Recensione a Giuliano Sansonetti, Michel Henry. Fenomenologia Vita Cristianesimo

Giuliano Sansonetti, Michel Henry. Fenomenologia Vita Cristianesimo, Morcelliana, Brescia 2006.

Il testo di Giulano Sansonetti si presenta come una monografia sul pensiero di Michel Henry. È opportuno rilevarne sin da principio la grande completezza sia da un punto di vista teoretico che storiografico; ciò significa che nel testo vengono ripercorse le problematiche fenomenologiche dell’autore a partire dal suo testo più importante L’essence de la manifestation (1963), sino ad arrivare all’ultimo lavoro terminato dall’autore poco prima di morire Paroles du Christ (2002) [trad. it., Parole del cristo, Queriniana, Brescia 2003]. La ricerca poggia essenzialmente — come afferma lo stesso Sansonetti nell’introduzione — sulla necessità di chiarire e articolare correttamente il pensiero di Henry che si riassume nella tesi secondo cui esiste un modo di manifestazione del tutto irriducibile alla visibilità, invisibile com’è la Vita nella sua essenza, invisibile come l’affettività che forma la stoffa stessa della Vita: Vita dunque che si manifesta nell’affettività e come affettività (cit., p. 8). Il testo è diviso in tre parti che trovano un sostrato connettivo stabile articolanto sulla questione di fondo presente in tutta la fenomenologia di Henry: la vita.

Nella prima parte, che si intitola Una fenomenologia della vita e della carne, vengono analizzati gli aspetti fondanti la riflessione fenomenologica di Henry. Il testo di riferimento per questa sezione è L’essence de la manifestation indagato in maniera estremamente puntuale. Si parte dal problema del monismo ontologico che definisce immediatamente il carattere ontologico della ricerca di Henry. Si riprende in prima battuta la critica rivolta da Heidegger alla soggettività edificata da Descartes di cui condivide l’ambito critico di ricerca, rappresentato dall’ego, ma non le prospettive delineate dallo stesso Heidegger in Sein und Zeit. Infatti nella prospettiva henriniana è l’ego a reggere il piano ontologico, non il Dasain. Il punto di radicale dissenso, come sottolinea l’autore, si focalizza sulla questione dell’evidenza, che per Descartes è inerente alla certezza immediata dell’ego, cioè, deve potersi mostrare da sé senza il ricorso a una preliminare determinazione del senso dell’essere in generale, alla sua verità. Questo l’aspetto essenziale a cui fa riferimento Henry. Lo stesso, così facendo, rovescia i termini dell’impostazione heideggeriana: «Henry giunge ad affermare che all’analitica esistenziale non spetta puramente un primato metodologico bensì ontologico. […] Contro tutta una tradizione di pensiero che da Kant giunge sino a Heidegger, secondo la quale non è possibile conoscienza dell’io al di fuori di quella del mondo, per Henry deve potersi dare una “conoscenza assoluta” dell’io, non soggetta cioè alle condizioni trascendentali che rendono possibile la conoscenza del mondo: questo è precisamente quanto L’essence de la manifestation intende provare» (p. 19). Questa citazione chiarisce il senso del titolo dell’opera maggiore di Henry: essenza della manifestazione è da intendersi come «fondamento» della manifestazione senza alcun rimando metafisico, non si tratta come giustamente sottolinea Sansonetti del Satz vom Grund verso cui si dirige la critica heideggeriana. Tuttavia nel continuo confronto operato da Henry rispetto alla prospettiva heideggeriana si nota come il problema per quest’ultimo resti sempre su di un piano ontico: in Heidegger non è la struttura interna della manifestazione ad essere messa in causa, egli pensa all’esteriorità nella sua purezza, ma l’essenza della manifestazione per lui risiede nell’esteriorità come tale (cfr. p. 27). L’essenza della manifestazione è pensata sempre in termini oppositivi sia dalla filosofia dell’essere, sia dalla filosofia della coscienza; in ciò si può circoscrivere il senso del monismo ontologico: l’essenza della manifestazione implica la produzione di un orizzonte di manifestazione entro cui l’ente possa manifestarsi: la manifestazione stessa viene a identificarsi con la visibilità dell’ente in un dehors, nel fuori del mondo. Questo aspetto viene a confluire con il problema della ricettività: secondo Henry esistono infatti due tipologie di ricettività. La prima forma di ricettività riceve la forma dell’orizzonte (rappresentazione); la seconda invece riceve se stessa (immanenza). Entrambe appartengono all’essenza, anche se effettivamente esistono differenze sul piano ontologico tra le due forme di réceptivité. La determinazione dell’essenza della manifestazione come «immanenza» è ciò che Henry sostiene nel § 30 dell’Essence: più originaria dell’essenza della manifestazione come trascendenza è la sua determinazione come immanenza che costituisce il fondamento stesso della trascendenza. L’immanenza deve intendersi secondo Henry come «ricettività originaria» (cfr. p. 30) dal momento che propria dell’autonomia (Selbständigkeit) dell’essenza è la ricettività originaria: l’auto-affezione. La questione centrale che si articola a partire dal problema della ricettività è la possibilità stessa del concetto di immanenza: solo se si fornisce una determinazione positiva dell’immanenza, solo se l’immanenza risulta autonoma nella sua struttura, sarà possibile una rivelazione «diversa» da quella operata dalla trascendenza (cfr. p. 31):

