Sapere e conoscenza. Dai riti iniziatici alla filosofia platonica

Per quanto l’uomo possa espandersi con la sua conoscenza, apparire a se stesso obiettivo, alla fine non ne ricava nient’altro che la propria biografia.

— Nietzsche1

1. Il topos del sapere

Colli nel suo libro La Nascita della Filosofia dice:

Platone chiama «filosofia», amore della sapienza, la propria ricerca, la propria attività educativa, legata a un’espressione scritta, alla forma letteraria del dialogo. E Platone guarda con venerazione al passato, a un mondo in cui erano esistiti davvero i «sapienti». D’altra parte la filosofia posteriore, la nostra filosofia, non è altro che una continuazione, uno sviluppo della forma letteraria introdotta da Platone; eppure quest’ultima sorge come un fenomeno di decadenza, in quanto l’amore della sapienza non significava infatti, per Platone, un’aspirazione a qualcosa di mai raggiunto bensì tendenza a recuperare quello che già era stato realizzato e vissuto.2

Qui ci ricolleghiamo dunque all’Erlebnis di Nietzsche. Per Nietzsche, come per Platone, la vera sapienza è il ricollegarsi a quello che si sapeva già, alla propria esperienza esistenziale:

Per quanto grande sia l’avidità della mia conoscenza, non potrò estrarre dalle cose nient’altro che già non mi appartenga, mentre ciò che possiedono gli altri resta nelle cose … In definitiva, nessuno può trarre dalle cose nient’altro che quello che sa già, chi non ha accesso per esperienza a certe cose, non ha neppure orecchie per udirle.3

Per Nietzsche, ricollegarsi è sinonimo di autenticità.

Quando Platone fa dire a Socrate che «ogni acquisizione di conoscenza non è altro che un riallacciarsi a qualcosa che si sapeva già» (Faed., 72e), attribuisce a questo sapere un’istanza topica differente da quella del corpo, e crea così una provincia psichica separata che definisce anima. Se il sapere esisteva prima, ovvero prima del corpo, non gli appartiene, è staccato da questo e ci si può ricollegare al primo solo sbarazzandosi del secondo. Attraverso il postulato che esista una conoscenza anteriore, Platone arriverà a riconoscere l’esistenza dell’anima e la sua immortalità (73a). La conclusione platonica sarà l’esatta antitesi di quella di Nietzsche, poiché la conoscenza per questi è solo quella che appartiene al corpo, ma erano partiti entrambi dalla stessa tesi: qualsiasi cosa l’uomo impari la può trarre solo dalla propria interiorità, la propria esperienza esistenziale.

Una leggenda ebraica4 racconta che la ragione per la quale l’uomo, prima di nascere, deve passare nove mesi nel ventre della madre è che lì l’arcangelo Gabriele gli insegna tutta la Torà, quella scritta e quella orale. Per nove mesi, con una candela accesa sulla testa, l’uomo impara tutta la Legge e, solo quando è pronto, può uscire alla luce del mondo. Un istante prima della nascita l’angelo gli spegne con un soffio la fiammella e il bambino dimentica tutto: tutta la sua vita dovrà essere dedicata allo studio della Torà, a cercare di ricordarsi quello che aveva già imparato. Gli viene spenta la fiammella che portava sulla testa nel ventre della madre e questa viene sostituita dalla luce del mondo esterno. Nei meandri oscuri del ventre materno aveva una luce interna, questa si spegne e al suo posto viene la luce del sole, abbaglia invece di illuminare. Per questo, continua la leggenda ebraica, il neonato piange al momento della nascita, poiché ha dimenticato tutto e dovrà dedicare tutta la sua vita a cercare di ricollegarsi faticosamente al sapere perduto.

Il neonato piange poiché non sa più.

La tradizione ebraica dice, inoltre, che Dio diede a Mosè sul monte Sinai, nei quaranta giorni della sua permanenza, non solo la Legge scritta, ma bensì anche tutta quella orale, la Mischnà, il Talmud, i Commentari, i Responsa dei rabbini, tutto il sapere attuale e anche quello che verrà composto secoli e millenni dopo, e lo scopo di tutto lo studio e delle discussioni nelle scuole e nelle yeshivot5 è quello di riscoprire, attraverso il pilpul6 e il confronto intellettuale, quello che Dio aveva dato a Mosè.

Per gli ebrei, come per gli antichi greci, la vera sapienza è dunque non quella «inventata», bensì quella ricuperata. Sapienza, filosofia e esperienza esistenziale erano un’unica cosa.

Solo quando la propria esperienza esistenziale viene rimossa e l’inconscio la proietta all’esterno, avviene una divergenza tra questa, che viene definitivamente relegata all’inconscio, e la sua proiezione esterna, che diventa filosofia.

La nascita della filosofia, come questa viene concepita dal V sec. a.C. in poi, è dunque una conseguenza della rimozione.

L’oracolo di Delfi nel suo «conosci te stesso», intendeva dunque: prendi contatto con te stesso, con la tua vera essenza. Ma questo lo diceva quando questo contatto con se stessi era già stato rimosso, quando la «soluzione apollinea» aveva preso la preminenza su quella dionisiaca. Da qui anche, con le parole di Colli, «il carattere esteriore dell’oracolo: l’ambiguità, l’oscurità, l’allusività ardua da decifrare, l’incertezza».7 Queste caratteristiche dell’oracolo di Apollo sono quelle di ogni materiale rimosso, che viene, per mezzo di queste, mantenuto tale.

Apollo, il dio della luce e del sole, parla per enigmi, in maniera oscura.

Quando l’uomo esce alla luce del sole gli viene spento il lume della conoscenza e allora vede ma non sa più niente, deve imparare tutto di nuovo. Il sapere viene associato non alla luce ma alle tenebre del ventre materno, all’oscurità dei responsa della sacerdotesa di Apollo, e più tardi alla grotta oscura della similitudine platonica, anche se solo attraverso un’inversione.

2. Orge e iniziazione

Nelle tribù primitive chi si avvicina ai segreti, ai tabù del clan, senza esserne degno, viene colpito da morte. Gli arcaici riti d’iniziazione delle antiche tribù greche, agli albori della nascita della filosofia, erano stati superati, ma le loro tracce si erano conservate a due livelli: il mito orfico che parla dello sbranamento di Dioniso da parte dei Titani, e l’oracolo, che si ricollega ad Apollo. Non a caso la sorte di Dioniso è di venire sbranato dai Titani e di risorgere, come l’arcaico dio totem che viene ucciso, divorato e fatto risorgere, condensazione di dio-padre e di dio-figlio che si identifica con lui.8

L’iniziazione dionisiaca non è altro che la ripetizione dell’orgia pulsionale primordiale, in cui tutti gli impulsi erotici, prorompenti dall’Es, avevano trovato soddisfazione nella scarica ininibita dell’orda fraterna.9

Il rito d’iniziazione, nella sua seconda epifania, ci si presenta come un’istantanea fotografata nel campo degli Achei sotto le mura di Troia e ai piedi del tempio di Apollo: qui il dio terrorizza i giovani iniziati, è il dio il cui nome significa «colui che distrugge totalmente».10 Omero lo chiama: «Il dio che colpisce da lontano» (Il., I/1).

Come è stato rilevato dagli antropologi che hanno studiato da vicino i riti d’iniziazione delle tribù selvagge contemporanee, in Africa, in Australia e nelle Americhe, i giovani novizi passano settimane relegati e terrorizzati dagli adulti o dallo stregone, che li minacciano di morte se sveleranno agli estranei i segreti del clan, da lontano, ovvero, da dietro maschere terrificanti. In questo lasso di tempo vengono anche istruiti su questi segreti. Attraverso i riti d’iniziazione puberali, i giovani vengono simbolicamente uccisi e rinascono con una nuova identità, quella dei padri. Solo dopo verrà loro concesso il primo rapporto eterosessuale.11 Lo stesso avveniva tra le arcaiche tribù greche. Attraverso il processo d’iniziazione, una conoscenza «dionisiaca», che è l’insieme del proprio essere pulsionale, viene rimossa e sostituita da una conoscenza «apollinea», insegnata da un Apollo, i cui insegnamenti, in questo stadio, sono sinonimo di trauma che induce alla rimozione. Apollo rappresenta la generazione degli adulti che terrorizzano i nuovi iniziati, prima di comunicare loro i segreti della tribù.12 Così va anche capita la scena con cui apre l’Iliade. Elena, la donna dietro le mura di cinta della città è il premio agognato che riceveranno i novizi se supereranno le prove e il terrore di Apollo.13

Col tempo, un nuovo tipo di Apollo si trasfigurerà da questo.

La sapienza apollinea non è quindi come quella dionisiaca, che è l’erompere sconnesso della conoscenza di sé, come un’eruzione vulcanica spontanea, bensì è quella impartita dagli adulti della tribù alla nuova generazione e viene acquisita attraverso l’identificazione di questa con quella dei padri. In questo stadio il volto di Apollo è ancora minaccioso, terrificante. Il dio colpisce con l’arco e le frecce e da lontano.

Con la metamorfosi della società greca da tribale in una struttura a polis, anche il volto di Apollo e la sua saggezza si trasfigurano. Il suo sguardo divente enigmatico, il suo sorriso arcaico è crudele e beffardo allo stesso tempo. La sua saggezza non viene più imposta attraverso il trauma del rito iniziatico, ma deve essere conquistata attraverso l’atto eroico della decodificazione dell’enigma.

Il vero sapiente apollineo è Edipo, che decodifica il segreto della Sfinge.

Da qui anche l’aspetto minaccioso di Apollo, poiché certi segreti spettano ai sapienti, cioè a coloro che possono misurarsi con i segreti terribili. Chi non è in grado di misurarsi con essi, ovvero con la sostanza esistenziale di questa conoscenza, viene messo in grave pericolo. Apollo rivela i suoi terribili segreti solo a coloro che sono degni di entrare a far parte della comunità degli adulti.

Nelle tribù primitive chi si avvicina ai segreti, ai tabù, senza esserne degno, viene colpito da morte. Tra gli ebrei esiste la tradizione che solo chi abbia compiuto quarant’anni e abbia studiato a sufficienza la Torà, possa avvicinarsi ai segreti della Kabbalà, altrimenti rischia la morte o la follia, traccia mnestica di quando solo agli iniziati, ormai adulti, si svelavano i segreti del clan. I segreti più nascosti della Torà possono essere svelati solo a questi.

Gli ebrei, che hanno rimosso dalla propria mitologia qualsiasi figura di dea Madre, accanto a quella di un dio-Padre esclusivo e minaccioso, conservano, nella figura dei rotoli della Legge, il simbolo della madre cancellata. Chi abbia assistito al rito, tre volte alla settimana, in cui i rotoli della Legge, nelle sinagoghe, vengono tirati fuori dall’«Armadio Sacro» (Haron haqqodesh), per venire, stadio dopo stadio, lentamente spogliati dei paramenti sacri che li adornano, ha certamente provato l’imbarazzo di chi assista a una scena di strip-tease. Questi rotoli vengono, poi, aperti, letti di fronte alla congregazione, richiusi, rivestiti e portati in processione tra le file dei fedeli, che porgono la mano e baciano i lembi dei paramenti che li rivestono. Come nelle processioni, dove i cattolici portano in giro la statua della Vergine Maria.

