«La nostra parte nella Torah». Il ruolo del soggetto nella Rivelazione in Emmanuel Levinas

Una cosa ha detto Dio, due ne ho udite da Lui.

Sal 62,12

La Rivelazione, nell’accezione ebraica e in quella levinasiana, non è la comunicazione di conoscenze adeguate o non adeguate alla ragione umana, non è un sapere che si andrebbe ad aggiungere a quello logico, ma costituisce un eccesso di razionalità che si può invenire nel rapporto della Rivelazione con la Trascendenza. Come la Trascendenza si rapporta all’uomo in un legame etico anarchico che si esprime nel Dire prima del Detto, così la Rivelazione non è semplice comunicazione di un messaggio, ma il «luogo» in cui il legame etico che la Trascendenza significa, s’incarna nell’uomo che «porta» in sé la Torah. Il contenuto della Legge deve essere insegnato, appreso, custodito e compiuto perché proprio questa dinamica permette l’incessante riferimento al prossimo che ne rappresenta il messaggio. Ciascun uomo, nella propria «insostituibile identità» è chiamato a portare in sé e a compiere/perfezionare la Rivelazione, è chiamato a costituire uno dei suoi sensi viventi, con un processo mai compiuto «in un inesauribile futuro dell’amore stesso», in una «escatologia paradossalmente senza fine». Compiremo questo percorso analizzando le riflessioni, spesso tralasciate o sottovalutate, di un Levinas talmudista.

1. Il libro dei libri

Il primo intrico di cui bisogna allargare le maglie (senza mai poterle sciogliere) è il rapporto tra Bibbia, filosofia e vita. Levinas esprime meravigliosamente il legame tra la filosofia e la vita nel sillogismo: filosofare significa trascendere, ma anche esistere significa trascendere, dunque esistere significa filosofare.1 I salti, le avventure, le rotture delle trame della trascendenza che costituisce l’esistenza richiamano l’intricato legame dell’uomo con la vita e di entrambi col libro. Levinas afferma che nei libri gli shock dell’esistenza diventano domande e problemi, danno a pensare. In questo senso la Bibbia sarebbe il Libro per eccellenza, un testo in cui s’iscrivono quelle esperienze pre-filosofiche che sono alla base della filosofia, esperienze esistenziali che gli uomini hanno espresso anche, in un modo particolaristico, nelle letterature nazionali.2 La Bibbia dunque, invece che esser guardata con sospetto, andrebbe letta almeno con la stessa dignità che si attribuisce alle opere di Goethe o di Hölderlin. Ciò che differenzia la Bibbia dagli altri testi delle letterature nazionali è il suo universalismo. L’esperienza del popolo ebraico rappresenta le possibilità dell’umano in quanto umano. «La Torah non sarebbe un genere letterario fra gli altri, ma il luogo nel quale, a partire da lettere, proposizioni e verbi, comincia una vita».3

Non c’è contrapposizione, dunque, tra testi filosofici e Bibbia, tesi entrambi alla Trascendenza. La religione, infatti, non significa forse la Trascendenza? Anzi, Levinas pensa la Rivelazione come superiore alla filosofia che comprende solo l’uguale.4 Una tale superiorità della Rivelazione sulla ragione, un tale risveglio della coscienza da parte della Rivelazione, che Levinas può dire emblematicamente: «la filosofia deriva, a mio avviso, dalla religione. La filosofia è suscitata dalla religione alla deriva, e probabilmente la religione è perpetuamente alla deriva».5 Ciò non vuol dire servilità della filosofia o non-intelligenza della religione, quanto piuttosto che esse sono momenti distinti, ma solidali, dell’approccio alla Trascendenza.6 Forse che la Trascendenza ha voluto iscrivere le proprie tracce all’interno di un libro eccezionale — eccezionale nella sua ambiguità di testo che rende impure le mani, di testo che si offre, indifeso, alla mano che tenta di carpirlo ed interpretarlo alla luce della conoscenza adeguata al soggetto conoscente7 — e nella storia eccezionale di un popolo la cui particolarità è l’essere votato all’universalismo? Levinas non ha mai creduto che la filosofia fosse atea per essenza. «E se in filosofia il versetto non può avere il valore di prova, il Dio del versetto può continuare ad essere per il filosofo, e nonostante tutte le metafore antropomorfiche del testo, la misura dello spirito».8 In questo modo si apre lo scenario immenso del testo biblico e della sua interpretazione.

2. Questi versetti gridano: daršenu!

Abbiamo fatto riferimento alla comune tendenza verso la Trascendenza delle letterature nazionali e della Bibbia. Il linguaggio umano, che si esprime nella letteratura, è per se stesso profetico, perché proviene dal primordiale rapporto etico verso l’altro che costituisce la Trascendenza. «Dio si esprime nella lingua degli uomini […] e l’ispirazione non è forse la sublime ambiguità del linguaggio umano?».9 Esso, poiché può contenere più di quanto contenga, sarebbe l’elemento naturale dell’ispirazione prima di essere strumento di trasmissione d’informazioni, e pertanto, produrrebbe sia le letterature nazionali che la Bibbia.10 Se il linguaggio umano è già la capacità profetica di contenere più di quanto può allora, afferma Levinas:

