Cultura della Barbarie. La proposta fenomenologica di Michel Henry

1. Appunti fenomenologici

Il lavoro di Michel Henry si fonda sulla pratica fenomenologica sin dall’inizio e prosegue come tale nel corso di tutta la sua attività di ricerca. Questa affermazione non gode di uno statuto di irrilevanza, dal momento che molti suoi critici contestano un’affinità a un onto-teologismo distante dalla metodologia fenomenologica.

L’elemento che originariamente evidenzia la scelta fenomenologica di Henry è presente prima della sua stessa produzione filosofica e si rintraccia nella sua biografia, nel momento in cui, partendo volontario per la guerra, sperimenta l’atrocità della sofferenza, la radicalità della morte e l’assoluto silenzio della vita. Da qui a nostro avviso si radica quel modo secondo cui Henry parteciperà alla fenomenologia, rovesciandola, apportando un elemento radicalmente inalienabile che è la vita stessa. Per questo è giusto parlare di fenomenologia, per questo quella di Michel Henry è una fenomenologia della Vita. Questa la causa prima, anteriore a qualsiasi concettualizzazione, che Henry attraverso gli strumenti della fenomenologia ha cercato di descrivere, consapevole dei rischi e dei limiti del linguaggio che si rivolge verso un principio che si voglia ergere a fondamento.

Come Henry stesso ha rimarcato più volte nei suoi testi, la fenomenologia non si occupa dei fenomeni specifici, ma di ciò che permette a ogni fenomeno di essere un fenomeno. Questo chiarisce la distanza e la differenza che si interpone tra la fenomenologia e la scienza. Una distanza che non significa delegittimare i risultati della ricerca scientifica, che si è posta come compito proprio quello di investigare e determinare i fenomeni mondani attraverso una oggettività che oggi noi chiamiamo scientificità. L’interesse di Henry è sottolinearne il pregiudizio di cui resta vittima a suo parere la fenomenologia del XX secolo, iniziata con Husserl, ma che fonda le proprie radici in tempi assai più lontani: identificare l’apparire come correlato di un sorgere che si configura per mezzo di un orizzonte di visibilità, un Dehors, che trae la propria rispettabilità dal suo rappresentarsi, nel come e per mezzo della realtà mondana.

Questa prospettiva implica il dover rivolgere la propria attenzione non all’apparire ma a ciò che appare e si rende visibile e percepibile, piuttosto che far gravitare l’attenzione sulla possibilità stessa per l’apparire di arrivare a fenomenalizzarsi, lasciando occultato un modo di rivelazione del fenomeno che risulta essere per Henry più originario e consustanziale all’essere stesso della vita. Infatti emerge dall’analisi fenomenologica intrapresa dall’autore nell’Essence de la manifestation, che esistono due modalità di manifestazione dei fenomeni corrispondenti ai due modi diversi d’apparire: l’esteriorità che rappresenta il modo di manifestazione mondano e l’interiorità fenomenologica che incarna il modo in cui si manifesta la Vita invisibile. Il concetto su cui prende forma l’intera costruzione filosofica di Henry è l’immanenza.

Chiarite le differenze e le distanze da forme di immanentismo panteistico o da irrazionalismi mistici, come lo stesso Henry precisa nei suoi lavori, l’immanenza costituisce il fondamento essenziale grazie al quale è possibile una filosofia che ha come unica fonte la Vita. L’immanenza diventa il vero paradigma filosofico attraverso cui è possibile sentir-si immediatamente, nell’originarietà del pathos in-ek-statico della vita, sperimentarsi come essere-vivente, riscoprirsi come essere co-generato dall’Assoluto, dal Padre che consustanzialmente a sé genera il Figlio, quel Padre che per Henry è Verbo incarnato, è la Vita assoluta.

Il passaggio da una filosofia ek-statica, a una filosofia dell’immanenza richiede un’analisi imprescindibile del concetto di trascendenza che contrariamente a quanto potrebbe sembrare è intimamente legato esso stesso all’immanenza originaria. Il problema è stato avvertito dallo stesso Husserl nelle «Lezioni II» di L’idea della fenomenologia. L’elemento più enigmatico della critica alla conoscenza era la trascendenza, dal momento che tale nozione rinvia a qualcos’altro che oltrepassa se stesso. La riduzione fenomenologica non deve e non può assumere il trascendente come fondamento, Henry ha mostrato l’insufficienza di ogni trascendente a esibire quella «conoscenza prima» da cui può muovere una fenomenologia: ciò significa che ogni posizione del problema riguardante la fenomenalità nei termini dell’apparire di qualcosa, ogni riduzione della fenomenalità a ciò a cui è possibile risalire a partire dall’ente, in quanto ciò che si manifesta, inteso come «pensiero-di», risulta inadeguato a cogliere l’essenza della fenomenalità stessa. La non-autosufficienza della trascendenza svela il legame fondativo che la lega all’immanenza: il carattere originario della fenomenalità è la sua assoluta immanenza che si configura nella filosofia di Michel Henry come il carattere necessario ad ogni conoscenza gnoseologica. In questa nuova ottica l’apparire in se stesso diventa un auto-apparire, un sentire, non da parte di un chi rispetto a un quid esterno che viene sentito; il sentimento fenomenologico inteso da Henry altro non è che il sentir-si della Vita, l’auto-donazione primitiva che la Vita compie incessantemente al di là delle categorie mondane: la Vita si rivela, anzi si auto-rivela a se stessa. Gettare il proprio sguardo-verso il mondo risulta essere un’operazione conoscitiva limitata, che si struttura mettendo a distanza ciò che si vuole conoscere, lo si allontana per poterlo focalizzare attraverso gli strumenti forniti dal metodo rappresentativo. Per questo motivo Henry sostiene che l’essenza della Vita è nell’invisibile, cioè nella soggettività assoluta, che non dice l’io intendendolo empiricamente o trascendentalmente. Si tratta di una soggettività radicata in sé, al di qua dell’intenzionalità husserliana che struttura una fenomenalità e di conseguenza una fenomenologia che parte da una «rappresentazione-per».

È da questo punto che si concretizza l’esigenza di un rovesciamento della fenomenologia, la domanda della fenomenologia si trasforma nella domanda sulla fenomenologia a cui Henry risponde proponendo una fenomenologia materiale intesa come fenomenologia dell’invisibile che non inficia il principio «tanto apparire, altrettanto essere», ma interpreta l’apparire come l’auto-affezione della Vita sottratta ad ogni orizzonte di visibilità.

Attraverso la radicalizzazione della riduzione fenomenologica e grazie al rovesciamento fenomenologico è possibile effettivamente ritornare a una filosofia che non resti vittima del nichilismo contemporaneo, che inizi e tenda verso una concezione filosofica tutta immersa nella Vita — merito che Henry attribuisce a Spinoza — piuttosto che risolvere o articolare una speculazione che tenda verso l’irrealtà della morte. La tematica della morte non è trattata dal filosofo francese proiettato in maniera univoca sulla realtà della Vita. È proprio grazie a questa univocità che si rende tangibile nell’argomentazione e nello stile filosofico di Henry l’esigenza di un atto estremamente coraggioso, per alcuni al limite stesso della fenomenologia, che riporti la speculazione filosofica dall’ambito del Fuori all’intimità e alla essenzialità dell’interiorità di ciascun io individuale. Questa esigenza si caratterizza sin dalle prime pagine dell’Essence de la manifestation, dispiegandosi in oltre quarant’anni di incessante ricerca filosofica e non solo, volta alla sostanziale riunificazione della soggettività umana con la propria interiorità, alienata da sé, a causa di una egemonia della rappresentazione, diventata essenziale anche nell’ambito scientifico che concorre ad aggravare la condizione dell’individuo e della sua assoluta particolarità, rendendolo ente fra gli enti mondani: questa è la responsabilità della filosofia occidentale tout court. Il problema si riflette inevitabilmente sulla società, sull’eticità di una collettività che smarrisce o meglio oblia la sua essenzialità originaria, la propria vita, da cui derivare la fonte sola e unica di qualsiasi discorso ragionevole, per cristallizzare norme morali che rischiano di vacillare proprio a partire dalle fondamenta su cui sono state edificate. La denuncia di Henry è vigorosa e reiterata, ma senza dubbio evidenzia una sclerotizzazione della società tecno-scientifica in cui si è perso il senso di una ricerca che arrivi, seppure con diverse difficoltà, fino al Verbo che si incarna ed è già prima che sia il mondo. La ricerca portata ai suoi limiti secondo Michel Haar, ma anche altri, sfocia inevitabilmente in una rigenerazione della metafisica, così indispensabile alla riflessione, ma allo stesso tempo così temuta. In questo lavoro emerge per certi versi l’inesattezza o forse l’inconsistenza di un tale sgomento verso una riflessione che tenda all’Assoluto; l’identità assoluto/metafisico non è a nostro avviso così ragionevole, al contrario è apprezzabile una filosofia che, consapevole dei rischi di procedere al limite dell’abisso metafisico, tenti di intraprendere un cammino consapevole; Kafka scrive: «Il y a un but, mais pas de chemin. Ce que nous appelons le chemin, c’est l’hésitation».1

La fenomenologia di Michel Henry vuole essere una fenomenologia della Vita, perciò inizia e si struttura nella Vita. Ridurre questo lavoro ad una onto-teologia sembra profondamente ingiusto, ma soprattutto non giustificabile sul piano filosofico. Il confronto con il cristianesimo operato negli ultimi scritti, ha come finalità l’esplicitazione delle nozioni fenomenologiche contenute nel messaggio evangelico, basti pensare al Prologo di Giovanni, atto a stabilire in che modo la Vita è stata concepita dalla riflessione cristiana: l’épreuve de Soi de la Vie è collegata alla fenomenologia del Cristo, al principio del Padre e al suo legame con l’Archi-Figlio; tutto ciò viene strutturato in una logica che non ha nulla di anti-fenomenologico, dal momento che non c’è nulla di anti-fenomenologico nell’individuare che cosa e come il cristianesimo riveli nella propria particolarità la Vita.

La fenomenologia materiale di Henry trova la propria connotazione in un ambito antropologico — seppure considera con estrema attenzione la Parola cristiana — in cui i termini di fenomeno, soggetto, immanenza, Vita, Padre sembrano tra loro inscindibili e allo stesso tempo consustanziali. L’interesse viscerale mostrato da Henry verso la legittimità di una Vita interiore non rimanda a nostro avviso a una semplice metafisica reinterpretata in chiave cristiana. È necessario tuttavia sottolineare quali possano essere le cause motivanti un’interpretazione del genere.

Il primo elemento può essere rintracciato nella difficoltà stessa dei testi di Henry: l’univocità (necessaria); il linguaggio fenomenologico a cui si aggiunge nell’ultima parte anche il linguaggio biblico; lo stile e l’impiego imprescindibile di un formalismo linguistico volto a descrivere concetti che per principio rifiutano qualsiasi connotazione mondana; un linguaggio dunque costretto a misurarsi costantemente con il rischio di cadere in un’aporia di principio.

Un secondo aspetto di natura pratica si riscontra dalla vastità dell’opera henryenne e dalla molteplicità delle problematiche affrontate su diversi piani speculativi. Henry viene considerato come l’ultimo filosofo contemporaneo francese che abbia delineato un sistema filosofico così completo e articolato, per di più confrontando la propria radice filosofico-culturale con la letteratura, la musica e la pittura, non intervenendo solo da un punto di vista critico ma realizzando lavori apprezzati negli ambiti prima citati.

