Male e messianismo nel pensiero di Emmanuel Levinas

L’intento del presente articolo è analizzare, negli scritti di Levinas, la fenomenologia e il ruolo del Male e del Messianismo nel percorso iperbolico di soggettivazione della soggettività. L’ipotesi metodologica che a esso soggiace è che ci sia una profonda relazione tra i commenti talmudici e gli scritti filosofici di Levinas e, in particolare, che il Messianismo lungi dall’essere semplicemente un fenomeno legato a una tradizione religiosa particolaristica, sia un evento pertinente alla soggettività fenomenologicamente intesa.

1. Il male dell’ipostasi

1.1. La nauseabonda vergogna dell’essere

Già in Dell’evasione Levinas si sofferma sul carattere d’irremissibilità dell’esistenza, sull’«acuto sentimento di essere incatenati» a essa,1 mentre in Dall’esistenza all’esistente rileva come la domanda sull’essere che non trova risposta costituisca un «mal d’essere».2 La consapevolezza dell’ingombro dell’essere porta la società contemporanea a un desiderio di evasione, al bisogno di fuga dalla propria identità.3

I due momenti della dinamica bisogno-malessere di evasione sono, secondo Levinas, la vergogna e la nausea. «La vergogna è, in fin dei conti, un’esistenza che cerca per sé delle scuse»;4 la nausea è “l’esperienza stessa dell’essere puro”, è lo stare di fronte alla propria nudità; e proprio per questo essa è associata alla vergogna.5

1.2. Il male elementale: essere inchiodati

Questo rapporto di totale asservimento all’essere era stato analizzato anche un anno prima in Alcune considerazioni sulla filosofia dell’hitlerismo dove la Stimmung dell’hitlerismo è l’incantamento che determina totalmente un modo di esistenza specifico, ovvero l’essere-inchiodati. Riferendosi a quell’articolo Levinas anni dopo parlò di Male elementale.6 In tale incantamento gioca un ruolo fondamentale il corpo che è posto sotto il segno di un’ambiguità: posizione di apertura al mondo, ma anche di chiusura, di affermazione nell’identità.7 Il corpo ha un’aderenza irrevocabile all’essere. Tale aderenza è sperimentata nella sua tragicità da quell’evento limite che è il dolore che non è assumibile come una qualunque esperienza o un qualsiasi concetto. In esso l’intenzionalità si spezza. È proprio questa mancanza di distanza col proprio corpo che costituisce l’essere inchiodati, termine che Levinas utilizzerà anche un anno più tardi in Dell’evasione8.

1.3. L’evanescenza del presente

L’analisi del male si amplia e prende maggiore coscienza nel testo del 1947, Dall’esistenza all’esistente, in cui esso è posto all’interno di una comprensione maggiore dell’esistenza concepita come indipendente dall’esistente, e all’interno delle dinamiche con le quali l’esistente si appropria dell’essere. In questo senso, il gioco del male non è compiuto nella dinamica essere-nulla, ma all’interno dell’esistenza senza esistente, dell’essere irremissibile che nasconde un elemento tragico.9

Levinas quindi non cerca di leggere il male come un defectus boni, ma tenta di stabilire una positività iperbolica del male come qualcosa di affermativamente esistente.10 In primo luogo Levinas cerca di analizzare il rapporto con l’esistenza. Tale rapporto prevede un fenomeno, la nascita, che di per sé non è un evento del mondo (che è a essa successivo). L’esistenza presenta, quindi, una dualità che viene colta da due situazioni emozionali: la fatica e la pigrizia. Con esse si rivela “il richiamo di un impegno ad esistere” e un desiderio di “evadere dall’esistenza stessa”.11

Levinas comincia quindi a delineare il rapporto con l’esistenza come segnato da un cominciamento che è già un impegno, preso anteriormente ad ogni scelta, di cui si sente il peso. Pertanto la pigrizia è proprio l’esitazione che l’esistente ha di cominciare a esistere,12 e “la fatica […], è come un ritardo dell’esistente sull’esistere. Ritardo che costituisce il presente”.13

Il presente è l’apparizione di un soggetto alle prese con l’esistenza, e in questo luogo assoluto il corpo svolge un ruolo principale, anzi il corpo è questa stessa posizione.14 Non sta in questa evanescenza del presente tutta la tragicità dell’ipostasi? .15

Potremmo dire, quindi, che l’istante sia per eccellenza la realizzazione dell’esistenza, l’ipostasi è sostanzialmente presente. Eppure proprio in questo istante che dovrebbe sancire la sua libertà, si trova impegnata nell’esistenza. L’esistenza è un paradosso di libertà già da sempre asservita: è una melanconia. La melanconia dell’evanescente presente.16

Il soggetto non è libero innanzitutto verso se stesso. In quanto posizione senza passato nel tempo, non deriva il suo essere da nulla, quindi è libero; lo deriva però da se stesso, da questa evanescente presenza, dal peso dell’essere che grava sulle spalle del soggetto, da questa resistenza17 posta all’incessante brusio del c’è. Di fronte a questo infinito dileguarsi il soggetto non può che essere irrimediabilmente se stesso.18

1.4. Oltre lo sforzo dell’istante

Nell’aver chiarito le dinamiche della nascita dell’ipostasi, si pongono anche le basi per pensare delle possibili vie di fuga da sé, per andare verso un passato irrappresentabile o verso un futuro che non è protensione del presente. La possibilità di rompere l’incantamento del tempo. Questa operazione è pensabile a partire dalla trascrizione delle categorie del Tempo e dell’Altro, che Levinas tenta nel saggio del ’47 Il Tempo e l’Altro, in cui troviamo gli stessi momenti della riflessione di Dall’esistenza all’esistente: l’esistenza anonima dell’il y a, l’apparizione dell’ipostasi, la sua libertà e il suo incatenamento a se stessa, la sua solitudine, il desiderio della salvezza che si esprime, ma non realizza nel soddisfacimento dei bisogni.

Il male è, in questo testo, non una mancanza d’essere, ma l’ingombro dell’essere.19 Anche l’evento del soggetto è posto sotto il segno paradossale dell’essere padrone e schiavo del presente evanescente.20

Istallato nel mondo l’uomo è caratterizzato dalla doppia dinamica intenzionale del bisogno e della conoscenza,21 eppure, all’interno di queste dinamiche, si percepisce un bisogno di salvezza che sia eccedente, e che non nasca dal bisogno o dalla sofferenza, ma dal tentativo del soggetto di liberarsi dal peso stesso dell’esistenza.22

La dinamica intenzionale dell’esistente trova il suo punto di torsione nell’esperienza estrema del dolore, che viene accostato alla morte ed all’ignoto.23 Nel dolore s’intravede la dinamica che, spezzando il circolo vizioso dell’intenzionalità, spezzerà anche la materialità dell’ipostasi e il suo incatenamento al presente: la relazione col mistero, con ciò che non è oggetto di intenzionalità ma di speranza. Così, nel presente, s’innesta la speranza, di cui tratteremo più avanti l’oggetto.24

1.5. Il male come neutro

In Totalità e Infinito che rappresenta — secondo F. Nodari25 — una fenomenologia delle figure del male, Levinas compie nuovamente un’analisi fenomenologica dell’evento dell’ipostasi, della separazione, della particolare intenzionalità che è il vivere di e il godimento, col ruolo particolare del corpo.

