Messianismo e religione nel pensiero di Emmanuel Levinas

Nel presente lavoro esamineremo l’aspetto religioso del Messianismo, all’interno di una concezione ebraica che è molto complessa, e della quale Levinas coglie gli aspetti più consoni al suo pensiero; infine vedremo come il filosofo collega la propria visione soggettivistico/religiosa del Messianismo al Sionismo inteso come tentativo di declinare nelle categorie politiche ciò che per sua natura eccede il politico.1

1. Il Messianismo complesso

Levinas tratta la nozione di Messianismo in diversi scritti: nel commento a Sanhedrin in Difficile libertà, e nei testi Dal Sacro al Santo, L’aldilà del versetto, e Nell’ora delle nazioni, ma possiamo dire che le idee messianiche in qualche modo, fecondano implicitamente gran parte degli scritti ebraici perché il messianismo per Levinas è la peculiarità dell’universalismo ebraico.

La nostra analisi cercherà di esaminare le concezioni levinasiane nei diversi scritti seguendo l’ordine concettuale espresso nel commento a Sanhedrin, che temporalmente è il primo commento a un testo messianico, e le cui idee sono riprese negli scritti successivi.

1.1. Mondo futuro ed epoca messianica

Il primo paragrafo del commento a Sanhedrin è dedicato alla definizione del concetto di Messianismo e introduce subito una distinzione tra «epoca messianica» e «mondo avvenire». La prima sarebbe la realizzazione delle promesse dei profeti distinte in due categorie: politica e sociale. Il «mondo avvenire», invece, sarebbe un ordine personale e intimo, esterno ai compimenti storici dell’umanità unita in un destino collettivo.2

La visione dell’epoca messianica come una cerniera tra questo mondo e quello avvenire è espressa nelle opinioni dei diversi rabbini citati. Per qualcuno l’epoca messianica mette fine contemporaneamente all’ingiustizia politica e sociale: è una visione di tipo metastorico. Secondo altri l’unica differenza tra questo mondo e quello messianico è la fine del «gioco delle nazioni» ovvero dell’assoggettamento politico di Israele disperso tra le nazioni. In questo senso la redenzione messianica è di tipo intrastorico.3 Levinas, tuttavia, individua una radice più profonda in questa concezione: l’epoca messianica mette fine solo alle violenze politiche, ma non sopprime l’esigenza della socialità e della solidarietà, anzi, le enfatizza.4

La distinzione tra le due concezioni esposte diviene più complessa nel rapporto tra i tempi messianici e i meriti umani. Per la prima concezione l’avvicinarsi dei tempi messianici, nella soluzione del problema politico e sociale, dipende dal potere morale dell’uomo.5 Per la seconda, invece, esiste qualcosa di estraneo all’individuo morale che deve essere distrutto. Il Messia è proprio questa distruzione, questo disvelamento delle contraddizioni politiche, e poco importa se questa distruzione avvenga per un’azione di Dio o una rivoluzione politica distinta dalla morale. La venuta del Messia comporta, dunque, un elemento irrazionale che non dipende dall’uomo, ma viene dal di fuori.6

Levinas rigetta l’idea di un messianismo inteso solo in funzione di un mondo avvenire, e sembra preferirne uno che si realizzi nella storia, nella solidarietà, che è il fermento del tempo7 facendo sentire l’eco delle ultime pagine di Dall’esistenza all’esistente, ma anche delle idee espresse in Totalità e Infinito, e forse anche quelle delle ultime pagine di Altrimenti che essere, in cui la soggettività esposta ad Altri sopporta tale esposizione nel tempo, urtando contro l’assurdo brusio dell’il y a.

1.2. Il dominio scellerato dei romani

Anche nel commento talmudico al trattato Joma, che Levinas presenta in L’aldilà del versetto, c’è una tensione tra Messianismo intrastorico e metastorico, e tra ruolo dell’uomo nello Stato e irruzione di un elemento totalmente esteriore. Il trattato si riferisce a una successione d’imperi distrutti l’uno dall’altro e, a dire di Levinas, ci rivela qualcosa sul rapporto tra politica e religione.8 Tra i popoli in contesa, quello ebraico rimane fuori dalle lotte perché attende la venuta del Messia. Ma il momento di questa venuta non è politicamente indifferente; sembra che ci sia bisogno di una determinata situazione politica che condizioni la fine messianica della storia;9 e questa situazione politica è il dominio scellerato dei romani.10

Il Talmud descrive le lotte tra gli stati come tra diversi animali. Levinas vi legge un riferimento all’animalità umana, al suo conatus essendi messo in questione dal giudaismo che si configura, quindi, come una «denucleazione» di questi atomi di vita, una messa in questione delle disuguaglianze naturali; messa in questione che è la religione.11 Tale affermazione è rinforzata dal giudizio che il Talmud dà alle diverse nazioni in relazione al loro rapporto col Tempio di Gerusalemme, il che significa, per Levinas, che la distinzione tra bene e male dipenderebbe dalla possibilità per un ordine sociale e politico, di coesistere con le esigenze etiche di Israele, visto non in chiave nazionalistica, ma come simbolo di un popolo che attraverso la sua Passione nella storia, può giudicarla.12

Da queste considerazioni Levinas ricava il messaggio di sfiducia nell’azione politica che conserva la violenza delle azioni umane sempre colpevoli. Il dominio scellerato dei Romani sancisce l’ordine in Occidente, ma il trionfo della giustizia nella storia appartiene solo al discendente di Davide.13

Nel commento al trattato Joma, ci sono entrambi gli aspetti emersi in Sanhedrin: il ruolo politico nel messianismo, e la venuta del Messia come evento totalmente esterno. Qui emerge un ruolo più positivo della politica intesa come elemento preparatorio alla giustizia del Messia. Non è dunque la politica che giudica la Storia, ma la religione. Eppure la scelleratezza di Roma è stata necessaria perché ha creato un ordine senza il quale gli uomini si sarebbero sbranati tra loro. S’intravede quella difficile sintesi, non affatto conciliatoria, tra Messianismo e Storia che emergerà alla fine del commento di Levinas sul trattato Sanhedrin.

1.3. Il Messia in lutto. Sofferenza e salvezza

La seconda considerazione che Levinas fa riguarda l’avvento dei tempi messianici. Egli si chiede se esso sia un evento condizionato dalle azioni umane, oppure incondizionato, perciò esamina una diatriba rabbinica all’interno della quale è contenuta un’affermazione enigmatica sul lutto: a ciascuno basta il suo lutto.14 Chi è in lutto? Levinas passa in rassegna diverse interpretazioni.

Prima opinione: a essere in lutto è Dio, cioè la volontà che dirige la storia, perché l’ordine del mondo è come in scacco. Di conseguenza le azioni umane non hanno alcuna efficacia in questo sistema universale corrotto, piuttosto essa dipende dalla redenzione dell’universo. È come se Dio insieme con l’universo vivesse un’avventura nella quale entrambi si redimono.15

La seconda opinione afferma che a essere in lutto è Israele. «Israele soffre. Tale sofferenza, in mancanza di pentimento, è la condizione della sua salvezza».16 Levinas chiosa quest’affermazione dicendo che la sofferenza è distinta dal pentimento e che pertanto, essa ha un valore, tuttavia distinto dal merito propriamente detto. Intravedo in queste parole anche una presenza della sofferenza inutile o di quella in cui avviene una preghiera pre-orazionale, o forse, i tratti della sofferenza com’è stata delineata in Altrimenti che essere, una sofferenza che non può assumere la sua causa.

La terza opinione è che a essere in lutto è Israele, ma la sua sofferenza causa il pentimento e questo è la causa della liberazione. «L’uomo riceve e al tempo stesso è l’artefice della salvezza».17 Anche in questo caso mi sembra di ravvisare l’idea della sofferenza come l’atto che strappa l’uomo all’ordine del mondo per costituirlo come un essere morale, come anima, e anche la sofferenza come evento esteriore che può divenire sofferenza-per-altri. L’uomo diventa in questo senso artefice della salvezza non perché è un soggetto attivo, ma perché, con l’esposizione alla sofferenza per-altri, compie l’espiazione che trasforma l’Essere in Universo e l’Uomo in Anima.