Nel libro dei Proverbi l’associazione tra madre e Torà era stata esplicita:

“Ascolta, figlio mio, l’istruzione di tuo padre e non disprezzare la Torà di tua madre” (Prv. 1,8 e 6,20). Decodificare i segreti della Torà corrisponde, quindi, a un atto incestuoso, in cui la penetrazione intellettuale è un sostituto simbolico di quella reale. Per questo Edipo, in una versione del mito è colui che decodifica il segreto e poi può commettere l’incesto.

Come hanno rilevato Robert e Reik,14 nel mito originale di Edipo che uccide la Sfinge non vi era nessun enigma da risolvere e Edipo, l’eroe, uccide il mostro in un’impresa eroica, al pari di quelle di Ercole che uccide l’Idra, Perseo che uccide la Medusa, Teseo che uccide il Minotauro, Bellerofronte che uccide la Chimera e tutti giovani eroi o semidei che vanno in missione, in quella che è la traccia di antichi riti d’iniziazione, per compiere l’atto eroico. L’enigma della Sfinge è una sovrapposizione, che appartiene al periodo in cui la società greca si era ristrutturata in società apollinea, e la polis aveva sostituito completamente l’organizzazione tribale. Il mito originale di Edipo apparteneva dunque alla sfera dei riti arcaici in cui attraverso l’atto e non la parola, veniva consumato il rito.15

I miti arcaici, che condensano le tracce di questi riti d’iniziazione, fanno compiere l’atto eroico da un dio o da un semidio, e questa era anche la natura originale di Edipo.

Il mito, nella forma pervenuta a noi, comprende la sovrapposizione molto più recente, in cui appare l’enigma da risolvere e si sviluppa nella tragedia sofoclea in cui Edipo, che nella sua forma arcaica aveva già ucciso il padre nella figura del mostro, lo riuccide in forma umana come Laios. Quindi abbiamo il mito come appare in forma arcaica, quando le tribù greche erano ancora strutturate in questa forma, condensato con la sovrapposizione più recente, quando i greci avevano completamente dimenticato i propri riti tribali arcaici, e si erano strutturati a polis, o a struttura sociale apollinea.

In questo strato più recente, Edipo viene degradato a umano e la sua storia riflette la nuova struttura della famiglia greca, monogama e a triade, in cui il figlio uccide il padre non più come missione sacra, in nome dell’orda dei fratelli coalizzati, bensì all’interno del proprio conflitto pulsionale personale.

Il mito arcaico di Edipo, dunque, raccontava dell’impresa dell’eroe che uccide il mostro che terrorizza la città e riceve questa e la sua regina come premio. L’Edipo originale, il semidio, è un dio-figlio, caporione dell’orda dei fratelli coalizzati che compie la missione sacra, poiché a nome della collettività e viene premiato quando riceve la donna e la sua ripetizione nella città di Tebe. E diventa re, ovvero capo dei fratelli. La generazione degli adulti e quella dei giovani si condensano, attraverso il rito d’iniziazione, in un’unica auto-identità.

Il Febo dell’Iliade, che descrive il canto d’iniziazione delle tribù Achee di fronte alle mura di Troia, piomba terribile nel loro campo e ne fa strage.

Come canta Omero, «colpisce da lontano» (Il., 1,1).

Il campo degli Achei, come i campi dei giovani iniziati nella foresta o nel deserto dove sono tenuti in reclusione e spaventati, diventa il luogo dove viene consumato il rito. Superato il rito avranno la città e la sua regina in premio. Anche gli epiteti «colui che colpisce da lontano», «colui che agisce da lontano»,16 ci riporta agli adulti che spaventano i giovani, nascondendosi, senza essere visti, o da dietro delle maschere che ne nascondano l’identità.[^17]

Come abbiamo visto, l’atto eroico degli eroi greci ricalca la parte dei riti d’iniziazione che, anche ai giorni nostri, tra i selvaggi, il giovane iniziato deve compiere affinché gli venga concesso il primo atto eterosessuale. Questa parte del mito si ricollega, come abbiamo visto, alle imprese degli altri eroi greci arcaici ma anche ad Apollo.

Ascoltiamo il canto di Ovidio:

Quando dunque la terra, tutta fangosa per il recente diluvio, si riasciugò al benefico calore dell’astro celeste, partorì un’infinità di specie e in parte riprodusse le forme di una volta, in parte creò mostri sconosciuti.

Certo essa non avrebbe voluto, eppure allora generò anche te. Immenso pitone, serpente mai visto prima, che divenisti il terrore dei popoli rinati: per tanto spazio ti distendevi calando dal monte!

Febo, il dio che porta l’arco ma che fino ad allora si era servito di quell’arma soltanto contro i cerbiatti e i caprioli che scappano, uccise quest’essere, ma dovette seppellirlo sotto mille frecce e svuotare quasi la faretra, prima che morisse in un lago di sangue velenoso uscito dalle nere ferite. E perché il tempo non potesse cancellare la memoria della gloriosa impresa, istituì le solenni gare chiamate Pitiche, dal nome del serpente vinto.

Qui i giovani che vincevano col braccio o con le gambe o col cocchio erano incoronati (Met. 434-450).

Subito dopo, e in diretta associazione con l’impresa eroica, Ovidio racconta del primo amore di Apollo, Dafne, figlia di Peneo.

Esattamente come Edipo uccide il mostro che minaccia la città e riceve questa e la sua regina, Apollo uccide il mostro, riceve la gloria e si innamora di Dafne. L’associazione tra l’atto eroico e il primo rapporto sessuale è chiara in entrambi i casi.17 L’arco, di cui «fino ad allora si era servito soltanto contro i cerbiatti e i caprioli che scappano, uccise quest’essere», cioè che fino ad allora era stato un giocattolo innocuo, un pene infantile, diventa un’arma micidiale, un pene adulto. Anche la «rinascita» dei popoli dopo il diluvio,[^19] ci ricollega alla morte e alla rinascita simboliche degli iniziati durante il rito.

Ma Ovidio ci dice ancora di più. Apollo è l’iniziato par excellence, il prototipo degli iniziati, poiché dopo la sua impresa anche tutti gli altri giovani compiranno altre imprese, nella forma di giochi pitici, attraverso le quali riceveranno la gloria. E la gloria è l’alloro, e l’alloro è Dafne, la donna, premio dei giovani che hanno superato la prova.

Vediamo dunque che Febo, l’iniziatore, che con il suo arco e le sue frecce terribili spaventava a morte i novizi sotto le mura di Troia, ostentando loro davanti agli occhi il suo simbolo fallico terrificante, si condensa nella figura del novizio e come tale compie l’impresa. Infatti Apollo diventa anche il dio protettore dei giovani, e in epoca ellenista verrà raffigurato come un giovane efebo. Dai tempi della guerra di Troia al IV secolo a. C. il dio percorre tutta la metamorfosi da adulto terrificante a giovane imberbe.

3. Da iniziatore a oracolo

Ai tempi della tragedia sofoclea tutti questi riti erano ormai solo tracce mnestiche rimosse. Apollo l’iniziatore, «colui che distrugge totalmente» si era trasfigurato in oracolo, colui che insegna. L’atto eroico, l’azione, era stato sostituito dall’enigma.

L’adulto che terrorizza si era trasfigurato in maestro, in colui che rivela, e quindi il dio della luce. Rivela, ma anche nasconde, parla per enigmi, e il nuovo eroe, Edipo, compierà l’atto eroico svelando, decodificando e non più uccidendo il mostro, come nella prima parte del mito, che si era condensata insieme a quella più recente.

La società greca che, dai tempi descritti dall’Iliade, aveva passato una metamorfosi strutturale passando da società tribale a società apollinea, si rispecchia non più in un Edipo che uccide il mostro, bensì in quello che decodifica l’enigma.

Ma non solo l’eroe aveva passato questa metamorfosi, insieme a tutta la società greca, bensì anche il dio. Colli dice:

Non è chiaro per ora il collegamento tra questi caratteri del dio, azione a distanza, distruttività, terribilità, crudeltà, e il configurarsi della sapienza greca. Ma la parola di Apollo è un’espressione in cui si manifesta una conoscenza; seguendo i modi in cui nella Grecia primitiva le parole della divinazione si congiungono in discorsi, si sviluppano in discussioni, si elaborano nell’astrattezza della ragione, sarà possibile intendere questi aspetti della figura di Apollo come simboli illuminanti l’intero fenomeno della sapienza.18

Adesso ci è chiaro.

Il nuovo Apollo non terrorizza più.

Superati i riti tribali non c’è più bisogno di indurre i giovani con la forza e il terrore a rimuovere le proprie pulsioni parricide e incestuose poiché queste, in una società civile, vengono rimosse attraverso l’azione dell’educazione e dell’insegnamento: questa è la nuova sapienza apollinea: «Ascolta, figlio mio, l’istruzione di tuo padre e non disprezzare la Torà di tua madre» (Prv, 1,8), aveva detto il più saggio di tutti gli uomini. Anche il re Salomone aveva sostituito la minaccia inziatica con l’ammonimento e la saggezza.

Ma il mito apollineo, superata l’arcaica versione dell’uccisione del mostro, ci presenta una nuova versione, nella stessa condensazione, in cui il parricidio e l’incesto ci vengono presentati in maniera esplicita. E questo è quello che ci insegna il mito di una società che ha superato i riti d’iniziazione tribali: senza il trauma del terrore iniziatico, la rimozione rischia di non riuscire. Infatti, se l’Edipo dei riti d’iniziazione tribali era un eroe, che uccide il Padre-mostro e libera la città, il nuovo Edipo della società apollinea da eroe diventa un criminale: uccide il padre, sposa la madre e si auto-evira accecandosi.19

L’atto eroico veniva compiuto a nome di tutta la collettività, ed era quindi un atto liberatorio compiuto come missione. Il senso di colpa era diluito dall’approvazione del gruppo, è un affare collettivo, come lo sono tutti i riti tribali. L’eroe agiva come tale e come tale moriva.

L’Edipo di Sofocle, invece, da arcaico eroe che aveva ucciso la Sfinge e liberato la città, si trasfigura, nella versione apollinea del mito, in criminale comune. Compie l’atto dissacratorio sotto la pressione delle sue pulsioni personali e l’epos si trasfonde in tragedia. Il mito, che si svolge descrivendoci parricidio e incesto in maniera esplicita, senza il velo di una pietosa censura, comporta l’autocastrazione, anche questa praticamente esplicita, come per intendere che l’ammonimento debba essere ben capito.

Al posto di oscure minacce fatte dai padri «da lontano» o da dietro maschere terrificanti, l’Apollo che ci insegna la sapienza dice in maniera esplicita: noi adulti non vi terrorizziamo più, come una volta, con i nostri archi e le nostre frecce. La rimozione delle vostre pulsioni incestuose sta a voi soli, attraverso la sapienza, la soluzione degli enigmi, ma se non riuscirete a superare la prova, commetterete parricidio e incesto e questa sarà la vostra fine.

L’atto del parricidio e dell’incesto sono l’undoing della cerimonia d’iniziazione, nella sua nuova forma che è la decodificazione dell’enigma della Sfinge. Il segreto della Sfinge, nella tragedia di Edipo, viene così carpito e non concesso: Edipo non era degno. Se lo fosse stato, il suo conflitto edipale sarebbe stato risolto e non sarebbe sfociato nell’acting out del parricidio e dell’incesto, poiché lo scopo dei riti d’iniziazione primitivi, come della nuova conoscenza apollinea che ne ha preso il posto, è di impedire il parricidio attraverso l’identificazione con la generazione dei padri e di permettere l’atto eterosessuale, distillandolo dalla sua componente incestuosa.