Sarei portato a credere che in ogni pensiero sensato si manifesta o è stata ridotta la trascendenza […]. Al punto di pensare che una persona in meno nel mondo significa una verità della Torah in meno, perduta per sempre. Credenza espressa, nella liturgia giudaica, dalla preghiera «Donaci la nostra parte nella Torah». La parte richiesta sarebbe la parte che io, unico, condiziono, per mezzo della mia unicità, e non soltanto la parte che mi spetta.11

Com’è evidente, qui non si tratta di una semplice deuteronomizzazione di un contenuto che resta sempre tale, non si tratta neppure di un soggettivistico «per me», ma di una partecipazione attiva alla costituzione del senso stesso della Torah tramite l’insostituibile identità del soggetto.12 L’uomo può e deve intervenire nella formulazione della parola di Dio, per l’inscindibile legame della vita con la Rivelazione, perché Essa non è una sorta di sapere parallelo a quello noetico-noematico. In questo senso mi sembra che la Rivelazione svolga delle funzioni simili a quelle teorizzate da Rosenzweig.

Il linguaggio dell’uomo rivolto all’altro uomo è in grado di comprendere più di quanto comprende e di significare al di là del significato per via del legame etico originario, e anche per le innumerevoli interpretazioni che ciascun uomo da allo scritto, attraverso quella sollecitazione che permette al non-detto di emergere dal testo, e al testo di contenere più di quanto contiene, di essere cioè ispirato. «Ci si può chiedere se l’uomo, animale dotato di parola, non è, prima di tutto, animale capace di ispirazione, animale profetico».13 Nella prefazione di L’aldilà del versetto, Levinas riprendendo un principio del Talmud, che la Torah parla la lingua degli uomini, spiega il senso della Parola di Dio, della significazione propria della Rivelazione, del ruolo svolto dal soggetto nel costituirsi del senso biblico, e previene la possibile critica di soggettivismo dell’interpretazione.

Il Talmud insegna […]: «La Torah parla il linguaggio degli uomini» […]. Il grande pensiero racchiuso nel principio consiste nell’ammettere che la Parola di Dio può essere contenuta nelle parole di cui si servono tra loro gli esseri creati. Mirabile contrazione dell’Infinito, il «più» abitante nel «meno» […]. Contrazione dell’infinito nella Scrittura a meno che […] non si tratti della dignità profetica del linguaggio, capace di significare sempre oltre il detto, meraviglia dell’ispirazione nella quale l’uomo ascolta, sbalordito, quel che egli stesso enuncia […]. L’enigma del versetto e del verso non è dunque semplice imprecisione […]. Il linguaggio non ha più qui il semplice statuto di strumento […]. La particolarità inevitabile di questo abbordaggio della Scrittura in ognuno, come la particolarità di ciascun momento storico nel quale l’approccio è tentato, non comportano affatto un difetto di oggettività e non potrebbero essere denunciati come punti di vista «soggettivi» che falsano e limitano la verità. Questo perché nella lettura non è in questione soltanto una conoscenza di oggetti. La verità dell’ispirazione, l’abbiamo detto, appartiene anche ad un altro processo spirituale, essa, di conseguenza, ha significato per l’io inteso nella sua insostituibile identità. La comprensione che questi ne ha determina un senso che, «in tutta l’eternità», non potrebbe costituirsi senza di lui.14

L’enigma del versetto! Enigma in cui s’iscrive, nel linguaggio umano, la Parola, in cui Dio che viene all’idea entra nel Detto del versetto, in una modalità di significazione assoluta e inesauribile, che richiama l’esigenza dell’interpretazione per sollecitare i significati in essa racchiusi. «Sollecitazione della sollecitazione. Appello al Talmud e all’infinito rinnovamento della parola di Dio nel commento e nel commento del commento».15 Queste parole contengono i riferimenti a due elementi che dobbiamo trattare. Il primo è l’esigenza della lingua originale della Torah e le sue possibili traduzioni, il secondo, la storia delle innumerevoli interpretazioni viventi che costituisce il corpo del Talmud.

3. Baèr hétèv. Distintissimamente

Per quanto riguarda il primo aspetto mi sembra che Levinas parli dell’importanza del testo ebraico sotto due punti di vista, legati tra di loro da quella che lui ha abilmente chiamato «semantica assoluta». Il primo è il contenuto e il significato stesso della Torah e della Rivelazione. Abbiamo sopra detto che la Rivelazione non è una conoscenza parallela a quella del sapere, non è costituita da una serie di contenuti che devono necessariamente essere trasmessi con la mediazione della lingua parlata. Il secondo punto è che la Rivelazione è l’espressione stessa dell’eccezionalità del messaggio etico universale che si fa vita del popolo ebraico, che rappresenta una «rottura nel guscio dell’essere… della realtà naturale». Perciò essa è una «rivelazione sempre dimenticata […] ma anche rivelazione ininterrotta».16

La Rivelazione è intesa come storia del popolo d’Israele, perché essa non può essere rivelazione di contenuti, adeguati o non adeguati, al pensiero — nel senso di una conoscenza adeguata o parallela al pensiero, ma che non abbia nessun legame con la realtà.17 La Rivelazione deve essere quella di un Dio che viene all’idea nel rapporto etico con Altri, all’interno delle congiunture etiche della storia, di una Storia santa. Al punto che la storia stessa d’Israele diviene il dispiegarsi dell’esistenza di Dio a livello fenomenologico. Come se la parola Dio non avesse consistenza senza lo svolgimento storico nella vita del suo popolo.18 Storia santa nella quale Dio non si fa storia, la Trascendenza non diviene immanenza — come in Hegel — ma, ripetiamolo, Dio irrompe nella storia restando trascendente. Una Rivelazione che è esistenza divina che si dispiega nella storia, e che non è mai conclusa — come se Dio compisse un’avventura nella storia, l’avventura della sua stessa significazione/esistenza pur non identificandosi con la storia.19