Con le diverse interpretazioni di chi è in lutto, è proposta un’alternativa radicale: o sono le azioni morali degli uomini che salveranno il mondo, oppure è necessario un evento oggettivo che oltrepassi la volontà degli individui.18 La questione ha una radice più profonda ed è quella della natura dell’uomo, e di conseguenza della validità dei suoi atti. O il male corrompe totalmente la natura dell’uomo, per cui solo se lui si rende conto della propria malattia può chiederne la cura. Oppure il male ha a sua volta una radice che consiste nell’errore e nell’ignoranza che è l’idolatria. In tal caso il Messia giungerebbe con la maestria dell’insegnamento.19

Su questa discussione s’innesta un ulteriore aspetto dell’avvento messianico, che si gioca tra la natura e il fondamento stesso della morale umana. La morale umana per sua stessa costituzione si pone in un punto né di assoluto inizio né di totale conseguenza. In secondo luogo, la morale si fonda sulla libertà, vale a dire, in ultima analisi, sulla possibilità d’immoralità. La morale, per essere tale, può essere atea: è questo il suo paradossale fondamento. «Il giudaismo adora il proprio Dio con la coscienza acuta di tutte la ragioni: di tutta la Ragione dell’ateismo».20

La riflessione di Levinas si colloca su un piano più generale e riguarda il valore delle azioni umane nella storia, senza dimenticare l’importanza dell’irruzione dell’alterità e della trascendenza.

1.4. Le doglie del Messia

La tensione tra l’azione umana e l’intervento di Dio determina alcune contraddizioni all’interno del messianismo. L’avvento messianico, nella tradizione popolare, è associato a eventi catastrofici, miracolosi, di fronte ai quali non ci si sente sicuri, perché non ci si sente giusti.21 Al di là della paura popolare delle catastrofi, la radice profonda di questa affermazione è trovata da Levinas nell’esigenza etica, che il Messianismo non elude, ma amplifica iperbolicamente.22 Non si tratta della paura di una morale che teme le sia chiesto di più, ma di una morale che, in nome della trascendenza etica, cioè del disinteressato quanto infinito cammino dal Bene al meglio, non concepisce un’idea di compimento o di arresto. Un secondo motivo di paura è espresso dal Talmud con l’immagine di un uomo che fugge dinanzi a delle fiere. Levinas si chiede se a produrre tale timore sia il ritorno alla bestialità che può prorompere in un evento rivoluzionario.23

Levinas commenta l’affermazione di Rabbi Yohanan, che dice di aver visto gli uomini portarsi le mani ai fianchi per il dolore delle doglie, e la riferisce a Dio che soffre come se dovesse partorire, «perché nel tempo messianico è necessario che sacrifichi i malvagi ai buoni. Perché nell’atto giusto c’è ancora una violenza che fa soffrire».24 Dio stesso teme il giorno del giudizio, per la violenza con la quale dovrà compiere l’azione di giustizia. Levinas, tuttavia, ribadisce il valore della giustizia che è richiesta dalle vittime della sofferenza, imposta loro dai malvagi. Per costoro è necessario fare giustizia: il Messianismo non è un evento pacificatore senza un suo prezzo.

Per questo un’altra interpretazione, su chi porta le mani ai fianchi per i dolori del parto, afferma che sono gli abitanti del cielo e della terra che attendono la giustizia divina «perché temono che Dio cambi idea e rinunci alle sanzioni».25 Eppure Dio esita di fronte a questa violenza «giusta». Levinas prende le distanze dall’esigenza di violenza, e nega che gli Ebrei possano mai accettarla. Non esiste una causa giusta che possa comportare un’azione violenta. Se è così, dunque, l’idea tradizionale di Messianismo, che comporta una certa dose di violenza, deve essere superata? È la domanda che Levinas si pone e, insieme con lui, i saggi dottori del Talmud.

La sua riflessione andrà verso una ridefinizione del Messianismo in chiave etica, nella quale l’elemento di esteriorità violento-non-violento che fa irruzione nel mondo è il volto d’Altri.

1.5. La salvezza da Dio stesso

Oltre che nei confronti dell’azione violenta Levinas ha sfiducia in ogni sistema che possa essere un principio universale, come lo Stato, o addirittura il Messia stesso. Egli insiste sul bisogno dell’irruzione di un evento altro dalla politica e dallo Stato, nei quali si può sempre celare una formalizzazione del male.26

Commentando un’affermazione secondo la quale il Messia per Israele è già venuto, Levinas dice che Israele possiede una speranza ulteriore, attende da Dio stesso una liberazione che coinciderebbe con la sovranità di una moralità vivente, aperta su progressi infiniti.27 Un Messianismo che non elimina le esigenze della socialità, nella quale si ravvisa un rapporto diretto con Dio. Solo in questa socialità esigente l’uomo può ricevere la salvezza direttamente da Dio, perché la responsabilità assoluta personale verso Altri (le viscere di misericordia) produce una deferenza all’aldilà che è proprio l’a-Dio. L’uomo continua a essere lo snodo nel quale si produce la rottura nell’essere che è il dare, rottura attraverso la quale può irrompere nella storia il Messia.28

Nella Storia si compirebbe il dare che permette al Messianismo di realizzarsi. La durata della storia non sarebbe, dunque, un’attesa frustrata, ma la realizzazione stessa del Messianismo. Questo è possibile solo con l’uomo inteso come soggettività esposta ad Altri, aperta alla gestazione dell’Altro nel Medesimo, come maternità. Ciascuno può e deve essere il Messia.

Proprio per questo messaggio etico universale, Israele, secondo Levinas, non possiede un senso solo etnico. Ciò che definisce Israele è il fatto di essere salvato da Dio. C’è un certo universalismo nel particolarismo ebraico. Il messaggio universale di questo particolarismo è che ognuno è salvato da Dio e non per procura. La salvezza che avverrebbe tramite un re Messia, sarebbe ancora politica, limitata nel tempo, e non assoluta. Non è ancora la salvezza suprema che si apre all’umano.29

Il giudaismo non è portatore di una dottrina della fine della storia. Per esso la salvezza rimane possibile in ogni momento.30 Queste considerazioni portano Levinas a un’importante conclusione: «che per l’insieme dei saggi di Israele il messianismo non esaurisce il senso della storia dell’uomo».31

1.6. Sofferenza, perdono e ospitalità nel giorno del Messia

Vorrei introdurre qui delle considerazioni sul ricordo del dolore nel tempo messianico, sul perdono umano e divino, e sull’ospitalità che fanno parte sia della storia che dell’escatologia.

Riferendosi a una domanda posta nel trattato Berakhoth, se nel tempo messianico bisognerà ancora ricordare l’uscita dall’Egitto, Levinas commenta affermando che la liberazione dall’Egitto fa parte dell’umano, e non rimane un evento passato da eliminare. È come se esso anticipasse la liberazione stessa dell’uomo.32

Quanto al perdono messianico, Levinas ne parla commentando il passo di Pesahim in cui si dice che l’Egitto porterà un dono al Messia nel tempo futuro. La domanda è: come può l’Egitto, che tenne schiavi gli Ebrei, partecipare al mondo messianico? Levinas risponde che ciò è possibile quando si è potuto ammettere altri tra sé, quando si è riuscito a ospitare nel proprio paese un gruppo di stranieri con una lingua e delle tradizioni diverse, anche solo per sopportazione.33

«Il Messia obbedisce all’ingiunzione del Signore. Accetta il dono dell’Egitto. Ma, da solo, avrebbe rifiutato! Niente pace senza il perdono sovraumano».34 C’è qui sia un riferimento al messianismo come evento assolutamente esterno, sia la tensione dialettica tra le azioni umane e l’intervento di Dio nell’avvento del Messia, ma intuiamo anche una relazione più profonda tra pace e perdono.