Apollo insegna ai giovani iniziati la sua sapienza da adulto. Ma mentre l’Apollo «che distrugge totalmente» dei riti iniziatici arcaici può offrire solo la rimozione, da dietro la sua maschera terrificante, poiché agisce dall’alto direttamente sull’Es, come un coperchio chiuso ermeticamente su una pentola d’acqua in ebollitura, il nuovo Apollo offre al suo posto un inconscio che «ha inserito tra bisogno e azione la dilazione dell’attività del pensiero»,20 ovvero, che canalizza le energie delle pulsioni dell’Es per sublimarle e che, quindi, appartiene alla sfera dell’Io,21 l’istanza psichica entro la quale avviene la sublimazione. Il nuovo Apollo non è più un dio minaccioso. Le pulsioni, mediate dall’Io, si trasfigurano in rappresentazioni.

Trattando dell’Es Freud dice:

si lascia descrivere solo per contrapposizione all’Io. All’Es ci avviciniamo con paragoni: la chiamiamo un caos. Un crogiolo di eccitamenti ribollenti. Ce lo rappresentiamo come aperto alle estremità verso il somatico, da cui accoglie i bisogni pulsionali, i quali trovano dunque nell’Es la loro espressione psichica, non sappiamo però in quale substrato. Attingendo alle pulsioni, l’Es si riempie di energia, ma non possiede un’organizzazione, non esprime una volontà unitaria, ma solo lo sforzo di ottenere soddisfacimento per i bisogni pulsionali nell’osservanza del principio di piacere. Le leggi del pensiero logico non valgono per i processi dell’Es, soprattutto non vale il principio di contraddizione. Impulsi contrari sussistono uno accanto all’altro, senza annullarsi o diminuirsi a vicenda; tutt’al più, sotto la dominante costrizione economica di scaricare energia, convergono in formazioni di compromesso.22

Non è questo forse il Dioniso della follia erotica, della verità assoluta, poiché non mediata? Freud prosegue: »… non conosce né giudizi di valore, né il bene e il male, né la moralità. Il fattore economico o, se volete, quantitativo, strettamente connesso al principio di piacere, domina ivi tutti i processi. Investimenti pulsionali che esigono la scarica: a parer nostro nell’Es non c’è altro».23

Un dio simile può essere dominato solo dalle minacce più terribili e dalla rimozione.

Trattando dell’Io, Freud, invece, dice:

Ciò che caratterizza l’Io in modo del tutto particolare, differenziandolo dall’Es, è una tendenza a sintetizzare i propri contenuti, a riassumere e unificare i propri processi psichici, tendenza che manca completamente all’Es… questo carattere soltanto produce quell’alto grado di organizzazione di cui l’Io ha bisogno nelle sue prestazioni più alte. L’Io evolve dalla percezione delle pulsioni alla loro padronanza, ma quest’ultima evolve soltanto se la rappresentanza psichica delle pulsioni è inquadrata in un’unità più ampia, inclusa in un contesto coerente.24

Come l’Io colonizza, «mirando ad attirare su di sé la libido dell’Es»,25 così Apollo diventa il dio civilizzatore: non minaccia più, bensì propone gli enigmi. Ed ecco come Apollo diviene il dio della rappresentazione plastica, il dio della «mania poetica», il dio della nuova musica apollinea: il dio dell’arte. Il movimento irrompente del proprio Es dionisiaco viene, attraverso la soluzione apollinea, incontrato da un controinvestimento energetico il cui scopo è di canalizzare, o meglio, di colonizzare, lo strato dionisiaco.

L’oracolo di Apollo non invita dunque alla repressione e alla rimozione, bensì al ricollegamento e solo dopo alla sublimazione. Dopo questo processo si avrà la sapienza apollinea. Una sapienza imparata, ma imparata non da un magico fiat filosofico, trascendentale, iperuranico o, ancora peggio, attraverso una catena dialettica di razionalizzazioni, come il dialogo socratico, bensì dalla ripresa di conoscenza di se stessi, attraverso il ricollegarsi a quello che si sapeva già, ma che era andato perduto. Ma, come vedremo in seguito, la strada del nuovo Apollo era troppo ardua. Quando la Pitia scriveva le sue sentenze sulle foglie, il vento se le portava via. Troppo tardi si accorsero di aver buttato via il bambino insieme all’acqua sporca.

4. Da sapienza a dialettica: il vicolo cieco dell’inibizione

Socrate è il filosofo apollineo, colui che sostituisce una conoscenza dialettica a una conoscenza immanente. Ma Socrate è un filosofo apollineo mancato. Il suo Super-Io aveva preso le redini e guidava cavallo e cavaliere dove aveva scelto a priori di condurli.26 Attraverso la dialettica si allontana dalla verità, e per questo sceglie di bere la cicuta. Sceglie di liberarsi del corpo poiché questo gli impedisce di avvicinarsi alla verità, come ci dice esplicitamente nel Fedone. Nietzsche aveva capito i veri contenuti della scelta di Socrate: «Socrate volle morire — non fu Atene, ma lui stesso a darsi la coppa del veleno, egli costrinse Atene a dargliela».27

Ma non esiste altra verità oltre a quella corporea.

Se avesse ascoltato meglio il suo corpo, invece di cercare di liberarsene, avrebbe capito che la conoscenza spetta ai viventi, cavallo e cavaliere. Con le parole del Salmo 113: «Non i morti lodano il Signore e non coloro che scendono nella tomba, ma bensì noi, i viventi, benediciamo il Signore ora e per sempre».

Socrate è un satirico,28 un moralista, e quindi per lui la filosofia è l’ancilla theosophiae, e identifica la filosofia con la morale. La sua filosofia è la conseguenza della rimozione e viene a sua volta usata come mezzo per mantenerla tale. Fecero veramente un cattivo servizio alla loro città gli Ateniesi che condannarono Socrate, perché costui era il cane di guardia non della verità e della conoscenza, bensì della morale pubblica. Il suo allievo sarà Platone, che darà legittimazione alla censura e alla repressione in nome della morale. Socrate sceglie di rimanere fedele a se stesso e così facendo ci insegna qualcosa di essenziale, ma ci fa un cattivo servizio quando cerca di razionalizzare la sua scelta come un ulteriore passo verso la strada della verità. Come ci ha insegnato il salmista, con la morte finisce ogni conoscenza. I morti non ne hanno più bisogno.

Socrate rinuncia alla conoscenza in nome della morale, e così facendo ci dà una lezione di civiltà, ma civiltà = morale = repressione = rimozione è esattamente la strada che allontana dalla verità, non in quanto civiltà sia di per sé incompatibile con conoscenza e verità, ma in quanto queste ultime, nel processo di incivilimento, sono sacrificate sull’altare della prima. La sapienza è una necessità dei vivi. È un mezzo per poter vivere, come i riti iniziatici e tutte le istituzioni che vengono dopo e li sostituiscono. In questo processo, quello della vita, la conoscenza apollinea può sovrapporsi a quella dionisiaca, ne prende atto e la sublima. Questo intendeva Apollo, il dio iniziatico, dicendo «conosci te stesso» e rimane oscuro, ambiguo: lascia a noi la fatica di ritrovare noi stessi la strada da percorrere per giungere alla nostra essenza.

Da qui anche la strana somiglianza, di certi aspetti di Dioniso e di Apollo, di cui parla Colli. Infatti «la sfera della conoscenza e della sapienza si connette assai più naturalmente ad Apollo che a Dioniso»,29 proprio perché il sapiente trasfigura la conoscenza dionisiaca in conoscenza apollinea e così diventa un sapiente. La nuova iniziazione di Apollo, a differenza di quella dei popoli selvaggi, si basa sulla conoscenza-sublimazione.

Dove la generazione degli adulti, presso i selvaggi, costringevano a reprimere le pulsioni dionisiache degli iniziati, Apollo, che appare prima come un dio terrificante, con un arco che minaccia gli iniziati, insegna la sublimazione e diventa il dio civilizzatore.

Ecco perché Apollo è rappresentato con questi due aspetti: colui che colpisce, con l’arco e le frecce, che sono il suo simbolo fallico, e colui che propone la soluzione nella forma liberatoria dell’arte e diventa il dio di un nuovo tipo di conoscenza.

Dioniso non si trasfigura poiché può solo proporre l’irruzione delle pulsioni e lo sfogo. La conoscenza che insegna Dioniso non può venire mediata e da qui, con le parole di Colli: «dio della conoscenza e della verità, intese restrittivamente come un’intuizione di un’angoscia radicale».

Innanzitutto, come ci insegna Freud,30 l’angoscia appartiene ai rapporti tra l’Io e il Super-Io e non all’Es, ed è dunque ben lungi dalla sfera dionisiaca. È una reazione dell’ Io a una pretesa pulsionale dell’Es inaccettabile al Super-Io. Ovvero è una difesa dell’Io. La civiltà reagisce attraverso l’angoscia a una pulsione rimossa che si fa minacciosa. Abbiamo qualche riserva, inoltre, sulla parola «restrittivamente». Innanzitutto dolore non è angoscia. Nietzsche infatti non parla di angoscia bensì di tragicità, e questa e tutt’altro che restrittiva. Lui stesso ci aveva spiegato cosa sono il dionisiaco e il tragico:

Il sì alla vita anche nei suoi problemi più oscuri e avversi, la volontà di vita, che nell’immolare i suoi esemplari più alti sente la gioia della propria inesauribilità — questo io chiamo dionisiaco, questo io ho inteso come ponte verso la psicologia del poeta tragico. Non per svincolarsi dal terrore e dalla pietà, non per purificarsi da una passione pericolosa per mezzo di una violenta scarica — questo è stato l’equivoco di Aristotele —: bensì perché, al di là di terrore e di pietà, siamo noi stessi la gioia eterna del divenire — quella gioia che comprende in sé anche la gioia nell’annientare… In questo senso io ho il diritto di considerarmi il primo filosofo tragico — e cioè l’estrema antitesi e l’antipodo di un filosofo pessimista.31

La verità dionisiaca è conoscenza allo stato puro, al pari dell’orgasmo genitale ed è il prodotto di forze che agiscono esclusivamente nella sfera delle pulsioni non-mediate, e si può arrivare a questo esclusivamente depurandosi da qualsiasi mediazione. Se questo strato primario viene lasciato emergere senza ostacoli e senza l’azione repressiva delle forze dell’Io non vi è più conflitto, e di conseguenza neanche angoscia. È la lotta contro l’emergere della pulsione che produce l’angoscia, non la pulsione stessa. L’iniziazione dionisiaca è dunque l’incontrario di quella apollinea. Lo scopo della prima e quello di liberarsi dalla mediazione dell’Io, di Apollo e della sua opera educatrice, per permettere alle pulsioni di scaricarsi attraverso il potenziamento della loro essenza. Il suo scopo è l’orgia, il black-out, le caverne oscure dove si cela la sapienza primaria. Depurare la psiche dall’azione inibitoria di Apollo, che abbiamo paragonato all’Io freudiano, e quindi liberazione anche da ogni angoscia. Come ha implicato Nietzsche, la sapienza dionisiaca è l’antitesi dell’angoscia. L’iniziazione di Dioniso è anti-sociale. Solo pochi possono essere i suoi iniziati, non i giovani possono venire introdotti a questo tipo di sapienza. L’iniziazione apollinea è la sua antitesi: la canalizzazione e la sublimazione delle pulsioni attraverso l’educazione e l’arte.