Il terzo aspetto, forse il più importante, è il fatto che Michel Henry non ha mai formalizzato o quantomeno concettualizzato una metodologia della propria fenomenologia materiale, non è stata delineata una praxis metodologica che risolvesse i possibili fraintendimenti legati al suo ripensamento fenomenologico.

Sicuramente Henry ha voluto strutturare prima di tutto una filosofia che fosse in grado di auto-legittimarsi, un impegno assai gravoso, lasciando all’ambito più pratico della propria fenomenologia uno spazio minore. La questione potrebbe anche essere interpretata da un punto di vista più storico: la stessa fenomenologia husserliana difetta allo stesso modo per quanto riguarda la definizione di principi metodologici netti e delimitati. La fenomenologia contemporanea francese si interroga ancora sulla possibilità di chiudere la fenomenologia in un vero e proprio sistema, che potrebbe rappresentarne la fine in un modo assai più perentorio rispetto alla presunta svolta teologica della fenomenologia. Questo spiega le diversità e le contrapposizioni che scaturiscono ancora oggi tra filosofi che si richiamano ai termini fenomenologici e più in generale alla pratica fenomenologica. Henry ritiene la fenomenologia la sola in grado di riportare l’individuo all’essenza stessa della realtà, alla verità della propria carne all’ineluttabilità della propria nascita, che si rivela nell’originarietà assoluta della Vita: «Naître, ce n’est pas venir dans le monde. Naître, c’est venir dans la Vie».2

Constatando l’assoluta imprescindibilità della fenomenologia nell’affrontare le questioni sollevate da Henry, e dallo stesso risolte discutibilmente in una fenomenologia materiale, e particolarmente utile affrontare la dimensione pratica della fenomenologia materiale che si concentra nelle tre opere sociali del filosofo francese che analizzano tematiche quali: la politica, la società, il capitalismo, il lavoro e la cultura.

2. Una praxis della vita contro la barbarie

La fenomenologia materiale radicalizza l’impianto fenomenologico tradizionale ponendo come suo fondamento la Vita.

Nella complessa e articolata bibliografia henryenne le diverse opere confluiscono in tre sentieri di ricerca tra loro prossimi, che descrivono altrettante dimensioni della vita stessa. Nella parte teoretica si collocano opere come L’essence de la manifestation, Philosophie et phénoménologie du corps, Généalogie de la psychanalyse e Voir l’invisible. A questa parte teoretico-fondativa fa seguito una ricerca pratica che si concretizza nelle tre opere sociali di Henry: Marx, La barbarie e Du communisme au capitalisme. L’ultima fase del suo pensiero in cui vengono alla luce altri testi C’est moi la vérité, Incarnation e Parole du Christ, potremmo definirla in diversi modi, comunque riduttivi, il trittico cristiano, la svolta teologica, la fenomenologia del Primo vivente. Certo è che queste ultime opere che si susseguono anche cronologicamente, a differenza delle altre, pongono interrogativi maggiori sul piano fenomenologico e segnano uno strappo anche con le precedenti acquisizioni della fenomenologia materiale, soprattutto in riferimento al concetto di auto-affezione che viene investito di una duplice modalità fenomenologica: auto-affezione debole e auto-affezione forte. Soprattutto la seconda definizione di questo concetto porge il fianco a quanti criticano Michel Henry per la «svolta teologica» della fenomenologia, di ritorno alla metafisica tradizionale, di idealismo, di iper-trascendentalismo e infine di teologia fenomenologica. A queste critiche abbiamo cercato di rispondere nelle pagine precedenti di questo testo. Tenute presenti tutte queste possibili configurazioni critiche che rischiano di entrare in conflitto tra loro, è necessario a mio avviso porsi una domanda: quale necessità, quale urgenza sottende una tale radicalizzazione della fenomenologia husserliana? In altre parole la questione si potrebbe porre partendo da un punto di vista prettamente etico: quale dimensione inesplorata permette di intravedere3 la fenomenologia della vita che la fenomenologia tradizionale non riesce a cogliere?

È per tentare di rispondere a questa domanda che abbiamo operato una tripartizione dell’opera filosofica henryenne; naturalmente qualsiasi divisione semplifica non poco la complessità speculativa e la trama concettuale di un autore, tuttavia ci è utile per individuare e isolare più agevolmente quella dimensione pratico-patica della fenomenologia materiale che si dispiega compiutamente in quelle che abbiamo definite le tre opere sociali.

Alla questione cercheremo di rispondere riferendoci in particolare a un testo di snodo fondamentale, in cui tutta la dimensione teoretica si riversa filosoficamente sulla società contemporanea: La barbarie.

La proposta di Henry oltre a costituire un impianto teoretico estremamente originale e stratificato di ricerca, si rende da subito una metodologia fenomenologica in pratica da applicare prima di tutto al soggetto, poi nella comunità dei viventi, nella cultura e nella società contemporanea4 permettendone un’analisi radicalmente nuova che investe il reale, senza cadere in infiniti giochi ermeneutici e senza sprofondare nelle sabbie mobili del post-modernismo. Tutto ciò è possibile per Henry dal momento che la realtà viene sentita a partire dall’immanenza della vita.

Michel Henry, nella prefazione de La Barbarie dice:

Ce livre est parti d’un constat simple mais paradoxal, celui d’une époque, la nôtre, caractérisée par un développement sans précédent du savoir allant de pair avec l’effondrement de la culture. Pour la première fois sans doute dans l’histoire de l’humanité, savoir et culture divergent, au point de s’opposer dans un affrontement gigantesque […] le triomphe de la premier entraîne la disparition de la seconde.5

In queste poche righe si intuisce il respiro dell’opera che si interroga in modo sistematico sui due aspetti che hanno caratterizzato e ancora determinano la modernità: la cultura e la scienza. Il leit-motiv del testo è l’articolazione di una dicotomia radicale tra una cultura ancorata al pathos in-ek-statico della vita e la scienza modellata sull’a-priori galileiano che ha come risultante, sul piano teoretico, l’iper-scientismo e sul piano materiale la tecno-scienza o scienza della tecnica, da intendersi come depotenziamento e naturalizzazione della soggettività dell’uomo:

La « naturalisation » de l’homme sous toutes ses forme et à travers tous ses déguisements est le dernier avatar de l’a priori galiléen. L’homme n’et pas différent des choses.6

Nonostante le innumerevoli scoperte scientifiche avvenute dalla fine dell’Ottocento a oggi, l’evoluzione sociale non regge il confronto con la tecno-scienza, infatti lo stesso Henry nelle prime pagine del testo si pone un interrogativo cruciale e allo stesso tempo illuminante rispetto alla disparità del progresso dei diversi saperi:

Nous assistons depuis le début de l’ère moderne à un développement sans précédant des savoir qui forment « la science » et revendiquent d’ailleurs hautement ce titre. Par là on entend une connaissance rigoureuse, objective, incontestable, vraie. […] Un tel bouleversement, malheureusement, est aussi celui de l’homme lui-même. Si la connaissance de plus en plus compréhensive de l’univers est incontestablement un bien, pourquoi va-t-elle de pair avec l’effondrement de toutes les autres valeurs, effondrement si grave qu’il met en cause notre existence même?

Come rileva lo stesso autore, non si tratta della prima volta che l’umanità precipita nella barbarie; tuttavia è la prima volta che si assiste a mutamenti globali: dalla scienza, all’economia, alla morale, alla politica. Gli strumenti tecnologici ci permettono ora come mai in passato di comunicare in tempo reale con il resto del mondo, divulgare informazioni, conoscenze, metodologie e procedure. Con la scienza moderna il sapere ha compiuto enormi progressi, ma allo stesso tempo si è assistito a una proliferazione di ricerche, una disintegrazione della conoscenza che ha sviluppato linguaggi e metodologie completamente diverse a seconda del campo d’indagine. Se oggi dobbiamo accontentarci delle «briciole del sapere», le prospettive future della conoscenza sono impostate sull’idea esasperante di specializzazione che rende assolutamente non intelligibile le sue ricerche, allo stesso tempo allontana le diverse modalità di conoscenza l’una dall’altra. Come rileva ironicamente Henry, per ogni problema particolare è necessario uno specialista, ma nel momento in cui il problema è esistenziale bisogna valutare quale scelta operare, dato che la conoscenza specialistica risulta inefficace. Questo perché:

C’est l’unité du savoir qui est en cause et avec elle la mise à jour d’un principe assurant la concordance et ainsi la validité des conduites, des appréciations dans tous les domaines, des pensées elles-mêmes.7

Le prospettive aperte dalle tre opere sociali risultano essenziali per approfondire la dimensione pratico-applicativa della fenomenologia materiale che trova i suoi sedimenti teoretici in altre opere — una su tutte L’essence de la manifestation — complementari a queste, senza le quali risulterebbe difficile comprendere l’effettività della fenomenologia della vita che si accosta alla realtà partendo, anzi restando, nell’immanenza della vita stessa.

Per quanto concerne, appunto, la determinazione del reale è utile accennare brevemente alla riflessione che Henry articola nel Marx e che riguarda la determinazione del reale e del suo fondamento. L’interpretazione fornita da Henry si radica principalmente su L’Ideologia tedesca8 che costituisce il riferimento principale alla sua interpretazione e a partire dalla quale indaga la prospettiva e le istanze che sottendono l’intera opera dell’autore, cercando di leggerlo «per la prima volta» in modo da non essere condizionato oltremodo dalla tradizione marxista che, a suo avviso, ha letto e ancora legge Marx partendo da errate posizioni interpretative.9

Secondo Henry i concetti di forza produttiva e classi sociali non sono gli elementi concettuali fondanti la filosofia di Marx. Infatti nell’Ideologia tedesca subentrano alcune nozioni chiave che mutano il quadro prospettico del Marx scienziato: l’individuo, la soggettività, la vita, la realtà; dunque concetti prettamente ontologici. Nella lettura proposta da Henry questi termini risultano fondanti per l’architettura del pensiero marxiano, garantendo una effettività all’indagine sul reale. Cosa intende Marx quando si occupa del «reale»?

Qui si gioca la questione interpretativa: la realtà si lega intimamente all’individualità, alla soggettività e alla vita; la realtà non è altro che la vita: «L’attività reale non è l’oggettivazione»,10 in sostanza si tratta di riaffermare l’individuo di contro a una prospettiva universale che si fonda sul processo di auto-posizione per cui il soggetto si fenomenizza opponendosi a sé come oggetto. Henry riparte dal Marx filosofo e ne scandaglia fino in fondo tutte le sottili implicazioni, senza per questo eliminare o sottovalutare il Marx «scienziato sociale».

