Trascendenza e silenzio di Dio. Un confronto tra E. Levinas e A. Neher

L’intento di questo lavoro è porre in parallelo le categorie che Levinas utilizza per declinare la trascendenza di Dio con le considerazioni di Neher sul silenzio di Dio e con la sua analisi della fenomenologia del silenzio come inerzia, energia e sfida, nel suo libro L’esilio della parola.1

Il punto di contatto ci è sembrato essere la concezione di Levinas della trascendenza di Dio fino a una sua possibile confusione col brusio del c’è, nella quale la parola «brusio» richiama quella che, nel testo biblico di 1Re 19, 12b, letteralmente ed etimologicamente è resa con «la voce di un tenue silenzio».

La clavis hermeneutica del lavoro va pertanto individuata in questa vicinanza di termini e di significati. Facendo perno su tale contatto sono stati individuati dei temi comuni — espressi con linguaggio e immagini differenti — accostabili in una sequenza logica, per la quale l’autore principale di riferimento rimane Levinas.

1. Il volto nascosto di Dio

1.1. Dio altro dall’essere

Per Levinas «La filosofia riconduce ogni significato e ogni razionalità all’essere»2 inglobando in tale essere Dio stesso. Tale atto, per Heidegger, pone inizio ad un’epopea che si conclude con la con la tecnica che segna la fine della metafisica e la morte di Dio, ma non è che un normale sviluppo dell’onto-teo-logia e, costituisce addirittura una chance per il pensiero dell’essere che non sarà più ontologia.3

Per Levinas bisogna chiedersi se l’essere sia l’ultima sortente del senso. Opporre Dio all’onto-teo-logia significa concepire una nuova nozione di senso.4

1.2. Dio insensato

Bisogna chiedersi se l’essere e il pensiero siano la sorgente ultima del senso o se ci sia una significazione anteriore alla presenza che significhi in maniera eccezionale non oltre l’essere, ma prima e altrimenti che essere. Una tale modalità sarebbe quella di un linguaggio non dossico, ma paradossale,5 pensato non come affermazione, ma come domanda, come questione.

In tutta la tradizione occidentale il pensiero è tetico, pone ciò che afferma, e così forma un mondo. Anche l’idealismo moderno, che punta l’accento sull’attività del pensiero, non si congeda da questa visione, dalla priorità del mondo; nessuna trascendenza «proprio mentre il Dio della Bibbia significa in maniera inverosimile […] l’al di là dell’essere, la trascendenza».6

1.3. Dio Trascendente

Per Levinas il pensiero occidentale si configura come una secolarizzazione dell’idolatria. In esso la meraviglia diviene filosofia, l’idolatria astronomia, la razionalità ateismo; e tutto ciò appartiene al gesto d’essere cioè alla fonte dalla quale la razionalità prende senso e fondamento, fa parte del movimento stesso del sapere che pone l’essere come suo fondamento e che abbraccia il tutto con il suo sguardo. Tuttavia, a differenza di Heidegger, per Levinas la tecnica non è la fine dello spirito umano. In questa situazione Dio trova uno spiraglio nella rottura del movimento del pensiero che riposa sull’essere e che segna il regno dello Stesso.

Secondo Levinas la tecnica ha avuto sull’uomo un effetto di disincanto, ma essa non lo salva da ogni mistificazione, soprattutto non lo salva dalla mistificazione del pensiero stesso e dell’apparire. Dunque se si deve ipotizzare una Trascendenza la si deve pensare a partire da qualcosa che sia al di là del pensiero, al di là del movimento unificatore dello Stesso, della filosofia, della tecnica e dell’ateismo. Una secolarizzazione della secolarizzazione.7

Tale disincanto del disincanto avviene per Levinas nell’appello crudo della corporeità, della povertà dei bisognosi, in quella che in una parola egli definisce «fame». Questa trascendenza che ha origine nella corporeità non è ontologica perché non ha al suo inizio nel pensiero, ma è di colpo responsabilità per l’altro uomo. Solo tale responsabilità permette di uscire dall’incantamento del pensiero e dell’apparire, permette di secolarizzare la secolarizzazione,8 e apre una fessura di uscita in direzione di un al di là nel quale si collocherebbe un Dio trascendente.9

1.4. Trascendenza e silenzio

Nella sua analisi della fenomenologia del silenzio biblico Neher individua tre ambiti di silenzio: inerzia, energia, e sfida, caratterizzati ciascuno da una coppia di termini che designano la parola «silenzio».