Freud paragona l’Io a un cavaliere che deve domare la prepotenza di un cavallo (L’Es), e che non vuole essere disarcionato. Orbene, proseguendo con questa analogia, l’Es può arrivare all’orgasmo solo disarcionando il proprio cavaliere.

Quindi se la scarica totale delle energie che provengono dall’Es è la gioia assoluta, gioia dionisiaca non-mediata e non-sublimata, il suo parallelo, l’altra faccia della medaglia, è il dolore dionisiaco, la constatazione dell’essenza umana nella sua manifestazione parallela, ma non in contraddizione con essa, anzi a suo complemento: il suo secondo polo. La tragicità dionisiaca non è tristezza. È il suo contrario. Solo chi può prendere contatto con gli strati più primari della propria essenza può «sapere» e esperimentare i due poli dell’espressione orgiastica: orgasmo e tragicità-dolore.

Se Seneca diceva: «Post coitum animal triste», era perché si era fermato prima: il suo coito non era stato l’orgasmo, la presa di conoscenza. Il suo cavallo non aveva disarcionato il suo cavaliere, ma non era arrivato da nessuna parte.

I due poli dell’esperienza dionisiaca non possono venir mediati, essi sono infatti fini a loro stessi. Conservano tutta la loro potenza e vitalità originali, mentre attraverso qualsiasi tipo di mediazione e di sublimazione avviene una «perdita» energetica di intensità.

La perdita della civiltà, di cui parla anche Freud.32 Il «guadagno» di Apollo è anche la sua perdita. Apollo e Freud vogliono colonizzare l’«Es», entrambi con lo stesso mezzo: la decodificazione dell’enigma. Apollo propone l’enigma. I degni, i sapienti, lo decodificheranno e vivranno. Dioniso non ha nessuna salvezza sociale da proporre e continuerà a venire dilaniato e a risorgere eternamente. La salvezza che propone è quella individuale dello sfogo pulsionale assoluto. Salvezza dell’individuo come unità pulsionale, come soggetto, in antitesi alla salvezza sociale come Homo Politicus. Apollo propone: «conosci te stesso», la decodificazione della rimozione a patto di essere «sapienti». Altrimenti spetta la sorte di Edipo, che si avvicina ai segreti iniziatici, li decodifica, ma non per sublimarli, come Apollo si aspettava da lui, bensì per profanarli. Non li risolve «all’apollinea» e, quindi, senza la rimozione da un lato e senza sufficiente «sapienza», dall’altro, è destinato a ripetere parricidio e incesto, e la tragedia viene così consumata. Come aveva detto Nietzsche: ognuno può imparare solo quello che sa già.

La differenza tra colui che non è sapiente e colui che lo è, consiste nel fatto che il primo non sa di sapere, mentre il secondo, ricollegandosi al proprio Erlebnis, la propria esperienza esistenziale, sa il proprio sapere. Quindi, sia nella versione dionisiaca che in quella apollinea conoscere vuol dire prendere contatto, ricollegarsi.

Questo è quello che Socrate, il moralista, non era riuscito a fare, e quindi ripone le sue ultime speranze nell’aldilà, nel colloquio con i morti (Apol., 41/ a-d).

Socrate riconosce di «non sapere». È convinto di essere in vantaggio su chi, come lui, non sa, ma «crede» di sapere e così implica che nessuno possa sapere e che la chiave alla conoscenza sia andata perduta. Secondo questa formula la sapienza di Dioniso è sepolta in quegli strati della psiche ormai diventati irraggiungibili e il volto terribile di Apollo, che minacciava di morte gli iniziati, si è trasformato in un sorriso arcaico indecifrabile. Nella sua metamorfosi, si fa beffe degli uomini. Era meglio prima, quando il terrore che gli adulti incuotevano induceva alla rimozione, piuttosto di adesso, che siamo stati lasciati soli con l’enigma da risolvere.

Infatti se il rito iniziatico era sempre un affare collettivo, e Febo piombava sul campo degli Achei terrorizzando tutto il gruppo, l’enigma da risolvere viene proposto al singolo. L’eroe che uccide il mostro, che rappresenta la traccia mnestica dell’iniziato dopo che questi riti erano stati superati, sembra che compia l’atto eroico da solo, ma in realtà ha dietro di sé tutte le forze dell’orda dei fratelli, che fanno il tifo per lui. È l’emissario, il vicario e trae la sua potenza magica dalla missione sacra, che prende su di sé a nome di tutto il gruppo. Questo è anche l’Edipo che uccide la Sfinge, il mostro sacro, ma non l’Edipo che risolve l’enigma. L’Edipo che risolve l’enigma è solo sotto il peso della sua responsibilità personale, e il suo crimine non verrà idealizzato ma punito. Il pubblico che assiste alla sua tragedia si identifica, ma nessuno fa il tifo per lui. Sanno già, fin dall’inizio, che l’eroe è perduto. Insieme all’autoidentificazione e alla catarsi si condensa anche un distacco tra il pubblico e il suo eroe, che non esisteva nella sfera delle imprese degli eroi arcaici.33 Tra il Prometeo di Eschilo e l’Edipo di Sofocle si apre un vuoto. Da quando gli eroi Achei stringevano d’assedio la città e la sua regina, il processo era stato lento, ma il punto di rottura è questo.

L’enigma di Apollo va dunque risolto da soli, per salvare se stessi.

Ed ecco che una sapienza dionisiaca, che veniva esorcizzata nei riti iniziatici tribali attraverso la rimozione, sotto la minaccia dell’arco e le frecce di un Apollo dalla maschera terrificante, può, adesso che il singolo è solo, venire risolta solo dalla decodificazione della nuova saggezza apollinea. E la saggezza di Apollo spetta al singolo e non a tutta la congregazione dei fratelli. Impossibilitata a essere risolta, la saggezza di Apollo con il passare del tempo si tramuta in filosofia. In questo processo essa stessa prende atto della sua impotenza e Platone, con le parole di Colli, «guarda con venerazione al passato, a un mondo in cui erano esistiti davvero i sapienti». I filosofi vengono al posto degli eroi, che erano i veri «sapienti» poiché la loro sapienza era quella di colui che aveva superato il rito iniziatico. E parlano solo a nome di loro stessi. Non hanno più niente da proporre. Socrate ci invita a rinunciare, a prendere atto del fatto che sapere e conoscenza sono andati perduti per sempre (Ap., 23,a-b).

Socrate è «morto bene», ma era vissuto male. Non era riuscito a prendere contatto con se stesso e non aveva imparato né la lezione di Dioniso, né quella di Apollo. Solo il suo «daimon» (31/d; 40) emergeva a tratti per stuzzicarlo e ricordargli che anche se aveva trovato rifugio nella formula di «sapere di non sapere perché non si può sapere», questa era solo una patetica razionalizzazione: lì, fuori, al di là della sua dialettica moralista, c’era ancora moltissimo da sapere, con cui riprendere contatto. Aveva percepito il problema ma non aveva trovato la soluzione: per lui l’oracolo delfico era rimasto nebuloso, ambiguo. Cercava di decodificarlo attraverso la dialettica dei suoi ragionamenti, ma questi gli si trasformavano in razionalizzazioni. Capiva che stava solo rincorrendo la propria coda. Per cercare di rompere questo circolo vizioso cercò di affidarsi all’aldilà.

Sceglie di morire, dunque, non solo dietro l’impellenza della propria moralità, perché così volevano le istituzioni che lui stesso aveva scelto (Crit., 51, vedi supra p. 10) ma piuttosto poiché aveva scoperto di non avere gli strumenti per arrivare alla conoscenza: l’aldiquà non gli era bastato. Socrate, come aveva percepito Nietzsche, ci conduce a Platone e poi al cristianesimo:34 deluso dall’aldiqua ci invita a consolarci nell’aldilà.

Per potere essere Apollo, bisogna prima essere stati Dioniso, poiché l’uno senza l’altro non è un uomo. Se Dioniso rimane solo sé stesso, non potrà mai mediare «l’angoscia radicale» della propria conoscenza, che come abbiamo visto sopra non è tale (p. 11), bensì «radicalità insostenibile». Questa rimarrà verità allo stato puro.

D’altra parte senza Dioniso, la conoscenza di Apollo non risucchierà mai la sua essenza dalla verità, ma rimarrà solo «liberazione illusoria».

Nietzsche, facendo di queste due divinità una coppia di poli opposti, scompone le due componenti di un’unica sintesi, cioè le analizza. La sua polarizzazione è solo una necessità dell’analisi e non una contrapposizione in antitesi di due concetti incompatibili, poiché la figura di questi due dei sono la rappresentazione di un’unica cosa.

Solo così può venire capito l’insieme: Dioniso dai lunghi capelli biondi, come Apollo, anch’egli dunque dio sole, e Apollo con il terribile arco e le sue frecce nel suo aspetto terribile, come Dioniso.

5. La sapienza biblica

Il Signore Dio fece germogliare dal suolo ogni sorta di alberi graditi alla vista e buoni da mangiare, tra cui l’albero della vita in mezzo al giardino e l’albero della conoscenza del bene e del male… Il Signore Dio diede questo comando all’uomo: «Tu potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino, ma della conoscenza del bene e del male non devi mangiare, perché quando tu ne mangiassi, certamente moriresti» (Gn. 2,9-16).

Strano, quando l’uomo viene tentato, non sceglie l’albero della vita ma quello della conoscenza. Anche la proibizione divina non è verso il primo, ma bensì verso il secondo.

Reik35 ci ha spiegato che presso i popoli primitivi l’albero era il dio stesso e non solo la rappresentazione di questo, e che cibarsi dell’albero corrispondeva a un atto cannibalistico verso il corpo stesso di dio-Padre. Secondo Reik, quindi, il peccato non fu un atto dalla connotazione erotica, bensì la rappresentazione dell’atto di aggressione verso il corpo del Padre e la sua incorporazione attraverso l’atto cannibalistico: mangiare l’albero corrispondeva a mangiare il dio.

E infatti la sua tesi trova conferma nel lapsus calami del versetto: «Allora la donna vide che l’albero era buono da mangiare, gradito agli occhi e desiderabile per acquistare saggezza» (Gn. 3,6). Lapsus calami in quanti i nostri progenitori, secondo la stessa versione biblica, mangiarono il frutto e non l’albero. E di nuovo nelle parole del Signore, insistendo sull’allusione, ammiccando per farci capire quello che forse ci era sfuggito. E infatti il testo ritorna più volte: «Hai forse mangiato dell’albero di cui ti avevo comandato di non mangiare?» (3,11); «La donna che tu mi hai posta accanto mi ha dato dell’albero e io ne ho mangiato» (3,12) e di nuovo: «E all’uomo disse: "Poiché hai ascoltato la voce di tua moglie e hai mangiato dell’albero, di cui ti avevo comandato: Non ne devi mangiare» (3,17).