Dio si placa, ma perché il Messia avrebbe rifiutato il dono dell’Egitto? Solo per la debolezza della natura umana? Ciò che Levinas dice a proposito del perdono, commentando il trattato Joma, in Quattro letture talmudiche è molto illuminante a riguardo. Nel giorno di Kippur si ha la certezza del perdono da parte di Dio, ma non del prossimo. Tale perdono deve essere ottenuto accostando e placando il fratello che si è offeso, col rischio che i giochi restino aperti. In tal senso il prossimo è «più altro di Dio».35

Questa dinamica ci rivela l’esigenza della socialità per la guarigione dai nostri errori. Se però l’uomo pecca contro la socialità stessa, cioè rifiuta di accettare l’altro in quanto altro, non c’è un ordine universale al di sopra di quello interindividuale che concili tutto. «L’individuo offeso deve essere placato, accostato e consolato individualmente; il perdono di Dio — o il perdono della storia — non si può concedere senza che l’individuo sia rispettato […] . La pace non s’installa in un mondo senza consolazione».36

È in questa tensione che si compie il giorno del Signore. Un evento che viene da un oltre la storia, ma che si compie nella storia e che, pertanto, mantiene tutte le tensioni che fanno parte dell’umano. Non c’è nessuna Idea che possa conciliare la storia e perdonare i peccati dell’uomo contro Dio, il suo conflitto con la ragione medesima. È contro l’idea della Ragione come luce del mondo che il giorno del Signore si può identificare come un giorno di tenebre.

Vorrei ritornare sull’espressione di Berakhoth: «L’Egitto porterà un dono al Messia nel tempo futuro». Jacques Derrida, in Addio a Emmanuel Levinas, ci fornisce «un’ipotesi insieme timida e provocante». La sua riflessione s’inserisce nella trama da lui sviluppata su ospitalità e accoglienza come espressione del soggetto come ostaggio. Da questa premessa «se ne potrebbe trarre un’aspra conclusione: l’ospitalità o è infinita o non è».37

Secondo Derrida, la frase «L’Egitto porterà un dono al Messia nel tempo futuro», s’illumina con il commento che Levinas fa al trattato Peshaim, con queste parole «Un riconoscimento della Torah prima del Sinai? ». In questa espressione Derrida intravede una messianicità a priori, oltre le intenzioni di Levinas, ma forse, nella sua stessa direzione.38

Derrida, quindi, estrapola tre concetti, dalla riflessione di Levinas, che farebbero parte di questa messianicità a priori, e sono la fraternità, l’umanità come fraternità del prossimo, e l’ospitalità che assume un valore radicale.39 Del resto lo stesso Levinas commentando Deuteronomio 23, 8 aveva sostenuto che proprio l’ospitalità o la fraternità evocano un ricordo della «parola di Dio», e che appartenere all’ordine messianico significa saper accogliere l’altro da sé. In questa «parola di Dio» che è la fraternità e l’accoglienza, Derridà intravede un ricordo prima del Sinai, un «riconoscimento della Torah prima del Sinai».40

Derrida sta sottilmente allargando il concetto di universalismo ebraico e messianico per estenderlo oltre la sua determinazione storica e il suo contenuto «nazionalistico», travalicando Levinas, ma forse anche cogliendo delle sfumature che egli fa emergere dalle proprie parole.

«Non dimentichiamolo mai, l’elezione è inseparabile da ciò che sembra sempre contestarla: la sostituzione».41 Derrida, quindi, conduce la sua osservazione quasi-eversiva sulla scia del concetto di sostituzione, che si declina poi come accoglienza, ospitalità, fraternità. Queste sue riflessioni ci sono parse qui utili da citare, come quasi-contraddittorio alle affermazioni di Levinas, anche per introdurre la contraddizione che poi esse faranno emergere quando bisognerà coniugare etica e politica, o derivare questa da quella. Allora la riflessione di Derrida sui due «luoghi» nei quali si annuncia l’ospitalità, il Volto e il Sinai, potrà fornirci quella contestazione necessaria all’idea che il messaggio messianico possa istallarsi qui e ora sul Sinai, nello Stato di Israele.

1.7. «Il giorno delle tenebre» e «Il giorno del Signore»

In Difficile libertà, Levinas spinge verso un messianismo di tipo etico e universale, che si configuri come evento della soggettività, un superamento del messianismo di tipo individuale, cioè legato a una particolare figura storica.42

Per consolidare questa visione etica e universalistica del messianismo Levinas commenta dei versetti interessanti che identificano il giorno dell’Eterno col giorno delle tenebre. A suo dire la prima spiegazione di questa frase enigmatica è l’uguaglianza dei due giorni, nell’attesa umana di giustizia, un’attesa che possiede le imperfezioni della natura e delle azioni umane.43 Da una parte la natura corrotta dell’uomo nel giorno del Messia sarà la causa della violenza dell’azione di giustizia che compirebbero gli uomini; dall’altra c’è una violenza che gli stessi giusti subirebbero, perché chi è talmente giusto da scampare al giorno del Signore?

Quello sarà dunque anche un giorno terribile di tenebre. Per chi allora giungerà? Per chi ha intelligenza, dicono i padri, come il gallo che, nelle tenebre, vede la luce dell’alba prima che essa giunga.44 È come una sorta d’intelligenza profetica, un’intelligenza che il pipistrello non ha. L’oscurità gli pesa, ma la luce non ha alcun senso per lui. Un messianismo crudele che si rifiuta a color che sono incapaci di luce, ma anche un senso più profondo. «La verità si dà a chi è pronto interiormente all’idea che essa non è universale nel senso logico del termine».45

Questo significa che non esiste una liberazione oggettiva. Il Messia viene solo per chi lo attende,46 nell’incrocio della notte e del giorno, un incrocio che non è più quello della creazione, nel giorno di sabato (in cui la luce si incrocia con l’oscurità), ma della redenzione (in cui l’oscurità si apre verso la luce). La creazione e la redenzione trovano nell’intelligenza il luogo dell’elaborazione, che permette loro di strapparsi dal mondo mitico, ed entrare nella storia.47

Per esprimere più chiaramente il suo concetto di messianismo universalistico ebraico, Levinas cede il posto al discorso talmudico di Rabbi Abhu e il miscredente. Il confronto tra i due sul momento in cui verrà il Messia è illuminante. Il Messia verrà quando le tenebre ricopriranno le genti. Perché? Forse che il messianismo ebraico è una pretesa di superiorità che richiede la sventura degli altri popoli? L’ebraismo rivendica per sé l’esclusiva in materia di salvezza?48

I versi di Isaia sui quali si confrontato Rabbi Abhu e il miscredente promettono a tutti i popoli di marciare alla luce del Signore, ma perché questo avvenga sono necessarie le tenebre. Levinas fa un’analisi profonda e geniale di queste tenebre necessarie perché risplenda la vera luce. A suo dire la luce che deve essere oscurata dalle tenebre affinché risplenda la vera Luce, è quella della ragione totalizzante.49 Levinas si riferisce a un’universalità di tipo hegeliano che s’impone a tutti annullando le differenze nella totalità. Quest’universalità della verità al di sopra del pluralismo è la fonte della violenza politica. La luce della ragione totalizzante ha illuminato il mondo provocando la soppressione di tutto ciò che non vi si adegui, anche quella di chi per antonomasia rifiuta di concepire il mondo come totalità e richiama costantemente la trascendenza: il popolo ebraico.

Se questa è la luce che illumina le nazioni, si comprende bene che, affinché giunga il Messia, le tenebre debbano ricoprire le nazioni. C’è bisogno che la luce della razionalità totalizzante sia eclissata, affinché, non riponendo più la propria fiducia in una ragione che esenta il soggetto dalla sua responsabilità verso Altri, ciascuno si senta responsabile dell’intero universo.

Di là dalle diverse opinioni degli uomini, si può creare una situazione in cui è il solo rapporto etico a sussistere? Un «universalismo assolutamente pacifista e apolitico» ?50 Questa disillusione è possibile tramite l’oscuramento delle luci della ragione totalizzante. La Luce risplenderà quando le tenebre avranno coperto la falsa luce della ragione dei popoli. «Forse Israele significa in primo luogo l’insieme degli uomini liberati da tale affascinante allucinazione».51

Le affermazioni conclusive di Levinas sono molto interessanti. Egli riflette su una scottante questione degli ultimi secoli, cioè l’emancipazione degli Ebrei, il loro aver accettato di far parte degli stati moderni. Levinas si chiede come sia possibile contestare lo Stato come fonte della salvezza giacché, nel momento in cui si entra a farne, si ammette già de facto ciò che dovrebbe essere contestato in linea di principio. Egli ritiene, pertanto, che con l’emancipazione gli Ebrei abbiano perso gran parte della loro sensibilità messianica.52

Questa sarebbe l’ultima parola di Levinas, se non ci fosse quel tentativo di unire l’accettazione della storia con il particolarismo universalista ebraico che è lo stato di Israele.53

2. Il difficile messianismo

2.1. Una lettera strappata alla Torah

C’è un rapporto difficile tra messianismo e storia — esserne fuori giudicandola o esserne parte — , tra il valore dello Stato e quello dell’irruzione della trascendenza, tra la violenza richiesta da ogni azione politica e la pace che costituisce la Torah.