L’atto del porsi all’interno dell’esistenza, è visto da Levinas come un atto di resistenza alla Totalità.26 Il soggetto non è analizzato qui a partire dal peso della Geworfenheit, ma soprattutto come un atto di separazione, di resistenza all’identificazione con la Totalità. Anche il rapporto del soggetto col fluire del tempo, non appare più soltanto sotto la dinamica dell’evanescente presente, ma come un atto totalmente nuovo all’interno della storia: la nascita.27 La nascita permette al soggetto di relazionarsi con ciò da cui si separa, in primo luogo con l’Infinito.28

Bisogna quindi analizzare le modalità di attuazione dell’esistenza. La prima è il godimento che è l’origine di ogni indipendenza.29 Il godimento implica un ribaltamento di senso per il quale il costituito o intenzionato diventa il nutrimento stesso del costituente.

Ma il bisogno, che più avanti Levinas legherà a Eros, è figlio di poros e di penia, soggiace ad una doppia dinamica di felicità e indipendenza e di povertà. Levinas cerca di identificarlo all’interno della separazione del soggetto, come distanza tra questo e il mondo. C’è, in questa dinamica, un’ambiguità che, come dice Levinas, ha la sua articolazione proprio nel corpo.30

Il corpo è Innanzitutto un posizionamento che supera sia il limite della rappresentazione idealista, sia quello della gettatezza heideggeriana,31 ma è anche una contestazione costante del primato della coscienza.32 C’è nel corpo un’ambiguità: la felicità della dipendenza.33 L’elemento preponderante nelle considerazioni di Levinas è proprio il godimento di cui è capace un corpo in quanto separato dal tutto. Tuttavia è proprio la dimensione del puro godimento che rischia di farlo naufragare nel Neutro. Vediamo come.

Vivere è godere della vita e la felicità è il soddisfacimento di tutti i bisogni.34 Le cose godute si mostrano a noi emergendo da un contesto che resta privo di finalità, un contesto anonimo, anonimo come l’il y a, “elementale (élémental)”.35 Non è possibile dalla relazione con l’elemento riferisci a qualcosa che lo sorpassi. “L’elemento ci separa dall’infinito”.36

Nel godimento godiamo di qualcosa senza riferirci ad altro oltre la cosa stessa, e di più, senza riferirci ad altro che a noi stessi. Il bisogno è ingenuo.37 In questa ingenuità della sensibilità, il mondo si costituisce come mitico. Ciò che desidero per il godimento si concede immediatamente, ma anche mi minaccia con la sua possibile sparizione. Le cose divengono delle divinità mitiche indomabili. Ma solo così il godimento attua la separazione necessaria alla trascendenza.38

Ciò che può appagare il Desiderio che non è bisogno deve provenire da un’altra scena. Ma per rivelarsi deve spezzare il mondo mitico degli dei senza volto. In Totalità e infinito è il Volto ad apparire, manifestarsi infrangendo ogni riferimento al Medesimo, nella sua impossibilità di essere colto, rappresentato, goduto. Il Volto è ancora mistero, mistero dell’avvenire, della morte. Il mistero che piomba su di noi è sofferenza. E nella sofferenza gioca ancora un ruolo determinante, nella sua ambigua possibilità di godere e di soffrire, il corpo.39

1.6. Wajjzer. La lacerazione interiore delle due inclinazioni

Nel commento talmudico contenuto in Dal sacro al santo Levinas così commenta la parola wajjzer: “Che cos’è l’umano? Il fatto, per un essere, di essere due pur essendo uno. Una divisione, una lacerazione in seno alla sua sostanza o, semplicemente la coscienza e la scelta”.40 Levinas qui starebbe parlando della coscienza come luogo in cui il Medesimo, scompigliato dall’Altro, ritorna. La coscienza come eterno tentativo di ritorno a se stesso, tema così spesso trattato da Levinas come ad esempio Altrimenti che essere dove la coscienza è vista come un “paradosso che non chiarisce la nozione contraddittoria di libertà finita” .41

Siamo qui di fronte non più alle problematiche dell’incatenamento a sé o del brusio anonimo dell’esistenza, ma a un soggetto che si trova di colpo a un punto di rottura tra una passività dell’isolamento — che pretenderebbe di essere una libertà assoluta -, e una passività liturgica — o libertà finita — di fronte ad un Altro che lo ossessiona, ma anche gli mostra la via d’uscita da quell’impasse fenomenologica che è l’ipostasi e dall’incantamento dell’essere. “La ragione può mettersi al servizio dell’animalità e degli istinti […]. Ma il punto di rottura tra l’umano e tutto il resto, non va forse cercato altrove che nella coscienza”?42

L’uomo può vivere la propria animalità nella passività del godimento che però lo incatena a se stesso e all’essere anonimo, oppure cercare la Trascendenza. E anche in questo rapporto l’uomo vive una frattura, una divisione, una sofferenza.43

Questa drammaticità dell’esistenza umana, non è una sua negazione, ma un modo di riscrivere la sua natura. L’umano sta nel soddisfacimento animale, nella libertà? O prima della libertà l’umano s’iscrive in un rapporto di obbedienza? .44

Levinas propone anche una seconda lettura di wajjzer: due facce. Vale a dire: “Tutto è esposto, tutto in me fa fronte e deve rispondere. Neppure col peccato posso separarmi da questo Dio che mi guarda e mi tocca. Il Male, ultima risorsa della rottura, ultimo ripiego dell’ateismo, non è una rottura”.45

Nemmeno la rottura per eccellenza sembra essere definitiva. Non è più l’Essere a essere irremissibile, ma la presenza ossessionante di Dio, l’intrigo con Lui che precede ogni legame nell’essere che possa essere sciolto dalla sua negazione, al di là dell’essere e del non essere, del bene e del male, della libertà e non-libertà.

1.7. Il male del peccato

Se la stessa creaturalità dell’uomo lo pone in una dimensione di dualità originaria, ma anche di apertura, su tutti i lati, all’ossessione dell’Altro, allora il male per l’uomo può essere la chiusura alla creazione e agli altri.46

Ma allora come si configura il male? O meglio, quali sono le sue vie di accesso all’umano? Prima di esplicitarsi in guerre e uccisioni il male, secondo Levinas, è una distrazione. Innanzitutto distrazione dal proprio compito di costruire l’universo in quanto creatura.47

In secondo luogo il male è distrazione nei confronti della responsabilità verso gli altri uomini, il voler perdersi in un’esistenza anonima fatta di soddisfacimento dei bisogni e chiacchiere, in un cabaret.48

Nel saggio A immagine di Dio il male è visto come la possibilità per l’uomo, a motivo della sua posizione intermedia tra Elohim e il creato, di determinare uno squilibrio nelle forze che regolano l’universo.49

Nella lettura talmudica del trattato Baba kama in Dal sacro al santo Levinas, analizzando la responsabilità di chi appicca un incendio, sostiene che essa si estende a tutti i danni provocati dall’incendio stesso.50 Il male scatenato volontariamente è come un demone evocato del quale si perde il controllo. Ma ciò non attenua la responsabilità umana perché Levinas non concepisce una sorta di gerarchia di mali, per cui ci sarebbero dei mali minori, controllabili, gestibili dalla giustizia umana. Il male è sempre assoluto, sempre irrazionale, omicidio, guerra. L’elementale, le forze elementari, si presentano con tutta la forza della loro ambiguità, con la possibilità di risucchiare l’uomo nel loro vortice, il vortice del brusio dell’ il y a, dove la dinamica ambigua del bisogno e del godimento rischiano di soffocare il bisogno metafisico dell’uomo, di deresponsabilizzarlo. Ma la responsabilità è irremissibile. La violenza è al di là della guerra o della pace, perché le sue dinamiche provengono dall’assassinio primordiale di cui tutte le altre manifestazioni di male costituiscono un “eufemismo”.51

Nei mali che colpiscono il mondo i giusti sono i primi a pagare per via della loro responsabilità. “La precedenza del giusto sarebbe in rapporto col suo essere esposto al sacrificio. Il Bene è la non resistenza al Male, e il dono dell’espiazione”.52 Torneremo più avanti su questo concetto. Al di là di ogni teodicea consolatoria “l’umano si presenta come la rottura dell’essere e della persistenza nell’Essere, e solo così come rapporto con Dio”.53

Siamo al cuore della nostra argomentazione. È come se nel fondo del baratro del male si generasse un’endiadi, sofferenza inutile-espiazione, nella quale la totale passività si estroverte in sofferenza per gli altri, nella quale esplode quella rottura del presente che è il Messia.