Il dispiegamento dell’esistenza di Dio, la Storia santa è, dunque, storia della vita e della passione di un popolo, unico tra i popoli, non per i propri pregi o difetti, ma per l’elezione da parte di Dio.20 Se, dunque la Rivelazione è la stessa Storia santa e la passione di Israele, può e deve esserci un nesso della narrazione con la lingua usata.21 La Storia santa, tuttavia, non è conclusa: essa si arricchisce quotidianamente di significati attraverso l’interpretazione delle persone che accostano il Libro sacro, che da questo modello del pensabile fanno scaturire la sua saggezza, che da una parte è a disposizione dello studio, dall’altra rimane intoccabile, imprendibile nella sua essenza pura, formulata in una scrittura ormai morta che costringe, mediante l’interpretazione, a far risorgere continuamente i suoi innumerevoli significati.22 La saggezza che si dissimula nel testo è la Trascendenza che si affida alla sublime ambiguità del linguaggio umano che, nell’ora della sua verità etica — potremmo dire — è ispirato perché contiene più di quanto può contenere, nel quale Dio viene all’idea, un linguaggio che si offre, però, anche alla filologia, la quale rischia sempre un’«alternativa o alternanza» che però «è richiesta anche dalla trascendenza che non si infligge smentite attraverso la sua venuta stessa e che, nella Scrittura ispirata, attende un’ermeneutica, e, cioè, si mostra soltanto dissimulandosi».23 Il movimento ambiguo di «alternativa o alternanza» è permesso dalla struttura grammaticale del testo ebraico che costringe a cercare un senso sempre più profondo, poiché, come proclama il Salmo LXII, nella parola di Dio sono contenuti innumerevoli sensi che ammettono e richiedono l’interpretazione, il midraš, come partecipazione del lettore alla Rivelazione.24

Eppure in Mishnà 32a c’è un passo particolare, che riprende Giosuè 8, 30-35, in cui si racconta il rinnovamento dell’alleanza da parte di tutto il popolo di Israele, in occasione della presa della città di Ai, durante la conquista della Terra Promessa. La Mishnà racconta che a quell’evento tutto il popolo si posizionò ai lati dell’Arca e tutti, rivolgendosi ora verso il monte Garizim, ora verso il monte Ebal, ripetevano le benedizioni e le maledizioni della Torah, rispondendo Amen. A questo punto furono portate le pietre e «su di esse furono scritte tutte le parole di questa Torah in settanta lingue. Poiché è stato scritto: «distintissimamente», baèr hétèv», per indicare l’universalità del patto e l’ideale di società comunitaria rivolta a tutta l’umanità. «Con la formula baèr hétèv, «distintissimamente» che raccomanda la chiarezza e la distinzione della Scrittura, viene significata la traducibilità integrale».25

La vocazione del popolo ebraico a essere modello etico universale ricade sul Libro per eccellenza cha racconta la sua Storia santa. La Bibbia si presta alla traduzione? La tradizione pluralista del Talmud ha idee contrastanti, ma forse, in ultimo, complementari. Per alcuni sì, i libri possono essere scritti in ogni lingua, conservando la capacità di rendere impure le mani, per indicare l’«universalità illimitata della Bibbia e del giudaismo». Soltanto i tefillim e le mezuzot devono rimanere in ebraico: «In aggiunta allo spirito ebraico universale, sarebbe necessaria qui la «materialità» ebraica. Il «corpo» ebraico sarebbe in questo caso indispensabile». Per altri la sacralità della Torah è limitata alla traduzione greca: «Limitazione dell’universalità o presentimento di un altro tipo di universalità […]? Lingua europea! Perfeziona, o vale quanto l’eccellenza dell’ebraico?»26 Universalità e traducibilità, totale o limitata al Greco che possiede uno statuto speciale come vedremo tra poco. Eppure esiste una baraita, una tradizione esterna, ma di alta autorità, la quale afferma che il testo è religiosamente squalificato quando siano toccati i caratteri ebraici. Inoltre il testo biblico deve essere scritto con inchiostro e sotto forma di libro. Insomma il testo deve possedere, al di là del pensiero giudaico, il «corpo ebraico» tutto intero della scrittura, un «giudaismo intraducibile».27 Due tradizioni contrarie, eppure gli uni e gli altri hanno pronunciato le parole del Dio vivente! Come se ci fossero nel giudaismo due aspetti, uno invariabile, costituito dal culto e da tutti quegli elementi che esprimono l’intimità del suo rapporto con Dio nella Storia santa — un’intimità inalterabile — e una cultura ebraica, destinata a tutte le nazioni, aperta a creare una società dove regni la pace.28