A comprova di questa tesi si può ricordare che i selvaggi quando divorano il corpo del nemico credono di incorporare così anche le sue qualità e l’orda primordiale, dopo il parricidio, quando si cibò del corpo del padre ucciso, credette così di incorporalo e di assumerne la potenza.36 Questo spiega come mai l’uomo scelse di mangiare dall’albero della conoscenza, poiché dopo aver ucciso il Padre, voleva incorporarne la sapienza, il sapere. Ma di che tipo di sapere l’uomo voleva appropriarsi, che tipo di conoscenza paterna voleva incorporare?

L’albero della conoscenza, in ebraico si chiama, Etz Had’ t, la radice yd`, la stessa che viene usata quando Adamo «conobbe»37 Eva, sua moglie, e partorì Caino, Caino «conobbe» sua moglie e partorì Hanok e persino quando i Sodomiti vogliono «conoscere» gli ospiti di Lot, e chiaramente l’intenzione è di sodomizzarli, ovvero quando colui che è attivo nell’atto omosessuale si serve dei propri genitali. Infatti il verbo è transitivo e la connotazione è, quindi, erotico-aggressiva.

Quindi sapere, in ebraico, indica una conoscenza, non solo dalla connotazione chiaramente erotica, ma specificamente genitale. Dopo ogni «conoscenza» la donna rimane incinta e partorisce. Cibandosi dell’albero della conoscenza l’uomo si cibò del corpo di Dio-padre e incorporò il suo sapere genitale, che spettava a lui solo. Da qui l’ira divina. Solo dopo venne interdetto anche l’albero della vita:

Ecco l’uomo è diventato come uno di noi, per la conoscenza del bene e del male. Ora egli non stenda più la mano e non prenda anche dall’albero della vita, ne mangi e viva sempre… Scacciò l’uomo e pose a oriente del Giardino dell’Eden i cherubini e la fiamma della spada folgorante, per custodire la via all’albero della vita (Gn. 3,22-4).

Stranamente Dio non temeva che l’uomo si cibasse dell’albero della vita, prima che si fosse cibato dell’albero della conoscenza, solo dopo. Quindi l’uomo «rischiava» di voler vivere eternamente solo dopo aver assaggiato la conoscenza che, come abbiamo visto, è una conoscenza dalla connotazione genitale. I Cherubini, con la fiamma della spada folgorante, sono lo strumento apotropaico che impedirà all’uomo di tentare di ri-penetrare il giardino dell’Eden ed avvicinarsi all’albero della vita. Il senso del racconto biblico è, quindi, che attraverso la conoscenza genitale ci si avvicina all’albero della vita.

Prima di aver assaggiato dell’albero della conoscenza l’uomo non aveva nemmeno realizzato che l’albero della vita era lì, a un passo di distanza, al centro del Giardino. L’albero della vita è nel centro del Giardino, ma la strada verso di esso passa per l’albero della conoscenza. Se l’uomo non avesse assaggiato del secondo non avrebbe saputo cosa farsene del primo. Come vedremo in seguito, l’albero della conoscenza genitale e l’albero della vita non sono due alberi separati, bensì uno solo. Il racconto biblico scompone in due componenti diverse quello che è un unico tronco: il momento dell’orgasmo genitale è quello dell’eterna vita, la morte non è il suo polo antitetico, bensì la sua equivalenza.

Ed ecco la sostanza del sapere biblico: attraverso la conoscenza genitale si arriva alla vita e alla morte, che in questo contesto sono un’unica cosa.

6. Eros e pulsione di morte (Todestrieb)

Freud dice che la prima pulsione fu una pulsione di morte: la vita era stata solo un disturbo sulla materia inorganica, prodotto dall’interferenza di fattori esterni. L’unico scopo della vita è la morte:

Queste errabonde vie che portano alla morte, fedelmente serbate dalle pulsioni conservatrici, si presenterebbero oggi a noi come l’insieme dei fenomeni della vita. Se resta ferma la natura esclusivamente conservatrice delle pulsioni, questa ipotesi sull’origine della vita è la sola che possiamo formulare.38

Da qui il paradosso: tutte le pulsioni di autoconservazione hanno solo la funzione di garantire una morte consona alla «maniera» dell’organismo stesso e di evitare un «corto circuito», che porti la sostanza vivente al suo scopo, la morte, in maniera non consona alla sua sorte.39

Ma poi emerge un’istanza antitetica:

le cellule germinali conservano la struttura originaria della sostanza vivente e, dopo un certo tempo, con tutte le pulsioni ereditate, e con quelle recentemente acquisite, si staccano dall’organismo nel suo insieme… Queste cellule germinali lavorano così contro la morte della sostanza vivente e riescono ad attingere per essa quella che ci deve apparire come una potenziale immortalità.40

Queste pulsioni sono le pulsioni sessuali: «Sono le autentiche pulsioni di vita, operano contro l’intento delle altre pulsioni che, per la loro funzione, portano alla morte».41

Ed ecco che nasce l’Eros, in contrasto alle pulsioni di morte, che appartengono alla sfera dell’Io:

Il risultato che le nostre ricerche hanno raggiunto a questo punto è che esiste un netto contrasto fra le «pulsioni dell’Io» e le pulsioni sessuali, poiché le prime spingono verso la morte e le seconde verso la continuazione della vita… se pure è vero che le pulsioni sessuali riproducono stati primitivi dell’organismo, lo scopo che esse perseguono con tutti i mezzi è quello di fondere insieme due cellule germinali che sono differenziate in una maniera particolare. Se questa unificazione non è realizzata, la cellula germinale muore come tutti gli altri elementi dell’organismo pluricellulare. È solo a questa condizione che la funzione sessuale può prolungare la vita e conferirle una parvenza di immortalità.42

Ed ecco che Freud traduce con le sue parole il testo biblico: l’albero della conoscenza genitale porta all’albero dell’eterna vita.

Ma dopo aver visitato il reame della conoscenza, che porta a quello della vita, l’Eros non ha più dove andare. E Freud non può far altro che approdare alle spiagge conosciute, dove il suo maestro Schopenhauer lo aveva già portato in giovinezza: «La morte è il vero e proprio risultato, e, come tale, scopo della vita, mentre la bramosia sessuale è l’incarnazione della volontà di vivere».43

Quindi anche l’Eros non può altro che portare alla morte, anche se per un altra strada: con l’Eros si conosce la vita eterna, ma questa «parvenza d’immortalità» corrisponde alla morte, infatti solo a questa si addice l’attributo di «eterna». E ancora:

anche la coniugazione, la temporanea fusione di due organismi unicellulari, ha l’effetto di mantenere in vita e ringiovanire entrambi gli individui. Potremmo quindi provare ad applicare la teoria della libido a cui è giunta la psicoanalisi al rapporto che le cellule hanno fra loro; potremmo supporre che le pulsioni di vita o pulsioni sessuali che agiscono in ogni cellula assumano come proprio oggetto le altre cellule, neutralizzino parzialmente le pulsioni di morte, ossia i processi che dalle pulsioni di morte sono messi in moto in queste cellule, e le mantengano così in vita.44

Freud continua:

le due cellule germinali che intervengono nella riproduzione sessuale e la storia della loro esistenza altro non sono esse stesse che ripetizione degli esordi della vita organica; tuttavia l’essenza dei processi a cui tende la pulsione sessuale è la fusione di due corpi cellulari. L’immortalità della sostanza vivente negli organismi superiori non può essere garantita altrimenti.45

Tutto questo il Redattore biblico lo sapeva già.

Sapeva che Dio aveva piantato nel Giardino due alberi, che sono uno solo, quello della conoscenza (Eros) e quello della vita.

Sapeva che la strada per l’albero della vita eterna, che Freud definisce «immortalità» per ben tre volte nei suddetti passi, come se si stesse trastullando con la possibilità di valutarne l’eventualità, passava attraverso l’Eros. Che «le pulsioni di vita o pulsioni sessuali che agiscono in ogni cellula assumono come proprio oggetto le altre cellule, neutralizzano parzialmente le pulsioni di morte, ossia i processi che dalle pulsioni di morte sono messi in moto in queste cellule».46

Dio non voleva che questo Eros sopprimesse definitivamente la pulsione di morte, e per questo mise il Cherubino a guardiano dell’albero della vita, in mezzo al Giardino.

Da allora, l’orgasmo genitale, la conoscenza, si avvicina all’immortalità, ma non può afferrarla, e precipita verso l’altro polo, quello della pulsione di morte: «tornerai alla terra, perché da essa sei stato tratto: polvere tu sei e in polvere tu tornerai» (Gn. 3,19).

Il ritorno alla terra, per definizione Madre Terra e quindi anche grembo materno, non è altro che la materializzazione di una fantasia intrauterina. Ed ecco che anche per questa strada la morte = grembo materno diventa il risultato di un desiderio, quella che Freud aveva definito una pulsione. Soddisfatto il bisogno dell’Eros ed esauritasi la pulsione sessuale, prevale la pulsione antitetica. Con le parole di Freud: «L’esistenza di una pulsione nasce dal bisogno di ripristinare uno stato precedente»,47 in questo caso quello della materia inorganica, quello della morte.

Ed ecco che conoscenza, vita e morte diventano i termini di un’unica equazione.

Il nonno di Freud, un ebreo ancora ortodosso, gli aveva certamente raccontato, da bambino, la storia dell’albero della conoscenza e del Cherubino, messo a guardia dell’albero della vita, al centro del Giardino, affinché Eros non gli indichi la strada per quell’albero e sopprima per sempre la pulsione di morte.

Ed ecco Freud, l’adulto, che, attraverso le dodici fatiche di Ercole, si ricollega a quello che gli aveva raccontato il nonno, e che dentro di sé sapeva già, che l’albero della conoscenza conduce all’albero dell’eterna vita e che il Signore ha messo il Cherubino con la spada fiammeggiante, a prendere la parte della pulsione di morte.

Anche il salmista lo aveva già detto: «Non i morti lodano il Signore e non coloro che scendono nella tomba, ma bensì noi, i viventi, benediciamo il Signore ora e per sempre» (Sl. 113). I vivi, e come abbiamo visto la vita corrisponde all’Eros, «lodano il Signore», ovvero sanno. Ma questa «lode al Signore» è anche una sfida contro di Lui e il suo Cherubino, come l’Eros è una sfida alla pulsione di morte.

Il Salmista prende le parti dell’uomo, che ha sfidato il Signore appropriandosi della conoscenza e afferrando per uno sfuggevole attimo la vita. Se non lo avesse fatto non ci sarebbe nemmeno chi loda il Signore. In breve, Dio ha un senso solo dove vi è vita-conoscenza. La pulsione di morte combatte l’Eros fino a che riesce a sopraffarlo, e così annulla ogni sapienza e ogni «lode al Signore». La sapienza, il sapere genitale che corrisponde alla vita, era stata, come questa, solo «un’interferenza di fattori esterni sulla condizione stabile della materia inorganica» (p. 14).

7. Da desiderio a fobia

Ritorniamo ora alla leggenda ebraica che ci parla dell’uomo che impara tutto lo scibile nei nove mesi della gravidanza materna. Qui il sapere è associato all’epoca dell’oro, alle fantasie intra uterine, prima che la luce abbagliante del sole stenda il velo dell’amnesia sul povero uomo, che dovrà faticare tutta la vita per ricollegarsi a quello che aveva già. E la sapienza è collegata per associazione al corpo della madre. Ancora di più, ad essere dentro il corpo della madre. Quindi sapere e desiderio sono collegati come i due metalli di un’unica lega, come le acque di due fiumi che si siano riunite.