1.8. La sofferenza inutile

La sofferenza inutile, è uno dei saggi di Levinas del 1984. La sofferenza, nella sua forma più raccapricciante, viene trattata apertamente e nella sua definizione ritorna un termine utilizzato anche in nel saggio Trascendenza e male contenuto in Di Dio che viene all’idea: eccesso.54

Levinas compie quindi un’analisi fenomenologica del male, o sofferenza, nella quale questa è vista come una passività non assumibile, una passività che non è il rovescio di un’attività, come potrebbe esserlo una sofferenza dovuta a una causa. La passività della sofferenza è più passiva della passività dei nostri sensi.55 La negatività del male è una negatività che va oltre quella dell’anfibologia essere non-essere. Il male che minaccia l’uomo riceve solo delle concretizzazioni nelle varie espressioni di sofferenza che l’uomo esperimenta. Il Male resta come l’ignoto che incombe in tutte queste sofferenze. Eppure nella sofferenza l’uomo intravede un appello originario alla salvezza. Nella sofferenza inutile ci sarebbe un varco aperto all’interumano.56

C’è una novità, ci sembra. Mentre in Trascendenza e male, si era parlato di un rapporto paradossale con il Bene, qui questo rapporto viene sì nominato, ma poi anche delineato come “interumano”. Il rapporto con il totalmente altro prende subito la definizione di “relazioni umane”. È la supremazia dell’etica.

È nelle relazioni etiche che è possibile sopportare la propria sofferenza e quella degli altri; anche la sofferenza che la nostra sofferenza arreca agli altri.57 Proprio nelle sofferenze per Altri, si apre quella dimensione di responsabilità che permette alla soggettività di essere elevata a supremo principio etico, senza potersi sottrarre alla propria responsabilità, poggiandosi solo su se stessa, senza contare neppure su una divinità che possa soccorrerla.58

Nella sofferenza siamo soliti cercare un fine. Anche la Bibbia non è esente da queste considerazioni. Ma il senso gratuito del dolore già filtra sotto queste forme ragionevoli di sofferenza.59 Lo stesso Levinas afferma che la teodicea è vecchia quanto la Bibbia. Essa dava ragione agli Ebrei delle loro sofferenze, compreso l’esilio. Ma la teodicea è finita con gli eventi del XX secolo.60

Levinas sta parlando di Aushwitz e dell’Olocausto, che differisce dagli altri stermini per due motivi: il primo è che, mentre a volte dei popoli interi sono stati sterminati per scopi “razionali”, nell’Olocausto è stato perpetrato l’assassinio per l’assassinio; il secondo motivo è che sono stati uccisi dei bambini per la fede dei loro nonni. In questa diabolicità del male, l’affermazione di Nietzsche sulla morte di Dio acquista un significato empirico.61

Fine della teodicea quindi, ma con essa, il sorgere della responsabilità dell’uomo nella sua stessa sofferenza per la sofferenza d’Altri.62

Ad Auschwitz, con l’assenza di Dio, si compie un’inversione in responsabilità che è la responsabilità dell’uomo verso Dio che tace. L’uomo diviene, nonostante tutto, testimone della bontà, deve, in un certo senso, salvare Dio dall’inferno del male.63

Credere non al bene, ma alla bontà, al di là dell’essere, per Levinas, è l’unica via di uscita dalla barbarie che ancora minaccia una società, che non paga di quanto già accaduto, continua a dare adito alle forze cieche, al fuoco devastatore che sfugge al controllo di chi lo appicca, affidandosi alla fatalità dell’ordine politico e dell’essere. In questo mondo coperto dalle tenebre, per usare un’espressione di Isaia,64 deve rifulgere la luce dell’io responsabile di Altri, nella sua sofferenza ispirata e nella sua compassione. Nel mondo coperto dalle tenebre deve risplendere la luce del Messia.

2. L’Io Messia

2.1. La passività liturgica

In Altrimenti che essere si attua una ridefinizione linguistica della soggettività con cui cercheremo di comprendere le dinamiche nelle quali la passività dell’ipostasi diviene una passività liturgica dell’Io, e come in questo percorso giochino un ruolo fondamentale il corpo e la sofferenza.

Il primo tropo della soggettività è quello della sensibilità come godimento e vulnerabilità. Seguendo la linea fenomenologica, Levinas intende la sensibilità come affettività, capacità di ricevere un’affezione, un’ambigua ferita gaudente, capacità che precede la tematizzazione.65 Ci troviamo all’interno di quel movimento che definirei di ri-significazione della significazione, ovvero riconoscere che la significazione, intesa come struttura gnoseologica basata sulla tematizzazione, è secondaria alla sensibilità intesa come vulnerabilità che non può assumere in tema ciò che la ferisce.

Il che significa che il rapporto con l’Altro non è un rapporto tra due termini, ma una relazione nella quale l’alterità dell’Altro è inassimilabile, non raccoglibile in un tema. In questa paradossale relazione, gioca dunque, un ruolo peculiare la sensibilità in quanto significazione anteriore alla tematizzazione, la sensibilità come capacità di godere, ma soprattutto di esporsi alla ferita causata dall’Altro.66

Per Levinas sembra che la significazione sia sostanzialmente una possibilità di donazione estrema, fondamentale, una susceptio, che abbia un fondamento nella vulnerabilità della sensibilità. In questo senso il corpo è un corpo animato dall’anima. L’anima è questa capacità del corpo di donarsi, senza assumere ciò che lo ferisce.67

La maternità è la figura preferita da Levinas per indicare l’accoglienza dell’altro in sé e il dare,68 un darsi del corpo fino alla sua lacerazione, in una ferita che mai si rimargina. Una significazione che è emorragia, un donare il pane di cui si gode.69 Se il godimento aveva rappresentato in Totalità e Infinito, il rischio di sprofondarsi nell’elementale, qui invece, esso rappresenta un’opportunità per il soggetto di “darsi donando” nella maternità.

In Altrimenti che essere quindi il movimento stesso dell’egoismo diviene un momento necessario al donarsi.70 Il godimento, quindi, l’egoismo del godimento acquista un valore nella dimensione del Dire e del dare malgrado sé. Il malgrado sé, non potrebbe essere tale se non fosse la scissione di un godimento. Si dà solo il pane strappato dalla propria bocca nell’atto in cui essa ne sta godendo, non il pane in eccesso, ma il proprio pane.