Perché la traducibilità? E perché il privilegio del greco? Nella seconda parte della Mishnah citata, compare il riferimento alla traduzione greca che, limitata al solo testo della Torah, mantiene la capacità di rendere impure le mani, cioè mantiene un certo carattere di sacralità. È necessario fornire qualche dato storico sulle circostanze che hanno portato alla traduzione della Settanta. Esse riguardano l’eccezionale situazione della colonia ebraica in Egitto sotto il regno di Tolomeo. In quel tempo essa non conosceva più la lingua della Torah e per leggerla in ebraico si ricorreva a una traslitterazione in caratteri greci. L’autorità regia decise di dare come legge agli Ebrei che vivevano sotto la giurisdizione di Lagido, la legge della Torah. I Lagidi erano sempre stati interessati agli affari religiosi giudaici e per gli Ebrei fu una gioia vedere onorata la Torah, che usciva dalla sua dimensione prettamente rituale per divenire principio informatore della vita pubblica. Proprio per questo c’era bisogno che essa fosse trascritta nella lingua di tutti i giorni. Ben presto la Torah greca sostituì quella ebraica che continuava a essere letta in ambito liturgico, senza essere compresa. Gli Ebrei di Alessandria, dunque possedevano un vantaggio rispetto ai loro correligionari palestinesi: conoscevano la Torah nella lingua di tutti i giorni. La Torah era entrata a far parte della vita di tutti i giorni, si era realizzata un’«emancipazione o assimilazione» fino a un certo punto, l’Europa. Questo ingresso della Torah nella vita quotidiana è indicato dal miracolo della concordanza dei settantadue traduttori.29

Nella traduzione dei Settanta esistono, tuttavia quindici correzioni secondo il midraš — o tredici secondo altre tradizioni, ma in realtà quattro soltanto nella versione definitiva dei LXX — che sono legate a situazioni particolari. Eppure esse esprimono un’esigenza sottile al di sotto dei bisogni contingenti di traduzione: esse significano senza dubbio che esiste un dominio dell’intraducibile in seno allo stesso Pentateuco, «un modo di rivendicare la nostra modernità a fianco della nostra antichità più antica di ogni antichità». L’evento della traduzione «non sarebbe una contingenza della storia, ma una possibilità essenziale dello Spirito, una delle sue vocazioni […]. E probabilmente la traccia straordinaria che la Rivelazione lascia in un pensiero che, al di là della visione dell’essere, intende la parola di Dio. Presentare tale Scrittura al lettore greco […] è per la Torah una prova necessaria: appartiene all’avventura stessa dello Spirito».30 Abbiamo, pertanto, affrontato l’aspetto dell’uso della lingua ebraica e della sua possibile traduzione all’interno dell’avventura stessa della Torah e di ciò che essa rappresenta. Abbiamo visto come la semantica assoluta del testo ebraico permetta e richieda una continua esegesi, una costante interpretazione come evento che contribuisce alla costituzione del suo senso.

L’esegesi come superamento della lettera è anche superamento dell’intenzione psicologica dello scrittore. In questo modo è ammesso un pluralismo per l’interpretazione dello stesso versetto, dello stesso personaggio biblico, dello stesso «evento fondatore», nel riconoscimento dei diversi livelli, o delle diverse profondità, del senso. Polisemia del senso: il verso è come il «martello che batte la roccia facendo sprizzare innumerevoli scintille» […]. Vi sarebbe dell’irrivelato nella Rivelazione se all’esegesi venisse a mancare anche una sola anima nella sua singolarità. I dottori del Talmud non ignorano che questi rinnovamenti possano essere scambiati con alterazioni del testo.31

La Rivelazione non è quindi un atto compiuto. Esso abbisogna dell’evento ermeneutico compiuto da ogni soggetto. La Rivelazione si realizza nell’oscillazione delle interpretazioni possibili.

4. ’Elu ve ‘elu divre ‘Elhoim hayim. Gli uni e gli altri pronunciano le parole del Dio vivente

Già nel momento in cui la Torah è accolta, Mosè prescrive al suo popolo di impararla (lilmod), insegnarla (lelamed), conservarla (lichmor), adempierla (laassoth) .32 L’ascolto e la lettura, senza i quali niente può entrare in noi, devono diventare trasmissione che non è una pura ricettività, ma il prolungamento che rinnova l’insegnamento che riceve per evitare «il rischio di una pietrificazione del sapere acquisito suscettibile di depositarsi come un contenuto inerte nella coscienza e di passare così irrigidito, da una generazione all’altra».33 La ricezione della Torah ci pone nella relazione col maestro di cui Levinas parla anche in Totalità e infinito, e col Dire.34 È proprio in connessione al Dire che sempre si disdice per non pietrificarsi nel detto, che Levinas ricorda un’interpretazione dell’espressione leemor presente negli ultimi quattro libri del Pentateuco. «Parla ai figli di Israele leemor («in questi termini» — letteralmente «dicendo»)». L’interpretazione che Levinas ricorda è quella datagli dal suo prestigioso — e misterioso — maestro.