La realtà per Marx non dovrebbe limitarsi alla spiegazione delle forze produttive e le classi sociali che è ciò che deve essere ancora spiegato. La prospettiva marxiana cambia a partire dalla critica operata al concetto feurbachiano di Gattungswesen, a cui si sostituisce il problema degli «individui viventi». Per certi versi l’interpretazione di Henry cerca di affermare che i presupposti fondamentali del «marxismo» non sono sovrapponibili ai concetti fondamentali di Marx. È a questo punto, come anticipato precedentemente, che si inseriscono delle categorie nuove, delle nozioni essenziali per la nuova prospettiva di pensiero che si è venuta a dispiegare: si inizia a riflettere sull’individuo, sulla soggettività, sulla vita, sulla realtà e sul valore legato a questi termini, che prescindono dalla connotazione prettamente materialista attribuita all’apparato concettuale di Marx ma soprattutto al concetto di realtà che si è sempre edificato a partire da presupposti oggettivizzanti. Dunque ri-comprendere ciò che Marx definisce reale è un’operazione complessa perché bisogna ri-comprendere il senso della critica rivolta da Marx a Hegel che tende a riaffermare l’individuo di contro all’universale: l’individuo viene scoperto per la sua fondamentale irriducibilità all’essenza dell’universalità, che sul piano teoretico si traslittera nell’eterogeneità ontologica tra idealità e realtà. L’idea che cerca di rintracciare e criticare Henry a partire dall’Ideologia è quella di oggettività e l’operazione a essa connessa: lo Stato, la società, la famiglia sono delle strutture ideologiche — prima che sociali — che traggono la loro sostanza dall’idea stessa di oggettivizzazione che vuole imporsi per la sua autonomia, ma che invece risulta necessariamente dipendente dagli individui che fondano in maniera imprescindibile il reale e la realtà stessa sottesa dall’idealità, ovvero l’universale hegeliano. L’idea che emerge da questa lettura henryenne è l’introiezione nel modello marxista di una struttura monadica dell’individuo che è ogni volta uno e un solo individuo, non un’unità ideale né tanto meno una pluralità reale. La questione in sostanza verte proprio sulla critica delle unità ideali che si sgretolano rispetto all’effettività di pluralità reali, cioè gli individui viventi. È a partire da questa prospettiva che si delinea più marcatamente la critica rispetto ai retaggi del pensiero hegeliano e si apre la possibilità per una nuova soggettività che si manifesta immediatamente come pura auto-affezione vivente e non più come oggetto di manifestazione. Dunque tutti quei concetti di derivazione hegeliana quali lo Stato, la società, la famiglia trovano una nuova sostanza che li sottende e allo stesso tempo li legittima: la vita. Lo «Stato ideale», compreso nella sua assoluta universalità, diventa uno «stato reale» che poggia sulla vita degli individui, nella capacità di fondare attraverso il pathos — con una reale comunità di individui, fino a quel momento scissa tra idealità e realtà, a cui veniva riconosciuto solo un ruolo intermedio, di passaggio, tra l’individuo e lo stato. Da questo momento in poi è più semplice intuire l’evoluzione interpretativa che Henry applica nel prosieguo della sua lettura di Marx: l’individuo è la realtà del genere e non viceversa: non è più parte dello stato, ma è lo stato a essere parte dell’individuo; e ancora: gli interessi soggettivi diventano l’espressione della fenomenicità effettiva dell’azione, nella sua tonalità soggettiva, nella realtà dell’individuo che sperimenta sé e immediatamente sperimenta la realtà.11

Oltre alla critica indiretta operante su Hegel, Henry mette in discussione anche le tesi di Feuerbach presenti in Marx; precisamente viene contestato il concetto di genere, più esattamente viene evidenziato l’utilizzo improprio che si compie del genere facendolo diventare il sostituto dell’individuo. In pratica si compie un rovesciamento della prospettiva critica che Feuerbach compie contro il concetto di Dio, inteso come la rappresentazione di tutte le qualità e propensioni umane; ma questa operazione relega l’individuo nella condizione di mero oggetto determinato e limitato dalla nozione universale di genere. Questa critica trova le sue radici nelle acquisizioni fatte con L’Essence de la manifestation nella sezione dedicata al «monisme ontologique»: nel momento in cui l’oggettivazione diventa condizione di verità e di visibilità nell’orizzonte mondano, non solo si oggettiva l’essenza dell’uomo, ma si condiziona l’ambito dove tale essenza può manifestarsi.

La lettura filosofica di Marx offerta da Henry da un lato ha il pregio dell’originalità dell’interpretazione che propone una rivisitazione in chiave anti-strutturalista, rispettando in pieno l’intento iniziale di Marx e trovando delle giustificazioni nella sua opera; dall’altro — come nota Jean Texier12 — questa lettura risulta difficoltosa perché propone un’idea di Marx anti-marxista. Tuttavia le suggestioni presenti nel Marx sono utili per almeno due aspetti: prima di tutto offrono la possibilità di ripensare Marx da una prospettiva del tutto nuova e allo stesso tempo ci consentono di ripensare anche i problemi del nostro tempo sia nella prospettiva sociale sia in quella economica; a ciò si aggiunge l’apertura di una dimensione nuova pratica, da intendersi come praxis soggettiva che permette di definire cosa deve intendersi per «verità», quindi ci consente un rimodellamento dell’ambito teorico.

Tutti questi elementi già intuibili tra le pagine dei primi testi di Henry, ci permettono una lettura più agevole e approfondita del testo preso in esame, La barbarie, per certi versi ancora poco indagato, o meglio poco approfondito nelle implicazioni e nelle analisi delle dinamiche socio-culturali della contemporaneità. Come già sottolineato da Giuliano Sansonetti13 è sbagliato considerare l’opera una denuncia contro i fasti e nefasti della scienza, un trattato sociologico o peggio ancora un’opera di circostanza. Il taglio dell’opera è filosofico, la profondità e l’accuratezza delle analisi non risentono del tono a tratti diretto e pungente del testo, adagiato sulle implicazioni fenomenologiche già rilevate nell’autore e ulteriormente approfondite in questo lavoro. Per qualche strana ragione la filosofia che si interessa dell’attualità rischia sempre di essere depotenziata o ricompressa nella semplice denuncia o inchiesta sociale; quasi a giustificare un utilizzo storicistico dell’analisi filosofica. Nella Barbarie viene presa in considerazione la cultura contemporanea, la relazione che si intrattiene tra sapere umanistico e sapere scientifico con tutto ciò che ne consegue; viene ripensato l’individuo nella sua condizione esistenziale e circostanziale, contestualizzando alcune delle critiche che erano state rivolte alla fenomenologia tradizionale, ma anche ad Heidegger, su di un piano squisitamente teoretico, ora trovano anche indirettamente una profondità e uno spessore nuovo e inaspettato.

3. Oblio della Vita e barbarie: elementi e prospettive

La considerazione da cui partire affinché siano comprensibili e utili le questioni affrontate nel testo è riducibile a una questione fondamentale e allo stesso tempo paradossale: la nostra epoca è caratterizzata da uno sviluppo senza precedenti del sapere, ma allo stesso tempo si è assistito a un impoverimento o come lo definisce Henry un vero e proprio «effrondement» della cultura. Per comprendere questa affermazione così perentoria è necessario definire alcuni termini specifici, veri e propri capisaldi a cui far riferimento. È necessario prima di tutto stabilire cosa si intende oggi con sapere e con cultura, dal momento che sembrerebbero co-implicarsi.

Il sapere oggi è legato in maniera esclusivistica al sapere scientifico, alla conoscenza edificatasi a partire da Galileo e ancora oggi imperante tra le discipline scientifiche quali per esempio la fisica, la chimica e la biologia. La fisica delle particelle è intimamente legata al metodo galileiano, di cui può considerarsi una diretta evoluzione, ma allo stesso tempo sarebbe ingenuo e scorretto semplificare la scienza contemporanea alla sola fisica quantisitica. È interessante rilevare da un lato la continuità tra l’impostazione galileiana e gran parte delle scienze moderne, ma d’altra parte è possibile appurare la sconnessione — Henry parla di dicotomia — tra questo tipo di sapere e la cultura. Sembra quasi che l’imporsi di una conoscenza geometrico-matematica della realtà prenda il posto degli altri saperi che risultano così annientati, ridotti implicitamente a uno statuto di insignificanza. La rispondenza ai criteri scientifici elaborati e strutturati in ogni singola sfera del sapere garantisce (a volte in modo ingiustificato) e giustifica teorie, metodologie, asserzioni e in definitiva determina il senso che noi attribuiamo al concetto di verità. Naturalmente in questa sede non si intende criticare tout court la scienza o inficiare l’efficacia del metodo galileiano, una prospettiva simile non è il fine della fenomenologia materiale e non risulta produttivo per una ricerca che mira a indagare le possibilità aperte dalla fenomenologia.

La peculiarità della fenomenologia della vita ci è utile per meglio comprendere quelli che per certi versi risultano essere i paradossi della contemporaneità, che rendono sempre meno intelligibile la realtà che ci circonda. Questa inintelligibilità è favorita dalla disintegrazione della cultura che segue le orme metodologiche del sapere scientifico, almeno nel quadro delineato da Michel Henry, secondo il quale bisogna considerare la cultura come indipendente dal sapere e intenderla come cultura della vita:

C’est une action qui la vie exerce sur elle-même et par laquelle elle se transforme elle-même en tant qu’elle est elle-même ce qui transforme et ce qui est transformé. « Culture » ne désigne rien d’autre.14

E ancora:

« Culture » désigne l’autotransformation de la vie, le mouvement par lequel elle ne cesse de se modifier soi-même afin de parvenir à des formes de réalisation et d’accomplissement plus hautes, afin de s’accroître. […] la vie est ce mouvement incessant de s’autotransformer et de s’accomplir soi-même, elle est la culture même, ou du moins elle la porte inscrite en elle et voulue par elle comme cela même qu’elle est.15

Definito cosa intenda Henry per sapere e cultura, le due direttrici fondamentali per comprendere la trama generale della conoscenza contemporanea, cerchiamo di capire fino a che punto e perché si parla di barbarie: «Nous entrons dans la barbarie. […] n’est pas la première fois que l’humanité plonge dans la nuit».16

Quindi siamo già entrati nella barbarie? Per Henry non sembrano esserci dubbi: non solo siamo già entrati nella barbarie, ma la cosa forse ancora più grave è che nell’immediato non si intravedono possibilità concrete di riscatto, nessuno sembra in grado di elaborare un modello di vita che possa salvarci o non ricada in una scia nichilistica della prassi contemporanea. Ripartire dalla cultura e dalla scienza è un passaggio obbligato per Henry e allo stesso tempo è funzionale all’esplicitazione della fenomenologia materiale nella praxis operante a partire dagli individui: grazie alla fenomenologia della vita è possibile riconsiderare la scienza e la tecnologia a essa collegata attribuendo loro un significato inusuale, nascosto, celato dietro i fasti della spettacolarizzazione della scienza. Prescindendo dagli aspetti più materiali17 (economici e sociologici) emergono aspetti prettamente culturali su cui vale la pena soffermarsi che si potrebbero definire con termini quali secolarizzazione, intellettualizzazione o disincantamento. Bisogna prendere atto del fatto che non abbiamo ancora finito di fare i conti con l’impatto profondo che la scienza moderna ha veicolato sulle credenze comuni. Negli ultimi due secoli c’è stato un lavoro continuo di erosione da parte della scienza rispetto al senso comune che però non ha condotto necessariamente a una forma coerente di razionalismo, illuminismo o comunitarismo. Tutt’altro. La scienza moderna continua a convivere con forme «incantate» della realtà e non sembra in grado di emancipare se stessa e il retaggio culturale che la precedeva. L’influenza delle scoperte scientifiche sulla vita reale dei singoli è da ridimensionare rispetto alla comprensione comune del mondo, e questo forse è imputabile a due fattori: da un lato la scienza non è un sistema di credenze che si contrappone in blocco a un altro sistema di credenze con la finalità di sostituirlo in toto, per il momento è più assimilabile a un generatore di credenze che si inserisce all’interno di un reticolo di convinzioni, opinioni, certezze per lo più non tematizzate e in genere sottodeterminate. Se l’impostazione metodologica anti-antropocentrica adottata dalla scienza moderna ha ridimensionato l’effluvio di importanza che l’uomo attribuisce esclusivamente a sé a prescindere dalle relazioni e interdipendenze che intrattiene con l’esterno, una prassi così strutturata tende, certe volte impone, a relegare il problema della genesi e dell’esperienza soggettiva. Questi aspetti vengono messi in luce da Henry a partire dalla dicotomia presente tra il metodo galileiano e la cultura, così come viene delineata nella Barbarie.