Nella maternità c’è anche una responsabilità assoluta nella quale l’Altro è nel Medesimo, sradicandolo, non lasciandosi assimilare, perseguitandolo senza permettere l’assunzione della persecuzione o del persecutore, ma sempre e solo obbligati a rispondere di entrambe le cose.71

Riassumendo: Levinas cerca un senso oltre il senso e lo trova nella sensibilità. Questa è godimento e vulnerabilità; la vulnerabilità come emorragia, come responsabilità dell’effetto della persecuzione e del persecutore è maternità; la maternità è la capacità di un corpo di soffrire per un altro. Ma tutti questi sono nomi ridondanti della soggettività.

Possiamo dunque dire che la soggettività è incarnata, ovvero ha il suo senso anarchico nella sensibilità e questa è riferita sempre immediatamente al corpo.72

L’incarnazione non è dunque una caduta di un’anima imprigionata nel corpo, ma la sua stessa esistenza, la quale, però, non è semplicemente data all’interno di un mondo già fatto nel quale siamo gettati, ma è da sempre, prima di essere situata nel mondo, relazionata agli altri.

E il corpo, questo elemento ambiguo, il cui ingombro pesava nei primi scritti levinasiani, il corpo a cui siamo irrimediabilmente inchiodati diviene un tramite attraverso cui non siamo annodati a noi stessi, ma sempre prima agli altri.73

Il corpo stesso è quindi uno s-nodo in cui si effettua lo scioglimento dell’essere attraverso una significazione pre-originaria, che è quella della sensibilità. Per questo la testimonianza del Dire senza Detto, nella soggettività incarnata è testimonianza del corpo con la sua sensibilità e vulnerabilità. È martirio.74

La soggettività, può a questo punto essere “definita” da una catena causale di anelli, come “l’esser-strappato-da-sé-per-un-altro-nel-dare-all’altro-il-pane-della-propria-bocca”.75 Ciò che quindi definisce la soggettività non è il suo porsi come coscienza, ma il suo deporsi come corpo esposto al martirio delle ferite inassumibili.

Questa descrizione della soggettività, la colloca al di fuori della “definizione”, che situa ogni suo definito nell’alveo dell’essere, mediante il genere e la differenza specifica.

Sensibilità, di carne e sangue, io sono al di qua dell’anfibologia dell’essere e dell’ente, il non-tematizzabile, il non-unibile dalla sintesi.76

Una tale in-definizione della soggettività la colloca anche al di fuori di ogni sua possibile negazione all’interno dell’essere. Paradossalmente il male che essa riceve nella sofferenza, nella persecuzione, nell’ossessione che l’Altro esercita su di lei, non la nega, ma destituendola la pone come soggettività unica, insostituibile perché nessuno può prendere il posto che essa occupa. La propria corporeità è questa posizione. Non più la posizione nell’essere anonimo alla quale si è inchiodatati, ma una posizione, o deposizione, assoluta al di qua dell’essere, nella quale la coscienza non può riposare in sé, ma è sempre risvegliata dall’ossessione, mediante l’inguaribile ferita della sua corporeità.77

Attraverso l’azione inassumibile dell’ossessione emergono due aspetti collaterali della soggettività che mi preme sottolineare solo di passaggio.

Il primo è che la soggettività, de-posta al di là dell’essere, non è più preoccupata per la propria morte. Non più un ente che si prende cura dell’essere, e che teme la morte come fine del proprio essere, ma una soggettività che è per-altri, alla quale la morte non nega le sue possibilità. Più avanti Levinas definirà il Dire come un movimento non intaccato dalla morte, non un’angoscia della morte, ma come una ricorrenza a sé, nella propria insostituibilità, che è rimorso.78

Il secondo aspetto, sul quale torneremo più avanti, è che proprio ciò che apparentemente sembra distruggere la soggettività, l’ossessione, in realtà la costituisce. Lo stesso fuoco che distrusse Sion la riedificherà: “E io sarò per lei una muraglia di fuoco tutt’intorno, e sarò motivo di gloria in mezzo ad essa” (Zc 2, 9).79

Il topos della soggettività, richiamato dall’ossessione è la prossimità, che definisce l’impossibilità di raggiungere l’Altro che mi ossessiona. In questo senso essa è perenne ritardo e disordine.80 Fenomenologicamente essa è espressa dalla carezza che, come abbiamo visto è un’immediatezza, un godere e un soffrire per l’altro, un disordine.81 Ma proprio per questa sua insoddisfazione, essa determina un movimento dall’Io all’Altro che non è più individuato dal bisogno da colmare o dal conatus essendi.82

La prossimità, dunque presenta dei tratti del movimento di trascendenza, o del vero desiderio metafisico — per usare le parole di Totalità e Infinito. Un movimento stravagante verso ciò che è oltre l’essere, ovvero la Trascendenza stravagante. In questo senso Levinas parla di “deiscenza della prossimità”.83

Nel quarto capitolo di Altrimenti che essere Levinas si chiede come è possibile una passività che non diventi tema della coscienza.84 Il termine che egli usa per descrivere questa im-possibilità della soggettività è sostituzione, intesa come la coscienza lesa prima di farsi un’immagine di ciò che la colpisce, malgrado sé,85 investita da una traccia che inquieta il presente.86 Il termine di questa irremissibile convocazione non sarebbe, dunque, la coscienza tout-court, ma l’anima,87 che non si ipostatizza da sé, ma è creata.88

Proprio perché l’Io non si ipostatizza, ma attua un’inversione nel processo dell’essenza, un’in-condizione,89 esso è anima che non viene dal presente e non è fatta per il presente.90 Voglio coniare questa espressione: Io in-presente. La sua unità consiste nella sua continua scissione. Questo suo non potersi sottrarre è intimamente legato alla soggettività incarnata. “L’io è in sé come nella sua pelle”,91 è “non luogo, frat-tempo o contrat-tempo (o disgrazia) al di qua dell’essere e al di qua del nulla tematizzabile come essere”.92

L’espressione «nella sua pelle» non è una metafora dell’in sé: si tratta di una ricorrenza nel tempo morto o nel frat-tempo […]. Il corpo non è solamente l’immagine o la figura, è l’in-se-stesso della contrazione dell’ipseità e della sua esplosione. Il corpo non è un ostacolo opposto all’anima, né la tomba che la imprigiona, ma ciò per cui il sé è la suscettibilità stessa. Passività estrema dell’«incarnazione» — essere esposto alla malattia, alla sofferenza, alla morte, è essere esposto alla compassione e, Sé, al dono che costa. Al di qua dello zero dell’inerzia e del nulla, nel deficit d’essere in sé e non nell’essere, precisamente senza luogo dove posare il capo, nel non-luogo e, così, senza condizione, il se stesso si mostrerà portatore del mondo — il portante, il sofferente, fallimento del riposo e della patria, e correlativo della persecuzione — sostituzione all’altro.93

Credo che le parole siano inadeguate a commentare un testo di tale portata e profondità. Una rivalutazione del corpo espressa come esigenza della soggettività fenomenologicamente intesa, un corpo come soggetto capace di soffrire e, in questo, di donarsi, realizzando la propria pro-vocazione. L’ipostasi che assume l’essere e che resiste all’essere, al brusio dell’il y a, che è nauseata del suo stesso esserci, diviene ora, attraverso il tropo del corpo, un soggetto capace di portare su di sé il peso del mondo, capace, attraverso la scissione della sofferenza, di essere-oltre-il-mondo come anima capace di donarsi senza alienarsi.