L’uomo, uscito dal ventre materno, ha dimenticato tutto quello che sapeva, e viene condannato a dover ri-impararlo faticosamente. Il suo desiderio di sapere sarà, d’ora in poi, associato alla sua nostalgia per l’utero materno.

In questa istantanea l’Eros, il desiderio di ritornare nell’utero materno, si fonde con la pulsione di morte. Il desiderio di tornare nell’utero materno corrisponde, infatti, al desiderio di ritornare a una situazione che precedeva la nascita e la vita. La maledizione biblica «tornerai alla terra, poiché da essa sei stato tratto», si trasfigura in desiderio, in pulsione. Infatti le pulsioni sono una caratteristica della sola materia organica, come implica Freud quando chiama la trasformazione dall’inorganico all’organico «l’azione di una forza che ci è ancora completamente ignota»48 e non chiama questa forza con il nome di pulsione, mentre definisce come tale quella di morte, ovvero il bisogno di tornare all’inorganico, una volta che si sia creata la vita. L’Eros un disturbo, ma questa volta di natura pulsionale che mantiene momentaneamente questa «forza completamente ignota», e che impedisce alla pulsione di morte di svolgere la sua funzione. Ma il cui destino, che possiamo ora anche definire «Fato», è quello di venire, prima o poi, sopraffatto.

In questa chiave, il mito biblico non è altro che la storia dell’Eros e il suo Fato.

Come non sappiamo da dove compaia improvvisamente l’Eros di Freud, così non sappiamo da dove venga il bisogno dell’uomo di «sapere», di associare vita, conoscenza ed Eros in quel bisogno che la Bibbia chiama «peccato». In entrambi i casi sappiamo quale sarà la sua fine.

Ma la Bibbia ci propina per castigo divino quello che Freud definisce «la prima pulsione», ovvero il desiderio più forte. Ed ecco che le due pulsioni antitetiche di Freud, Eros e pulsione di morte, diventano un’unica entità e si traducono in un’unica equivalenza. E la formula che ci viene presentata davanti torna a essere la stessa: vita = Eros = morte. Ora non rimane all’uomo che morire «solo alla propria maniera».49

Ma qual è questa maniera che è la strada dell’uomo verso il suo destino?

Cacciato dal Giardino, dove aveva preso contatto con la conoscenza, l’uomo viene condannato al lavoro. In ebraico, in tutta la letteratura sacra, il lavoro, «’avodà», è il lavoro del Signore, lo studio della Torà. Quindi il lavoro al quale viene condannato l’uomo, dopo essere stato cacciato dall’Eden, è la fatica di cercare di ricollegarsi a quello che aveva già assaporato dentro il Giardino, dentro il ventre materno, come ci racconta la leggenda ebraica (p. 1), e che era stato rimosso. La cacciata dal Paradiso Terrestre corrisponde dunque alla rimozione, il dimenticare quello che si aveva già saputo. Il desiderio di sapere è dunque la sostanza della maledizione biblica. Infatti solo l’uomo, tra tutti gli animali, è condannato al lavoro, il bisogno di sapere.

Anche Platone, l’allievo di Socrate, dovrà sudare tutta la vita per cercare di riscoprire la sapienza rimossa, a cercare di ricollegarsi, e qui la frase di Colli diventa chiara: «L’amore della sapienza non significava infatti, per Platone, un’aspirazione a qualcosa di mai raggiunto bensì tendenza a recuperare quello che già era stato realizzato e vissuto» (p. 1), poiché se Platone aspirava a recuperare quello che era già stato vissuto, ma non era in contatto con esso, vuol dire che cercava qualcosa che sapeva di aver già vissuto ma che aveva perso la strada per ritrovare, poiché questo qualcosa era stato rimosso. Giustamente, anche se probabilmente inconsciamente, Colli adopera l’espressione «quello che già era stato realizzato e vissuto» e non: quello che era stato imparato, poiché il sapere intrauterino, come anche quello genitale, non sono la conseguenza di un insegnamento proveniente dall’interazione con il mondo esterno, e che quindi appartiene alla sfera dell’Io, bensì una conoscenza il cui reame è quello dell’Es.

Anche per Socrate e per Platone, dunque, la sapienza corrispondeva al desiderio, al corpo della madre, alle proprie fantasie intra-uterine rimosse che, rimossa la pulsione genitale e la sua conoscenza, potevano solo imboccare la strada della regressione e tradursi in pulsione di morte. Qualcosa che avevano già vissuto ma che non riuscivano a rintracciare.

Già Nietzsche aveva capito, in una delle sue intuizioni folgoranti, l’associazione tra verità e il corpo della donna e il futile tentativo dei filosofi, da Socrate in poi, di avvicinarsi a lei per mezzo delle loro speculazioni razionalizzanti

Posto che la verità sia una donna, e perché no? Non è forse fondato il sospetto che tutti i filosofi, in quanto furono dogmatici, s’intendevano poco di donne? Che la terribile serietà, la sgraziata invadenza con cui essi, fino a oggi, erano soliti accostarsi alla verità, costituivano dei mezzi maldestri e inopportuni per guadagnarsi appunto i favori di una donna? — Certo è che essa non si è lasciata sedurre — e oggi ogni specie di dogmatica se ne sta lì in attitudine mesta e scoraggiata.50

Se da un lato Socrate cercava la verità, e questa era la sua pulsione, dall’altro, come in un sintomo nevrotico, innescava un controinvestimento pulsionale il cui scopo era frustrare il raggiungimento della meta della sua libido.

Infatti la catena dialettica delle razionalizzazioni socratiche è esattamente l’opposto della catena delle associazioni libere proposta da Freud. La prima è un metodo «scientifico» per allontanarsi dalla conoscenza, la seconda, l’unico strumento per penetrare la cortina fumogena che separa l’Io dall’Es.

Nietzsche aveva svelato questo meccanismo:

Se si sente la necessità di fare della ragione un tiranno, come fece Socrate, non deve essere piccolo il pericolo che qualche altra cosa si metta a tiranneggiare. A quel tempo si indovinò nella razionalità la salvatrice; né Socrate né i suoi malati erano liberi di essere razionali — era de rigueur, era il loro rimedio ultimo. Il fanatismo con cui tutto il pensiero greco si getta sulla razionalità tradisce uno stato di necessità; si era in pericolo, non c’era altra scelta; o andare in rovina o… essere assurdamente razionali… il moralismo dei filosofi greci, a cominciare da Platone, è patologicamente condizionato: ugualmente la loro valutazione della dialettica: si deve imitare Socrate e stabilire in permanenza contro gli oscuri appetiti una luce diurna, la luce diurna della ragione. Si deve essere accorti, perspicui, chiari a ogni costo; ogni cedimento agli istinti, all’inconscio, porta a fondo.51

Quale acume, nell’adoperare la parola inconscio, prima che Freud lo avesse scoperto. Le intuizioni di Nietzsche hanno del perturbante, quello che Freud, in un altro contesto, chiamerà Das Unheimliche.52 «Oscuri appetiti», oscuri come il grembo materno, appetiti come il desiderio. «Luce diurna della ragione», come antitesi di sapere e conoscenza. Chiaro, come sinonimo di non-vero. «Cedimento agli istinti», come abbandono alla conoscenza di sé stessi.

L’inconscio di Socrate lo portava a montare in groppa della propria pulsione verso la verità, il «non piccolo pericolo», il corpo della madre, solo per farsi disarcionare subito dalla tirannia della propria razionalità. Questa era lo stato di necessità, di cui parla Nietzsche, esattamente come tale ogni malato percepisce la propria nevrosi: una pulsione frustrata nella meta. E infatti dice «né Socrate né i suoi malati erano liberi di essere razionali — era de rigueur, era il loro rimedio ultimo», come ogni sintomo nevrotico è una coercizione, non una scelta conscia. La frustrazione della pulsione è l’unico strumento che questi possiede, per non andare a fondo. E anche questa espressione «andare a fondo» è associata alla connotazione della condizione intrauterina, come ogni parola associata all’acqua, alla profondità, all’abisso, al buio e alle caverne dove non penetra la luce.53

Anche Platone, con la similitudine della caverna, ci racconta in realtà di una fantasia intrauterina. E allora la «luce diurna» della ragione, invece di illuminare, acceca. Esattamente come nella leggenda ebraica in cui l’uomo, uscito alla luce del mondo, viene accecato e dimentica tutto il suo sapere, tutto quello che aveva imparato dentro l’utero materno, sorgente primaria di ogni istinto, caverna «oscura» come gli appetiti che risucchiano verso di esso

Pensa ad uomini in una caverna sotterranea dotata di un’apertura verso la luce che occupi tutta la parete lunga. Essi vi stanno chiusi fin dall’infanzia, carichi di catene al collo e alle gambe [il cordone ombelicale] che li costringono a rimanere lì e a guardare solo in avanti, poiché la catena al collo impedisce loro di volgere intorno il capo. In alto sopra di loro, brilla lontana una fiamma; tra questa e i prigionieri corre una strada in salita, lungo la quale è stato costruito un muretto, simile ai paraventi divisori al disopra dei quali i saltimbanchi mostrano al pubblico i propri prodigi (Resp., VII, 514).

La similarietà della similitudine platonica della caverna con quella del grembo materno della leggenda ebraica è sbalorditiva. Anche qui c’era una fiammella, proprio sulla testa del «prigioniero» nell’utero materno che, impossibilitato a muoversi, doveva imparare tutto lo scibile umano prima di poter uscire. Come ci insegna la psicanalisi, ogni claustrofobia è una regressione mentale al grembo materno, e quale descrizione di un posto chiuso più fedele di questa possiamo immaginarci? Illuminante anche la menzione dei saltimbanchi. Infatti il saltare nell’esperienza psicanalitica è sinonimo di nascita: colui che salta è colui che «balza fuori dall’utero materno»,54 come Atena «salta» fuori dalla scatola cranica di Zeus. Ugualmente per la fiamma e la corsa in salita.55 La similitudine platonica sembra il classico sogno di un’esperienza pre-natale.

Socrate si arrende al desiderio e sceglie di tornare nel ventre materno e di morire: il suo Eros lo porta a cercare la morte. Il giorno prima di morire, nella sua prigione, Socrate fa un sogno: una bella donna vestita di bianco che lo chiama (Crt., 43c), e il sogno, come da tempo sappiamo, non è che l’espressione di un desiderio inconscio.

Platone, che nel Simposio (181a-d) ci presenta solo l’amore omosessuale come vero amore e degno di essere chiamato tale, ci racconta di Socrate, che prima di morire sogna una bella donna che lo chiama. Questa è la sua pulsione di morte che lo richiama nel ventre materno cavalcando il veicolo dell’Eros: l’impasto pulsionale tra Eros e Todestrieb di cui parla Freud e che trasfigura la pulsione di morte in desiderio.56

Socrate sceglie di morire, e adduce argomentazioni di carattere moralistico, ma ci rivela, attraverso il suo stesso sogno, i contenuti reali delle sue speculazioni.