l’affettività rivela l’assoluto, in quanto rivela assolutamente. In tale rivelazione assoluta dell’assoluto, nell’affettività, l’assoluto sorge e s’istorializza nella sua assolutezza (cit., p. 85).

Altrettanto centrale è la riflessione sul tema del corpo e della corporeità iniziata da Henry in Philosophie et phénoménologie du corps e proseguita lungo tutta la sua riflessione fenomenologica. L’essence de la manifestation, giungendo alla determinazione dell’affettività come «essenza specifica» della manifestazione e dell’ego, ha posto le premesse per una completa riformulazione del tema del corpo dato che: «il corpo, nella sua natura originaria, appartiene alla sfera d’esistenza che è quella della soggettività» (cit., p. 88). Tale problematica trova in Main de Biran l’interlocutore privilegiato della riflessione fenomenologica sul corpo di Henry: «ciò che costituisce l’essenza dell’ipseità, dell’egoità è l’interiorità della presenza immediata a se stessa» (cit., p. 90); questo secondo Sansonetti è il significato essenziale da rintracciare nel cartesianesimo, il quale trova espressione compiuta nell’affermazione di Biran: «il sentimento dell’io è il fatto primitivo della conoscenza» (cit., p. 90).

La corporeità così come viene concepita da Henry va letta attraverso la chiave interpretativa della passività originaria, ciò che nel linguaggio husserliano viene definito come la sfera delle «sintesi passive». La riflessione radicalizzata operata da Henry fa emergere tuttavia l’insufficienza di fondo presente nel pensiero dello stesso Main de Biran, al quale manca un’ontologia positiva della passività. Henry invece fornisce una definizione di soggettività trascendentale che fa tutt’uno con la nozione di «corpo soggettivo»: «a situare il corpo originario stesso è la soggettività intesa non come il rapporto trascendentale dell’essere-nel-mondo ma nella sua struttura interna, come immanenza» (cit., p. 102).

La seconda parte del testo si apre con la sezione dedicata a La vita nelle avventure e disavventure della modernità. Il primo aspetto a essere preso in considerazione è la vita intesa come prassi soggettiva, con esplicito riferimento al pensiero di Marx. L’intento di Henry sottolineato nel testo è quello di leggere Marx per la prima volta, cercando di evitare quei fraintendimenti che nel corso della storia hanno caratterizzato la ricezione di uno dei filosofi più influenti della modernità (cfr. p. 108).