Ricorrenza che è «incarnazione» in cui il corpo per il quale il dare è possibile rende altro senza alienare, poiché questo altro è il cuore — e la bontà — del medesimo, l’ispirazione o lo psichismo dell’anima.94

Siamo al punto più profondo della soggettività, al suo nucleo atomico pulsante nella sua scissione, nel quale il soggetto può compiere, nella sofferenza e nella persecuzione per Altri, la virata che permette di passare dalla sofferenza all’espiazione.95 Nell’espiazione la sofferenza subita, assume un senso, essendo per altri essa non è più inutile.

E l’espiazione permetterà al soggetto che soffre per la sofferenza di tutto e tutti, di essere assolto dall’essere. Non evadere dall’essere, perché questo concetto comporta già un soggetto costituito a partire da sé e posto nell’essere, e questa evasione, abbiamo visto, è impossibile. Ma se il soggetto è de-costituito nella persecuzione, se la sua unità atomica non è una qualsiasi ipostasi, ma è data dalla continua scissione dell’ossessione da parte di altri, allora questo soggetto è espulso dall’essere e da tutta la gravità del suo peso.96 Espulsione dal sistema che non ci costituisce come ipostasi nel sistema dell’essere, ma come unicità altrimenti che essere. Solo così è possibile l’uscita dall’essere.

In questa unicità il soggetto si trova convocato dal Bene, vale a dire che la sua vocazione, o provocazione, non è successiva alla sua costituzione in quanto soggetto. Il soggetto è già sempre provocato dal Bene, chiamato innanzi nell’iperbole della responsabilità, nella quale più si avanza più ci si sente responsabili, e più si e responsabili, più ci si stente colpevoli della propria doppia natura, nella quale il principio animale, o imperialismo dell’Io, vorrebbe alzare la testa e coprire il Sé.97

Proprio l’iperbole della responsabilità comporta per il soggetto un’accusa precedente la colpa.98 La colpa del soggetto iperbolico consiste nell’essere sempre in ritardo rispetto alla responsabilità assoluta richiesta dalla Bontà. Ma proprio questa estromissione da sé, questa colpa mai commessa rispetto a uno dei possibili, questa colpa in quanto accusa di responsabilità è la vera Bontà, o la vera conoscenza di Dio.

L’in-assoluzione della colpa è assoluzione dell’Uno dall’essere. Levinas declina questa assoluzione col concetto di creazione non ontologica.99 Nella creazione si realizza una polarità paradossale: l’Io è convocato, provocato a un’infinita anarchica responsabilità, la quale lo costituisce. Ma proprio così l’Io si assolve da sé, dall’ingombro che avrebbe potuto avere un’Ipostasi libera di costituirsi nell’essere.100

Questa possibilità di liberarsi da sé confonde passività e attività. L’ipostasi è soggetto, soggetto capace di sopportare tutto il peso dell’universo per sua pro-vocazione, non per un’attività ma per sostituzione. Mentre l’ipostasi resisteva all’essere a partire da sé, ma risultava inevitabilmente incatenata a sé senza possibilità di evasione, il soggetto mediante la sostituzione, si libera dalla gravità dell’essere sopportando responsabilmente il peso dell’universo.101

In questa sostituzione, senza libertà di gioco, il soggetto, sub-jectum che assume su di sé tutto il peso dell’universo, diviene paradossalmente la chiave di volta dell’intero universo, non perché lo crei, ma perché gli dona una significazione mediante la sua costante soggezione a tutto, mediante il suo mettersi «alla rovescia».102

L’unicità alla rovescia — o unicità messianica — porta su di se il peso di tutto, di ogni responsabilità e anche della colpa di Altri. Il punto di convergenza di questo vortice di responsabilità che si arresta in me è la mia sofferenza, che è inevitabilmente incarnata.103 In questo punto di convergenza della sofferenza che è il corpo animato, si compie l’esplosione della significazione che dà senso all’Essere facendolo divenire Universo. Tale esplosione di significazione avviene perché in essa si iscrive la traccia dell’Infinito. Nella mia personalissima sofferenza s’iscrive la sofferenza di Dio stesso, che soffre per la mia sofferenza, e della quale io sono responsabile, come se la salvezza di Dio dalla sofferenza — traccia anarchica della sua passività — dipendesse da me. L’espiazione è dunque ciò per cui hanno senso le altre situazioni etiche dell’uomo.104

La sofferenza che non diviene assunzione, la sofferenza che vira in sostituzione non è una sofferenza che potremmo chiamare eroica, consapevole di svolgere una funzione determinante. Forse la passività estrema della sofferenza si rivela anche nella sofferenza che ripudia se stessa. L’odio in me del male come responsabilità della sofferenza che la mia sofferenza porta ad altri, certo, ma forse anche odio in me del mio Male, nel paradossale anarchico intrigo col Bene nascosto a me stesso: preghiera.105

La domanda che anima Giobbe, è una contestazione al sistema che assorbe anche Dio. La domanda lacerante della sua sofferenza, il perché del male al giusto, diviene una paradossale apologia della bontà di Dio e della creazione. La medesima apologia è compiuta dal soggetto perseguitato nel rodersi della propria carne dalla sofferenza per altri. “Il Sé, il perseguitato, è accusato, al di là della sua colpa, prima della libertà e, per questo, di un’inconfessabile innocenza”.106 Per tal motivo Giobbe non ha potuto contendere col proprio creatore, per la pre-logicità della responsabilità per la quale si è accusati assolutamente e perseguitati dal Bene. Tale responsabilità si trova nella stessa creaturalità dell’uomo convocato, provocato, di fronte ad un mondo già costituito. L’uomo non è, tuttavia, un ente gettato in un mondo già fatto. Questo linguaggio ci riporterebbe ai termini dell’ontologia. Si tratta, piuttosto, di una responsabilità costitutiva della creatura verso la creazione, rispetto alla quale essa giunge sempre in ritardo.107

Torniamo quindi alla colpa intesa come responsabilità contratta in un passato immemorabile anteriore alla colpa e alla coppia libertà non-libertà. Una colpa di un’inconfessabile innocenza. Ma come non si può argomentare la propria innocenza originaria, perché ciò comporterebbe l’utilizzare una logica che appartiene al mondo, — mentre la richiesta di responsabilità è anteriore al tempo e alle cose, è pre-logica — , così il soggetto non realizza la sua soggettività in un progetto, ma in una provocazione, o susceptio originaria al Bene.108

Siamo alla totale rottura del concetto di ente che ha cura dell’essere, con tutto il peso e la tragicità che esso comporta.

La sostituzione libera dalla noia, cioè dall’incatenamento a se stesso in cui l’Io affonda in Sé […]. Liberazione che non è un atto, né un inizio, né una peripezia qualsiasi dell’essenza e dell’ontologia in cui si stabilirebbe, nelle forme della coscienza di sé, l’uguaglianza a sé. Liberazione an-archica, essa si rivela […] nell’inuguaglianza a sé; si rivela senza assumersi, cioè nel subire della sensibilità al di là della sua capacità di subire — ciò che descrive la sofferenza e la vulnerabilità del sensibile come l’altro da me.109

Quarantaquattro anni dopo la scrittura di Alcune considerazioni sulla filosofia dell’hitlerismo, Levinas usa l’espressione “incatenamento a se stesso”. Quello che aveva definito come il grande problema, o male, dell’uomo del novecento, è qui, espressamente superato, distrutto dalla fissione atomica della soggettività come sostituzione.