La barbarie non è un cominciamento ma è sempre seconda a una cultura che la precede e rispetto alla quale si manifesta come «ruine» e mai come «rudiment».18

L’accostamento della cultura alla vita è coerente con l’impianto generale della fenomenologia materiale, dunque in linea di continuità con gli assunti già enunciati sulla vita, va notato l’accostamento che in questo testo trova piena attuazione tra la vita e la cultura, tanto che a detrimento della scienza viene detto: «La culture n’a originellement et en soi rien à voir avec la science et n’en résulte nullement».19

La vita di cui si sta parlando non si confonde con l’oggetto ricercato e definito dalla scienza, anzi da un modo di fare scienza che schiaccia e relega la soggettività a puro errore metodologico. La soggettività coincide con la vita fenomenologica assoluta la cui essenza consiste in un «se sentir soi-même», «s’éprouver soi-même». Cercare di «far manifestare» l’essenza stessa della soggettività al cui fondo altro non c’è se non il puro pathos della vita: attraverso l’idea di scienza prospettata da Galileo risulta un tentativo efficace da un punto di vista empirico, ma pone dei grossi interrogativi quando si trascende a un piano ontologico. La scienza che pone l’accento sull’oggettività, la giustifica sempre attraverso un rimando ad altro da sé e si nasconde dietro alcuni termini come per esempio razionalità, universalità, evidenza che in prima battuta sembrano in grado di fondare una conoscenza valida universalmente e riconosciuta da tutti; forse delle due l’una, e se ci si interroga sul fondamento sotteso e allo stesso tempo demistificato dalla scienza moderna, ci si renderà conto che a garanzia dell’oggettività possiamo addurre solo noi stessi, solo la nostra soggettività, solo la nostra vita senza cui risulta traballante qualsiasi asserzione significativa. La scienza da due secoli riesce a farsi riconoscere universalmente ma non riesce a conoscersi, a relazionarsi alla propria originalità e questo per il semplice fatto che l’individuo non è mai considerato come possibilità ma come strumento problematico, nel senso che si accettano solo le qualità oggettivabili dell’uomo attraverso le coordinate spazio-temporali ma si cerca di escluderlo sistematicamente, perché in qualsiasi esperimento fisico l’osservatore — l’essere umano — perturba l’esperimento rendendolo meno attendibile: un osservatore, in qualsiasi sistema si inserisca, falsifica il sistema stesso; da qui il problema di riportare il dato, riportare qualsiasi dato senza creare una relazione con qualcosa di esterno al sistema studiato. La questione diventa complessa quando la scienza piuttosto che constatare costruttivamente questo «limite» della conoscenza e ripensarlo a partire dal soggetto cerca in tutti i modi di isolare la verità, isolare una rappresentazione del mondo e dell’oggetto a cui possa attribuirsi un valore di verità. Questo intento è risuonato nelle coscienze tanto da convincerle a intraprendere un sentiero di verità deificante il «Sé» e il «mondo», riducendo il «sé a Mondo». Come viene rilevato nel testo il sapere è sempre considerato come un vedere, che a sua volta significa ciò che è visto; ma ciò che è visto è effettivamente ciò che si pone davanti al nostro sguardo, ciò che è posto davanti: l’oggetto.20 La critica portata avanti da Henry riguarda non solo il sapere scientifico ma anche la coscienza in generale che opera nello stesso modo: dato che il télos che sottende le due tipologie di sapere è identico, l’evidenza indubitabile di ciò che mi si mostra davanti allo sguardo.21 Il sapere scientifico non è che una modalità conoscitiva della coscienza, ovvero della relazione all’oggetto. Questa relazione come sottolinea più volte Henry è possibile solo al fondo della vita in sé. Una questione fondamentale presente in tutto il pensiero fenomenologico di Henry e riproposto anche nella Barbarie è comprendere il potere manifestativo o rivelativo della vita, epicentro della sua ricerca e punto fondante che ci permette di ripensare alla modalità attraverso cui un fenomeno si fenomenizza: nella fenomenologia materiale non c’è più scarto e nemmeno differenza, la vita è un «s’éprouver soi-même», la fenomenalità che le appartiene e di cui è costituita è l’affettività. In questo contesto cambia anche il rapporto con il mondo, nel senso che non è da intendersi come un puro spettacolo offerto a uno sguardo impersonale e vuoto (osservatore esterno), si tratta di un mondo sensibile, di un monde-de-la-vie.

Il sapere originario della vita assume una dimensione pratica diventa una praxis per il fatto che:

Le savoir de la vie comme savoir où la vie constitue à la fois le pouvoir qui connaît et ce qui est connu par lui, lui procurant, de façon exclusive, son « contenu », je l’appelle praxis.22

Le leggi che regolano questo concetto di praxis trovano solo nella soggettività assoluta il proprio principio di développement:

Ces lois ne sont pas les lois de la conscience, ce ne sont pas des lois théoriques liées à la façon dont nous représentons les choses et les persons, ce sont des lois pratique, les lois de la vie.23

Posti questi elementi, sono ora comprensibili le ragioni della barbarie e si inizia a prendere atto delle dinamiche che a partire dalla cultura, vanno a contaminare poi tutti i restanti ambiti dell’attività sociale portando alla crisi della totalità organica di un mondo umano: alla base dei processi di imbarbarimento della vita c’è la maladie stessa della vita.

4. La malattia della Vita e l’avanzamento della barbarie

Quello che ora ci interessa approfondire è la correlazione che si instaura tra la vita, la cultura e la barbarie. Questi tre termini sono senza dubbio legati e interdipendenti, nel senso che a partire dalla questione culturale si è potuto risalire al principio di possibilità che inerisce all’accrescimento di qualsiasi cultura: l’essenza della vita.

Per certi versi la duplicità del concetto di vita rende possibile un processo degenerativo che si attesta nell’ambito della pura e semplice vita biologica. L’aporia che si viene a creare tra la vita presentata da Henry e la vita proposta dalla biologia è stata già percepita da Nietzsche, che ha cercato di risolverla attraverso analisi straordinarie, e che procedono nella stessa direzione proposta nella Barbarie: lo sconvolgente sviluppo del sapere scientifico e della tecnica ha prodotto una accelerazione del decadimento della vita, della sua essenza e del suo valore fondante. È bene rilevato che è a partire dalla cultura stessa che tutto ciò si è reso possibile: se questo declino è iniziato nell’ambito culturale e se la cultura è un auto-movimento di auto-trasformazione in grado di auto-accrescersi, è necessario comprendere che questo processo è suscettibile di inversione, quindi di processi d’impoverimento. Questo è l’elemento innovativo proposto nella Barbarie: questa analisi della praxis originaria dell’auto-movimento della cultura-vita è duplice e permette oscillazioni che conducono a una degenerazione della soggettività individuale, della originarietà della vita, della corporeità legata alla vita e del rapporto tra il soggetto e il mondo. È solo ripartendo dalla vita stessa e dalla sua malattia che si potrà tentare una rivalutazione della stessa e aprire attraverso la fenomenologia materiale uno spiraglio per gli individui.

Ma in cosa consiste esattamente quella che Henry stesso descrive come una «vita malata»?24

Riprendendo il legame tra scienza e vita, si nota come il sapere scientifico non prenda in considerazione un possibile rapporto con la vita, nonostante le idealità matematiche seguendo l’approccio galileiano cerchino di ridurre l’essere a oggetto al pari degli altri, senza verificare fino in fondo il suo proprio fondamento speculativo che risiede non in idealità astratte, radicate nell’universalismo oggettivante, ma nella assoluta soggettività che rende possibile e vivifica qualsiasi produzione di senso, essendone essa stessa donatrice immediata. Se la scienza opera in base a un principio di esclusione della soggettività o peggio ancora, di riduzione del soggetto a oggettività ek-statica, si recide ogni possibilità di relazione e interscambio tra la scienza stessa e la cultura che non verranno mai a contatto, dato che si escludono reciprocamente. Per certi versi se la scienza è conoscenza, la conoscenza non si dispiega che a partire dal conoscersi immediatamente come viventi, come soggettività viventi dato che la vita è intelligibile solo a partire da sé e non attraverso mediazioni ek-statiche: la scienza dovrebbe forse ricominciare a ripensare a se stessa, non come metodologia universale oggettiva slegata dal soggetto, ma prendere atto di sé ed elaborare un metodo di ricerca che allo stesso tempo è una praxis di vita, in cui quest’ultima sia fine e non più solo mezzo tra gli altri che il mondo ci mette a disposizione.

L’idealizzazione che la scienza opera sul mondo e sull’individuo fa sì che vengano messe fuori gioco le qualità sensibili della natura, il che significa mettere fuori gioco la vita attraverso due passaggi:

  1. tematizzare la natura ridotta alle sue determinazioni ideali; questo implica da parte della scienza non tematizzare più né la vita sensibile né la vita in generale; la sensibilità, più esattamente la soggettività, di queste qualità sensibili è scartata perché la verità è universale e come tale deve essere oggettiva;
  2. ciò che giustifica questo scarto della sensibilità è una presupposizione iniziale: credere che la verità sia estranea alla sfera ontologica della soggettività vivente, anzi appartenga al contrario alla sfera dell’oggettività.

Questa presupposizione della scienza ha un doppio aspetto, positivo e negativo: positivamente designa un essere effettivo, l’essere che ci si pone davanti; negativamente questa esteriorizzazione diventa assoluta e per la scienza non esisterà altro se non la verità, intesa come ciò che è esteriore in quanto tale.

Tutto ciò genera un paradosso nella cultura scientifica perché se da un lato la scienza è un modo in cui si manifesta la vita della soggettività assoluta che le appartiene, dall’altra mette fuori gioco la soggettività stessa favorendo e radicalizzando un processo di auto-negazione della vita stessa e incentivando un modo di vita che si rivolta contro se stessa. La scienza moderna incarna questa contraddizione che si è imposta nella cultura.

Ma al fondo di questa contraddizione c’è solo un’incomprensione degli scienziati, un agire incosciente o una scelta programmatica?