Il mio scopo non è compiere un’analisi o una critica esaustiva sul Sionismo in generale né sulle questioni che a esso si riferiscono, ma analizzare brevemente la sua presenza nel pensiero di Levinas, e sollevare qualche quesito in merito alle difficoltà, o alle possibilità, che esso può apportare alla sua riflessione filosofica.

L’ultima sezione di L’aldilà del versetto s’intitola proprio Sionismi. Levinas intende mostrare come l’opera di uno Stato moderno — uno stato che si vuole laico e del quale è assurdo pensare di poter fare a meno — s’impregna in Israele di pensieri giovani ma scaturiti dalla Bibbia. La più grande scoperta della Bibbia è stata quella dell’etica della responsabilità verso il prossimo ed è difficile pensare a questa etica nella situazione del conflitto israelo-arabo. Per la soluzione di tale conflitto Levinas si chiede se le idee «nella loro astratta nudità», separate dal loro fondamento biblico o coranico, siano capaci di trasformarsi in idee forti per la pace o se non corrano, piuttosto «permanentemente il rischio di alienarsi nel gioco puramente politico». Realizzare quest’opera mediante lo Stato oltre lo Stato è l’«irriducibile escatologia di Israele». In questo senso Levinas si chiede se «lo scandalo dell’elezione ebraica» sia solo lo scandalo dell’orgoglio e della volontà di potenza dello stato d’Israele o quello di una coscienza morale che si sente chiamata irrimediabilmente a rispondere sempre per prima come se fosse la sola a esser chiamata.54

La prima questione da esaminare riguarda il ruolo dello stato nello sviluppo storico e nel messianismo. Già queste due espressioni sono complesse. Il messianismo stesso oscilla tra una concezione catastrofica, una restauratrice e una utopistica, e il ruolo della storia, delle azioni umane e quindi anche dello Stato in esso, risente di questa oscillazione. In L’aldilà del versetto c’è una riflessione sulla necessità dello Stato.55 Levinas, riferendosi al Cristianesimo, che concepisce il Regno di Dio e quello degli uomini separati, sostiene che non è corretto affermare che per l’Ebraismo i due ordini si confondono. Per la fede di Israele, invece, è possibile realizzare nella storia qualcosa che vada oltre la storia. Il Giudaismo seppe intravedere uno Stato sottratto alla legge (umana), pur senza negare che esso costituisse un «cammino necessario, anche per andare al di là dello Stato».56 Del resto la Legge divina non è legge di vita? E la vita non è storia, non è politica, non è Stato?57

Proprio in nome dell’appartenenza all’ordine della storia, che pur si vuol sottomettere alla Legge, e per amore di questa, Israele accetta di vivere nella storia, ma con la sua Legge. E per mantenere entrambe è disposto a cedere sull’integrità della Legge, invece che farne a meno.

«Piuttosto una lettera strappata alla Torah che la Torah strappata alla memoria di Israele». L’atto politico non si colloca nel vuoto lasciato da un simile sacrificio della lettera?58

Lo spazio politico è collocato in quello lasciato da una lettera strappata alla Legge che, tuttavia, non si ritira assolutamente per lasciare lo Stato in balia di sé. Anzi, la realizzazione di questo avviene solo in simbiosi con la Legge, l’essenza dello Stato è richiesta dall’ordine assoluto.

Il Messia è re. Il divino investe la Storia e lo Stato, non li sopprime. La Fine della Storia conserva una forma politica […] . L’epoca del Messia può e deve risultare dall’ordine politico che si pretende indifferente all’escatologia.59

Questa visione di Levinas è probabilmente influenzata da quella di Maimonide che egli stesso cita poco dopo. Per Maimonide non aveva alcun senso un messianismo apocalittico. Il contenuto del messianismo era semplicemente la possibilità di una più intima conoscenza di Dio, la quale era anche l’obiettivo dei filosofi. Certamente Maimonide considera il valore di altri fattori come la liberazione di Israele dalla schiavitù, ma per questo non è necessario stravolgere l’ordine naturale. Eppure per lui, l’avvento del Messia rimane un miracolo, cioè qualcosa di non derivante dalle azioni umane. Levinas riprende il passo in cui Maimonide si riferisce alle prove che il Messia dovrebbe dare di sé: restaurare lo stato di Israele, vivere e far vivere pienamente la Torah.60

In questa dinamica di fiducia nella Storia e in Dio, e di oscillazione tra messianismo come compimento storico o come un ingresso di una totale alterità, si colloca la collaborazione con lo Stato, ricordata con l’esempio di Rabbi Elazer che partecipava alla lotta di Roma contro i malfattori Un mistico al servizio dello Stato oppressore61!

Questa collaborazione è spiegata dalla necessità di un’azione politica per combattere le spine che sono nel vigneto del Signore, ma nello stesso tempo c’è anche un richiamo all’intervento del padrone del vigneto, e non del suo vicario Messia, affinché queste spine siano rimosse. In questo modo Levinas ricorda la doppia natura del messianismo per Israele: un messianismo atteso, e uno già compiuto. Il che vuol dire che Israele attende direttamente da Dio la salvezza.62 Questo rapporto diretto con Dio è interpretato da Levinas come «Una nuova possibilità dello Spirito umano, una nuova distribuzione dei suoi centri, un nuovo senso della vita, nuove relazioni con l’altro».63

Nel pensiero ebraico il Messia è ancora re, ma ecco, Israele attende un compimento maggiore proveniente da un Altro, da Dio. Quale rapporto tra monoteismo e politica? E il loro rapporto con l’utopia? Queste sono le domande poste al monoteismo con l’avvento dello stato di Israele, evento della storia in cui si palesa una presa di posizione sulla storia stessa, con tutte le sue difficoltà e contraddizioni. Tali domande sono poste «per attendere da Sion quella formulazione del monoteismo politico alla quale nessuno ancora è mai pervenuto» e che può essere ottenuta solo mediante la responsabilità in uno stato moderno per «elaborare con pazienza, confrontando le formule coi fatti, una dottrina politica conveniente a dei monoteisti».64

Il problema, secondo Levinas, con la fondazione d’Israele, ma anche come causa della sua stessa costituzione, è il superamento dello stallo del pensiero utopistico ebraico. Anche Scholem aveva trovato nell’ebraismo un che di provvisorio, d’irresoluto nei confronti della storia. Un antiesistenzialismo che ora si deve confrontare con la creazione dello stato d’Israele, nella quale Scholem intravede il pericolo di una qualche rivendicazione messianica.65

La mia ipotesi, detta sottovoce e senza pretese, è che in Levinas non ci sia questa paura, quanto piuttosto una proposta, o pro-vocazione, di accostamento tra le istanze etiche e quelle più propriamente politiche del messianismo. Un connubio che non manca di tensioni e contraddizioni.