Tra il silenzio inerte del Nulla e il silenzio energetico dell’Essere si colloca la coppia di termini: `âlâm e haster panîm. Il primo termine è utilizzato nella Bibbia per indicare il silenzio degli uomini, anche se i rabbini lo utilizzeranno per il silenzio di Dio; invece il secondo è il termine maggiormente usato nel testo biblico per indicare il silenzio di Dio.

’Illem, la cui radice è la medesima di `âlâm, significa muto, ma un muto che è tale non per motivi fisiologici; la chiave di lettura del contesto ce la fornisce l’espressione haster panîm, che significa letteralmente nascondere il volto, con un travestimento, o una maschera. «Il denominatore comune di questi due termini, come si vede, è la nozione di gioco teatrale. Nei due casi, il silenzio è una maschera».10

In questa dinamica teatrale l’uomo e Dio giocano a nascondino in un dramma nel quale rischiano di perdersi o di dimenticare di essere partners dell’azione. Nella Bibia il mondo è aperto, nessuna soluzione certa è già scritta. Il silenzio, allora, risulta necessario alla libertà dell’incontro e del dialogo tra uomo e Dio.11

2. La trascendenza silenziosa del male

2.1. La trascendenza del male

Come può un pensiero andare al di là del mondo, essere trascendente, se il pensiero pretende di inglobare anche la negazione come proprio momento?12

L’analisi di Levinas si sofferma su un testo di Philippe Nemo che pone l’attenzione alla trascendenza che interrompe il mondo in una particolare modalità di vissuto: il male di Giobbe.13 Nell’analisi del male Levinas individua tre elementi: l’eccesso, il tu al fondo del male, e il richiamo al bene.

Nella sua malignità di male, il male è eccesso, la non-integrabilità del non integrabile, e in questo senso trascendenza!14 La teodicea stessa è un modo di pensare Dio come la realtà del mondo, ma il male eccede tutto questo, ottiene la sua significazione proprio dal suo opporsi a tale sistema.

Il secondo elemento che emerge dal male è un’«intenzione», come se nel male qualcosa, qualcuno mi cercasse, come se nel male vi fosse un’intenzione cattiva che mi rivela qualcuno dietro al male, qualcuno verso il quale va la mia interpellanza, la mia domanda sul perché della mia sofferenza, una domanda che suppone un Bene dietro il Male. «Il senso comincia dunque nella relazione dell’anima a Dio a partire dal suo risveglio attraverso il male. Dio mi fa male per sradicarmi dal mondo in quanto unico ed eccezionale: in quanto anima».15

C’è un terzo momento in questa fenomenologia del male: il mio odio del male.16 In questo senso il male mi colpisce nell’orrore che ho di esso e nella mia conseguente relazione paradossale al Bene, una relazione che è una attesa senza mira, non intenzionale, è un’attesa senza atteso, una pazienza.

L’analisi di Levinas si distingue rispetto a quella di Nemo nell’interpretare il tacere dell’uomo di fronte all’onnipotenza di Dio come appello alla responsabilità verso il mondo, una responsabilità che trova l’uomo sempre in ritardo, un comandamento primordiale, che può avere senso solo all’interno di un’umanità solidale. Tale responsabilità è ricollegata da Levinas a quella destata nell’uomo dall’appello anarchico del Volto d’Altri.

