che consiste nel doversi fondare sulla sintesi pura dell’immaginazione trascendentale, relativa al tempo» (Cit., p. 80).

Nel terzo e quarto capitolo l’autore intende rilevare le radici concettuali e problematiche che a partire dal 1912 hanno contribuito alla formazione del confronto con Kant. Un autore ritenuto di estrema importanza per il giovane Heidegger è Hermann Lotze e in particolare la sua Logica, in cui viene formulata una nozione di sensibilità non empirica che verrà successivamente ripresa proprio dallo stesso Heidegger. Lotze elabora una forma d’essere che affianca il das ist: il das gilt «questo vale». L’autore ripercorre la teoria dei due mondi di Lotze, in cui viene distinto nettamente «ciò che è» da «ciò che vale»: in questo modo si può sostenere l’indipendenza degli oggetti ideali dagli atti psichici e fondare la possibilità di una rigorosa contrapposizione allo psicologismo nella necessità di pervenire alla sfera di validità. In più Lotze afferma che la critica della ragione non è una questione che precede la metafisica, bensì una sua questione immanente (Cfr. p. 97). La Logica di Lotze è un punto di riferimento per Heidegger e più in generale per la filosofia a cavallo dei due secoli. Lo stesso Husserl riconosce l’influenza di Lotze per la determinazione dei suoi concetti ideali che non provenivano da Brentano ma dall’ideale espresso da Lotze nel terzo libro della Logica: nel secondo capitolo Lotze fornisce un’interpretazione dell’idea platonica che eserciterà una consistente influenza prima sullo Husserl delle Ricerche logiche e poi sullo stesso Heidegger che lo considera come l’origine del presente della filosofia. Lotze fonda le leggi del pensiero ricorrendo a una nozione di a priori di ordine metafisico: egli nega la concezione della verità come coincidenza delle nostre immagini cognitive con lo stato delle cose, ciò che deve essere indagato è la connessione delle nostre rappresentazioni le une con le altre. Le nostre rappresentazioni costituiscono il dato immediato da cui prende avvio la conoscenza. A questo punto è indispensabile il recupero dell’idea platonica che rende possibile ricorrere a quei punti fissi che permettono un discorso razionale. L’essenziale che viene recuperato a partire da Platone è la distinzione tra un contenuto che significa in sé qualcosa che noi rappresentiamo e la mera affezione che noi subiamo. Le affezioni sono mutevoli mentre i contenuti di significato rimangono eternamente gli stessi. La verità è da intendersi come permanenza, stabilità, ciò che vale eternamente, e non più coincidenza con l’essenza delle cose in sé, altrimenti si ricade vittima dello scetticismo. È utile aggiungere che in questa prospettiva quello che si ha con la verità è soltanto un rapporto parziale: non potremmo mai conoscere la totalità delle relazioni pensabili, tuttavia le conoscenze acquisite conservano la loro certezza. Questi contenuti permanenti sono secondo Lotze ciò che Platone chiamava idee.

La parte conclusiva del terzo capitolo del volume ripercorre le posizioni heideggeriane rispetto al problema della realtà, al coscienzialismo e al fenomenismo, tenendo come sfondo un riferimento costante all’influenza esercitata su Heidegger dalla riflessione di Lotze.

Nel quarto capitolo l’autore mette a fuoco il problema del nesso tra categoriale e fenomenale: questo si traduce nella volontà di chiarire il necessario rapporto tra le categorie in quanto essere e il loro rapporto alla temporalità. A questo punto viene ripercorso il legame speculativo sussistente tra Heidegger e Lask, infatti Heidegger riprenderà la dottrina delle categorie di Lask. La questione che interessa Heidegger può essere così sintetizzata: quale è lo statuto degli enti ideali? Per rispondere a tale quesito Heidegger non si rivolge alla scuola di Marburgo o a quella del Baden, bensì a Emil Lask. Quest’ultimo individua nel soggetto la possibilità di commistione tra l’elemento non-sensibile e l’elemento sovra-sensibile. È il soggetto conoscente che rivolgendosi all’empirico, comprende quest’ultimo riferendolo all’ideale. Nel testo viene poi presentata la rilettura fatta da Heidegger sull’interpretazione della rivoluzione copernicana operata da Kant e radicalizzata da Lask: lì avviene il trasferimento del concetto di essere in un concetto della logica trascendentale (Cfr. p. 128). Sulla scia delle suggestioni offerte da Lask e il puntuale contrappunto con la Logica di Lotze, l’autore affronta in chiave heideggeriana altre questioni molto rilevanti che riguardano l’idea della filosofia, il problema del pre-supposto e la critica alla ricostruzione natorpiana a cui Heidegger obietta la differenza tra vivere nelle esperienze vissute e guardare ad esse: nel momento in cui volgiamo lo sguardo riflessivamente alle esperienze vissute, queste ultime cessano di essere vissute e diventano osservate. Questa la critica che Natorp rivolge a Husserl; critica fatta propria da Heidegger che poi approfondisce la sua analisi verso la fenomenologia husserliana ponendo sotto accusa la confusione husserliana tra l’essere reale e l’essere ideale. Il lavoro prosegue riprendendo le lezioni del 1925-26 in cui si opera una distinzione tra idea e ideale, problema già presente in Platone e ripropostosi a detta di Heidegger in Husserl; continua con la critica heideggeriana alla nozione di validità ritenendola una parola magica, intrisa in un groviglio di perplessità, dogmatismo e confusione. Questa attribuzione di validità alla conoscenza trae la propria origine dall’interpretazione lotzeana della dottrina platonica delle idee. L’ultimo passaggio del quarto capitolo è volto a ripercorrere la critica fenomenologica operata da Heidegger nei confronti del concetto di presenza, derivante sempre dalla interpretazione che si è fatta dell’idea platonica. Il primato della presenza è riscontrabile sia nella filosofia di Lotze che in quella husserliana che raccoglie la teoria della validità lotzeana. Allo stesso tempo Heidegger recupera da Husserl il principio dei principi: l’intuizione di cui Husserl parla nelle Idee: «[…] ogni visione originariamente offerente è una sorgente legittima di conoscenza, che tutto ciò che si dà originariamente nell’intuizione è da assumere come esso si dà, ma anche soltanto nei limiti in cui si dà» […] La prima forma fondamentale di conoscenza razionale è il vedere originariamente offerente, ossia la visione che offre in carne ed ossa la cosa» (Cit., p. 165).