In Platone, invece, la pulsione di morte e l’Eros che lo spingono verso il grembo materno, si traducono in fobia. Lui stesso diventa il Cherubino che si pone di fronte all’entrata del Giardino, con la sua spada. E la sua spada, che funge da elemento apotropaico, sarà la censura

È la frustrazione dunque, il desiderio del giardino dell’Eden e la sua sapienza, che traducono Eros e pulsione di morte in fobia. Platone userà tutti i mezzi a sua disposizione per impedire sapere e conoscenza, nel futile tentativo di arrestare il ritmo del percorso che porterà l’organismo a morire «secondo la propria maniera». La sua fobia lo porterà a proibire la tragedia eschilea, i miti «sconvenienti», tutte le cose «non educative» e qualsiasi manifestazione «dionisiaca».

La sapienza biblica, quella genitale, deve essere rimossa poiché la strada che conduce ad essa porta alla vita come mezzo per arrivare alla morte. Una volta arrivati alla vita, la pulsione di morte esigerà la sua parte e si arriverà all’annientamento. Si è persa la strada che conduce ad essa, e bisogna codificare delle regole affinché non venga ritrovata. Dioniso è ancora lì, che gioca a nascondino tra le piante del Giardino, che dopo aver assaporato dell’albero della conoscenza, si arrampica sull’albero della vita. Una volta arrivato in cima, arriverà anche all’annientamento, poiché quella che una volta era stata materia inorganica, esigerà di tornare tale.

Nietzsche era arrivato per intuito dove Freud arriverà per le sue faticose strade. Come se fosse riuscito a togliere con uno strappo tutti i veli che celavano il senso dell’albero della conoscenza e dell’albero della vita nel centro del Giardino, ne svela con un’illuminazione la vera natura: «potrebbe perfino appartenere alla costituzione fondamentale dell’esistenza il fatto che chi giunge alla perfetta conoscenza incontri l’annullamento».57

La Bibbia, Nietzsche e Freud arrivarono alle stesse conclusioni, ognuno attraverso la propria maniera.

L’Occidente invece, armato dello scudo della filosofia, stese il velo dell’anestesia sulla propria realtà esistenziale. Si rifiutò di prendere atto, e, nel futile tentativo di combattere una guerra persa, imboccò la strada che porta al labirinto della razionalizzazione.

Da questo annullamento, ineluttabile risultato della «perfetta conoscenza», Platone cercava disperatamente di salvarsi, attraverso la razionalità depistante che aveva imparato dal suo maestro Socrate. Diventa lui stesso il Cherubino che, attraverso la censura e le norme morali, si erge con la spada della sua dialettica, a impedire l’entrata al Giardino e al suo albero.

Ma Platone non teme solo la sapienza di Dioniso, il satiro che danza intorno all’albero della vita dopo aver assaggiato da quello della conoscenza, bensì, ancora di più, la sapienza di Apollo, che con i suoi enigmi potrebbe tradire il segreto del sentiero che conduce all’interno del Giardino. I «sapienti» potrebbero trovare la mappa attraverso gli enigmi di Apollo.

A questo punto Platone dovrà impedire persino l’arte, il medium di Apollo, l’unica strada rimasta ornai, in Occidente, per aggirare la censura e arrivare alla verità, e dovrà codificare esattamente quello che è permesso e quello che è proibito; egli «guarda con venerazione al passato» (p. 1), sì, ma da questo passato cerca di proteggersi con tutti i mezzi. Non è il vero passato quello a cui cerca di ricollegarsi, quello autentico e non mediato, bensì a quello sterilizzato, revisionato dalle proprie resistenze.

La censura è un artificio non solo contro Dioniso, ma anche contro Apollo, il dio iniziatico trasfiguratosi in dio dell’arte e della sublimazione. È contro Apollo che Platone codifica una Repubblica così strettamente regolata, dove ogni cosa è decisa e stabilita a priori, in un ordine gerarchico repressivo, dove solo un pazzo o un masochista vorrebbe vivere. Sulla sua ispirazione verrà legittimata qualsiasi tirannia e repressione. Non a caso Platone fu tanto studiato e riverito per tutto il medioevo, quando l’ordine gerarchico feudale congelava lo status quo, in un’istantanea che rimuoveva qualsiasi conoscenza, e Apollo fu la vittima principale.

Le istituzioni temevano, e molto poco è cambiato sotto questo aspetto, che decodificando l’enigma di Apollo e della sua sapienza venisse squarciato anche il sipario che nascondeva la sapienza di Dioniso.58

Abbiamo visto come, sia in Occidente che nel Vicino Oriente, dove nacque la civilizzazione, l’idea di Sapere e Conoscenza è associata alle pulsioni erotiche verso il corpo materno. Dalla Màat egizia (la dea della Verità) alla greca Atena (la dea della Saggezza), dall’ebraica Torà alla greca Sophia, tutte le connotazioni del sapere sono femminili. Per parafrasare il detto francese: Cherchez la femme, ovvero, la soluzione dell’enigma è la donna.

Lo svolgimento del conundrum tra sfogo pulsionale e inibizione è quello che ha dettato le diverse vie delle diverse culture. La conoscenza Dionisiaca orgasmo-annientamento spetta al singolo. Questa è conoscenza genitale, e fine a sé stessa. Nessuna struttura sociale è in grado di sostenere questo tipo di conoscenza. L’uomo, come parte di un’organizzazione sociale, ha dovuto reprimere questo sapere ed affidarsi ai riti iniziatici e all’educazione.

I riti iniziatici puberali il cui scopo era di distogliere i giovani dalle loro pulsioni incestuose e indurli ad identificarsi con la generazione dei padri, e sostituire una «sapienza» femminile, materna, con una maschile e paterna, per salvaguardare l’ordine sociale, furono sostituiti da istituzioni nuove, ma non sempre con miglior risultato. E dove le istituzioni falliscono, rimane aperta solo la strada della repressione e della regressione. La prima è politica, la seconda è evolutiva. Abbiamo visto che esistono due livelli diversi di pulsioni verso il corpo materno. Il primo è la pulsione a ritornare dentro il grembo materno, che è parallelo al Todestrieb freudiano, in quanto è una pulsione regressiva. Nessuno di noi sa cosa sia la morte, poiché nessuno di noi l’ha esperimentata, quindi, quando pensiamo alla morte, possiamo solo associarla all’unica esperienza che ci è nota, ovvero alla situazione in cui ci trovavamo prima di nascere. Il secondo livello è quello genitale. Lì dove il rito puberale o la sapienza tramandataci dai padri attraverso l’insegnamento, riesce, la pulsione genitale viene sublimata e si traduce in desiderio di sapere, di penetrare la Torà e i suoi segreti, di decodificare i responsa del dio delfico, e di sostituire il padre attraverso il processo di identificazione, invece che per mezzo del parricidio. Questo è il sapere che si ricollega alla nostra essenza pulsionale per sublimarla. Quando la sublimazione non riesce, e perdiamo la strada nel labirinto della saggezza di Apollo, il corpo materno, da oggetto di desiderio genitale, ritorna ad essere l’utero che ci ha generati, e la strada verso l’ultima regressione risucchia inesorabilmente all’indietro: il risultato è la regressione e la morte, come per Socrate, o la regressione, la fobia, la censura, la repressione e le istituzioni tiranniche, come per Platone.

Possono i due dei, Dioniso e Apollo, e la loro sapienza antitetica convivere all’interno della stessa psiche non allo scapito uno dell’altro? Oppure, come ha postulato Freud:

La civiltà umana poggia su due pilastri, di cui uno è il controllo delle forze della natura, l’altro è la limitazione delle nostre pulsioni. Il trono della regina è retto da schiavi in catene… Le esigenze pulsionali insoddisfatte fanno sì che egli avverta con un senso di oppressione costante le pretese della civiltà.59

Noi non siamo così pessimisti come Freud. Il più saggio degli uomini ci offriva qualche speranza: «Un’attesa troppo prolungata fa male al cuore, un desiderio soddisfatto è albero di vita» (Prv., 13,12).

  1. La prima associazione che viene alla mente, pensando ad Apollo che spaventa gli iniziati con l’arco che colpisce da lontano, è quella di Guglielmo Tell che con un arco simile minaccia la vita del figlio.

    Ovviamente questa saga, che non è altro che la traccia di un arcaico rito iniziatico di una tribù svizzera, si è trasfigurata nella leggenda del XV secolo e l’aspetto aggressivo e minaccioso del padre verso il figlio è stato rimosso e spostato verso il tiranno austriaco.

    L’ostilità del padre verso il figlio, sterilizzata e spostata, si condensa con l’azione eroica liberatoria. La figura del padre minaccioso si trasfigura e si condensa in quella del figlio che libera la tribù dal tiranno, il quale diventa lui il simbolo del padre despota. Esattamente come Apollo, il dio iniziatico, si condensa con quella di Apollo, l’iniziato, che con il suo arco libera l’umanità dal terribile Pitone.

  2. I popoli, cioè gli iniziati, nascono dopo il diluvio, ovvero «dal diluvio».

    Come ci ha insegnato Freud: «La nascita è quasi sempre rappresentata mediante una relazione con l’acqua: si sogna qualcuno che precipita nell’acqua oppure ne emerge, salva una persona dall’acqua o viene salvato da una persona, ossia ha con essa un rapporto materno» (Freud, «Simbolismo nel sogno», in Opere, op. cit., Vol. VIII, p. 325.

    Il Pitone viene invece generato dalla terra, che come Madre Terra è una ripetizione del concetto dell’acqua come madre. La Madre Terra dunque genera da sé stessa un immenso serpente: qui si rispecchia molto bene la concezione infantile della donna fallica; la Grande Madre Terra possiede dunque un enorme pene.


  1. Friedrich Nietzsche, Umano, troppo umano I, Adelphi, Milano 1977, p. 274. ↩︎

  2. Giorgio Colli, La Nascita della Filosofia, Adelphi, Milano 1975, p. 13. ↩︎

  3. F. Nietzsche, La Gaia Scienza, Adelphi, Milano 1977, p. 193, e Ecce Homo, come si diventa ciò che si è, Adelphi, Milano 1965 e 1981, p. 57. ↩︎

  4. Tanhuma Pequdei, cap. 3. La suddetta leggenda è riportata anche nel Sefer Haggadà, Dvir Publishing, Tel Aviv 1948, p. 952, in ebraico. ↩︎

  5. Scuole dove si studia esclusivamente la Torà, il Talmud, e gli studi sacri. ↩︎

  6. Sistema di studio nel quale un allievo ribatte continuamente le argomentazioni del maestro e degli altri allievi. Un tipo di discussione volutamente polemica per poter scoprire tutti i punti deboli di ogni argomentazione. ↩︎

  7. G. Colli, op. cit., p. 16. ↩︎

  8. Sigmund Freud, Totem e Tabù, in Opere, in 11 vol., a cura di Cesare L. Musatti, B. Boringhieri, Torino 1989, vol. VII, pp. 156-7. Freud spiega il dilaniamento di Dioniso bambino e il suo divoramento come la condensazione del pasto totemico sul corpo del padre primigenio e della sua espiazione attraverso il corpo del figlio (Dioniso sbranato infatti è un bambino). Inoltre Freud descrive il parricidio e l’atto cannibalistico come l’esplosione di tutti gli istinti sadico-orali, omosessuali ed eterosessuali, che erano stati repressi dalla tirannia paterna. ↩︎