Nel cuore dei conflitti quotidiani, l’esperienza viva del governo — e anche la dolorose necessità dell’occupazione — permettono di scorgere insegnamenti ancora non detti nell’antica Rivelazione. Politica monoteistica, non v’è contraddizione tra i due […]? Da duemila anni, Israele non si è impegnato nella Storia. Innocente di ogni crimine politico, puro della purezza della vittima, di una purezza che gli ha consentito di evidenziare quello che è forse stato il suo unico merito e cioè la sua lunga pazienza, Israele era diventato incapace di pensare una politica che portasse a compimento il suo messaggio monoteista. L’impegno è ormai preso. Dal 1948. Ma tutto è appena all’inizio […] . Questo ritorno sulla terra degli antenati, al di là della soluzione di un problema particolare, nazionale o familiare, segnerebbe uno dei più grandi eventi della storia interiore e della Storia tout court.66

Sono interessanti le osservazioni di Derrida a proposito delle proposizioni di Levinas «dalla forma deliberatamente contraddittoria» data, secondo Derrida dal fatto che Levinas parla del superamento dello stato di Cesare e del compimento messianico dello stato di Davide. In altri termini non si comprende se questa sia un’alternativa tra la politica e un al di là della politica, o un’alternativa tra due politiche o infine una alternativa tra altre alternative. Levinas non esita a parlare di politica messianica, ovvero di una politica che vada oltre la politica, ma nell’espressione «politica messianica» la parola «politica» conserva il suo senso originario, anche se lo si vorrebbe superare.67

Derrida rileva che per Levinas il confine tra la città messianica — che è al di là della politica — e la Città — che non è mai al di qua del religioso — non è un confine netto. Egli critica la visione cristiana del rapporto tra Stato e religione, rilevandone le possibili commistioni che evolvono fino all’autoritarismo e al dogmatismo della Chiesa quando essa può dominare lo Stato, ma la sua posizione non si confronta con la possibilità di una religione di stato nello Stato d’Israele. Questa medesima aporia è riscontrata da Derrida, anche nel testo Al di là dello Stato nello Stato, in Nuove letture talmudiche, del 1988.68

Andando ad analizzare le parole di Levinas in L’aldilà del versetto, Derrida innanzitutto rileva che la successione dei paragrafi ha una sua retorica alla quale bisognerebbe prestare maggiore attenzione. L’ordine dei paragrafi è «Sì allo Stato», «Al di là dello Stato», «Per una politica monoteistica». Derrida si sofferma sulle parole di chiusura di questo paragrafo: «impegno, ma». Israele sarebbe per lo stesso Levinas, a detta di Derrida, sono un «impegno» che è «appena all’inizio».69

L’uso del condizionale «segnerebbe» — nell’espressione di Levinas «questo ritorno sulla terra degli antenati […], segnerebbe uno dei più grandi eventi della storia interiore e della Storia tout court» — dirime tutta l’ambiguità della questione di se lo Stato d’Israele è solo frutto di un intento particolare o nazionale, oppure uno dei più grandi eventi della storia interiore.

2.2. I piedi fermi sotto i portici di Gerusalemme

In Quattro letture talmudiche scritte tra il ’63 e il ’66, quindi prima del testo poco fa considerato, Levinas sembra esprimere alcune riserve sul Sionismo o su un certo tipo di Sionismo.70 La Terra promessa non sarebbe permessa non per una sorta di perenne incompiutezza delle attese ebraiche, quell’elemento che Scholem aveva trovato costitutivo dell’utopia ebraica. Per Levinas tutto si colloca nella prospettiva del diritto degli indigeni che è più forte di quello di Dio.71 Questo diritto è tale da dover tollerare e lasciare la libertà a coloro che la minacciano,72 una tolleranza assurda che Levinas poi chioserà dicendo che «prossimo» sono anche i familiari, i suoi fratelli ebrei e il suo popolo.73

La purezza egualitaria deve, secondo Levinas, concedere la libertà a coloro che le sono nemici. Sembra che non esistano azioni che possano imporre con la violenza la cessazione del male e l’instaurazione della libertà: nessuna rivoluzione. Commentando il trattato Baba Metsia in Dal Sacro al Santo, Levinas parla anche del rapporto tra Giudaismo e Rivoluzione, che egli inizialmente sembra definire in modo positivo, nel suo tentativo di liberare l’uomo, di sottrarlo dal determinismo economico.74 Levinas pensa la rivoluzione all’interno di un tentativo di liberare l’uomo dal Male che è certamente nell’umano e nella creazione. Perché la liberazione avvenga, è tuttavia necessario che il male sia soppresso, che abbia il suo inferno.75 Ciò comporta una certa dose di violenza, e questa può anche rientrare nei criteri di uno Stato che voglia la liberazione dell’uomo e la lotta al Male. Levinas, tuttavia, dubita che un’azione statalizzata possa risolvere le cose alla radice.76 Per quest’opera gli sembra necessaria una rivoluzione del soggetto, una lacerazione della sua coscienza che rischia di rendere impossibile la rivoluzione: perché non si tratta solo di acciuffare il malfattore, ma anche di non far soffrire l’innocente.77

Dopo tali considerazioni si può pensare, e c’è nel Talmud, un’incompatibilità fra il Destino dell’Assoluto e la politica rivoluzionaria? Il Giudaismo è conciliabile con un’azione politica rivoluzionaria?78 In fondo Rabbi Elazar accetta la lotta contro il Male sul terreno politico, quindi esclude la possibilità di comprenderne la radice e di curarlo. Inoltre, agendo secondo i modi della politica, egli ne accetta la sostanziale imperfezione, quella di tutte le azioni umane che portano in sé tracce di egoismo e di violenza. Rabbi Elazar arriva a consegnare degli Ebrei allo Stato. Levinas interpreta quest’atto come la violenza subita dai deboli contro i quali si volgerebbe un’azione politica sia pure rivoluzionaria; Ebrei vuol dire proprio ciò che al mondo c’è di più debole e perseguitato.79 Rabbi Elazar risponde che egli allontana solo le spine dal vigneto. A quest’affermazione Levinas dà due interpretazioni. La prima è quella della rassegnazione religiosa: spetta a Dio punire i malfattori, noi attendiamo il Messia. La seconda può essere quella della necessità della violenza perché cessi la violenza.80

Sembra che Levinas stia disquisendo di due realtà distinte: l’azione di polizia, e quella rivoluzionaria. Tuttavia entrambe si ritrovano nello stesso alveo e cioè quello politico. La rivoluzione, che vorrebbe sovvertire un ordine politico, necessariamente ne instaurerà un altro. Lo Stato è irremissibile nella storia, ma esso non soddisfa tutte le esigenze dell’uomo. Solo la moralità può farlo. Polizia e rivoluzione sono ancora sul piano delle azioni umane, esse comportano una violenza, quella violenza che la moralità, la Torah, vogliono eliminare dal cuore dell’uomo.

La Torah e il suo studio pongono l’uomo in una dimensione nuova dello spirito. Ci sono, tuttavia, delle spine nel campo del Signore, il suo popolo è capace di ogni delitto.81 Per questo la sapienza ebraica biblica aveva creato delle città rifugio in cui potersi trattenere se si era commesso qualche crimine, città che garantivano l’impunità contro i delitti lievi, commessi per l’umana debolezza. Levinas afferma che anche la Torah può essere considerata una città rifugio. Il suo studio è più forte addirittura dell’angelo della morte. Come però le città rifugio non difendevano il colpevole dal vendicatore del sangue, così neppure la Torah ha questo privilegio. Il diritto di giustizia verso i familiari della persona uccisa è più forte.82

Eppure vi è un luogo in cui lo studio della Torah diviene puro. «I quattro cubiti della Legge» in cui, secondo i dottori del Talmud, Dio si è rifugiato,83 luogo in cui lo studio della Torah raggiunge il livello più alto della vita, quello in cui la conoscenza non si distingue dagli imperativi e dagli impulsi pratici.84 Questo luogo è Gerusalemme sotto i cui portici, secondo le parole del Salmo, i nostri piedi si sono fermati a meditare la Torah senza uscire in guerra. «A Gerusalemme, città della Torah autentica, v’è una coscienza più cosciente, completamente lucida, è il grande risveglio».85

Le città-rifugio, sono per Levinas, il segno di una civiltà o di un’umanità che protegge l’innocenza soggettiva e perdona la colpevolezza oggettiva, cioè tutte le smentite inflitte dagli atti alle intenzioni. Esse sono ancora segno di un’umanità lacerata dalle sue passioni, o quantomeno senza intenzioni buone che possano rimanere tali anche negli atti. Il testo sulle città rifugio insegna che il Sionismo non è un nazionalismo come gli altri, ma «che esso è la speranza di una scienza della società e di una società pienamente umana. E questo a Gerusalemme, nella Gerusalemme terrestre e non fuori di ogni luogo, in pii pensieri».86

Mi sembra che ci sia ancora in Levinas questa doppia direzione: da una parte l’universalismo della Torah, dall’altra il particolarismo nazionalistico. Personalmente intuisco, non senza la possibilità di sbagliarmi, che mentre Scholem temeva che il Sionismo potesse avere delle pretese messianiche, certamente del messianismo popolare,87 Levinas invece, tenda a far emergere dall’aspirazione sionista i suoi elementi universalistici e messianici. Tutto ciò con le difficoltà della storia e con un atteggiamento oscillante nello stesso pensiero di Levinas. La difficoltà sembra giocarsi nel rapporto tra Stato d’Israele e Israele, e tra questo e la Torah. Accenniamo al rapporto tra questi aspetti, con una breve analisi di alcuni saggi di Difficile libertà.

