Recensione a Gioacchino Molteni, Introduzione a Michel Henry. La svolta della fenomenologia

Gioacchino Molteni, Introduzione a Michel Henry. La svolta della fenomenologia, Mimesis, Milano 2005, 290 pp.

La fenomenologia storica incentrata sul puro atto intenzionale, spoglia dei vissuti, è da considerare una celebrazione di un atto «di vedere» che risulta in sé vuoto e incapace di qualsivoglia visione effettivamente pura? Il nucleo argomentativo dell’opera si articola a partire da questo interrogativo che riguarda e interessa l’intera fenomenologia e che si pone come termine di confronto con il tentativo operato nell’ambito della fenomenologia materiale da Michel Henry, il quale recupera l’essenzialità dei vissuti, di ciò che si rivela anteriormente ad ogni sguardo o atto opponente il soggetto all’oggetto. Dal problema stesso della fenomenologia tradizionale, quella di stampo husserliano, scaturisce il discorso che Gioacchino Molteni articola in tre momenti essenziali.

Nel primo (Merleau-Ponty. Da Husserl all’ontologia), l’autore prende in considerazione l’ultimo Merleau-Ponty, la cui analisi risulta utile a evidenziare come già nello stesso sia presente una critica sostanziale all’intenzionalità husserliana, che si caratterizza come «coscienza di», che si fonda sul concetto di corpo così come lo intende Merleau-Ponty nell’ambito della riflessione fenomenologica, divergendo dall’analisi che lo stesso Husserl opera sulla questione medesima. Sempre per quanto riguarda la filosofia di Merleau-Ponty, l’autore con rigore e precisione evidenzia come la filosofia riflessiva risulti aporetica e rintraccia i contributi essenziali sintetizzabili come: critica della coscienza intenzionale, rapporto cose/mondo, inversione del rapporto tra il soggetto interrogante e l’essere interrogato, il ruolo essenziale dello stupore. Tuttavia, come viene rilevato da Molteni, la riflessione operata da Merleau-Ponty riguardo l’ambito pre-riflessivo giustifica l’attinenza del riferimento alla fenomenologia di Henry e anzi ne marca la diversità: «il pre-riflessivo di Merleau-Ponty resta confinato all’interno delle linee perimetrali che erano state disegnate per l’antico: è un pre-riflessivo ancora modellato sulla struttura e sulle esigenze della riflessione, pensato di nuovo come relazione alle cose» (p. 72). L’elemento che per certi versi Henry rintraccia nel lavoro di Merleau-Ponty è il suo ritorno all’Essere o meglio il riportare l’Essere stesso alla sua sorgente originaria, da considerare finalità stessa della ricerca specificatamente henriniana che si configura come struttura ontologica del sentirsi.

Nella seconda parte (M. Henry e Husserl. Phénoménologie materiélle) si articola un interessante e ben strutturato confronto-rapporto-scontro tra la fenomenologia noematica di Husserl e la fenomenologia materiale di Henry. Il problema viene affrontato dall’origine: si considera la manifestazione stessa dei fenomeni e ci si sposta lungo l’intero iter della fenomenologia classica. Particolarmente attento l’esame delle Lezioni del 1907 tenute da Husserl a Goettingen, raccolte principalmente nel testo Idée de la Phénoménologie. In questa parte vengono ripercorse le problematiche sollevate dalla ripresa henriniana dei fondamenti fenomenologici così come sono stati strutturati nell’ambito della filosofia intenzionale, esclusivamente poggianti sulla struttura trascendentale della coscienza intesa sempre come atto intenzionale rivolto verso l’esteriorità e utilizzante il medium rappresentativo come strumento conoscitivo per eccellenza. Ciò che emerge con forza è l’unilateralità manifestativa husserliana che si scontra con l’assunto principale di Herny, il quale rintraccia e giustifica fenomenologicamente due diverse modalità di manifestazione dei fenomeni: l’ambito del visibile e quello più originario dell’invisibile. Trova spazio in questo paradigma problematico il dispiegarsi del nucleo teoretico della riflessione ontologica di Henry, trovando la sua radicalità nel concetto di auto-manifestazione che rimanda e fonda un rovesciamento della fenomenologia nel tentativo di edificare una fenomenologia non-intenzionale.

Emerge in tutta la sua gravità il paradosso storico della fenomenologia husserliana, l’impossibilità fenomenologica che si struttura a partire dal suo stesso fondamento: l’atto intenzionale inteso esclusivamente come puro vedere non è in grado di vedere nulla; detto altrimenti, la coscienza intenzionale, che rende i vissuti intenzionali delle pure e semplici oggettività, non può garantire la propria autonomia investigativo/veritativa dal momento che non è in grado di auto-fondarsi. Il principio fenomenologico individuato da Husserl non sembra in grado di fondare in primo luogo se stesso, di auto-rivelarsi come fenomeno immanente della coscienza. Il problema sotteso è quello del rapporto trascendentale che si erge a metodica essenziale nella fenomenologia classica; la trascendenza risulta dall’analisi di Henry incapace di portarsi autonomamente a manifestazione, cioè necessita di un qualcosa che si pone in un ambito ontologico più originario, che non richiede alcun rimando ad altro da sé. A partire da questa considerazione prende corpo un’analisi sul carattere affettivo di ogni atto intenzionale che prospetta una nuova forma di manifestazione in cui non è determinante la creazione di una distanza che ricadrebbe sempre in uno spazio ontico. La distanza fenomenologia, cioè l’apertura di uno spazio dell’orizzonte fenomenologico di conoscenza, è considerata come il principio di possibilità di qualsivoglia atto o ambito conoscitivo.

Infine nella terza parte (M. Henry. L’essence de la manifestation. La manifestazione come automanifestazione, immanenza e affettività originaria) si ripercorrono le tappe speculative essenziali del testo più complesso di Michel Henry, L’essence de la manifestation del 1963. L’autore garantisce un’approfondita analisi delle problematiche attinenti l’ambito trascendentale della fenomenologia, evidenziando con Henry gli «scacchi» della trascendenza nell’ambito della ricettività dell’orizzonte manifestativo, del rimando stesso della trascendenza all’immanenza, del rapporto originario tra immanenza e affettività, e le implicazioni stesse di una fenomenologia non-intenzionale da considerare eminentemente affettiva. Utili le prospettive di confronto aperte con Kant, Heidegger e Scheler. Risulta altresì importante la chiarificazione dei rapporti e delle connessioni esistenti tra l’ambito affettivo e l’azione, le diverse tonalità affettive, la sofferenza e la gioia e la sostanziale unità tra affettività e assoluto.

L’organicità del testo e la soddisfacente analiticità argomentativa garantiscono a questa introduzione al pensiero fenomenologico di Michel Henry un buon compendio, nell’ambito di una bibliografia sullo stesso ancora non soddisfacente per quanto riguarda le pubblicazioni esistenti in lingua italiana.