In questo senso, secondo Levinas, la storia sarebbe un dramma nel quale il Medesimo è scompigliato dal Male e dall’Altro, e tentato di tornare al riposo della tematizzazione del mondo. Un’alternanza di fratture e ricomposizioni, nelle quali non c’è sintesi, ma rinvio, mira senza coincidenza, ambiguità, «ma anche l’approssimarsi di un Dio infinito, approssimarsi che è la sua prossimità».17

2.2. Ponti sospesi e arcate spezzate

L’alternarsi di rotture e ricomposizioni nella storia è ripreso, con linguaggio differente, da Neher che compie un’analisi del termine biblico sadday il cui primo significato è l’attributo della promessa con il quale Dio è conosciuto dai patriarchi, una promessa che è ombra e silenzio.18

Questa promessa silenziosa non ha qualcosa di simile a quella che in teologia viene detta prova? Nella prova, infatti, tutto si svolge come se Dio avesse dimenticato chi è l’uomo che sottopone alla prova, Egli tace. Eppure la prova è tale perché ha un intervallo di tempo, ha un inizio ed una fine; in essa Dio prova coloro che Egli sa che reggeranno; in essa Dio non si espone sostanzialmente ad alcun rischio. Il Dio della prova, diremo noi è il Dio dei ponti sospesi. Tuttavia vi sono nella Bibbia dei ponti destinati a crollare. È questo il caso dell’esperienza di Giobbe.19

A Giobbe, differentemente da Abramo, non viene chiesto nulla, ma tutto viene sottratto violentemente. Inoltre mentre per Abramo tutto torna come prima, per Giobbe non è così, c’è una frattura incolmabile nella sua vita, il filo sottile che unisce Giobbe a Dio si spezza. È come se Dio avesse assunto per Giobbe il rischio che si era rifiutato di correre con Abramo. Infine, il termine sadday che non compare nel caso di Abramo è invece utilizzato nell’esperienza di Giobbe.

Per Neher sadday è Colui che basta a se stesso, non l’Esser da cui ci si aspetta tutto, ma l’Essere da cui non ci si può aspettare nulla. «È il Dio senza eco, senza vigilia e senza domani, il Dio del Silenzio assoluto».20

L’esperienza biblica parla di due tipi di prova: quella vera e propria, e quella che si potrebbe definire una falsa prova — quella di Giobbe. Se il Dio della prova è quello dei ponti sospesi, quello della falsa prova è il Dio delle arcate spezzate.21

La Bibbia, così costituita, risulta essere il documento teologico più inquietante che sia stato offerto alla riflessione umana, e la riflessione ebraica non è rimasta refrattaria a tale inquietudine.

Il Dio del silenzio che da essa emerge può essere accostato al Dio che non è compromesso in alcun modo con l’essere, il cui legame con l’uomo non si declina con le categorie del senso, del pensiero e della Parola, ma con quelle del Silenzio.

Sono queste le categorie che troviamo nell’esperienza del profeta Elia.

3. Il brusio dell’il y a

3.1. La trascendenza paradossale

Restano per Levinas due domande: se sia possibile pensare un Dio al di fuori dell’onto-teo-logia, e se un tale modello d’intelligibilità possa essere formulato a partire dall’etica, che costituisce una significanza senza riferimento al mondo, all’essere e alla conoscenza. In tal modo «la trascendenza come tale sarebbe una mira che resterebbe mira; in questo senso sarebbe una trascendenza non dossica, ma para-dossale […] . Una trascendenza infinita, poiché l’idea di colmare una mira intenzionale con una visione è qui fuori luogo, fuori proporzione. Una trascendenza s-proporzionata».22

3.2. Il disinteressamento dell’etica come fenomeno della trascendenza

Il primo «intrigo» da esaminare è come l’etica possa essere considerata come altro dall’essere, come dis-interessamento. Ciò che è caratteristico dell’intrigo etico è, infatti, una passività nella quale il soggetto si trova di colpo all’accusativo, senza che la propria intenzionalità possa in alcun modo mirare alla sintesi noetico-noematica con Altri. Una passività che impedisce al soggetto di consolidarsi in quanto tale, ma che costituisce, allo stesso tempo, proprio la soggettività.23

Tale passività è, allo stesso tempo, impossibilità di cogliere l’oggetto come oggetto intenzionale nell’attesa. In questo senso la pazienza è un’attesa senza atteso, una mira che resta mira, nella quale l’oggetto non viene a colmare il vuoto dell’attesa, e nella quale non c’è sintesi noetico-noematica, ma uno scoraggiante parallelismo, una pazienza nella quale il tempo si riferisce, si deferisce all’infinito.