La contraddizione che investe la scienza è una contraddizione fenomenologica tra la manifestazione originaria auto-donata affettivamente dalla vita stessa e la manifestazione ek-statica indagata dal metodo scientifico. Questa distorsione provoca due modalità differenti di sperimentare la vita, due modi diversi di vivere, entrambi caratterizzati da una sofferenza di fondo: sul piano ek-statico la sofferenza consiste nel negare ciò che siamo, la nostra condizione inalienabile, ma allo stesso tempo sperimentiamo una tonalità originaria della vita stessa, un soffrire primordiale che è identico alla sua essenza:

C’est dans le souffrir primordial de la vie, identique à son essence, et comme une modalisation de cette souffrir, dans la souffrance qu’il porte en lui comme l’une de ses possibilités principielle, que naît un certain vouloir, le vouloir de cette souffrance de n’être plus elle-même et pour cela de n’être plus la vie. Ce n’est pas de façon énigmatique que se produit dans la vie le mouvement de son autonégation: bien plutôt s’accomplit-il comme son propre mouvement, pour autant que, conduite à partir du Souffrir primitif dans la souffrance, plutôt que de s’abandonner à celle-ci et à sa lente mutation dans son contraire, elle croit plus simple de s’y opposer brutalement, de récuser cette souffrance et, du même coup, ce en quoi toute souffrance se déploie, le se sentir soi-même d’une subjectivité et d’une vie.25

Quello che Henry ci dice in questo passaggio è estremamente importante, l’orrore che investe la vita parte sempre dalla vita stessa:

C’est bien plutôt en elle-même, dans l’une des tonalités par laquelle elle passe nécessairement et qui sont comme les déclination de son essence que s’enracine l’idée folle de ne plus éprouver ce qu’elle éprouve, de congédier sa propre condition d’être la vie.26

La vita si sperimenta originariamente come puro soffrire, l’essere originario è pathos e ad-viene a sé come la vita, in un incessante sentirsi e sperimentarsi, non smette mai di sperimentarsi e modificarsi in una oscillazione continua che dalla sofferenza conduce alla gioia.27

Il volere eliminare la vita da parte della scienza, è un’operazione successiva, e per certi versi paradossale dal momento che le idealizzazioni su cui si regge la scienza trovano il proprio fondamento proprio su questo piano affettivo,28 che trae origine da un fatto tutto interno alla vita stessa che tenta di erigere un muro ideologico contro la sofferenza che è una tonalità essenziale della vita. La sofferenza cerca di negare se stessa e così nega la vita, ma più si affatica a negare se stessa e più si sperimenta come auto-affezione, che si prova nel Soffrire primitivo, come passività radicale e insormontabile della vita perché la vita che viene incessantemente a sé non può infrangere la sua essenza: la vita non può negare sé, un individuo vivente è «condannato» a vivere, è una condizione ineliminabile e che determina l’essenza dell’originario. La debolezza o la malattia della vita consiste nella volontà di fuggire da sé, nella incapacità di soffrirsi come vivente per poi gioirne. Lo sviluppo della scienza è da considerarsi come uno dei tentativi maggiori attraverso cui l’umanità ha intrapreso una vera e propria fuga dall’angoscia, dalla sofferenza, dalla vita che la barbarie contemporanea esalta e propone come modello sociale: l’auto-negazione del Sé che ci costringe a una solitudine inestinguibile, perché si è trasformata nell’ideologia dominante, che si condensa e manifesta nell’ideologia scientista. Questo passaggio chiarisce in modo netto la distinzione operata da Henry tra l’ideologia scientista che ha nella tecnica il suo diretto prolungamento e che si configura come tecno-scienza. Henry mette in discussione questa ideologia e non la scienza in quanto tale: nella Barbarie vengono separati questi due ambiti e viene evidenziato l’imperare del sapere scientista come verità accettata e universalmente valida della società moderna. La tecnica ormai si dà i propri fini e obbedisce alle sue proprie leggi che producono l’accrescimento indefinito di sé; per certi versi è come se la tecnica avesse, tramite l’uomo, estrapolato l’essenza stessa della vita e se ne fosse impossessata. Questo auto-accrescimento legato alla natura corporea dell’individuo è stato reciso dalla tecnica che lo ha fatto proprio sotto una prospettiva innaturale, disumana, tecnica. Si è interrotto in questo modo quel processo di Corpspropriation29 che ha costituito praticamente il legame tra il corpo e la terra, tra l’uomo e la natura svuotando il soggetto della sua interna teleologia. La tecnica è il modo attraverso cui la vita si nega, attraverso cui il soggetto cerca di opporsi alla sofferenza, il modo attraverso cui la soggettività viene smarrita in una desolante oggettività.

5. Una barbarie praticata. Ideologie e metodologie

Una cultura della barbarie ha bisogno di un radicamento ideologico forte che sia in grado di occultare le istanze proprie del soggetto, indirizzando il pensiero su ambiti avulsi alla vita e ad essa antitetici. Si indaga un oggetto, questo oggetto tende a sbalzare il soggetto fuori da sé per renderlo a sua volta oggetto di conoscenza, o meglio, oggetto di scienza, da indagare secondo due ambiti ben delineati: le scienze naturali e le scienze umane. Tematizzare scientificamente la natura significa oggi ridurla secondo una prospettiva d’indagine galileiana perdendo alcune caratteristiche fondamentali dell’esperienza conoscitiva legata al soggetto: svaniscono tutti quei dati iletici dell’esperienza stessa che si sperimentano attraverso un processo d’acquisizione auto-affettivo. La natura si trova ridotta a «correlati materiali», supposti attraverso delle idealizzazioni della fisica o della matematica.

Ben più complesso risulta tematizzare scientificamente l’uomo e i fenomeni che gli sono legati per principio, che pian piano nel corso della storia hanno intrapreso cammini divergenti e autonomi, configurando molteplici oggetti di indagine e svariate scienze atte a indagarli: basti pensare alla storia, all’economia, al diritto. Questa differenziazione tematica e di indirizzo delle scienze umane, caratterizza la cultura moderna e la condiziona in una prospettiva scientista: la molteplicità delle scienze umane non considera essenziale la vita umana come elemento unificante, al contrario l’uomo e la soggettività vengono indagati per garantire un resoconto scientifico che mette in un angolo la soggettività e definisce l’essenza dell’uomo:

Ce congé donné à la vie subjective semblait conforme aux exigences de l’objet étudié pour autant que celui-ci était confondu avec l’étant naturel, avec ce qui ne se sent ni ne s’éprouve soi-même.30

Questa determinazione oggettiva del soggetto viene fatta propria anche dalle scienze umane, che escludendo la soggettività, non fanno altro che eliminare dall’uomo ciò che costituisce la sua essenza propria e si vengono a sovrapporre le istanze teleologiche della scienza moderna, delle scienze umane e del metodo galileiano in un’unica traiettoria d’indagine:

L’intentio scientifique, identifiée une fois de plus à l’intentio galiléenne, a donc pour conséquence immédiate, en ce qui concerne ces dernières sciences, la disparition de leur objet.31

L’intentio scientifica determina con sempre maggior forza, a partire dalla prospettiva galileiana, una modalità ben precisa di tematizzare gli oggetti di conoscenza e ne determina a pieno il loro statuto fenomenologico: in primo luogo il «surgissement par soi» dell’oggetto e la sua «installation préalable» nella condizione di fenomeno; in secondo luogo la scienza che si occupa dei fenomeni nel suo atto di tematizzazione e attraverso questo medesimo atto, rende il fenomeno il proprio «oggetto-tema»:

Entre le phénomène primitif et l’objet-thème de la science une différence intervient il est vrai, différence constituée par l’ensemble des présupposés et des décisions qui définissent cette science. Par exemple la science galiléenne a choisi d’exclure de sa recherche les propriétés subjectives de la nature pour ne retenir d’elle que ses formes géométrisables […] ce que signifie la mise à l’écart de l’être-donné-à-la-subjectivité de la nature, de son être-sensible et corpsproprié, et plus ultimement de la subjectivité elle-même où la Nature trouve cependant son être originel et réel.32

Perso il senso reale del soggetto le scienze umane si vengono a scontrare secondo Henry con un problema di fondo insormontabile: oggettivato il soggetto, ci si ritrova con una scienza senza oggetto. Questo caratterizza la ricerca delle scienze umane oggi: una proliferazione di scienze sconnesse tra loro, senza una finalità condivisa, senza un tema di ricerca, senza un filo conduttore. Questa radicale autonomia ed eterogeneità dei fini implica non solo una frammentazione conoscitiva e un’instabilità metodologica ma impone una scelta di fondo che consiste nell’idealizzare le forme della natura trasformando questa irrealtà in un assioma metodologico. Questa prassi non ci consente di rispondere e indagare in maniera adeguata la modalità di donazione dell’oggetto. Risultano depotenziate quelle indagini che si interessano di approfondire le modalità attraverso cui un fenomeno si fenomenizza e ci si manifesta primitivamente. Per le scienze umane questo significa una totale indeterminazione metodologica che fa loro smarrire la relazione all’uomo, perché privato del suo sostrato soggettivo, si è persa la possibilità di comprendere le modalità attraverso cui l’uomo si fenomenizza inizialmente, si rende fenomeno e si interrompe una relazione essenziale tra il soggetto e la sua propria carne: la relazione dell’uomo all’uomo, la relazione che fa sì che un individuo sia una singolarità vivente, l’indigenza ontologica dell’uomo si riversa completamente nell’indigenza ontologica delle scienze umane. Riferendoci direttamente al testo:

La construction et la déconstruction de l’illusion objectiviste du projet galiléen appliqué a l’homme nous permettent de saisir en leur genèse intérieure ce que sont les « sciences humaines », elles sont la construction et la déconstruction de ces sciences. […] cette construction ne prend pas son point de départ dans le phénomène originel mais dans une représentation irréelle de la vie, si les caractères subjectifs involontairement retenus (le désespoir d’un suicide, l’angoisse de la corporéité, la peur de la mort) ne sont plus saisis selon l’ordre essentiel de leur fondation transcendantale ni thématisés pour eux-mêmes, si leur connaissance est réduite à un dénombrement extérieur et à la mise en évidence de la relations elles-mêmes extérieures, si le choix des paramètres qui veulent exhiber celles-ci est arbitraire.33

Allora in che modo e come è sperimentabile la conoscenza della vita? Secondo Michel Henry la vita si sperimenta a partire da sé, come praxis vivente che da un punto di vista culturale si determina nell’arte, nell’etica e nella religione. Questi tre ambiti ci permettono di sperimentare praticamente una conoscenza reale della vita che si compie come a partire dall’auto-donazione stessa della vita. Partendo da questo assunto, si capisce in che modo sia possibile rintracciare anche nelle scienze umane e nella scienza in generale una relazione flebile ancora presente nella vita. Le relazioni oggettive agli oggetti e agli altri individui che si sperimentano come rappresentazioni esterne nel loro fondo intenzionale sono sottese dal Desiderio e dal Bisogno, due elementi che si situano originalmente nella vita stessa. Nella Barbarie Henry fa ricorso a questi termini Désir e Besoin che per certi versi delineano un momento particolarmente interessante della prospettiva henryenne. Ripensare all’intenzionalità e ai suoi margini, partendo dal fondo istintuale e materiale della loro fenomenicità, facilita la comprensione della critica intrapresa dalla fenomenologia della vita nei confronti della fenomenologia di matrice husserliana e allo stesso tempo pone l’accento su alcuni aspetti prefigurati da Husserl ma lasciati poi cadere sotto l’ègida del modello intenzionalista dei fenomeni.

Questa condizione esistenziale dell’individuo contemporaneo che si sta sempre più cristallizzando attraverso il modello galileiano applicato alla scienza e da questo esportato in tutti gli altri ambiti del sapere, condiziona e determina anche la sfera politica. Un tema che trova ampia trattazione nel Marx e in Du communisme ou capitalisme e che viene trattato rapidamente nella Barbarie, tema assolutamente rilevante nella determinazione pratica della nostra società: l’autonegazione dell’individuo comporta l’autonegazione della vita stessa e l’intentio politica nella sua significazione radicale ripete il modello galileiano. Non è un caso che oggi si assista al trionfo della scienza e della politica: il superamento dell’individualità non è da intendersi come un’Aufhebung che conserva e trasforma, ma come totale soppressione della vita soggettiva. L’individuo è così ridotto alla sua pura e semplice oggettività, vengono ridotti il suo linguaggio, il suo lavoro, la sua socialità, la sua prensione sul reale, la sua capacità d’indagine e la sua stessa natura. È a questo punto che lo scenario che ci si prospetta è non solo inquietante ma allo stesso tempo catastrofico, ci sono tutti gli elementi che ci preannunciano l’instaurarsi della barbarie sul piano ideologico.