Nel testo si fa riferimento ai due tomi del Marx scritti nel corso di un decennio. La lettura fornita da Henry è anti-strutturalista e anti-storicista, nello specifico l’attenzione è focalizzata sulla funzione strategica che L’ideologia tedesca assolve nell’itinerario speculativo di Marx. Henry rileva nel pensiero marxista una concezione assai diversa del concetto di realtà: «la realtà non va identificata con un’ontologia dell’oggettività. […] i concetti fondamentali del marxismo [forze produttive e classi sociali] non sono affatto i concetti fondamentali di Marx» (cit., p. 111). A essi subentrano secondo Henry a partire dall’Ideologia tedesca quelli di: individuo, soggettività, vita e realtà intesi nella loro dimensione tipicamente ontologica. La questione inerente la realtà trova nel ripensamento operato da Henry su Marx prospettive del tutto inedite che per la prima volta vengono approfondite in maniera esaustiva in un testo critico italiano. Un concetto essenziale analizzato da Henry e fondamentale nella riflessione di Marx è quello di «genere» (Gattungswesen) che risulta ancora debitore e determinato dal pensiero hegeliano. La questione che interessa sottolineare a Henry è pur sempre il concetto di «realtà» che viene ossessivamente ricercato da Marx a causa della difficoltà di fornirne una definizione empirica, difficoltà non rilevata dalla vulgata marxista che spesso ha fatto un tutt’uno del realismo e del materialismo. Già dal manoscritto del ’42 Henry estrapola una prima approssimazione del concetto di realtà insito in Marx, vale a dire, una realtà identificatesi con una prassi, o meglio, una vera e propria «prassi soggettiva» che si oppone a una concezione strettamente teorica, dunque formale, del concetto di realtà. Ciò spiega perché nell’Ideologia tedesca l’espressione «attività sensibile» compaia sempre meno per far posto a quella di «individui agenti», «individui viventi». La prassi nella sua radice è essenzialmente soggettiva e trova nell’immanenza la sua struttura coerente. Più in generale si può riprendere un’affermazione dello stesso Henry che definisce in maniera netta la questione: «L’ideologia tedesca si fonda totalmente sull’opposizione di realtà e rappresentazione» (cit., p. 138). Da qui scaturisce la necessità di ribadire la sostanziale eterogeneità di realtà e rappresentazione: l’essenza del reale è la prassi, l’essenza della rappresentazione è la coscienza. La prassi soggettiva si radica nella sfera dell’immanenza, la rappresentazione invece indica la sfera della trascendenza, dell’esteriorità. Come afferma lo stesso Marx nel 1845: «ciò che oppone alla semplice rappresentazione è la vita» (cit., p. 139).

Alla luce di queste considerazioni vanno lette le critiche presenti nel secondo volume del Marx a una filosofia politica che si struttura come prassi alienante rispetto alla vita. Nello specifico risulta decisiva un’affermazione più strettamente economica rilevata da Henry: «l’opposizione tra capitale variabile e capitale costante è quella decisiva poiché non è economica — è ontologica — e differenzia in modo radicale nella stessa realtà l’elemento vivo da quello morto» (cit., p. 165). Henry denuncia una mistificazione presente alla base del capitalismo stesso che riduce il lavoro a forza lavoro misurabile attraverso la compensazione salariale; così facendo non viene più considerato quel plus-valore identificabile con l’elemento propriamente soggettivo del lavoratore: «il profitto è la forma mistificata assunta dal plus-valore allorché viene riferito al capitale invece che alla soggettività» (cit., p. 169).

È utile riportare un’aporia rilevata da Henry che delinea in maniera chiara la sua prospettiva economica e politica, dato che entrambe condividono l’impianto aporetico proprio delle società democratiche: «è questa aporia (il senso effettivo della democrazia) che ha dato origine all’invenzione politica, come l’impossibilità di misurare il lavoro vivo, aveva dato origine all’invenzione dell’economia». (cit., p. 184). Il superamento di questa ipocrisia insita nel concetto stesso di democrazia è possibile solo nel momento in cui la politica ritrova la sua sostanza nella vita (cfr. p. 184).