In qualche modo, nell’intrigo etico, la trascendenza «significa» diversamente dalla significazione legata alla presenza e alla rappresentazione, essa è paradossale e infinita, perché non ha un inizio né una fine nel tempo, ed è sproporzionata perché l’oggetto della sua attesa si allontana con l’avvicinarsi a esso in quello che Levinas chiama «approssimarsi».

«Questo paradosso iscrive la gloria dell’Infinito nella relazione abitualmente chiamata intersoggettività. L’infinito si innalza gloriosamente da tale relazione».24

In questo modo la trascendenza è altrimenti che essere. L’essere in quanto essere, infatti, annoda un intrigo al quale ogni senso è sospeso. L’essere regna, e la conoscenza dell’essere, in cui l’essere si manifesta, appartiene alla vita stessa dell’essere. Ma l’intrigo etico ha tagliato con l’intenzionalità.25

3.3. La soggettività anarchica

Di più. «L’etica taglia corto con l’intenzionalità così come con la libertà […] . È come se vi fosse qualcosa prima dell’inizio: un’ an-archia».26

Nella relazione con l’altro l’io è chiamato a una responsabilità anteriore a ogni suo a priori, a ogni possibile rappresentazione. «Abbiamo chiamato ossessione questa relazione irriducibile alla coscienza».27

Nella significazione anarchica l’io è ossessionato perché non può mai assumere ciò da cui è affetto, si configura in essa un’eteronomia che «designa l’intrigo o il dramma meta-ontologico dell’anarchia che disfa il logos» .28

In tale responsabilità senza scelta, anarchica, anteriore alla coppia libertà/non libertà vi è per l’io una investitura che va al di là dei suoi disegni egoistici, che si pone prima del suo costituirsi come soggetto, e in ciò è altrimenti che essere.^[29]

In questo senso l’etica viene prima della libertà, l’io si trova compromesso col Bene prima di averlo scelto, il Bene deve eleggerlo per primo e esso stesso deve essere in ciò anteriore alla libertà, anteriore alla bipolarità del bene e del male, prima dell’essere, prima della presenza.29

«In questa relazione del Bene con me, relazione che è assegnazione di me ad Altri, accade qualcosa che sopravvive alla morte di Dio».30

3.4. La responsabilità come gloria dell’Infinito

«La responsabilità per l’altro in me è un’esigenza che cresce man mano che vi si risponde, un impeto: un’eccedenza sul presente. Tale eccedenza è gloria; è con essa che l’Infinito si produce come avvenimento. L’eccedenza sul presente è la vita dell’Infinito […] . Il modo in cui l’Infinito si glorifica (la sua glorificazione) non è rappresentazione. Esso si produce, nell’ispirazione, sotto forma di mia responsabilità per il prossimo o come etica».31

La responsabilità è testimonianza dell’Infinito e si esprime nel Dire. Per ora ci serve sottolineare l’aspetto di incontro, al di là di ogni rappresentazione, tra l’io come unico e l’Infinito. Incontro che avviene nella sottigliezza dello pneuma, nella sottigliezza di un soffio, nel quale l’io è chiamato «fuori dagli angoli bui del quanto-a-sé […] stanato senza possibilità di fuga».32

3.5. La possibile confusione col c’è

L’il y a è un elemento che rientra nei primi studi del nostro autore, poi scompare per lungo tempo per fare la ricomparsa in alcuni scritti conclusivi. Il punto di partenza è un’analisi nella quale la posizione di Heidegger viene superata con l’idea dell’irremissibilità dell’Essere.