Oltre all’ideologia della barbarie la contemporaneità offre anche una dimensione pratica, delle metodologie che regolamentano e prescrivono una prassi e una pratica diffusa della barbarie:34

J’appelle pratiques de la barbarie tous les modes dans lequel cette vie s’accomplit sous une forme grossière, fruste, rudimentaire — inculte précisément, par opposition aux formes élaborées qui ne sont seulement celles de l’art, du savoir rationnel, mais qui se retrouvent à tous les niveaux de l’activité humaine.35

Che cosa si intende con forme grossolane e rudimentali della vita? Da un punto di vista teoretico si tratta di legare il sapere, che è sapere-della-vita, alla dimensione intenzionale che arriva a delineare solo concetti imprecisi e termini vuoti. Dal punto di vista pratico significa misconoscere l’essenza di quel sapere primitivo che è l’etica, ovvero la praxis. La sfera etica si costituisce a partire «dai modi di vita» dell’individuo, che non sono legati alla storia contingente o agli accidenti di un individuo ma alle abitudini connesse a uno stile di vita: l’etica non è un apparato staccato dallo stile di vita degli individui, non si costituisce a partire da altro se non dalla vita stessa di cui è coestensiva. Imbrigliare l’etica in regole normative o come rapporto tra azione e fine stravolge il senso proprio dell’etica e la porta fuori dal suo dominio specifico, nel senso che la trascina su di un terreno prettamente intenzionale, ek-statico come aveva già prefigurato Schopenhauer:

Une éthique qui voudrait modeler et corriger la volonté [= la vie] est impossible. Les doctrines en effet n’agissent que sur la connaissance, mais celle-ci ne détermine jamais la volonté elle-même.36

La determinazione dei valori inizia con la vita e per mezzo della soddisfazione dei suoi desideri e dei suoi bisogni. I valori fondamentali sono impliciti nell’esperienza originaria che la vita sperimenta da-sé e per-sé attraverso un movimento, un effort, che in questo caso designa tutt’altra cosa rispetto al vouloir: la dimensione propria del movimento è assolutamente passiva e non si può scegliere di non assecondarlo perché si tratta del Fondo in-ek-statico presupposto a ogni effort e agir che alimenta l’accrescimento e la conservazione della vita stessa. La dimensione originaria della vita è l’ambito fenomenologico proprio del fondamento, è l’operazione immobile compiuta costantemente dalla vita per garantire la propria fenomenalità nella «forma» più originale: il pathos nel quale consiste il soffrirsi primitivo che è la Vita e che si modalizza secondo le tonalità fenomenologiche fondamentali della sofferenza e della gioia. È questa la chiave interpretativa che può aprire l’individuo alla vita, che lo può risvegliare e riportare nella piena co-essenzialità della vita soggettiva e da cui per principio è impossibile sfuggire. Non si può sfuggire alla vita, non è possibile allontanarsene. Questo è uno dei temi capitali della filosofia di Henry e allo stesso tempo può diventare causa della barbarie. Infatti questa inevitabilità, impossibilità di slegarsi dalla propria vita può trasformarsi in un peso troppo grande, sia da un punto di vista teoretico ma soprattutto etico. La gravosità insita nella condizione umana aumenta nel momento in cui l’individuo non riesce più a «se supporter soi-même», non è più in grado di essere-ciò-che-è. È questo il punto in cui la cultura può rovesciarsi nella pratica della barbarie, ovvero la vita inizia a negare se stessa nel tentativo di negare la sofferenza, di allontanare il dolore che è ontologicamente connesso all’essenza stessa della vita. Così facendo la vita inizia a manifestarsi nella sua forma impura e degradata, negando teoricamente e praticamente se stessa. Per questo è la soggettività la prima sfera dell’individuo a soccombere; è grazie a questa che l’uomo sperimenta sé attraverso le tonalità affettive originarie della sofferenza e della gioia. La cultura è un terreno privilegiato dove osservare questo sconvolgimento ontologico dell’essere, la co-estensività tra la vita e la cultura dimostra come la magnificenza della vita possa generare anche il suo stesso annichilimento: se la cultura è paragonabile all’attuazione e alla manifestazione della vita stessa, secondo le sue possibilità, la barbarie diventa un’attuazione deviata delle possibilità inerenti la vita stessa causata dal rifiuto della sofferenza che in modo ineliminabile l’esistenza porta con sé. Il movimento di auto-accrescimento della vita che viene fatto proprio dalla cultura quando esplica le potenzialità della vita, libera energia — soffrire primitivo — che può essere indirizzata in due modi: come elemento positivo atto a perpetrare l’accrescimento della vita o come elemento deviato, reprimendo il potenziale insito nell’energia non impiegata. Quando questa energia non trova uno sbocco appropriato si innesca un meccanismo auto-immune, si sviluppa una forza negativa che contrasta e tende a distruggere la vita stessa: «la barbarie est une énergie inemployée».37 Fuggire da sé altro non è che il tentativo di distruggere il legame originario che ogni individuo intrattiene con la propria vita, significa più essenzialmente auto-distruggersi e lasciarsi pervadere dalla violenza nichilistica della contemporaneità che predilige e sponsorizza una cultura della morte, da intendersi come allontanamento e rifiuto di qualsiasi sofferenza. La pratica della barbarie fa leva sulla sofferenza, rifiuta ogni forma di angoscia e, attraverso una riduzione della soggettività, toglie all’individuo gli strumenti atti a elaborare il dolore, lo accoglie come facente parte della nostra essenza più intima e prospetta una univocità del dolore che va in ogni modo allontanata. L’angoscia latente nella cultura contemporanea si origina da questa insopportabilità del dolore, pensato come male assoluto dal quale non ci si può redimere, senza configurare assolutamente un’ipotesi di passaggio dalla sofferenza alla gioia. Le modalità affettive della soggettività sono pervase dalla paura del dolore, dalla possibilità stessa della sofferenza: è nel momento in cui il pathos originario della vita permane nella sua fase di sofferenza che si innesca l’arresto della vita e l’inversione della cultura come coestensiva della vita a cultura della barbarie. L’accrescimento della cultura è bloccato, perché il soffrire si è ripiegato su di sé dando origine a una nuova direttrice degradata della vita stessa, che dispiega l’incapacità per una società di darsi dei compiti a misura dei propri mezzi e veicola una regressione alla violenza e al fomentarsi di tutti quegli atteggiamenti svilenti la vita che non fanno altro se non aggravare una condizione di malessere del soggetto e più in generale della vita.

Assistiamo in definitiva all’instaurarsi di un’ideologia che si radica necessariamente su di un piano tecno-scientifico, ideologia che sembra ormai monopolista delle modalità proprie della conoscenza e del sapere. Motivo ancora più importante da sottolineare è la maniera in cui la scienza si è imposta nel corso dell’ultimo secolo come prima inter pares, riducendo tutte le altre forme di cultura a inoffensivi giochi dialettici. La ricezione della cultura scientista e positivista si è diffusa in maniera straordinaria e trasversale a tutte le categorie di individui, adattandosi, ma allo stesso tempo contribuisce in modo decisivo allo Zeitgeist contemporaneo, che sembra intenzionato a fuggire dal suo essere costitutivo, mediante l’allontanamento della sofferenza. Si tratta di un emarginamento del soggetto che trova una visibilità inarrestabile — oggi come mai nella storia dell’umanità — attraverso i media e in particolare la televisione, strumento della tecnica e paradigma pratico dell’allontanamento dell’individuo dalla vita, o meglio, strumento in grado di convogliare e canalizzare l’angoscia di uno sguardo che vuole seguire e vedere tutto ciò che non lo riguarda, strumento che trasforma e rende l’illusione sistema di riferimento.

L’analisi della dimensione pratica della barbarie, compiuta da Henry, chiarifica il presente e ci fornisce gli strumenti critici atti a ripensare i concetti di verità e temporalità: la nostra realtà è degradata verso una logica dell’azione, che genera uno svuotamento di senso. Questo vuoto tematico-significativo paradossalmente trova un riempimento sempre nuovo nell’azione priva di responsabilità, l’azione de-responsabilizzata della verità/attualità.

L’analisi perentoria che offre Henry sui media, vuole fornire, a partire da una prospettiva fenomenologica, un quadro unitario del movimento tecnico-televisivo. La televisione appartiene al mondo della scienza, più precisamente lo si può definire come uno strumento tecnologico che si inserisce nella prospettiva di crescita così come la intendiamo oggi: crescita materiale slegata da un accrescimento della vita di ogni singolo individuo. L’effettiva bontà dei mezzi tecnici offerti dalla scienza, non subisce mai una preventiva critica sulla loro effettiva necessità e utilità. Il principio che sollecita l’innovazione tecnologica sembra situarsi agli antipodi di una concreta e indispensabile necessità, arrivando al paradosso: si esalta l’inutile e lo si rende un elemento essenziale per la cultura e lo stile di vita degli individui, causando squilibri sociali, economici e ambientali che non hanno eguali nell’intera storia dell’umanità. La televisione diventa lo strumento per eccellenza di questo modello e allo stesso tempo reitera illimitatamente un progetto esistenziale privo di etica, ma cosa ancora più grave, disancorato dalla vita, utilizzata come mero strumento-oggetto. Non è possibile prescindere dalla televisione, è utile prenderla come riferimento per l’analisi fenomenologica, ma tuttavia non va assolutizzata su quest’ultima una critica che deve investire un sistema tecnologico che dagli inizi del Novecento cerca prepotentemente di sostituirsi alla realtà, anzi cerca di plasmarla nel modo più produttivo e autoreferenziale, azzerando la percezione stessa della diversità-individualità. Per certi versi dietro a questo sistema tecno-scientifico è stato possibile mascherare i limiti e le degenerazioni di un modello economico, il capitalismo, che si è affermato come il migliore dei modelli possibili, per il semplice fatto che si è dimostrato il più forte e il più cinico: dietro la televisione si nasconde un progetto di vita che riguarda l’intero assetto pratico della vita: la televisione, come sostiene Henry, è la verità della tecnica, è la pratica per eccellenza della barbarie.38

Entrando nel merito del mezzo, è limitante cercare di descriverne le caratteristiche partendo solo dal dato materiale, cioè lo strumento in sé non esaurisce tutte le sue funzioni e le implicazioni che investono l’ambito culturale in generale, e il singolo individuo nel particolare. Occorre vagliare l’orizzonte che si dispiega a partire dall’apparecchio.