Quella che egli mi aveva rivelata consisteva nel tradurre leemor con «per non dire». In questo modo il versetto veniva a significare: «Parla ai figli di Israele per non dire». Occorre del non detto perché l’ascoltatore rimanga un pensare: oppure occorre che la parola sia anche un non detto perché la verità (o la parola di Dio) non consumi quelli che ascoltano; oppure occorre che la parola di Dio possa insediarsi, senza danno per gli uomini, nel linguaggio degli uomini. Nella mia lettura di questo versetto, leemor verrebbe a significare «per dire»: «Parla si figli di Israele perché essi parlino», insegna loro in maniera sufficientemente profonda da consentirgli di mettersi a parlare.35

Lichmor potrebbe significare sia l’osservanza dei comandi negativi, sia la necessità di impegnarsi costantemente nello studio, che, come il Dire, è una continua esposizione di sé ad Altri. Laasshot, invece significherebbe il risvolto pratico del senso della Torah: tutti i comandamenti hanno un senso nella relazione etica verso Altri.36 Proprio per il richiamo alla relazione etica, che richiede la soggettività come unicità che non può sottrarsi, la tradizione riferisce di un moltiplicarsi enorme delle «alleanze» concluse sul Sinai, quanti sono i presenti, affinché l’Alleanza non sia l’«astrazione impersonale di un atto giuridico», ma ciò che istituisce dei legami vivi nei quali ciascuno si trova responsabile di ciascuno: «tutti mi riguardano!».37 Forse è anche questa responsabilità assoluta che costituisce uno dei motivi per cui l’umano interviene nella formulazione della Parola di Dio.

L’umano non è forse la modalità della manifestazione e dell’esito della Parola? L’umano, nella sua molteplicità pluridimensionale, non è forse il luogo stesso della domanda e della risposta, la dimensione essenziale dell’interpretazione in cui l’essenza profetica della Rivelazione si fa vissuto di una vita?38

È ancora la relazionalità uno dei motivi per cui la Torah va studiata e insegnata: perché non è un insieme d’informazioni teoriche, ma vita vissuta che deve correre il rischio dell’avvenire, deve cioè essere significante per ciascuno nel tempo.

Che lo studio non sia affare di una sola persona e che essenzialmente la verità debba essere comunicata, che l’«io penso» sia socialità, che tale comunicazione della verità non si aggiunga come supplemento alla verità, ma appartenga alla stessa lettura e all’attenzione del lettore, tutto ciò è interessante […]. È necessario che l’allievo […] abbia interrogato in nome dell’avvenire e con audacia, malgrado il rispetto dovuto al maestro. L’allievo pone questioni a partire da ciò che la Torah significherà domani.39

Nell’insegnamento, quindi, si attua una vera e propria ricerca costante nella quale, paradossalmente, il rapporto maestro-discepolo — rapporto eminente secondo Levinas — sembra capovolgersi. Questo perché il significato della cosa insegnata si realizza nelle vite degli allievi e si accresce col contributo dei discepoli, con le loro domande di senso.

Il pluralismo non è soltanto il frutto di un insegnamento tra uguali. Il discepolo feconda il pensiero del maestro meglio ancora del collega. L’insegnamento è un metodo di ricerca […]. «Ho imparato molto dai miei maestri, di più dai miei colleghi, la maggior parte dai miei allievi».40

La Torah, tuttavia, va anche ripetuta nello studio per non accontentarsi del primo significato che possiede, fosse anche il significato metaforico, perché questo significherebbe perdere di vista l’aspetto spirituale della Torah, che è il mistero dell’ispirazione profetica nella quale il soggetto prende parte attiva alla costituzione del senso. E perdere di vista il senso spirituale della Legge è la fonte di ogni idolatria. Lo studio stesso, nella forma della domanda e dell’insegnamento, ripete la situazione originale di pluralismo, in cui il senso spirituale del testo emerge nel profetismo degli uomini. «Lo studio non è un fare ma un far nascere, che l’acquisizione dello studio è un altro io che mi risponde, mi sottrae alla solitudine e mi domanda di rispondergli».41 La Torah è quindi affidata a una socialità che è chiamata a viverne il senso in ogni tempo. Il «Dio non incarnato» è in un certo senso iscritto nelle lettere che si animano nelle prescrizioni di giustizia verso il prossimo. Per preservare questa possibilità di reinterpretazione continua il testo sfugge, nella fissità delle sue lettere, a un’interpretazione univoca e chiusa, e si offre costantemente allo studio, sottraendosi al pericolo dell’idolatria.42

La Torah si offre, quindi, a tutti, ma nello studio. E questo studio ha due caratteristiche: deve essere non avventato, e incessante. Il primo aspetto è espresso mediante l’immagine della Torah come testo che rende «impure le mani». Dove nasce questa immagine? In Shabbat 14a si dice che i rabbini hanno dichiarato impura la Torah perché inizialmente essa era custodita accanto ai cibi offerti, ritenendoli entrambi santi. Poiché questa vicinanza deteriorava i rotoli della Torah, si decise di dichiararla impura, e quindi di custodirla separatamente da tutto, per evitarne il deterioramento. Inoltre in questa pagina del Talmud si dice anche che le mani sono impure perché toccano tutto. Eppure è aggiunto che le mani che toccano la Torah non possono poi toccare i cibi offerti perché diventano impure. Dunque la mano è impura perché tocca tutto o perché tocca la Torah?43 «Ma per quale motivo?» si chiede Levinas.