Nel saggio Stato di Israele, scritto nel ’51, Levinas dopo aver detto che lo Stato moderno è il destino dei popoli occidentali e rappresenta il compimento della loro umanità, la coincidenza del politico e dello spirituale, afferma che è consequenziale che in tale stato, l’ordine religioso assuma inevitabilmente l’aspetto di disordine.88 All’interno di questo quadro si pone la considerazione di Levinas sull’importanza della costituzione di uno stato in cui poter realizzare la profonda anima religiosa ebraica. Lo stato d’Israele non sarebbe nato, secondo Levinas, per un semplice desiderio nazionalistico di terra, ma per realizzare concretamente la dottrina di giustizia ebraica. In tal senso l’evento politico è già oltrepassato e lo Stato d’Israele «sarà religioso a motivo dell’atto stesso che lo impone come Stato. Sarà religioso oppure non sarà affatto».89

È proprio l’esigenza imprescindibile del religioso, dell’intelligenza degli antichi testi dell’ebraismo, che pone lo Stato di Israele di fronte alla possibilità di non essere tout court la realizzazione della sua anima, ma di esserne una via che porti al compimento della Torah. Una via con i suoi limiti e problemi.

La restaurazione dello Stato di Israele è sufficiente per una vita politica? E fosse pure vita dello spirito, sarebbe in grado di contenere il giudaismo? Piccolo Stato: che contraddizione! Presa in prestito come la luce dei satelliti, la sua sovranità sarebbe capace di innalzare le anime al pieno possesso di sé? È evidente che Israele si afferma in maniera diversa.90

Sembra chiaro che per Levinas ci sia una differenza tra Stato di Israele e Israele, ed è facilmente intuibile il ruolo che debba avere la Torah al suo interno. Sono categorie che richiederebbero uno studio a parte.

Nel saggio Giudaismo e tempo presente, che è del ’60, Levinas denuncia con la forza delle immagini, tutta la violenza che può esserci dietro i nazionalismi, e rileva anche l’illusione che può nascondersi dietro di essi nel momento in cui ci si crede portatori di un messaggio messianico. Contro tali illusioni, è il monoteismo di Israele che deve garantire la genuinità delle sue aspirazioni. «È necessaria una singolare pazienza — il giudaismo — per rifiutare le premature pretese messianiche».91 Una pazienza che i «militanti dell’impegno» possono dimenticare mescolando alle acque dei propri nazionalismi (anche di quello ebraico) il «sangue innocente che simili acque diluiscono».92

Sembra che dopo poco più di un decennio dagli inizi degli scontri nel ’48 Levinas guardi con difficoltà alle «pretese messianiche» che possono paradossalmente inserirsi nella corrente delle acque sotterranee che sgorgano da profondità elementari. È interessante l’utilizzo di questo aggettivo «elementare», forse ad accennare che il rischio di infiltrazione del male, sempre presente nell’azione politica, possa presentarsi anche in azioni che si pretendano messianiche.

Solo la Torah resiste al male. È in questo senso che forse possiamo riferirci alle parole di un altro saggio: Il senso della storia. In questo saggio sembra affermarsi che un Regno di Dio sia possibile nella Storia mediante azioni umane che cambino il mondo, ma si ribadisce il ruolo assoluto, sciolto dalle compromissioni con la Storia, della Torah,93 e sembra che Levinas condivida le paure di Scholem sulle pretese messianiche del Sionismo. Essere ebrei è un’azione molto più ardua e paziente. «Non si appartiene ancora a Israele quando si decide di conservare il proprio sangue freddo di fronte a guerre e sollevazioni: bisogna tenere un piede nell’Eterno […] . Solo in questo modo si compie sulla terra per tutti gli uomini una possibilità privilegiata: un essere libero che giudica la storia invece di farsi giudicare da essa».94

Credo che qui emerga quel rapporto particolare di vicinanza, ma anche di tensione tra Israele e la Torah. In diversi passi sembra che per Levinas l’identità di Israele coincida col suo messaggio, la Torah. Tuttavia essa chiede una responsabilità infinita, che ha bisogno sempre di rimodellarsi. Lo stesso Israele è chiamato ad ascoltare questo messaggio che urta costantemente contro l’animalità umana. In secondo luogo Levinas richiama una delle tentazioni maggiori del popolo ebraico, quella di accelerare la fine dei tempi, cosa che, secondo la tradizione talmudica, Dio avrebbe fatto giurare al suo popolo di non compiere mai.95

Tornando alle considerazioni sul diritto degli indigeni o delle città rifugio, possiamo inserire le osservazioni di Derrida. L’ipotesi per assurdo dalla quale egli parte è che, dal discorso etico di Levinas, non si possa dedurre sull’ospitalità un diritto o una politica. Per dirimere questa difficoltà, a suo parere, bisognerebbe ritornare alle condizioni della responsabilità, o della decisione tra etica, diritto e politica.96

Rileggendo tali condizioni, che sono quelle del soggetto come ostaggio, ospite nella sua stessa dimora, ospite che accoglie l’Altro e che è accolto dall’Altro, Derrida ne desume le stesse conseguenze di Levinas sul diritto degli indigeni. «L’ospitalità precede la proprietà».97 Per Derrida ci sono due luoghi fondamentali che sono determinati dall’ospitalità circoscritta tra l’etica, la politica e il diritto. Questi luoghi si chiamano «volto» e «Sinai».98 Dirimendo questo intreccio Derrida si sofferma su un nodo fondamentale, quello del Sinai che è il luogo in cui fu data la Torah, ma che oggi è anche il luogo che è meta del Sionismo, Sinai che è «una frontiera fra guerra e pace» testimone di crudeltà senza precedenti verso le quali Levinas ebbe sempre gli occhi rivolti, che ne parlasse apertamente o meno.99

La riflessione di Derrida riprende il rapporto fondamentale tra Israele e la Torah, e il rapporto tra Israele come categoria etica e lo Stato di Israele. In Levinas stesso sembra che non ci sia un’identificazione tra Israele come categoria etica e lo Stato di Israele. Credo che lo studio di questo rapporto nel suo pensiero vada approfondito.

Derrida sembra scorgere in Levinas una diacronia tra un Sionismo realista, più politico, e forse inadeguato all’ideale profetico, e un Sionismo che appartiene più alla visione escatologica, al politico al di là del politico.100

All’interno di queste considerazioni si pone la riflessione sulla pace. Derrida analizzando l’affermazione di Levinas sulla pace come concetto oltrepassante il pensiero puramente politico si chiede se essa sia una cosa politica e in che senso.101 L’insistenza va fatta sulla parola «puramente»: per capire il «politico» bisogna comprendere il «puramente politico», e questo all’interno dello schema di Levinas per il quale anche la Città propriamente detta non è mai al di qua del religioso, quindi uno schema in cui i confini non sono netti. Un sistema nel quale ci si attende un oltrepassamento del politico che è ancora un’«invenzione politica».102 Derrida è tra coloro che attendono tala «invenzione politica» nella speranza.103

Una speranza che per ora fa da controcanto al silenzio. Derrida si pone, quindi, in una posizione critica, non negando le possibilità delineate da Levinas, ma anche sollevandone le difficoltà. Israele può essere il luogo di quella particolare «invenzione politica» che già oltrepassa il politico? Su quale concetto bisogna ruotare per darsi una direzione? Derrida lo individua nella pace, della quale compie un’analisi, confrontando Kant con Levinas, e ritrovando il nodo in cui essa si produce: nel soggetto come ostaggio o ospite, e nel Volto d’altri. Una pace che è ingiunta dalla Torah quando afferma: tu non ucciderai. E poiché la Torah è ciò che ordina, essa significa il volto dell’altro.104

Per Derrida come per Levinas, la pace è anteriore alla guerra, la guerra non è che il rifiuto dell’ospitalità pre-originaria.105 La relazione tra politico e non-politco si gioca, quindi, in un campo nel quale i confini si confondono, e lo Stato può paradossalmente essere di cornice a ciò che lo oltrepassa. Secondo Derrida in Levinas il confine tra etico e politico non è mai stato puro e mai lo sarà.106

Il problema si dibatte, dunque, sulla partecipazione o non partecipazione alla storia, sul politico e non-politico, e su quella che Levinas definisce una maturità di Israele che adesso, dopo il 1948, può assumersi la responsabilità di introdurre concretamente nella storia i contenuti del suo messaggio universalistico, del suo messianismo. In questo tentativo, con tutti i suoi dilemmi, le difficoltà, le contestazioni, finanche la violenza, si realizza la doppia natura di debolezza e di forza di Giacobbe-Israele.