Nella stessa sezione viene affrontata la questione legata all’io e dell’inconscio nella prospettiva della vita come auto-manifestazione, come fenomenologia dell’invisibile. Questo approccio denota immediatamente i limiti della psicoanalisi: si pone a detta di Henry in profonda continuità con la vicenda moderna, con la filosofia della coscienza che prende le mosse dal giovane Hegel fino ad arrivare alla «fenomenologia dell’inapparente» di Heidegger. Il testo a cui Sansonetti fa riferimento rispetto alle peripezie dell’io moderno è Genealogia della psicoanalisi in cui viene ripreso il cominciamento cartesiano con le sue diverse articolazioni, fino dell’Ich denke kantiano che comprende l’io sotto un’ottica prettamente formale — una pura unità logica. Gli interlocutori presi in considerazione da Henry nella Genealogia della psicoanalisi sono essenzialmente tre: Schopenhauer, Nietzsche e Freud. Nello specifico, i primi due autori contribuiscono al ripensamento della vita come elemento essenziale dell’originario, superando il «soggettivismo vuoto» a cui era pervenuto Kant. Per questo motivo Henry istituisce un legame profondo tra Schopenhauer e Nietzsche dal momento che: «sono i due caratteri essenziali della vita, l’immanenza e l’affettività, che il pensiero di Nietzsche pensa fino in fondo, pur senza farne un tema esplicito d’analisi e lasciandosene piuttosto trasportare» (cit., pp. 208-209).

Il pensiero di Nietzsche e quello di Schopenhauer si indirizzano sulla stessa traiettoria che permette all’essere — attraverso la volontà — di ricevere in modo esplicito il senso d’essere della vita, ossia l’immanenza, l’originario. Tuttavia l’interpretazione che Henry esplicita a partire dal concetto di volontà così come è stato delineato dai due autori, seppur con metodologie e implicazioni diverse, tende a configurare la volontà stessa attraverso una dimensione estatica della conoscenza e della verità. La critica al prospettivismo nietzscheano immette direttamente nell’ambito della problematica freudiana dell’incoscio che diviene, suo malgrado, un occultamento dell’immanenza stessa della vita che viene esplicitata attraverso la teoria della «rappresentanza delle pulsioni», relegando la pulsionalità in una dimensione rappresentativa che ne tralascia la parte costitutivamente affettiva:

proprio perché la vita trascendentale si rifiuta per principio alla vista di un vedere e le sottrae la sua realtà, il metodo fenomenologico sostituisce d’istinto a tale realtà che gli sfugge la sua «essenza» che, come trascendenza, è invece suscettibile di essere vista (cit., p. 235).

Nella terza e ultima parte del lavoro — Tra cristianesimo e nuova barbarie — l’autore prende in esame la riflessione critica di Henry sulla cultura contemporanea indagata nel testo La barbarie; qui viene posto l’accento sulla dicotomia profonda tra cultura e scienza dal momento in cui quest’ultima (sapere scientifico) si è posta in antitesi con la vita divenendo un’ideologia finalizzata all’affermazione di un pensiero prettamente tecno-scientifico che aliena l’individuo non solo dalla vita ma dalla sua stessa ipseità.

Le ultime riflessioni presenti nel volume critico coinvolgono il trittico cristiano, momento finale della riflessione henriniana, nel quale l’autore francese si confronta fenomenologicamente con il cristianesimo analizzando le questioni fondamentali della rivelazione, dell’incarnazione, del Verbo inteso come Vita. Particolare attenzione è dedicata al Prologo di Giovanni in cui il Cristo si rivela come Via, Verità e Vita. La connessione ontologica tra questi tre termini è l’elemento che interessa la riflessione di Henry che vede nel cristianesimo una possibilità per uscire dall’oblio in cui l’essere umano ha fatto precipitare la Vita: l’uomo ha abbandonato la sua condizione di Figlio. Un recupero della vita risulta necessario e viene auspicato dallo stesso Henry; non a caso parla di «seconda nascita», che vuole essere un superamento della condizione di imperturbabile alienazione in cui soggiace il soggetto moderno. Solo a quel punto diviene comprensibile il linguaggio del Verbo che Henry fa coincidere perfettamente con il Logos originario della Vita. Le parole del Cristo sono comprensibili come parole di vita, da qui prende atto la dicotomia profonda tra la «parola della vita» e la «parola del mondo» (cfr. p. 306). Le ultime pagine del testo focalizzano le tematiche presenti in Paroles du Christ e descrivono esaustivamente il legame tra Parola e Vita:

poiché la Parola della Vita detiene l’inconcepibile potere di dare la vita, essa è un’azione, l’azione di dare la vita, di generarla nella nascita intemporale di ogni vivente, di risuscitarla quando essa non è più (cit., p. 307).