È sicuro che la nudità del rotolo significhi soltanto l’assenza del drappo intorno alla pergamena? Non sono certo che quest’assenza di drappo non simbolizzi già e soprattutto un’altra nudità. E la mano è soltanto una mano o è forse anche una certa impudenza dello spirito che si impadronisce selvaggiamente di un testo […]? Toccate con impazienza dalla mano indaffarata che si dichiara obiettiva e sapiente, le Scritture, separate dal soffio che vive in esse, divengono parole untuose o false e mediocri […]. L’impurità ritorna e ricade sulla mano indiscreta da cui proviene […]. La Torah sfugge dalla mano che pretende di mantenerla scoperta.44

Questo è anche il senso dell’immagine che condanna il voler cercare le Mandragore al tempo della mietitura. «L’insignificanza di un testo abbordato senza il suo passato e senza il suo avvenire nella coscienza religiosa può attestare soltanto l’insolenza di una saggezza ancora impaziente».45

La seconda caratteristica dello studio che richiede la Torah è la costanza. La «corona della Torah» appartiene a chi compie la lotta di uno studio quotidiano che non presume di aver acquisito la conoscenza una volta per tutte.46 Lo studio è una fatica pari a quella che l’uomo deve sopportare nella ricerca quotidiana del cibo. Una pena feconda, tuttavia, perché con essa si rivela la natura stessa dell’animo umano, che non è fatto di semplici bisogni, non è definito a partire dal suo conatus essendi, ma dall’esigenza di razionalità e relazionalità, ovvero dall’anima, alla quale la Torah apporta la «vera energia spirituale».47 Per Levinas, è chiaro, l’uomo non è ciò che mangia, ma la sua spiritualità si definisce solo a partire dal logos di cui è capace? Il discorso è già lo spirito? Non corre esso il pericolo di divenire solo veicolo di messaggi? Non corre il rischio dell’idolatria? La Torah, tuttavia, si sottrae all’idolatria, il suo linguaggio è il rapporto con l’altro, la prescrizione di responsabilità; il suo messaggio non è un semplice contenuto che l’uomo trasmette come un contenitore vuoto, ma prescrizione che impegna nella responsabilità l’uomo che lo trasporta. «Felici quanti hanno meritato di portare in loro la Torah!»48 La vera anima dello studio costante è, dunque, l’incessante responsabilità per Altri.

La liturgia dello studio sia elevata quanto l’obbedienza alle prescrizioni, ma lo studio non sia mai compiuto, perché non si è mai disobbligati verso altri. Incompiutezza che è la legge dell’amore: è lo stesso futuro, la venuta di un mondo che non cessa di venire, ma anche l’eccellenza di simile venuta in rapporto alla presenza come persistenza nell’essere ed in quanto è sempre stato […]. Mondo a venire in un inesauribile futuro dell’amore stesso, escatologia paradossalmente senza fine o, precisamente, l’infinito.49

La caratteristica dell’amore come obbedienza che, seppur realizzata, continua a rinnovarsi, costituisce il «tormento» incessante di coloro che si accostano alla Torah. «I dottori non hanno pace né in questo né nell’altro mondo, perché è scritto (Salmo LXXXIV, 8): “Essi avanzano con una forza sempre crescente per comparire davanti a Dio in Sion”».50 Il Talmud, pertanto, è richiesto dalla struttura stessa della Scrittura, ma per sua stessa essenza, assume una propria autonomia, un proprio metodo razionale, in cui i sensi compresi nel testo emergono attraverso lo studio e la vita. Levinas, nell’introduzione a Quattro letture talmudiche, ne dipinge sinteticamente le caratteristiche. Innanzitutto il Talmud non è semplicemente una continuazione della Bibbia, ma vuole essere un secondo strato di significati ripresi in uno spirito razionale. In secondo luogo il Talmud non «compie» la Bibbia come il Nuovo Testamento pretende di compiere e continuare l’Antico, ma la commenta con l’arricchimento del simbolo mediante il concreto. In questo senso «lo spirito non conceda mai la lettera che lo rivela. Anzi, al contrario, lo spirito risveglia nella lettera nuove possibilità di suggestione».51 Il commento razionale del Talmud consiste, come abbiamo visto, nel trovare le modalità di attualizzazione di una legge che non vuole rimanere astratta e universale, ma che richiede di concretizzarsi nella soggettività responsabile per Altri nelle innumerevoli e imprevedibili circostanze della vita. La «legge orale è una casuistica» che si occupa di concretizzare la Torah nella vita.

Nella realtà si scopre […] che i principi generali possono rovesciarsi nell’applicazione. Ogni pensiero generoso è minacciato dal suo stalinismo. La grande forza casuistica del Talmud consiste nell’essere la disciplina speciale che cerca nel particolare il momento preciso nel quale il principio generale corre il pericolo di trasformarsi nel proprio contrario, e che sorveglia il generale a partire dal particolare. Questo ci preserva dall’ideologia […]. Il Talmud è lotta con l’Angelo.52

Quindi c’è un nucleo di senso che resta intatto, come fonte di una molteplicità di significati particolari e concreti, in quella che sopra abbiamo chiamato semantica assoluta. A questo senso assoluto si «aggiungono» i significati concreti, sottraendolo al pericolo dell’ideologia, in quella che Levinas chiama «modalità paradigmatica della riflessione talmudica».53 Le concretizzazioni della Legge la rendono, in qualche modo, come qualcosa di mobile, che permette però di trasportare nello spazio e nel tempo l’Alleanza fatta con gli uomini e tra uomini. E se questa mancanza di punti fermi può generare un apparente soggettivismo, tale rischio deve pure essere corso.