2.3. Nessuna scelta

Nelle letture talmudiche contenute in Nell’ora delle nazioni Levinas commenta un passo di Berakot, intitolandolo Al di là del ricordo,107 in cui c’è il divieto talmudico di chiamare Abramo col suo vecchio nome Abram. Ora anche Giacobbe cambiò il suo nome in Israele, colui che ha fatto forza a Dio e che è forte con Dio. Ma nel suo caso il divieto di chiamarlo Giacobbe non vale: «La grandezza di Israele è ancora in Giacobbe».108

Israele, che nella storia degli insediamenti si mostra forte, è ancora Giacobbe, l’uomo stanco che ancora continua a lottare contro il non riconoscimento, contro le menzogne della Terra che nascono dalla sicurezza che gli Stati pongono in se stessi.

È su questa «politica in subordine» che Levinas ritorna nell’omonimo saggio del 1979 contenuto in L’aldilà del versetto. Con l’insediamento degli ebrei nella terra di Palestina, sono cominciate le questioni arabo-giudaiche delle quali i giornali di tutto il mondo sono pieni. Per Levinas tutte queste riflessioni forse sono guidate da una sottile linea sotterranea: quella del timore, da parte degli Stati, che le proprie categorie sociali e politiche siano messe in crisi dallo stato di Israele, «nella convinzione che la natura non si trova mai fuori dal suo ordine, che lo straordinario è una nozione religiosa, fonte di mistificazione».109

Eppure gli ebrei stessi vogliono la pace nella loro terra. Cosa dunque determina quella sorta di allergia verso lo Stato di Israele? Secondo Levinas questa va cercata nella «difficile libertà d’Israele» che disturba e irrita la coscienza di sovranità delle altre nazioni sicure della propria terra. L’antisemitismo delle nazioni non è la semplice ostilità provata da una maggioranza nei confronti di una minoranza, «esso è la ripugnanza suscitata dall’ignoto dello psichismo altrui, dal mistero della sua interiorità».110

Lo psichismo altrui del popolo di Israele è il suo stesso messaggio: la Torah. Un messaggio al-di-là del politico che, da solo, non può salvare l’uomo. Un messaggio che non può e non deve essere dimenticato, pena l’asservimento dell’uomo ai propri biologismi o al massimo alla propria vita politica ed economica. Eppure l’allergia a questo messaggio che pone la politica in subordine, si manifesta non solo nel nazismo, ma anche nello stalinismo e nel post-stalinismo, e anche in quelle strutture internazionali che dovrebbero essere garanti di giustizia e universalità che, però, restano puramente politiche. Contro quest’oblio annuncia il suo messaggio etico il Sionismo, che «dopo il realismo delle sue formulazioni iniziali, si rivela infine, all’altezza del giudaismo sostanziale, come una grande ambizione dello Spirito».111

Levinas giunge a questa conclusione con la forza? O quest’affermazione, per la sua stessa natura, non può essere fatta con la forza della ragione ed è destinata a essere sempre contestata da coloro che fanno affidamento alla sicurezza della Terra e della Ragione? Questa è la «scheggia nella carne» d’Israele «ultima trincea» tra gli stati vicini che ne contestano l’esistenza. È allo sforzo di costruire questo Stato che si riferisce il motto En brera, «nessuna scelta». Israele è, dunque, uno stato forte e dominatore o «non è, nella sua realissima forza, anche quel che vi è di più fragile al mondo»?112

Nel 1978, nonostante le forti pressioni degli Stati arabi, il presidente dell’Egitto, Anwar al-Sadat, volle compiere un passo epocale verso il riconoscimento di questa possibilità dell’umano, di questa «grande ambizione dello Spirito» che «porta ancora il dolore e la derelizione nelle sue viscere».113

L’evento storico della pace israelo-egiziana, diviene il motivo di una riflessione sui contenuti del Sionismo, e uno spunto per intendere l’elezione di Israele come responsabilità, nel suo tentativo di uscire dal ruolo d’innocenza politica — che non basta alla vocazione della sua elezione — per riformulare il suo monoteismo e annunciarlo a tutti gli Stati la cui autoreferenzialità non è sufficiente a salvare l’uomo. Secondo Levinas il viaggio di Sadat ha aperto la strada a quella pace nella quale ciò che è politicamente debole è anche ciò che essa ha di più forte e audace, quella Pace che apporta alla pace una determinazione nuova: «la suggestione che la pace è un concetto oltrepassante il pensiero puramente politico».114

Si può, dunque, tracciare un possibile percorso di questa speranza verso una politica al di là del politico? Derrida vede uno iato in cui scorge un silenzio da parte di Levinas. Un silenzio che è estraneo alla non-risposta. Esso determina quello spazio nel quale si pone la nostra responsabilità.115

La chiusura di Levinas sembra essere quella nella quale il messaggio di universalità dell’ebraismo oggi debba assumersi anche la responsabilità di un ordine in-politico che tenti di realizzare, con difficoltà e contraddizioni, il monoteismo. Una responsabilità che porta al di fuori dell’innocenza nella quale lo stato di vittima lascia. Una responsabilità difficile, com’è difficile e ostinata la libertà che si agita sotto la Differenza di Israele dagli altri popoli.116 Una responsabilità che viene, dopo il ’48, annunciata da Sion alle altre nazioni, con il rischio di essere di nuovo giudicata utopistica, o peggio, imperialistica. Una responsabilità che si assume tutto il rischio della responsabilità che richiede alle altre nazioni. Parola data, promessa, silenzio che interpella la responsabilità di ciascuno, e quella di tutte le nazioni.

Forse solo nella loro risposta responsabile a questo messaggio lanciato da Sion, sarà possibile la pace al-di-là-del-politico. «Pregate per la pace di Gerusalemme: prosperino quelli che ti amano» (Sal 122, 6).


  1. Queste le abbreviazioni usate nel corso dell’articolo: ADV L’au-delà du verset, éditions des Minuit, Paris 1982, trad. it. di Giuseppe Lissa, L’aldilà del versetto, Guida, Napoli 1986. AE Autrement qu’être ou au-delà de l’essence, Nijhoff, La Haye 1974, trad. it. di M.T. Aiello e S. Petrosino, Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, Jaca Book, Milano 1983. AHN A l’heure des nations, Les éditions de Minuit, Paris 1988, trad. it. Di Silvano Facioni, Nell’ora delle nazioni, Jaca Book, Milano 2000. DDQI De Dieu qui vient à l’idée, Vrin, Paris 1982, trad. it. di G. Zennaro, Di Dio che viene all’idea, Jaca Book, Milano 1986. DE De l’évasion, in «Recherches philosophiques» V (1935-1936), trad. it. di Donatella Ceccon, Dell’evasione, Cronopio, Napoli 2008. DL Difficile Liberté, Albin Michel, Paris 19833, trad it.di S. Facioni, Difficile Libertà, Jaca Book, Milano 2004. DMT Dieu, la Morte et le Temps¸ édition Grasset et Fasquelle, Paris 1993, trad. it. di S. Petrosino e M. Odorici, Dio, la Morte e il Tempo, Jaca Book, Milano 1996. DSS Du sacré au saint, éditions de Minuit, Paris 1977, trad. it., Dal sacro al santo, Città Nuova Editrice, Roma 1985. EDE En découvrant l’existence avec Husserl et Heidegger, Vrin, Paris 19743, trad. it. Scoprendo l’esistenza con Husserl e Heidegger, Raffaello Cortina Editore, Milano 1998. EE De l’existence à l’existant, Fontane, Paris 1947, trad. it. Di F. Sozzi, Dall’esistenza all’esistente, Marietti, Genova 1986. EI Ethique et Infini, Librarie Arthème Fayard, Paris 1982, trad. it. di Maria Pastrello, Etica e Infinito, Città aperta edizioni, Troina 2008. EN Entre nous. Essai sur le penser-à l’autre, éditions Grasset et Fasquelle, Paris 1991 ; tr. it. Tra noi. Saggi sul pensare-all’altro, Jaca Book, Milano 1998. NLT: Nouvelles lectures talmudiques, éditions de Minuit, Paris 1996, trad. it. di Beato Caimi, Nuove letture talmudiche, Edizioni SE, Milano 2004. QLT Quatres lectures talmudiques, édition de Minuit, Paris 1968, trad. it. di Alberto Moscato, Quattro letture talmudiche, Il nuovo Melangolo, Genova 2008. TA Le temps et l’autre, in «Cahiers du Collège Philosophique», Paris 1948, trad. it. Di F. Ciglia, Il tempo e l’altro, Il Melangolo, Genova 1987. TI Totalité et Infini, Nijhoff, La Haye 1961, trad. it. di A. Dell’Asta, Totalità e infinito, Jaca Book, Milano 1980 19902. ↩︎