La televisione fondamentalmente è una proiezione verso l’esterno, è una tecnica (téchne) sempre più efficiente di rappresentazione del reale, il suo compito specifico si potrebbe ridurre alla produzione di rappresentazioni, attinenti o meno con il reale. È bene distinguere, come suggerisce Henry, l’immagine televisiva dall’immagine estetica, che per certi versi significa distinguere tra l’arte e la pro-iezione di immagini. Anche la poesia, la letteratura, le arti plastiche producono delle immagini, ma non sono accostabili alle immagini televisive per il semplice fatto che nelle prime il legame con la soggettività viene mantenuto e difeso, anzi sul soggetto si radica il luogo veritativo dell’immagine estetica; questo genera un auto-accrescimento dell’arte stessa che si inserisce nel processo essenziale della vita, solo in questo caso si può parlare di cultura. L’immagine televisiva sradica il soggetto da sé e dal reale. Produce una serie infinita di immagini che hanno come modalità affettiva propria la noia, dovuta al fatto che l’operazione sottesa non è niente altro che l’oggettivazione della vita ridotta a immagini vuote, desolate, sterili: le immagini immediatamente si cancellano per far posto ad altre immagini che vivono e si radicano sulla loro attualità, sull’evanescenza di un «presente assente» e non di un «presente vivente» capace di garantire un legame affettivo. Risultano a questo punto evidenti i motivi che impediscono l’instaurarsi di un legame immanente tra le immagini televisive e il soggetto; si tratta di un’impossibilità per principio, dal momento che la dimensione televisiva è per sua essenza legata a un trascendentalismo ek-statico che lascia inoperanti l’energia a cui si accennava in precedenza. Il tempo della vita non coincide mai con il tempo televisivo:

Ce qui caractérise la temporalité de ce second procès [l’auto-movimento della vita], c’est qu’elle n’est pas ek-statique, n’ayant jamais rien en elle dont elle soit séparée par la distance d’un passé ou d’un avenir, mais se temporalisant comme s’éprouvant soi-même, dans et par cette épreuve […] elle est pathos et tout entière pathos — sa temporalité n’étant rien d’autre que le mouvement de ce pathos, soit l’historial de l’Absolu en plénitude jamais rompue et comme telle ininterrompue de son souffrir et de son jouir.39

A ogni istante la vita fa prova di sé e a ogni istante questo processo accresce e completa la vita stessa; la vita richiede il proprio soddisfacimento in «ogni istante» che caratterizza la sua temporalità, che non si esteriorizza mai in un dopo o in un prima, ma continuamente si rinnova. Questo carattere affettivo viene obliato dalla cultura e sommerso dai media attraverso il ricorso costante a nuove immagini che non sono in grado di accompagnare un tale accrescimento richiesto dalla vita e lo spettatore della vita, inserito nel tempo del mondo si ritrova in un «je ne sais pas quoi faire»: a ogni istante una forza resta inoperante e nessuna delle vie offerte dalla cultura è idonea a impiegare quella forza. L’immanenza della vita viene scambiata con l’attualità dell’esistenza, i media si fanno paladini di una rincorsa dell’attualità che è attuale solo nel momento in cui se ne parla; la televisione vive grazie a questa sostituzione e ricerca sempre nuove immagini attuali per richiamare l’attenzione e non lasciare pervadere lo spettatore dalla noia, dalla ripetizione vuota di non-senso, come osserva Henry:

Dans le temps du monde ce qui s’y montre et qui […] disparaît tout aussitôt doit être aussi à tout moment remplacé par quelque chose d’autre, d’aussi inconsistant et d’aussi irréel, d’aussi vide que lui.40

L’inattualità dell’attuale è provocata da un movimento caratterizzante, cioè dal fatto che il continuo nascere e morire di immagini volge le spalle all’effettività della vita e quindi si vota spontaneamente al disfacimento, alla sparizione, all’inconsistenza, all’inerte. La finalità dell’immagine televisiva è quella di creare lo spazio, lasciare il posto a un’altra immagine, viversi come qualcosa che è destinato a rimpiazzarsi con qualcosa che non deve suscitare alcun interesse: l’essenzialità dell’interesse si colloca in questa sostituzione continua di una immagine con un’altra. Questo rompe completamente con l’esteticità nel momento in cui si apre all’ambito delle «dirette televisive»: la realtà viene scaraventata sull’osservatore senza alcuna elaborazione, senza una preparazione, tutto viene ridotto alla brutalità dell’immediato, dell’attuale, del reale rappresentato che però funziona solo nel meccanismo dell’immagine che scaccia l’immagine precedente, così una diretta interrompe e sostituisce un’altra diretta. Il filo rosso che sottende il sistema mediato è la pura e semplice incoerenza, che è il motore dell’attualità, l’attuale diventa in questo meccanismo l’insignificante:

Rien n’entre dans l’actualité que sous cette double condition de l’incohérence et de la superficialité, de telle manière que l’actuel est l’insignifiant. […] L’actuel n’est pas seulement l’incohérent et l’insignifiant, il doit l’être. Plus la télévision est absurde, mieux elle remplit son office.41

I media — dietro l’alibi dell’attualità — riescono a corrompere qualsiasi cosa toccano e saltellando da un’immagine all’altra nascondono il modo attraverso cui la società contemporanea filtra tramite stereotipi ogni idea che pretende la divulgazione e lo scambio. Questa inconsistenza prende il posto della vita che ne viene infettata e ridotta a puro guardare, distante e irriducibile allo sguardo rivolto a un’opera d’arte: l’annichilimento pervade i nostri sguardi e inebetisce lo spirito dell’individuo — che non riesce a esprimere le potenzialità interne alla vita — che è per certi versi il carnefice di se stesso avendo edificato un tempo in cui l’esistenza trova legittimità e valore «par le moyen des médias» e diventa felice di vivere non la propria vita, rifiutata e degradata, ma la vita di qualcun altro che si racconta, si confida, si spoglia e fa l’amore al posto dello spettatore.

Le pratiche della barbarie hanno influenzato non poco il modo di pensare e i modelli di vita di intere generazioni e sembrano destinate e vogliose di espanderle ancora di più, basti pensare agli investimenti nelle trasmissioni satellitari, capaci di rappresentare in tutto il mondo le stesse immagini ininterrottamente.

Il problema evocato dalle riflessioni di Henry, prende spunto dalla distinzione tra cultura e progresso, apre a un ripensamento radicale del modello televisivo di vita che ci viene offerto alla stregua di un prodotto: si deve pensare a una «filosofia della cultura» che riformi prima di tutto l’Università e ripensi alla tradizione e alla trasmissione dei saperi, basandosi sul recupero di quelle capacità essenziali — il sentire, il comprendere, l’amare — conservate nel fondo di una «cultura della vita».

La distruzione dell’Università passa attraverso il disfacimento progressivo della cultura, l’accademia diventa specchio della società adattandosi alle esigenze del mercato e deresponsabilizzandosi dietro una apparente neutralità, che in realtà presenta un presupposto ormai palese: l’allontanamento della soggettività da ogni forma di sapere, l’estensione del metodo galileiano a ogni forma di conoscenza. Quello che preme stabilire ora è come sia stato possibile l’affermarsi di una cultura della barbarie?

6. Crisi della cultura e clandestinità. Per una ri-scoperta della vita

L’affermarsi di una cultura degradata e degradante è un dato oggettivo della contemporaneità, un dato confermato dal semplice fatto che è su questo fondamento immaginifico che si attribuisce valore alla cultura odierna:

Le trait décisif de la modernité, faisant d’elle une barbarie d’un type encore inconnu, c’est précisément d’être une société privée de toute culture et subsistant indépendamment de celle-ci.42

Questa affermazione fatta da Henry, pone un ulteriore interrogativo: se la cultura (la vita) riesce a esplicitarsi anche come maceria di sé, vive nell’inerzia della rappresentazione svuotata di senso e di «materia vivente», si pone in discussione il valore stesso di cultura? È rilevante la cultura nel processo di civilizzazione di un popolo?

La domanda che è allo stesso tempo una provocazione, richiede un chiarimento su ciò che oggi percepiamo con il termine cultura, la sua relazione alla vita e il grado di crisi che attraversa. Bisogna prendere consapevolezza del fatto che il nostro riferimento attuale alla nozione di cultura è già il frutto di una «modalità argomentativa» che appartiene a un certo trascendentalismo ek-statico che determina le condizioni a priori delle produzioni ideali e pratiche dell’essere culturale; e questo accade sin dalla classicità. Pensare alla cultura e alla sua crisi implica l’ideologia che ha prodotto questa cultura e la sua successiva crisi. Occorre ripensare a una relazione nuova tra filosofia e scienze umane, ripartendo dalla questione fondamentale del metodo, appurando se la fenomenologia classica, l’ermeneutica, lo strutturalismo o altri metodi d’indagine offrano garanzie per impedire che le analisi siano invalidate da pre-comprensioni, come rilevano autori quali Rousseau, Marx, Weber, Pareto, Freud. Tutti i discorsi che si interessano alla cultura si trovano già inseriti in una cultura antecedente e pre-comprensiva.

Bisogna in primo luogo risalire attraverso questa cultura al legame sempre presente (anche in forme degradate) tra cultura e vita: nel momento specifico occorre ripartire dal dissenso della vita con sé, dal suo allontanamento per cercare di recuperare la dimensione originaria della vita stessa e ripensare concretamente sia nel linguaggio che nella pratica a un modello culturale alternativo. La critica alla cultura non può procedere come oggi la intende la filosofia, cercando di essere una guida tra i differenti modi di percepire la Lebenswelt, un’«analisi descrittiva», perché così facendo non possiede un carattere apodittico e si limiterebbe a imitare un modello neo-kantiano del soggetto trascendentale inteso come elemento unificatore possibile per una filosofia della cultura totalizzante. Quello di cui si sta parlando «è una fenomenologia della cultura» come prospettato da Henry e puntualizzato da Rolf Kühn:

Qui ne rejette plus l’affectif et le corporel — n’invente cependant rien par rapport aux percées phénoménologiques décisives chez Husserl et Heidegger, car elle reste une thématisation de nos rapport au monde, en prenant davantage en compte le temporalité et le Moi psychique au lieu de la seule ratio abstraite.43

È necessario oltrepassare la metafisica della rappresentazione che governa i fatti della cultura e le sue crisi, bloccando una soggettività originaria negli atti sintetici delle sue rappresentazioni poetiche. Questa traiettoria filosofica ha mostrato una fragilità ontologica nel rapporto tra la verità e la ragione che si approfondisce sempre di più dal momento che viene delegittimato lo spazio vivente della verità, giacente nella sua auto-rivelazione: grazie a questa capacità originaria della vita di rivelare-Sé ci si dispiegano delle possibilità nuove di moralizzazione culturale legate al bisogno e alla forza, istanze affettive della vita; si tratta di risalire alla fonte autentica dell’agire in quanto «vivere» culturale.

Il compito della fenomenologia materiale, secondo Kühn, è di elaborare una «genealogia affettiva della fenomenalità», che sia in grado di offrire la possibilità di tutte le manifestazioni culturali sensibili come tali. La questione di fondo è capire se la scissione ormai lacerante tra il sapere scientifico iper-specializzato e la cultura (intesa come l’insieme delle potenzialità della vita) sia ancora sanabile. Tuttavia se l’unità dell’umanità deve riposare su un sapere, come crede la maggior parte della tradizione occidentale, sono ormai evidenti i rischi che si corrono edificando un sapere esclusivamente sui dati oggettivi e anonimi della scienza, nel tentativo di giustificare e regolamentare l’unità morale dell’umanità. Lo stesso Husserl presuppone un’unità morale data a partire da un’unità della conoscenza, ma questa impostazione genera non pochi problemi; si tratta di individuare una humanitas trascendentale vera e allo stesso tempo risulta difficile rintracciare realmente quelle attività costitutive: in pratica si edifica una soggettività che non è individuale, una soggettività che è direttamente dipendente da un pensiero considerato come attività creatrice e unificante dello spirito: si opera una riduzione all’intenzionalità noetica. L’operazione così descritta non fa altro che individuare una soggettività universale, che vive nell’assoluto anonimato. Il primo passo di una prassi della fenomenologia materiale consiste nel riconoscere i presupposti intenzionali della fenomenologia e ridurli alla vita soggettiva assoluta per poter gettare le basi per un logos alternativo alla logica epistemologica che non abbandona la ragione ma ne approfondisce la dimensione spirituale, detto altrimenti va alla ricerca dell’istorialità affettiva della cultura in quanto genealogia sensibile.