«Le sbarre impegnate negli anelli dell’Arca non devono lasciarla»: la Legge che porta l’Arca è sempre pronta al movimento, non è legata a nessun punto dello spazio e del tempo, ma è trasportabile e pronta al trasporto in ogni momento, e questo è attestato anche dal celebre apologo talmudico che racconta il ritorno di Mosè sulla terra all’epoca di Rabbì Aquiba. Egli penetra nella scuola del dottore talmudico, non comprende niente della lezione del maestro, ma viene a sapere da una voce celeste che l’insegnamento così mal compreso deriva da lui stesso: era stato dato «a Mosè sul Sinai» […]. La minima domanda posta da un allievo debuttante al suo maestro di scuola costituisce un’articolazione ineluttabile della rivelazione intesa sul Sinai. Tuttavia un simile appello alla persona nella sua unicità storica e alla diversità delle persone come fa a garantirsi dall’arbitrio del soggettivismo […]? Ma forse, per ragioni essenziali, un certo rischio di soggettivismo, nel senso peggiorativo del termine, deve essere corso dalla verità.54

Proprio in questo modo, lungi dallo smarrire il senso originario del testo, i commentatori ne fanno scaturire tutti i significati, anche se questi sembrano apparentemente contraddittori. La «Bibbia condizionata dal tempo» ha una coerenza che è frutto dei figmenta dei suoi commentatori.55 Nel pluralismo della singolarità, nell’apparente dispersione del quotidiano, si realizza, tuttavia, un evento rivelativo unico. I sensi disseminati nel testo si disperdono per poi ricomporsi dinanzi alla rivelazione della Trascendenza, che solo in questo movimento paradossale può darsi all’uomo. Un’epifania che «si ripete nel Sinai quotidiano di uomini seduti di fronte ad un Libro straordinario, ancora e sempre da scrivere a motivo del suo stesso compimento».56

Il ripetersi incessante della Rivelazione ricevuta da Israele «sotto» il Sinai, dove l’uomo è stato costretto prima di ogni libertà ad accettare la Torah oppure morire, ha determinato uno spazio d’incontro tra la libertà di Dio e la difficile libertà umana, uno spazio che è il contrarsi di un Dio che fa spazio all’uomo, che non sarebbe, dunque, soltanto una creatura alla quale è comunicata la rivelazione, ma la realtà stessa attraverso la quale l’assoluto di Dio manifesta il suo senso. «Lo studio della Torah studiata per se stessa, la preghiera e la Torah considerati «nella loro purezza totale» costituirebbero precisamente il «luogo originario»».57 La soggettività umana, in forza della sua capacità di ascoltare e obbedire è, per Levinas, la rottura stessa dell’immanenza. L’uomo è contemporaneamente colui al quale è rivolta la Parola, ma anche colui mediante il quale vi è Rivelazione, il luogo stesso dove passa la Trascendenza, «anche se può essere detto «esserci» o Dasein».58

5. Conclusioni

Dalle considerazioni fatte possiamo ricavare il carattere inesauribile della Rivelazione attraverso la semantica assoluta del testo che si offre alla traduzione e all’interpretazione mai esaustive del senso pieno. Da qui l’importanza della lingua ebraica che rappresenta l’antichità intoccabile del giudaismo aperto alla modernità. Abbiamo anche appurato che lo studio della Torah non si riduce a un’archeologia linguistica, o a una casuistica pedante, ma esso costituisce l’essenza dell’avventura stessa della Rivelazione che deve incarnarsi nella vita quotidiana. Il luogo in cui questo messaggio non è semplicemente trasportato, ma avviene, il punto di snodo nel quale la Rivelazione è custodita e si rinnova attraverso nuovi sensi, è il soggetto nella sua «insostituibile identità» intesa come responsabilità verso il prossimo. All’uomo spetta custodire, contenere e trattenere il messaggio della Torah perché esso non si trasformi nel proprio contrario, nell’applicazione pratica, ma anche compiere nel senso di perfezionare nell’esistenza vissuta. Solo con la vita quotidiana concreta è possibile costituire un senso della Torah che essa non possiederebbe senza l’esistenza del soggetto. In questo modo, lungi dall’essere una verità disincarnata, la Rivelazione è alla base del pluralismo umano, la promessa di un «mondo a venire in un inesauribile futuro dell’amore stesso».

Questa speranza è già certezza sul Sinai quotidiano di quanti si dedicano, nella difficile libertà, a far scaturire, col martello della propria soggettività, dalle tavole di pietra della Legge, infinite scintille di senso. «Felici quanti hanno meritato di portare in loro la Torah!».