  9. Per un’analisi dettagliata dell’«Es» freudiano come istanza psichica parallela all’epifania di Dioniso, in veste di dio delle orge e dei lutti, vedi: Iakov Levi e Luigi Previdi, «Es e Io nello specchio di Apollo e di Dioniso», in Teorie e Modelli rivista di storia e metodologia della storia, a cura di Giuseppe Mucciarelli, vol. V. 3. 2000, Pitagora, Bologna 2000, pp. 89 -102. ↩︎

  10. G. Colli, op. cit., p. 18. ↩︎

  11. I vari stadi dei riti d’iniziazione come si svolgono tra le tribù selvagge ancora oggi sono stati riassunti e decodificati in maniera esauriente da Theodor Reik, «The Puberty Rites» in Ritual, Farrar & Strauss, New York 1946. Tr. it., «I Riti della Pubertà», in Il Rito Religioso, Boringhieri, Torino 1949 e 1969, pp. 103-173. ↩︎

  12. Ibidem. ↩︎

  13. Per la guerra di Troia come storia che racconta l’arcaico rito iniziatico puberale delle tribù greche, vedi: Iakov Levi e Luigi Previdi, «Uccidere Dio: il destino del popolo ebraico», in Agorà, a cura di Fabio Minazzi, Annuario del Liceo Scientifico Statale «Galileo Ferraris» di Varese, Anno IV, 2000, Varese 2000, pp. 192-8; Il suddetto saggio appare in Internet al sito <http://www.geocities.com/psychohistory2001/UccidereDio.html> (Gennaio 2001). ↩︎

  14. Carl Robert, Oidipus, Vol. I, Berlino 1915, p. 49; T. Reik, Oedipus and the Sphinx, in «Dogma and Compulsion», International Universties Press, New York 1951, pp. 320-1. ↩︎

  15. Con le parole di Faust, citate da Freud:«In principio era l’Azione» (Freud, op. cit., p. 166). ↩︎

  16. G. Colli, op. cit., p. 18. ↩︎

  17. E non solo in questi due casi. In tutti gli atti eroici la donna è sempre lì che aspetta dietro l’angolo. Teseo uccide il Minotauro e sposa Arianna. Perseo uccide la Medusa e sposa Andromeda. Bellerofronte, dopo tutte le sue imprese, tra le quali uccide la Chimera, sposa la figlia di Ieobate, re di Licia. Ognuna delle imprese di Ercole è associata a qualche donna, e così avanti fino a San Giorgio che uccide il drago e salva la principessa e fino al mito nordico del Flauto magico, in cui Tamino uccide il drago (anche se in questo caso avviene uno spostamento e il mostro viene ucciso dalle inviate della regina della notte) e impalma alla fine Pamina. Vi sono inoltre infinite leggende in cui il giovane eroe compie atti eroici e come premio gli viene data la principessa. ↩︎

  18. G. Colli, op. cit., pp. 18-19. ↩︎

  19. Per quel che riguarda l’occhio come simbolo del genitale, vedi Karl Abraham, «Limitazioni del piacere di guardare negli psiconevrotici; osservazioni di fenomeni analoghi nella psicologia dei popoli», in Opere, in 2 vol. a cura di Johannes Cremerius, Bollati Boringhieri, Torino 1975 e 1997, vol. II, pp. 577-580. ↩︎

  20. Sono le parole che Freud adopera per descrivere l’azione dell’«Io», in Introduzione alla psicanalisi, in op. cit., vol. XI, p. 187. ↩︎

  21. Per l’Io come istanza psichica parallela ai contenuti mentali dell’epifania di Apollo vedi Iakov Levi e Luigi Previdi «Es e Io nello specchio di Apollo e di Dioniso», in op. cit., pp. 93-8. ↩︎

  22. Freud, op. cit., p. 185. ↩︎

  23. Ibidem, p. 186. ↩︎

  24. Ibidem, pp. 187-8. ↩︎

  25. Ibidem, p. 188. ↩︎

  26. Freud, «L’Io e l’Es», in op. cit., Vol. IX, p. 488. Freud paragona l’Es a un cavallo imbizzarrito e l’Io al cavaliere che lo deve dominare. Questa espressione era molto cara a Freud, poiché la ripete in Introduzione alla Psicoanalisi, in op. cit., Vol. XI, p. 188. Il Super-Io, o ideale dell’Io, rappresenta l’istanza psichica dove risiede la moralità. Il Super-Io può essere pargonato all’imperativo categorico di Kant. ↩︎

  27. Il Crepuscolo degli Idoli, Adelphi, Milano 1970 e 1983, p. 39. ↩︎

  28. Come lui stesso dice: «… così, mi pare, il dio mi ha attaccato alla città con la funzione di svegliarvi, persuadervi e rimbrottarvi uno per uno, intrufolandomi dovunque incessantemente per tutto il giorno» (Platone, Apologia di Socrate, 30/e-31/a). ↩︎

  29. G. Colli, ibidem, p. 17. ↩︎

  30. Freud, op. cit., pp. 174-5. Vedi L’Io e l’Es, in op. cit., vol. IX, p. 519; Inibizione, Sintomo e Angoscia, in op. cit., vol. X, pp. 277-9. Inoltre: L’apparato psichico, in op. cit., vol. XI, p. 573, e La teoria della pulsioni, ibidem, p. 575. ↩︎

  31. Ecce Homo, op. cit., p. 70. ↩︎

  32. Con le parole di Freud: «Sensazioni che per i nostri progenitori erano dense di piacere sono diventate per noi indifferenti o addirittura intollerabili» («Lettera ad Einstein», in op. cit., vol. XI, p. 628). ↩︎

  33. Freud (Totem e Tabù, in op. cit., vol. VII, pp. 158-9) non distingue tra l’eroe arcaico e quello che si delinea nella tragedia Sofoclea di Edipo, ma secondo noi la differenza è enorme. Il fatto stesso che parricidio e incesto avvengano in maniera esplicita, senza il velo della censura, tradisce il fatto che da Sofocle in poi comincia a penetrare nella tragedia anche un’intenzione didattica o educativa. Nella tragedia Eschilea, come Prometeo, vi era ancora piena identificazione con l’eroe, il suo atto eroico e la sua pena. Malgrado il suo atto sia stato sacrilego era, ciononostante, un atto morale, perpetrato per il bene dell’umanità. Sofocle invece ci presenta già una versione dell’atto eroico che risveglia più orrore che identificazione. Così trova espressione la metamorfosi di una società, che aveva completato il suo passaggio da società tribale a società apollinea. ↩︎

  34. F. Nietzsche, Il Crepuscolo degli Idoli, Adelphi, Milano 1970 e 1983, p. 132; Al di Là del Bene e del Male, Adelphi, Milano 1968 e 1977, p. 4. ↩︎

  35. T. Reik, Myth and Guilt, G. Braziller, New York 1957, pp. 130-155. ↩︎

  36. Freud, «Totem e Tabu», op. cit., pp. 145-6. ↩︎

  37. Gn. 4,1 (La Sacra Bibbia, versione ufficiale della Conferenza Episcopale Italiana, traduce: «Adamo si unì a sua moglie», ma l’ebraico non parla di «unirsi», bensì di «conoscere». Ugualmente per tutti gli altri casi), Gn. 4,17, Gn. 19,5 («falli uscire da noi perché possiamo abusarne». Anche qui il testo adopera il verbo yada`, per l’intenzione che avevano i Sodomiti, appunto, di sodomizzare gli ospiti di Lot), Gn. 19,8. ↩︎

  38. Freud, «Al di là del principio di piacere», in op. cit., vol. IX, p. 224. ↩︎

  39. Ibidem, p. 225. ↩︎

  40. Ibidem, p. 226. ↩︎

  41. Ibidem, p. 226. ↩︎

  42. Ibidem, p. 229. ↩︎

  43. Ibidem, p. 235. Freud cita Shopenhauer da Parerga e paralipomena, Boringhieri, Torino 1963, p. 291. ↩︎

  44. Freud, Ibidem. ↩︎

  45. Ibidem, p. 241. ↩︎

  46. Ibidem, p. 235. ↩︎

  47. Ibidem, p. 242. ↩︎

  48. Ibidem, p. 224. ↩︎

  49. Ibidem, p. 225. ↩︎

  50. Al di là del Bene e del Male, Adelphi, Milano 1968 e 1977, p. 3. L’associazione tra Verità e madre o donna è onnipresente nella mitologia dei popoli: In Egitto la verità era rappresentata da una dea, Maat. In Grecia la dea della saggezza era Atena, che era denominata Meter, madre. In ebraico, dove la censura sacerdotale ha soppresso qualsiasi figura di dea, tutti i concetti legati alla verità, sapienza, saggezza, penetrazione intellettuale ecc. sono al femminile, traccia dell’erotizzazione e personificazione di questi. La Torà, la legge scritta, la Mischnà, la legge orale, la Gmarà, i commenti e le elaborazioni di questa, sono tutte parole espresse al femminile. ↩︎

  51. Il Crepuscolo degli Idoli, op. cit., pp. 37-8. ↩︎

  52. Il Perturbante, in op. cit., vol. IX, pp. 81 -7. Per Freud, «il perturbante è quella sorta di spaventoso che risale a quanto ci è noto da lungo tempo, a ciò che ci è familiare» (p. 2). ↩︎

  53. Per il buio, le tenebre e le caverne come simbolo dell’utero materno, vedi K. Abraham, «Limitazioni del piacere di guardare negli psiconevrotici; osservazioni di fenomeni analoghi nella psicologia dei popoli», in Opere, in 2 vol. a cura di Johannes Cremerius, B. Boringhieri, Torino 1975 e 1997, vol. II, pp. 595-600. Per l’acqua e il precipitare, vedi supra nota 19. ↩︎

  54. Lloyd deMause, Foundations of Psychohistory, Creative Roots, New York 1982, p. 98. L’autore porta alcuni esempi di come saltare, inconsciamente significhi nascere. DeMause cita il libro dello psicanalista Nandor Fodor, The Search for the Beloved: A Clinical Investigation of the Trauma of Birth and Pre-Natal Conditioning, però senza citare l’editore, l’anno e le pagine. ↩︎

  55. Ibidem. ↩︎

  56. Per impasto pulsionale tra Eros e pulsione di morte vedi: Il Disagio della Civiltà, in op. cit., vol. X, p. 508. Introduzione alla Psicanalisi, in op. cit., vol. XI, pp. 213-5; Analisi Terminabile e interminabile, in op. cit., vol. XI, pp. 525-9; Compendio di Psicanalisi, ibidem, pp. 575-7 e 624-5. ↩︎

  57. Al di là del bene e del male, op. cit., p. 45. ↩︎

  58. «Allo Stato non interessa mai la verità, bensì sempre e soltanto, la verità che gli è utile. O, per meglio dire, tutto ciò che gli è utile, sia verità, mezza verità o errore. Una alleanza tra lo stato e la filosofia ha dunque senso, soltanto se la filosofia è in grado di promettere di essere incondizionatamente utile allo Stato, vale a dire di fare più conto del vantaggio dello Stato che della verità» (F. Nietzsche, Schopenhauer come Educatore, Adelphi, Milano 1972 e 1985, p. 96). ↩︎

  59. «Resistenze alla Psicoanalisi», in op. cit, vol. X, p. 55. ↩︎