Con queste considerazioni ci siamo avvicinati lentamente al nucleo dell’intento del nostro lavoro, cioè dimostrare come il messianismo sia un evento pertinente anche alla soggettività. Per comprendere meglio questo nucleo bisogna riferirsi al richiamo di Levinas, in Altrimenti che essere, all’il y a, al brusio assordante del c’è e all’esistenza senza esistente che aveva descritto nell’omonimo testo del 1947, testo nel quale è presente l’espressione che ha ispirato tutto il nostro lavoro, che associa la liberazione dal presente al Messia.

È il c’è terrificante dietro ogni finalità propria dell’io tematizzante che non può non sprofondare nell’essenza che esso tematizza. È in quanto la significazione dell’uno per-l’altro si tematizza e si raccoglie, è attraverso la simultaneità dell’essenza, che l’uno si pone come un io, cioè come presente o come cominciante o come libero […]. Ma questo modo per il soggetto di ritrovarsi nell’essenza […] non è un’armoniosa e inoffensiva partecipazione. È precisamente l’incessante brusio che riempie ogni silenzio in cui il soggetto si distacca dall’essenza per porsi come soggetto che si libera come soggetto, che raccoglie l’essenza di fronte a sé come oggetto, ma in cui lo sradicamento è ingiustificabile in un tessuto a trama uguale, di un’equità assoluta. Brusio del c’è — non senso in cui degrada l’essenza e, così, la giustizia nata dalla significazione.110

Dalla nostra analisi di questo passo di Altrimenti che essere111 emergono alcuni aspetti. Il primo è che la caduta nell’esistenza anonima ingombrata dal brusio dell’il y a, questa esistenza nella quale “l’essenza si estende indefinitamente, senza ritegno”, è compiuta dal soggetto che si vuole libero, autarchico, e soprattutto che vuole raccogliersi nel presente. È il presente, l’arché, che una volta datosi non si può più superare nell’incatenamento a sé, a cui costringe ogni iniziativa di un soggetto così costituitosi.

Il secondo aspetto che emerge è che la significazione viene prima del brusio del c’è. È la significazione la vera esistenza originaria, o bontà della creazione, alla quale è sempre possibile tornare squarciando il velo dell’il y a. Ma come è possibile questo? Mediante l’esposizione, la sostituzione, l’espiazione. Il soggetto nel mondo urta costantemente con il brusio del c’è, eppure, come Sé o anima, può sopportare questo urto costante: in questo consiste la significazione. Non nella resistenza che un’ipostasi autarchica oppone all’essere, ma nella sopportazione di un soggetto che assume su di sé il peso dell’universo. Nella sua esposizione che è eccezione ed espulsione dall’essere.112

2.2. La speranza per il presente

Nell’ultima parte di Dall’esistenza all’esistente Levinas pensa a una possibilità di liberazione dallo stato di esistenza anonima, incantamento, lassitudine. Pur rendendosi conto che il presente è il fatto stesso che ci sia un’esistente, afferma che il presente non è né il punto di partenza né di fine della meditazione filosofica.113

La vera liberazione, o la vera ricompensa per gli sforzi dell’esistenza non sta nella possibilità di accettare un salario consolatorio per le nostre sofferenze. La liberazione non è un evento futuro nel tempo economico in cui l’uomo si perde nell’anonimato. La speranza riguarda proprio la liberazione dal suo originario e irremissibile debito verso presente. “Il vero oggetto della speranza è il Messia o la salvezza”.114

La linea che Levinas segue è quella della resurrezione del presente in un tempo che non sia più economico, e nel quale l’io non sia semplicemente un ente anonimo che scorre trascinato da esso.115

Levinas intuisce, quindi, che la salvezza del presente avviene in un tempo che non è economico, che non è lo scorrere d’istanti anonimi e che a percorrere questo tempo, anzi ad esserne il fermento è un Io che non è l’io economico.

Questo nuova dimensione di temporalità emerge anche nelle pagine finali di Totalità e Infinito. La dimensione etica dell’Altro che irrompe nel tempo come evento assolutamente esteriore, inaugura un tempo nel quale la salvezza non è un evento di un futuro assoluto, ma si compie nel tempo storico. L’irruzione dell’Altro nel tempo, ne determina una nuova struttura, non più come tempo economico, ma come estrema vigilanza della coscienza, estrema vigilanza all’Altro che è la coscienza messianica.116

Altrimenti che essere supera i limiti ontologici e lessicali di Totalità e Infinito. Non troviamo nell’opera del ’74 entrambi i caratteri dell’Io che vengono accennati in Dall’Esistenza all’Esistente? L’Io che fermenta il tempo, o che è fermentato dall’Altro, non è forse l’Io (Moi) esposto ad Altri? E l’uscita dall’essere che questo Io ottiene, non avviene forse ancora nel tempo, ancora nel-nonostante-attraverso il brusio assordante del c’è?

L’Io non realizza, dunque in questo modo, la salvezza del presente? E salvando il presente non è egli Messia?

Levinas aveva detto nel ’47 che il tempo e l’Altro sono necessari alla liberazione del soggetto.117 Ma l’Io esposto che ri-significa l’universo non è questo fermento del tempo? Il tempo che egli inaugura non è forse il tempo messianico?

È giunto il momento di addentrarci meglio nella nozione di Messia per Levinas, e per farlo dovremo chiedere aiuto ai suoi scritti ebraici, per comprendere come e cosa del messianismo ebraico sia passato nei suoi testi. Quindi, dovremmo analizzare le differenze tra il messianismo Levinasiano e quello squisitamente giudaico.

2.3. I nomi del Messia

Nei suoi commenti talmudici ai passi messianici, tenuti tra il ’60 e il ’61, Levinas, dopo aver descritto i vari tipi di messianismo della tradizione giudaica, commenta un brano molto rilevante per la nostra argomentazione. Seguiamo, quindi, il commento di Levinas.

La tradizione talmudica dà al Messia diversi nomi. Il primo gruppo ne comprende tre, Šilo, Ynon e Haninà, tre nomi, chiosa Levinas, che a dire il vero richiamano altrettanti maestri delle scuole i cui discepoli hanno pronunciato questi nomi. Ma questa cosa ci dice una realtà profonda del messianismo, e cioè che esso ha a che fare con l’alterità dell’altro vista come maestria.118

Il secondo nome in particolare, Ynon, richiama un verso del Talmud che parafrasa Salmo 72 dicendo: Davanti al sole il suo nome è Ynon. Davanti al sole per Levinas, significa prima della creazione. In tal senso “la giustizia precede e condiziona lo splendore visibile […]. La relazione del maestro con il discepolo non consiste nel reciproco comunicarsi idee: è il primo irradiarsi del messianismo stesso”.119

Il terzo nome, Hanina, attraverso un altro gioco di parole, richiama la pietà, che associata alla pace e alla giustizia, possono costituire la pienezza del messianismo, ma anche anticiparsi a partire dall’insegnamento.120

Un altro nome del Messia è Menachem, consolatore, colui che da coraggio. Questo nome permette a Levinas di fare riferimento a un messianismo che costituisce una salvezza e una consolazione diretta per il soggetto, che appartiene alla sua intimità.121

Ma a questa visione che potrebbe sembrare meramente individualistica, si aggiunge subito, anche una forma di esistenza sociale che dipende dall’individuazione del Messia che non è in un essere unico. Perché i dottori hanno detto che il suo nome è “il lebbroso della scuola di Rabbi”. Chi è dunque questo lebbroso? I dottori danno delle interpretazioni: forse si tratta dello stesso Rabbi, o forse di Me, o del profeta Daniele.