Nel quinto capitolo l’autore ritorna a Kant e nello specifico ripercorre l’interpretazione heideggeriana dell’immaginazione trascendentale. I risultati della lettura heideggeriana riguardano la relazione tra Anschauung e Denken alla luce del percorso compiuto attraverso la teoria dei due mondi di Lotze e i guadagni ottenuti dalla rilettura laskiana della rivoluzione copernicana. Resta ora il problema del fondamento della loro unità e della possibilità di collegare la dimensione categoriale a quella temporale. Heidegger intende dimostrare che la possibilità della formazione degli schemi trascendentali si radica nella intrinseca unità essenziale di intuizione pura e pensiero puro, unità che sgorga dalla sintesi pura dell’immaginazione trascendentale. Il testo prende in esame la terza sezione della Deduzione dei concetti puri dell’intelletto da cui prende avvio un confronto serrato tra la proposta kantiana e la rilettura offerta da Heidegger che sostanzialmente intende porre la finitezza essenziale e specifica dell’uomo al cuore del problema della fondazione e dunque dell’immaginazione trascendentale. Per fare questo è indispensabile fare ancora riferimento al tempo e alla nozione di autoaffezione. Quello che emerge è che l’immaginazione trascendentale non funge soltanto da mediatrice tra sensibilità pura e intelletto puro, dischiude anche una dimensione ontologica e in quanto radice, l’immaginazione trascendentale si radica a sua volta nel tempo originario inteso come autoaffezione; quest’ultima condiziona la possibilità dei tre modi di sintesi che danno luogo alla trascendenza. Dunque è il tempo originario stesso che si pone a fondamento della possibilità del conoscere ontologico finito: ha una relazione essenziale con la finitezza.

Nel sesto capitolo si mette in relazione la Critica con la questione antropologica: «il problema dell’essenza della metafisica è il problema dell’unità delle facoltà fondamentali dell’»animo». Dalla fondazione kantiana risulta che fondare la metafisica è indagare sull’uomo: è antropologia» (Cit., p. 199). Più in generale la rilettura heideggeriana della Critica individua il tempo come autoaffezione pura: il tempo originario identificandosi con l’appercezione trascendentale, fonda la possibilità di una ragione pura sensibile, ovvero finita. L’Esserci, in quanto finito, comprende l’essere progettandolo nell’orizzonte temporale di trascendenza. In questa progettualità è la stessa finitezza che si svela e si libera irradiandosi temporalmente. È perché l’Esserci mantiene se stesso nella finitezza, che è possibile ridestare l’autentica e originaria domanda metafisica. L’ontologia è la ratio cognoscendi della finitezza, la finitezza è la ratio essendi dell’ontologia. La finitezza è da intendersi come comprensione dell’essere e come intimo costitutivo ontologico essenziale dell’uomo.

Il settimo capitolo è dedicato all’ultimo scritto che Heidegger dedica a Kant: La tesi di Kant sull’essere (1962). Il concetto che viene indagato in questa ultima parte è legato sempre alla determinazione dell’essere inteso ora come positio. L’autore rileva la novità che Heidegger apporta al concetto kantiano di essere come positio, evidenziandone l’unità strutturale con la finitezza essenziale dell’uomo. Si rileva in questa ultima fase heideggeriana un cambiamento di prospettiva: l’essere indagato dalla metafisica tradizionale come essere dell’ente non è in grado di fornire una adeguata descrizione fenomenologica. A seguito di un’articolata analisi sulla posizionalità dell’essere intesa come fondamento, si arriva a sostituire a «essere» il termine «posizione» e «pensare» si sostituisce con «riflessione della riflessione». Questo significa che l’essere è ciò per cui qualcosa può essere presente, è esso stesso un lasciar-essere presente. In altri termini più heideggeriani, essere significa propriamente ciò che consente la presenza. E se l’essere in quanto posizione è una presenza costante, allora l’essere è temporale e il tempo è sigillo di finitezza essenziale dell’essere stesso che si dà temporalmente.

Lo scopo dell’autore è mostrare un cambiamento di prospettiva nell’evoluzione del pensiero heideggeriano: se nel libro del ’29 Heidegger compie una ripetizione della deduzione soggettiva kantiana, nel suo ultimo scritto pone in risalto la ripetizione della deduzione oggettiva. In tutto ciò emerge chiara la centralità della presenza kantiana e della tematica della finitezza che avvolge l’Esserci (Cfr. p. 243-250). Il pregio di questo studio oltre alla precisione e l’accuratezza con cui analizza le questioni di fondo e le articolazioni storiche del confronto tra Kant e Heidegger, è di aver riproposto in auge uno dei concetti centrali del dibattito contemporaneo: l’irruzione che l’uomo, in quanto precipuamente finito ed esistente, compie nell’ente, è temporale, storica, contingente. Soltanto in pochissimi istanti l’uomo vive al culmine della sua propria possibilità, mentre per il resto si muove in mezzo al suo ente la cui essenziale finitezza lo avvolge, lo coinvolge e lo stravolge mantenendolo inquieto e vivo (Cfr. p. 250).