L’umanità non può essere inglobata in una visione unitaria e totalizzante, l’umanità non si sottomette a una visione: per afferrare la nostra vita e per certi versi il senso dell’umano, dobbiamo ripartire dalla nostra ipseità determinata, escludendo qualsiasi ego anonimo e oggettivo: l’ego lascia il posto al me. Il banco di prova della crisi della cultura è una riproposizione del problema cruciale della fenomenologia, il suo metodo sorretto dai dati noetici dell’intenzionalità. La posta in gioco è la rimessa in discussione dei limiti dell’intenzionalità stessa, che costringono a un ripensamento della manifestazione da un punto di vista affettivo: la vita soggettiva produttrice e reale non si esaurisce nelle attività della percezione, della rappresentazione e dell’oggettivazione. Questo implica che gli oggetti di conoscenza ci sono dati come dati sensoriali, come sensibilità auto-affettiva che precede la facoltà percettiva significante. Conseguentemente a quanto affermato, il mondo non è più soltanto un mondo causale, ma è un mondo che nasce da una praxis soggettiva immanente che seguendo Kühn si può definire come l’«istorialità della vita». Lo sguardo dell’intenzionalità noetico-noematica ci prospetta una modalità di conoscenza astratta, che è una modalità della vita, a partire dalla fenomenologia materiale si prende atto del fatto che esistono altre modalità della vita da rispettare: la corporeità, l’affetto, la differenza sessuale, la tradizione orale. La cultura a questo punto diventa:

La généalogie méta-historique de cette historialité intérieure, par laquelle la vie s’auto-révèle à elle-même pour pouvoir être elle-même à tout moment. La notion de culture désigne alors la vie réellement possible. […] la vie amorce en toute émotion, sensation ou impression une œuvre culturelle que l’on peut prolonger par le désir et l’effort jusqu’au paroxysme du bonheur où la vie se réjouit d’être la vie en toute sa richesse.44

La cultura riconquista una sua verità immanente come opera della parola, un linguaggio nuovo in grado di narrare il nostro pathos, ovvero l’auto-affettività che è l’essenza fenomenologica della vita. Questa narrazione sarà un movimento quotidiano, filosofico, religioso, estetico, etico, letterario che implica al suo interno un riferimento costante alla bellezza, come testimonianza dei vissuti della vita di ogni singolo individuo.

Questa esigenza di mettere in discussione un linguaggio pedagogico e un sistema culturale basato sulle cose è avvertita anche nelle Lettere luterane di Pier Paolo Pasolini che possono prendersi come esempio d’analisi letteraria, intimamente legata alla vita, quando scrive:

Il mio estetismo è inscindibile dalla mia cultura. Perché mancare la mia cultura di un suo elemento anche se spurio, magari superfluo? Esso completa un tutto: e non ho scrupoli a dirlo […] mi sono convinto che la povertà e l’arretratezza non sono affatto il male peggiore. Su questo ci eravamo tutti sbagliati. Le cose moderne introdotte dal capitalismo nello Yemen, oltre ad aver reso gli yemeniti fisicamente dei pagliacci, li hanno resi anche molto più infelici. […] Ciò mi dà il diritto a non vergognarmi del mio «sentimento del bello».

E ancora subito dopo:

Un uomo di cultura […] non può essere che estremamente anticipato o estremamente ritardato. Quindi è lui che va ascoltato: perché nella sua attualità, nel suo farsi immediato, cioè nel suo presente, la realtà non possiede che il linguaggio delle cose, e non può che essere vissuta. Il punto è questo: la mia cultura (coi suoi estetismi) mi pone in un atteggiamento critico rispetto alle «cose» moderne intese come segni linguistici. La tua cultura, invece, ti fa accettare quelle cose moderne come naturali, e ascoltare il loro insegnamento come assoluto. Io potrò cercar di scalfire, o almeno mettere in dubbio, ciò che ti insegnano genitori, maestri, televisioni, giornali […]. Ma sono assolutamente impotente contro ciò che ti hanno insegnato e ti insegnano le cose. Il loro linguaggio è inarticolato e assolutamente rigido: dunque inarticolato e rigido è lo spirito del tuo apprendimento e delle opinioni non verbali che in te, attraverso quell’apprendimento, si sono formate.45

Questo il compito della cultura presagito nel 1976 da Pasolini e questo resta ancora l’onere della cultura contemporanea: una lenta e costante opera di salvezza della vita fenomenologica pura. Attraverso la narrazione continua si apre una nuova possibilità per il soggetto, ci si può risvegliare dall’incubo di una vita senza salvezza, spossata dal nichilismo, dal pessimismo, dalla frustrazione, dalla nausea, dall’essere gettato in un mondo, dall’abbandono, dall’assurdità, dall’artificialità, dall’inumanità. Ripensare il soggetto come «me» e non come semplice io, ripensare al mondo come al «mio mondo», riappropriarsi del «tempo originario» della vita è l’esigenza imprescindibile di una società messa in crisi dal dibattito e dalle riflessioni post-moderne.

La crisi della cultura ricalca una «crisi della ragione» che ha investito il Novecento attraverso autori quali Nietzsche, Heidegger, Wittgenstein. All’interno di questa cultura della crisi è possibile e allo stesso tempo importante recuperare il messaggio di fondo della fenomenologia husserliana, quel Grund comune al pensiero fenomenologico che nonostante le diversità di indirizzo, resta un richiamo forte all’uomo-per-l’uomo:

La vera ragione della crisi odierna è la crisi della ragione, la crisi cioè nella fiducia e nella possibilità di dare significato al mondo e alla vita, attraverso un’auto-responsabilità che indica soprattutto la volontà di non cedere, di non rinunciare, a continuare a lottare per il senso dell’umanità e per il proprio senso. Se la crisi della ragione è l’indice di un processo di decomposizione della ragione teoretica nella ragione tecnica possiamo anche accettarla, ma proprio per recuperare la capacità teoretica, la capacità di guardare con occhio meravigliato prima e disincantato poi al mondo, all’uomo, alla vita di questo in esso. Ciò però significa recuperare il senso del fare filosofia, di porre domande. Il filosofo è l’uomo perennemente inappagato, alla ricerca continua del perché. E ciò non per uno sterile problematicismo inconcludente, ma per una passione euristica, per una passione per la verità e il fondamento che è volontà di consapevolezza, di coscienza desta, di vita in profondità. In questo senso il filosofo ha oggi la responsabilità di denunciare l’irrazionale, l’inumano, e insieme il compito arduo di essere la cattiva coscienza dell’uomo che si assopisce, si adagia, si lascia andare.46

La cultura che non nega la propria relazione all’essenza della vita è condannata per il momento alla clandestinità, è respinta dalla società, dai mezzi di comunicazione e dalla scienza.

Perdere la libertà di poter diventare ciò che si è, non solo è il terreno fertile per la barbarie, ma l’humus indispensabile per ogni forma di totalitarismo culturale. Occorre sperimentarsi come soggetto, occorre vivere la propria vita a costo di una seconda nascita, altrimenti la vita si trasforma inesorabilmente in morte. Questo è il rischio più grande a cui ora siamo esposti.

Questo saggio comparirà nel volume in fase di pubblicazione Dalla barbarie alla vita come auto-manifestazione. La proposta fenomenologica di Michel Henry, per l’editore Aracne.


  1. P. Capelle, Phénoménologie et christianisme chez Michel Henry, Cerf, Paris 2004, p. 63. ↩︎

  2. M. Henry, C’est moi la verité. Pour une philosophie du christianisme, Seuil, Paris 1996 [trad. it., Io sono la verità. Per una filosofia del cristianesimo, Queriniana, Brescia 1997], p. 272. ↩︎

  3. Con il termine intravedere si indica una manifestazione ulteriore, un sentire, una auto-affezione pura da intendersi come «pathos» originario. ↩︎

  4. Tra la bibliografia secondaria si consigliano i testi di: Aa.Vv., Michel Henry. Pensée de la vie et culture contemporaine, Beauchesne, Parigi 2006; Aa.Vv., Retrouver la vie oubliée, Presses Universitaires de Namur, Namur 2000; G. Dufour-Kowalska, Michel Henry, un philosophie de la vie et de la praxis, Vrin, Paris 1980. ↩︎

  5. M. Henry, La Barbarie, Grasset, Paris 1987 [II ed., Puf, Paris 2001], p. 1. ↩︎

  6. Ivi, p. 7. ↩︎

  7. Ivi, p. 9. ↩︎

  8. Questo testo fu pubblicato in Unione Sovietica nel 1932 quando la dottrina marxista si era già costituita in una scolastica determinata. Per questo secondo Henry, il testo non è stato compreso correttamente e allo stesso tempo non è stato dato abbastanza peso all’abbandono che in questo testo opera Marx rispetto all’hegelismo. In questo testo a detta di Henry, Marx fa i conti fino in fondo con l’eredità lasciata da Hegel e con la Sinistra hegeliana che ne è stata profondamente influenzata. ↩︎

  9. M. Henry, Marx I: Une philosophie de la réalité; II: Une philosophie de la praxis, 2 vol., Gallimard, Paris 1976. ↩︎

  10. Ivi, p. 39. ↩︎

  11. Ivi, p. 78. ↩︎

  12. J. Texier, Autour du «Marx» de Michel Henry est-il marxiste?, in «Revue de métaphysique et de morale», 3 (1977), pp. 386-409. ↩︎

  13. G. Sansonetti, Michel Henry. Fenomenologia. Vita. Cristianesimo, Queriniana, Brescia 2006. ↩︎

  14. M. Henry, La Barbarie, Grasset, Paris 1987 [II ed., Puf, Paris 2001], p. 14. ↩︎

  15. Ibid↩︎

  16. Ivi, p. 7. ↩︎

  17. Queste tematiche trovano una coerente esposizione nei volumi dedicati a Marx, che in questa sede saranno solo accennati. ↩︎

  18. Ivi, p. 13. ↩︎

  19. Ivi, p. 15. ↩︎

  20. Ivi, p. 22. ↩︎

  21. Ivi, p. 23. ↩︎

  22. Ivi, p. 37. ↩︎

  23. Ivi, p. 39. ↩︎

  24. Ivi, pp. 101-130. ↩︎

  25. Ivi, 119. ↩︎

  26. Ibid↩︎

  27. Ivi, p. 122. ↩︎

  28. «L’intention de connaître l’être objectif de la nature tel qu’il est en soi, indépendamment de la subjectivité qui le connaît, est suspecte s’il n’y a pas d’être-objectif sans une subjectivité qui le pose dans cette condition de l’objectivité qui est la sienne» (Ivi, p. 129). ↩︎

  29. Ivi, p. 83. ↩︎

  30. Ivi, p. 133. ↩︎

  31. Ibid↩︎

  32. Ivi, p. 134. ↩︎

  33. Ivi, p. 152. ↩︎

  34. Il senso proprio che attribuisce Henry al termine barbarie è da intendersi come direttamente legato e agente sulla vita attraverso queste pratiche: regresso verso le forme elementari e frustranti della vita; impoverimento costante della vita; sterotipizzazione e volgarizzazione della vita fino all’auto-negazione e all’auto-distruzione della medesima. ↩︎

  35. M. Henry, La Barbarie, Grasset, Paris 1987 [II ed., Puf, Paris 2001], p. 165. ↩︎

  36. Ivi, p. 167. ↩︎

  37. Ivi, p. 177. ↩︎

  38. Ivi, p. 190. ↩︎

  39. Ivi, p. 191. ↩︎

  40. Ivi, p. 192. ↩︎

  41. Ivi, p. 196. ↩︎

  42. Ivi, p. 241. ↩︎

  43. R. Kühn, Crise de la culture et vie culturelle, in «Retrouver la vie oubliée», Presses Universitaires de Namur, Namur 2000, p.142. ↩︎

  44. Ivi, p. 153. ↩︎

  45. P.P. Pasolini, Lettere luterane, Einaudi, Torino 1976, pp. 40-41. ↩︎

  46. E. Baccarini, La fenomenologia. Filosofia come vocazione, Studium, Roma 1981, pp. 1-2. ↩︎