  1. Cfr. Levinas E., En découvrant l’existence avec Husserl et Heidegger, Vrin, Paris 19743, trad. it. Scoprire l’esistenza con Husserl e Heidegger, Raffaello Cortina Editore, Milano 1998, p. 94, d’ora in poi citato EDE. Di seguito le altre abbreviazioni usate in questo articolo. L’au-delà du verset, éditions des Minuit, Paris 1982, trad. it. di G. Lissa, L’aldilà del versetto, Guida, Napoli 1986: ADV; A l’heure des nations, Les éditions de Minuit, Paris 1988, trad. it. Di S. Facioni, Nell’ora delle nazioni, Jaca Book, Milano 2000: AHN; Dieu, la Morte et le Temps¸ édition Grasset et Fasquelle, Paris 1993, trad. it. di S. Petrosino e M. Odorici, Dio, la Morte e il Tempo, Jaca Book, Milano 1996: DMT; Du sacré au saint, éditions de Minuit, Paris 1977, trad. it., Dal sacro al santo, Città Nuova Editrice, Roma 1985: DSS; Ethique et Infini, Librarie Arthème Fayard, Paris 1982, trad. it. di M. Pastrello, Etica e Infinito, Città aperta edizioni, Troina 2008: EI; Quatres lectures talmudiques, édition de Minuit, Paris 1968, trad. it. di A. Moscato, Quattro letture talmudiche, Il nuovo Melangolo, Genova 2008: QLT; Totalité et Infini, Nijhoff, La Haye 1961, trad. it. di A. Dell’Asta, Totalità e infinito, Jaca Book, Milano 1980 19902: TI. ↩︎

  2. Cfr. EI, pp. 49-50. ↩︎

  3. ADV, p. 100. ↩︎

  4. Cfr. ADV, p. 234. ↩︎

  5. DSS, p 138. ↩︎

  6. Cfr. AHN, p. 204. ↩︎

  7. Cfr. AHN, p. 29. ↩︎

  8. EI, p. 51. ↩︎

  9. AHN, p. 128 passim. ↩︎

  10. Cfr. ADV, pp. 190-191. ↩︎

  11. AHN, pp. 206-208 passim. ↩︎

  12. Cfr. ADV, p. 62. ↩︎

  13. ADV, p. 190. ↩︎

  14. ADV, pp. 59-62 passim. ↩︎

  15. ADV, p. 56. ↩︎

  16. Cfr. ADV, p. 72. ↩︎

  17. Cfr. QLT, p. 75 in cui Levinas ricorda la doppia posizione nella quale in pensiero occidentale vorrebbe porre la Rivelazione. «Nella logica del pensiero occidentale, la Rivelazione, pena la sua stessa inutilità, deve implicare degli elementi tali che nessuna ragione li possa mai scoprire. Perciò quegli elementi devono poggiare come su un’isola di fideismo o su una cieca fiducia nel loro messaggero. Devono far correre, chi li accolga, il rischio di farsi abbindolare dal diavolo. Se invece sono accettati, perché già si impongono alle convinzioni di chi li accoglie, allora quegli elementi appartengono al campo della filosofia». ↩︎

  18. Cfr. ADV, pp. 74-75. ↩︎

  19. Cfr. AHN, pp. 23-24. ↩︎

  20. Cfr. ADV, p. 214. ↩︎

  21. Cfr. AHN, p. 53. ↩︎

  22. Cfr. AHN, p. 45. ↩︎

  23. ADV, p. 196. ↩︎

  24. Cfr. ADV, pp. 216-217. ↩︎

  25. Cfr. ADV, pp. 147-148. ↩︎

  26. Cfr. AHN, p. 46. ↩︎

  27. Cfr. AHN, pp. 47-48. ↩︎

  28. Cfr. AHN, p. 51. ↩︎

  29. Cfr. AHN, p. 56. ↩︎

  30. Cfr. AHN, p. 56-59. ↩︎

  31. ADV, p. 260 passim. ↩︎

  32. Cfr. Dt 5,1 e 11,19. ↩︎

  33. Cfr. ADV, pp. 152-153. ↩︎

  34. Crf. TI, pp. 98-101 in riferimento al Maestro; ma richiamiamo la lettura di tutto il capitolo Verità e giustizia, pp. 81-101. Riportiamo una citazione significativa di p. 96: «Avere un senso significa insegnare o essere insegnato, parlare o poter essere detto». Sul Dire rinviamo anche alla lettura di DMT, pp. 259-263 di cui citiamo un’espressione che si riferisce chiaramente all’interpretazione di leemor come per non dire: «La sincerità sarebbe così un Dire senza Detto, un «parlare per non dir nulla», un dare della donazione di segno» (p. 261). ↩︎

  35. ADV, p. 153. ↩︎

  36. Cfr. ADV, p. 153 ↩︎

  37. Cfr. ADV, p. 157. ↩︎

  38. AHN, p. 73. ↩︎

  39. AHN, p. 75 passim. ↩︎

  40. ADV, pp. 121-122 passim. ↩︎

  41. Cfr. AHN, p. 76. ↩︎

  42. Cfr. AHN, p. 67. ↩︎

  43. Cfr. AHN, p. 28. ↩︎

  44. AHN, p. 29 passim. ↩︎

  45. AHN, p. 83. ↩︎

  46. Cfr. ADV, p. 94. ↩︎

  47. Crf. AHN, pp. 78-80. ↩︎

  48. Cfr. AHN, pp. 79-80. ↩︎

  49. AHN, p. 68 passim. ↩︎

  50. ADV, p. 222. ↩︎

  51. Cfr. QLT, pp. 31-33. ↩︎

  52. ADV, p. 152 passim. ↩︎

  53. ADV, p. 181. ↩︎

  54. ADV, pp. 218-219 passim. ↩︎

  55. Cfr. ADV, p. 261. ↩︎

  56. AHN, p. 122. ↩︎

  57. ADV, p. 252. ↩︎

  58. Cfr. ADV, pp. 228-230. ↩︎