Questo vuol dire innanzitutto che il messianismo indica una vocazione personale degli uomini. Forse si tratta di Me.122 Ma, in queste parole viene individuato anche un carattere che, a dire di Levinas, costituisce l’essenza del messianismo. “Il Messia è l’uomo che soffre […]. L’epoca non conta. Ogni epoca possiede il suo Messia. La stessa sofferenza non svolge un ruolo di una qualunque potenza di espiazione, ma rappresenta il segno della fedeltà e della vigilanza della coscienza”.123

Levinas qui sta associando la sofferenza alla vigilanza della coscienza. Ma non sappiamo da tutti i suoi scritti che la coscienza è chiamata alla vigilanza dall’ossessione che le infligge l’Altro?124 Non vediamo richiamati tutti i temi che abbiamo trattato nell’analisi della sostituzione in Altrimenti che essere?

Nel commento a Sanhedrin Levinas, attraverso un’audace interpretazione del detto di Rav Nachman, rilegge il Messianismo, spogliandolo di ogni connotato politico, e interpretando l’affermazione che si riferisce al regno in senso soggettivistico.

Rav Nachman ha detto: «Se è tra i viventi, allora sono Io». È scritto: “Il suo capo sorgerà dal suo interno, e il suo sovrano dai suoi ranghi” (Geremia 30, 21) […].

Il Messia è il principe che governa in maniera tale che la sovranità non sarà più sottratta a Israele. È l’interiorità assoluta del governo. C’è forse un’interiorità più radicale di quella in cui l’Io comanda a se stesso? L’ipseità è la non-estraneità assoluta. Il Messia è il re che non comanda più dal di fuori: questa idea di Geremia è condotta da Rav Nachman fino alla sua logica conclusione. Il Messia sono Io, ed essere Io è essere Messia.

Si vede dunque che il Messia è il giusto che soffre, che egli ha preso su di sé le sofferenze degli altri. D’altra parte, chi è che prende su di sé le sofferenze degli altri se non colui che dice «Io»?

L’ipseità stessa è definita da questo non sottrarsi al peso che impone la sofferenza degli altri. Tutte le persone sono Messia […].

Designarsi da sé, non sottrarsi fino al punto di rispondere prima ancora che l’appello risuoni: tutto questo è essere Io […].

Concretamente questo vuol dire che ognuno deve agire come se fosse il Messia.

Il messianismo non è la certezza della venuta di un uomo che arresta la storia: è il mio potere di sopportare la sofferenza di ognuno. È l’istante in cui riconosco questo potere e la mia responsabilità universale.125

Ecco il cuore di tutta la nostra ricerca, il punto di giunzione tra gli scritti filosofici e quelli ebraici. Sopportare le sofferenze dell’intero universo non è la sostituzione che costituisce la soggettività? La realizzazione della soggettività, dunque, ci sembra essere un evento metafisico e insieme religioso. Il messianismo, come apice della soggettività, è un apogeo nell’essere.

Il fatto di esporsi al peso che impongono la sofferenza e la colpa degli altri pone il se stesso dell’Io. Io soltanto posso, senza crudeltà, essere designato come vittima. L’Io è colui che, prima di ogni decisione, è eletto per portare tutta la responsabilità del Mondo. Il messianismo è questo apogeo nell’Essere — ribaltamento dell’essere ‘che persevera nel suo essere’ — che comincia in me.126

Abbiamo pertanto dimostrato, o perlomeno evidenziato, come un’accezione del messianismo in Levinas si riferisca alla soggettività, intesa come capacità di soffrire per gli altri. Il messianismo come apogeo nell’Essere.

Per far questo abbiamo dovuto analizzare, partendo da lontano, il problema del male nelle sue diverse declinazioni, e abbiamo dovuto seguire il percorso di liberazione dall’incatenamento all’essere fino all’esplosione del soggetto esposto ad Altri.

Trovato il punto di unione tra la soggettivizzazione della soggettività e il messianismo, il nostro lavoro può continuare ad analizzare in generale la nozione di messianismo così come viene presentata da Levinas, per comprendere se e come egli la adatti alla propria filosofia, o quanto segua la tradizione.

Segue…


  1. Cfr. DE p. 14. Queste le abbreviazioni usate nel corso dell’articolo: ADV L’au-delà du verset, éditions des Minuit, Paris 1982, trad. it. di Giuseppe Lissa, L’aldilà del versetto, Guida, Napoli 1986. AE Autrement qu’être ou au-delà de l’essence, Nijhoff, La Haye 1974, trad. it. di M.T. Aiello e S. Petrosino, Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, Jaca Book, Milano 1983. AHN A l’heure des nations, Les éditions de Minuit, Paris 1988, trad. it. Di Silvano Facioni, Nell’ora delle nazioni, Jaca Book, Milano 2000. DDQI De Dieu qui vient à l’idée, Vrin, Paris 1982, trad. it. di G. Zennaro, Di Dio che viene all’idea, Jaca Book, Milano 1986. DE De l’évasion, in «Recherches philosophiques» V (1935-1936), trad. it. di Donatella Ceccon, Dell’evasione, Cronopio, Napoli 2008. DL Difficile Liberté, Albin Michel, Paris 19833, trad it. di S. Facioni, Difficile Libertà, Jaca Book, Milano 2004. DMT Dieu, la Morte et le Temps¸ édition Grasset et Fasquelle, Paris 1993, trad. it. di S. Petrosino e M. Odorici, Dio, la Morte e il Tempo, Jaca Book, Milano 1996. DSS Du sacré au saint, éditions de Minuit, Paris 1977, trad. it., Dal sacro al santo, Città Nuova Editrice, Roma 1985. EDE En découvrant l’existence avec Husserl et Heidegger, Vrin, Paris 19743, trad. it. Scoprendo l’esistenza con Husserl e Heidegger, Raffaello Cortina Editore, Milano 1998. EE De l’existence à l’existant, Fontane, Paris 1947, trad. it. di F. Sozzi, Dall’esistenza all’esistente, Marietti, Genova 1986. EI Ethique et Infini, Librarie Arthème Fayard, Paris 1982, trad. it. di Maria Pastrello, Etica e Infinito, Città aperta edizioni, Troina 2008. EN Entre nous. Essai sur le penser-à l’autre, éditions Grasset et Fasquelle, Paris 1991 ; tr. it. Tra noi. Saggi sul pensare-all’altro, Jaca Book, Milano 1998. NLT: Nouvelles lectures talmudiques, éditions de Minuit, Paris 1996, trad. it. di Beato Caimi, Nuove letture talmudiche, Edizioni SE, Milano 2004. QLT Quatres lectures talmudiques, édition de Minuit, Paris 1968, trad. it. di Alberto Moscato, Quattro letture talmudiche, Il nuovo Melangolo, Genova 2008. TA Le temps et l’autre, in «Cahiers du Collège Philosophique», Paris 1948, trad. it. di F.P. Ciglia, Il tempo e l’altro, Il Melangolo, Genova 1987. TI Totalité et Infini, Nijhoff, La Haye 1961, trad. it. di A. Dell’Asta, Totalità e infinito, Jaca Book, Milano 1980 19902. ↩︎

  2. Cfr. EE, pp. 16-17. ↩︎

  3. Cfr. DE pp. 14, 17. ↩︎

  4. Ibid. p. 33. ↩︎

  5. Cfr. Ibid. pp. 34-36. ↩︎

  6. Cfr. QRPH, p. 21. ↩︎

  7. Cfr. Ibid. pp. 29-31. ↩︎

  8. In particolare vedi pp. 14, 17. ↩︎

  9. Cfr. EE pp. 13-14. ↩︎

  10. Cfr. Peñalver Gòmez P., Mal radical et responsabilité infinie, in «Cahiers d’études Levinassiennes» (7/2008), pp. 115-118. ↩︎