  2. Cfr. DL, p. 85. ↩︎

  3. Cfr. Ibid. pp. 85-86. ↩︎

  4. Cfr. Ibid. p. 87. ↩︎

  5. Cfr. Ibid. p. 89. ↩︎

  6. Cfr. Ibid. p. 90. ↩︎

  7. Cfr. DL, p. 93. ↩︎

  8. Cfr. ADV, p. 126. ↩︎

  9. Cfr. Ibid. p.127. ↩︎

  10. Cfr. Ibid. pp. 137-139. ↩︎

  11. Cfr. Ibid. p. 131. ↩︎

  12. Cfr. Ibid. pp. 135-136. ↩︎

  13. Cfr. Ibid. pp. 137-139. ↩︎

  14. Cfr. DL p. 94. ↩︎

  15. Cfr. Ivi. ↩︎

  16. Ibid. p. 95. ↩︎

  17. Ibid. p. 96. ↩︎

  18. Cfr. Ibid. p. 97. ↩︎

  19. Cfr. Ibid. pp. 100-101. ↩︎

  20. Ibid. p. 104. ↩︎

  21. Cfr. Ibid. p. 104. ↩︎

  22. Cfr. Ibid. p. 105. ↩︎

  23. Cfr. Ivi. ↩︎

  24. Ibid. p. 106. ↩︎

  25. Ivi. ↩︎

  26. Cfr. Ibid. pp. 107-108. ↩︎

  27. Cfr. Ibid. p. 109. ↩︎

  28. Cfr. ADV 227. ↩︎

  29. Cfr. DL, pp. 109-110. ↩︎

  30. Cfr. Ibid. pp- 110-111. ↩︎

  31. Ivi. ↩︎

  32. Cfr. AHN pp. 92.93. ↩︎

  33. Cfr. Ibid. pp. 110-112. ↩︎

  34. Ibid. p. 112. ↩︎

  35. Cfr. QLT pp. 44-45. ↩︎

  36. Ibid. p. 50 passim. ↩︎

  37. Derrida J., Adieu à Emmanuel Levinas, Galilée, Paris 1997; tr. it. Addio a Emmanuel Levinas, Jaca Book, Milano 1998, p. 111. ↩︎

  38. Cfr. Ibid. p. 133. ↩︎

  39. Cfr. Ibid. pp. 133-134. ↩︎

  40. Cfr. Ibid. p 135. ↩︎

  41. Ibid. p. 136. ↩︎

  42. Cfr. DL pp. 114-115. ↩︎

  43. Cfr. Ibid. p. 119. ↩︎

  44. Cfr. Ivi. ↩︎

  45. Ibid. p. 120. ↩︎

  46. Cfr. Ibid. p. 119 ↩︎

  47. Cfr. Facioni S., Il tesoro segreto, introduzione a Difficile libertà, op. cit. p. VII. ↩︎

  48. Cfr. DL, p. 120. ↩︎

  49. CFr. Ibid. p. 121. ↩︎

  50. Cfr.Ibid. p. 229. ↩︎

  51. Ibid. p. 300 ↩︎

  52. Cfr. Ibid. pp. 122-123. ↩︎

  53. Cfr. Ibid. p. 123. ↩︎

  54. Cfr. ADV pp. 64-65. ↩︎

  55. Si tratta del saggio Lo Stato di Cesare e lo Stato di Davide del 1971 in ADV, pp. 265-276. ↩︎

  56. Cfr. Ibid. p. 265. ↩︎

  57. Cfr. Ibid. p. 266. ↩︎

  58. Ibid. p. 268. ↩︎

  59. Ibid. pp. 268-269. ↩︎

  60. Cfr. ADV, pp. 269-270. ↩︎

  61. Cfr. ADV, pp. 272-273. ↩︎

  62. Cfr. Ibid. pp. 273-274 ↩︎

  63. Ibid. p. 274. ↩︎

  64. Cfr.Ibid. p. 275. ↩︎

  65. Cfr. Scholem G., The messianic idea in Judaism, Schoken, New York 1971; tr. it. L’idea messianica nell’ebraismo, Adelphi, Milano 2008 p. 45. Sholem si riferisce alle componenti del messianismo popolare, e non di quello razionalistico. ↩︎

  66. ADV, pp. 275-276 passim. ↩︎

  67. Cfr. Derrida J., op. cit. pp. 142-143 passim. ↩︎

  68. Cfr. Ibid. pp. 143-144. ↩︎

  69. Cfr. Ibid. pp. 145-146. ↩︎

  70. Cfr. QLT pp. 104-105. ↩︎

  71. Cfr. Ibid. p. 120. ↩︎

  72. Cfr. Ibid. p. 122. ↩︎

  73. Cfr. EI, p. 98. ↩︎

  74. Cfr. DSS, pp. 35-36. ↩︎

  75. Cfr. Ibid. p. 42. ↩︎

  76. Cfr. Ibid pp. 46-47 passim. ↩︎

  77. Cfr.Ivi. ↩︎

  78. Cfr. Ibid. pp. 47.48 ↩︎

  79. Cfr. Ibid. pp. 51-52. ↩︎

  80. Cfr. Ibid. pp. 52-53. ↩︎

  81. Cfr. Ibid. p. 57. ↩︎

  82. Cfr. ADV, pp. 115-119. ↩︎

  83. Cfr. DL, p. 205 ↩︎

  84. Cfr. ADV, p. 119. ↩︎

  85. Ibid. p. 122. ↩︎

  86. Ibid. p. 124. ↩︎

  87. Cfr. Scholem G., op. cit., p. 45. ↩︎

  88. Cfr. DL, p. 270. ↩︎

  89. Ibid. 273. ↩︎

  90. Ibid. p. 270. ↩︎

  91. Ibid. p. 265. ↩︎

  92. Cfr. Ibid. 267. ↩︎

  93. Cfr. Ibid. pp. 281-284. ↩︎

  94. Ibid. p. 282 passim. ↩︎

  95. Cfr. Ibid. pp. 282-283. ↩︎

  96. Cfr. Derrida J., op. cit. pp. 81-82. ↩︎

  97. Ibid. p. 107. ↩︎

  98. Cfr. Ibid. p. 109. ↩︎

  99. Cfr. Ibid. pp. 129-130. ↩︎

  100. Cfr. Ibid. p. 147. ↩︎

  101. Cfr. Ibid. pp. 148-149. ↩︎

  102. Cfr. Ibid. pp. 149-150. ↩︎

  103. Cfr. Ibid. p. 150. ↩︎

  104. Cfr. Ibid. pp. 153-160. ↩︎

  105. Cfr. Ibid. p. 163. ↩︎

  106. Cfr. Ibid. p. 167. ↩︎

  107. Un testo abbastanza maturo del 1986. ↩︎

  108. Cfr. AHN pp. 98-99. ↩︎

  109. Cfr. ADV, p. 277. ↩︎

  110. Ibid. 279. ↩︎

  111. Ibid. p. 280. ↩︎

  112. Cfr. Ibid. p. 282. ↩︎

  113. Ibid. p.283. ↩︎

  114. Ibid. p. 284. ↩︎

  115. Cfr. Derrida J., op. cit. p. 187. ↩︎

  116. Cfr. DL. P. 339 ↩︎