Nelle pagine di Il Tempo e l’Altro Levinas analizza l’espressione heideggeriana di Geworfenheit interpretandola come una derelizione e un abbandono, un essere gettato dentro un’esistenza che è indipendente dall’esistente.33

Due sono le caratteristiche di questo esistere senza esistente, di questa «irremissibilità dell’essere puro».

La prima è il suo riferimento al nulla, inteso come impossibilità fenomenologica del nulla «un brusio che ritorna dopo ogni negazione di questo brusio. Né nulla né essere».34 Tra le esperienze che meglio possono fornire un’analogia a questo esistere vi è la situazione dell’insonnia.

La seconda caratteristica è quella della passività, aspetto molto fecondo che attua un’evoluzione negli scritti di Levinas, fino a un suo ruolo positivo che chiude il cerchio in Altrimenti che essere. Nei testi giovanili la passività, riguarda l’impossibilità di sottrarsi al campo di forze neutro e impersonale dell’essere, un essere esposti che comprende anche l’angoscia, che non è angoscia di fronte al nulla, ma un’apertura all’ignoto.

Tali figure tornano in Altrimenti che essere. Di nuovo l’il y a è caratterizzato dalla sua neutralità, monotonia, anonimato, insignificanza, dal suo brusio. Questo il y a urta contro l’io che vuole costituirsi tale nella libertà, che vuole tornare a se stesso come presente, e sfuggire all’inesorabile c’è.35 Per Levinas il soggetto non può mai liberarsi dall’incombenza del c’è, non può farlo costituendosi come Io perché «il brusio incessante del c’è urta in modo assurdo l’io trascendentale attivo-cominciante, presente».36

Però, paradossalmente, è proprio questa passività estrema, questa impossibilità di fuga, questa esposizione, a costituire, mediante la responsabilità per Altri, il nascere anarchico della soggettività, che si pone non più in relazione con l’essere, costituendosi come essenza, ma con l’altrimenti che essere mediante il disinteressamento. «Per sopportare senza compenso gli è necessario l’eccessivo o la nauseante confusione e l’ingombro del c’é».37

Il brusio del c’è diviene, dunque, luogo-non-luogo in cui è possibile il verificarsi della soggettività come responsabilità per altri, la soggettività che è luogo-non-luogo dove avviene la trascendenza.

Il brusio dell’il y a avvolge la soggettività esposta urtandola nel suo tentativo di costituirsi come Io trascendentale, ma nello stesso tempo le offre la possibilità di costituirsi come soggettività responsabile ed anarchica, cioè il luogo-non-luogo in cui accade la trascendenza. Il fenomeno della trascendenza è circonfuso dal brusio dell’il y a.

Tale il y a è riconducibile a Dio? Se così fosse Levinas tradirebbe le sue iniziali intenzioni di parlare di Dio, come un termine significante all’interno di una significazione anteriore alla presenza.

L’il y a possiede, però, delle caratteristiche che hanno molte analogie in comune con quel termine significante che chiamiamo Dio, e con quello che è il sostrato per la possibilità fenomenologica della Trascendenza e dell’Infinito: l’impossibilità del nulla, l’irremissibilità dell’essere, l’esposizione, la passività senza assunzione, la responsabilità anarchica.