  11. Cfr. EE, pp. 18-19 passim. ↩︎

  12. Cfr. Ibid. pp. 20-21. ↩︎

  13. Ibid. 28 passim. ↩︎

  14. Cfr. Ibid. pp. 64-65. ↩︎

  15. Cfr. Ibid. p. 66. ↩︎

  16. Cfr. Ibid. pp. 71-72. ↩︎

  17. Cfr. Ibid. p. 27. ↩︎

  18. Cfr. Ibid. pp. 79-80. ↩︎

  19. Cfr. TA p. 42. ↩︎

  20. Cfr. Ibid. pp. 26-30. ↩︎

  21. Cfr. Ibid. pp. 34-37. ↩︎

  22. Cfr. Ibid. p. 34. ↩︎

  23. Cfr. Ibid. pp. 41-42. ↩︎

  24. Cfr.Ibid. p. 44. ↩︎

  25. Cfr. Nodari F., op. cit. p. 78. ↩︎

  26. Cfr. TI p. 72. ↩︎

  27. Cfr. Ibid. p. 54. ↩︎

  28. Cfr. Ibid. pp. 105-106. ↩︎

  29. Cfr. pp. 110-111. ↩︎

  30. Cfr. Ibid. pp. 116-117 passim. ↩︎

  31. Cfr. Ibid. p. 139. ↩︎

  32. Cfr. Ibid. pp. 120-130. ↩︎

  33. Cfr. Ibid. pp. 167-168. ↩︎

  34. Cfr. Ibid. pp. 114-115 passim. ↩︎

  35. Cfr. Ibid. p. 132. Ritorna, quindi, in TI, il termine utilizzato in QRPH. ↩︎

  36. Ibid. p. 134. ↩︎

  37. Cfr. Ibid. pp. 135-136. ↩︎

  38. Cfr. Ibid. pp. 142-143. ↩︎

  39. Cfr. Ibid. pp. 243-245. ↩︎

  40. DSS p. 116. ↩︎

  41. Cfr. AE pp. 106-107. ↩︎

  42. DSS, p. 116. ↩︎

  43. Cfr. Ivi. ↩︎

  44. Cfr. Ibid. pp. 117-118. ↩︎

  45. Ibid. p. 119. ↩︎

  46. Cfr. Ibid. p. 45. ↩︎

  47. Cfr. Ibid. p. 49. ↩︎

  48. Cfr. Ibid. pp. 49-50. ↩︎

  49. Cfr. ADV pp. 237-255. ↩︎

  50. Cfr. DSS pp. 133-157. ↩︎

  51. Cfr. Ibid. p. 152. ↩︎

  52. Ibid. p. 144. ↩︎

  53. Ibid. p. 47. ↩︎

  54. Cfr. DDQI p. 163, e EN pp. 123-124. ↩︎

  55. Cfr. Ibid. pp. 124-125. ↩︎

  56. Cfr. Ibid. pp. 125-126. ↩︎

  57. Cfr.Ibid. pp. 126-127. ↩︎

  58. Cfr. Ibid. p. 127. ↩︎

  59. Cfr. Ibid. p. 128. ↩︎

  60. Cfr. Ibid. p. 130. ↩︎

  61. Cfr. Ibid. pp. 130-131. ↩︎

  62. Cfr. Ibid. p. 132. ↩︎

  63. Cfr. Ivi. ↩︎

  64. Is 9, 1: «Il popolo che camminava nelle tenebre vide una gran luce». ↩︎

  65. Cfr. AE p. 81. ↩︎

  66. Cfr. Ibid. p. 84. ↩︎

  67. Cfr. Ibid. p. 86. ↩︎

  68. Cfr. Ibid. p. 89. ↩︎

  69. Cfr. Ibid. p. 90. ↩︎

  70. Cfr. Ibid. pp. 92-93. ↩︎

  71. Cfr. Ibid. p. 113. ↩︎

  72. Cfr. Ibid. pp. 95-96. ↩︎

  73. Cfr. Ibid. p. 96. ↩︎

  74. Cfr. Ibid. pp. 97-99. ↩︎

  75. Ibid. p. 98. ↩︎

  76. Ibid. pp. 98-99. ↩︎

  77. Cfr. Ibid. pp. 104-105. ↩︎

  78. Cfr. Ibid. p. 114. ↩︎

  79. Citato in DSS, p. 136. ↩︎

  80. Cfr. AE p. 111. ↩︎

  81. Cfr. Ibid. p. 113. ↩︎

  82. Cfr. Ibid. p. 121. ↩︎

  83. Ibid. p. 105. ↩︎

  84. Cfr. Ibid. p. 127. ↩︎

  85. Cfr. Ibid. p. 128. ↩︎

  86. Cfr. Ibid. p. 125. ↩︎

  87. Cfr. Ibid. p. 128. ↩︎

  88. Cfr. Ibid. pp. 115-116 e 131-132. ↩︎

  89. Cfr. Ibid. p. 133. ↩︎

  90. Cfr. Ibid. p. 134. ↩︎

  91. Ibid. p. 135. ↩︎

  92. Ibid. p. 136. ↩︎

  93. Ibid. pp. 136-137 passim. ↩︎

  94. Ibid. p. 137. ↩︎

  95. Cfr. Ibid. p. 139. ↩︎

  96. Cfr. Ibid. p. 140. ↩︎

  97. Cfr. Ibid. p. 141. ↩︎

  98. Cfr. Ivi. ↩︎

  99. Cfr. Ibid. p. 142. ↩︎

  100. Cfr. Ibid. pp. 143-144. ↩︎

  101. Cfr. Ibid. p. 145. ↩︎

  102. Cfr. Ibid. p. 146. ↩︎

  103. Cfr. Ibid. p. 147. ↩︎

  104. Cfr. Ibid. p. 148. ↩︎

  105. Cfr. ADV p. 226. ↩︎

  106. AE p. 153. ↩︎

  107. Cfr. Ibid. p. 154. ↩︎

  108. Cfr. Ibid. pp. 154-156. ↩︎

  109. Ibid. p 157 passim. ↩︎

  110. Ibid. p. 204 passim. ↩︎

  111. Cfr. Ibid. p. 204. ↩︎

  112. Cfr. Ibid. pp. 204-205. ↩︎

  113. Cfr. ED, p. 90. ↩︎

  114. Ibid. p. 83. ↩︎

  115. Cfr. Ibid. pp. 84-85. ↩︎

  116. Cfr. TI p. 295. ↩︎

  117. Cfr. EE, p. 91. ↩︎

  118. Cfr. DL pp. 112-114. ↩︎

  119. Ibid. p. 113 passim. ↩︎

  120. Cfr. Ivi. ↩︎

  121. Cfr. Ibid. p. 114. ↩︎

  122. Cfr. Ibid. pp. 114-115. ↩︎

  123. Ibid. p. 115 passim. ↩︎

  124. Del resto il titolo di uno dei saggi contenuti in Di Dio che viene all’idea è Dalla coscienza alla veglia a partire da Husserl. Cfr. DDQI, pp. 31-52. ↩︎

  125. Ibid. pp. 115-117 passim. ↩︎

  126. EN, p. 92. ↩︎