3.6. Il brusio del prologo. L’emergere del silenzio

Neher, leggendo le prime righe di Genesi, afferma che quasi tutta la tradizione rabbinica ha sempre individuato nell’espressione «Dio disse» il primo atto della creazione. In tal modo è con il dire della Parola che tutto ha avuto inizio. In tale concezione tutto è armonia, ogni lato negativo della creazione è compreso in una sintesi unitaria. Tutto è Parola e non c’è spazio alcuno per il silenzio e per il dialogo che esso sottende.38

Ora l’interpretazione rabbinica della Bibbia introduce invece, in questa visione di armonia, la concezione di un mondo pieno di lacune e di vuoti, creato non tutto d’un colpo perfetto dalle mani di Dio, ma solo dopo svariati tentativi, e contenente ancora numerose imperfezioni, restando solo sufficientemente stabile e nel quale trova il proprio adeguato spazio il silenzio. Uno spazio che è contrappunto della parola, in un’aggressiva opposizione dialettica a essa, che non la accompagna, ma la precede nella logica del pro-logo.39

Letteralmente prologo significa prima della parola, ma quale è la sua vera identità? Nei primi versi di Genesi una serie di sostantivi e aggettivi vengono utilizzati per descrivere questa situazione caotica che i filosofi hanno identificato e bollato subito come Nulla, affermando che la creazione è ex-nihilo.

In Genesi, tuttavia, questo Nulla non è niente, bensì un ciarpame che il primo colpo di scopa della Parola disperde ai quattro venti, che esiste da qualche parte in una zona pre-verbale.40

Il Nulla è pertanto qualcosa di gigantesco, una serie di mondi non riusciti che si rovesciano l’uno sull’altro in abissi senza fondo, un serbatoio di forze negative che l’atto creativo ha respinto nel passato, ma che non ha rimosso per sempre. Questo Nulla è «pronto anche a rispondere all’appello dell’Essere qualora questi, all’improvviso, si ricordasse della sua originale parentela con il Nulla.

Appare allora il Silenzio — il grande solenne silenzio-inerzia — non come una passeggera sospensione della parola, ma come il portavoce dell’invincibile nulla. Allora il Silenzio sostituisce la Parola, perché il Nulla è ridiventato il luogo-tenente dell’Essere».41

3.7. Lô’-dûmmyâ. Il Non-Silenzio

Morte, notte e silenzio sono tra loro collegati e costellano la Bibbia con le loro apparizioni, ma Neher si sofferma sul Salmo 22 perché esso rappresenta una lotta frontale contro la morte e la notte e perché l’incantesimo del salmista viene reso con un’espressione — lô’-dûmmyâ — la cui singolare incisività stupisce poiché lô’-dûmmyâ è letteralmente il Non-Silenzio.42

Neher non segue la tradizionale interpretazione dei versi nei quali è inserita questa espressione: «anche di notte non trovo riposo». Per Neher lô’-dûmmyâ è il non-silenzio che non è la parola, ma una caduta in un silenzio più silenzioso del silenzio, l’accesso ad una dimensione metasilenziale. Di giorno Dio non risponde al Salmista «Io sono colui che sono», e di notte, col suo silenzio, sembra dire «Io sono colui che non sono». «Il Signore appone all’uomo il Dio nascosto. Il Non-Silenzio gli oppone un Dio il cui Essere non può essere colto se non a partire dalle radici fuggenti del Nulla».43

Potremmo quasi, forzando la mano nelle analogie e traduzioni, accostare il Non-Silenzio del Salmo 22 al brusio anonimo dell’il y a. Non parola (logos) né silenzio: il Non-Silenzio.

Circondato dal Non-Silenzio il salmista è esposto ai propri nemici fino alla responsabilità del male che gli fanno.

Ritroviamo tutti gli aspetti dell’il y a, e il Non-Silenzio sembra essere il luogo-non-luogo dove la passività estrema senza assunzione può divenire relazione con l’Infinito nella responsabilità per Altri, meta-luogo dell’attuarsi della Trascendenza.

3.8. Lô’ ´ašibennu. Non ti risponderò

La responsabilità per Altri diviene possibilità della Trascendenza, ma una tale trascendenza per attuarsi restando tale, deve ordinare il non-desiderabile, non deve essere mai soggettivata.

In tal modo Dio, il dio biblico che è il Dio dell’assoluta trascendenza, come sostiene Levinas, fa incontrare l’uomo non solo col silenzio della creazione, col silenzio del nulla, ma anche col proprio silenzio.

Questo aspetto del silenzio è analizzato da Neher in due brani biblici: l’episodio del re Saul, e quello del profeta Elia.

Saul è stato investito del suo compito senza alcuna parola da parte di Dio, senza alcuna visione, è un profeta senza parole. È proprio il silenzio di Dio durante tutta la sua vita che lo spinge a consultare la pitonessa, perché tale silenzio è percepito come colpa.44

Saul, di fronte all’angoscia del silenzio si rivolge alla magia per ottenere una risposta, pecca letteralmente d’idolatria, abbandonando il ponte sospeso della trascendenza, abbandonando il Dio trascendente per rivolgersi agli idoli fatti dalle mani dell’uomo, agli dei della religione teologica, tematizzante, che non lascia a Dio la sua trascendenza.

Di fronte al silenzio di Dio Saul si sente schiacciato e si uccide, ma non è questa l’unica risposta a tale silenzio. Nella Bibbia esiste un’altra strategia per esorcizzare il silenzio di Dio ed è quella dell’ironia, del riso. La stessa ironia che utilizza Elia sul monte Carmelo contro gli idoli. Agendo in base alla convinzione che gli idoli sono falsi e muti e il Dio vero è il dio della parola e della luce, Elia gioca il tutto e per tutto: «La divinità che risponderà concedendo il fuoco è Dio! » (1Re 18, 24).

Neher sottolinea come in realtà la tecnica della mantica sia costruita ad arte per funzionare: un idolo escogitato per parlare parlerà, ma la sua parola non sarà che una parodia della parola reale.45

Eppure, nell’episodio citato, gli idoli non rispondono mentre JHWH manda il fuoco. E se Dio non avesse risposto? E ancora: rispondendo non si è forse consegnato anch’Egli alla dinamica della mantica e degli idoli? A tali interrogativi la Bibbia non è insensibile.46

La vicenda del profeta Elia sul monte Carmelo, infatti, trova il suo completamento con gli eventi dell’Oreb.

3.9. Qôl demamâ daqqâ. Una voce più tenue del silenzio

Negli episodi del Carmelo e dell’Oreb si ha l’incontro vivo e pieno con l’essenza di Dio, e in questo gioco Dio rischia il tutto per tutto. Mentre nel caso dei miracoli la posta in gioco era l’intervento a favore di una richiesta dell’uomo, e il non intervento di Dio poteva essere ascritto alla colpa umana, qui, invece è in gioco l’esistenza di Dio, un’esistenza legata alla parola.

Se Dio non avesse risposto sul monte Carmelo forse non sarebbe successo nulla. Del resto l’intervento di Dio non porta nessun cambiamento alla situazione sulla terra se non una momentanea esaltazione dei presenti.

Sul Carmelo Elia comprende che agganciando Dio alla Parola ha intrapreso la strada sbagliata. Dio non è nella tempesta, né nel fuoco, ma in qôl demamâ daqqâ (19, 12), nella voce di un tenue silenzio. La sola voce di Dio è il silenzio. Esso non è più segno della collera divina, ma esprime la sua presenza meglio della parola.47

In tal modo viene capovolta totalmente la prospettiva del silenzio. Non c’è silenzio che non sia silenzio di Dio, e l’incontro con Lui è possibile nell’oscurità dell’abisso più totale. L’abisso del silenzio è il meta-luogo dell’incontro, dell’attuarsi della Trascendenza.

Se si può trovare Dio anche nella sua più totale lontananza, quanto più sarà impossibile sottrarsi alla sua «presenza» trascendente nella contemplazione del creato. Siamo esposti alla sua incessante e trascendente «presenza».

Ho scritto la parola presenza tra virgolette perché, seguendo la linea tracciata da Levinas, non possiamo parlare per Dio di presenza, poiché questa si riferisce al pensiero e al processo intenzionale e tetico. Dio non può essere presente in tal modo. In tal senso preferisco coniare il termine in-assenza, nel quale il prefisso in — come già nell’in-finito levinasiano — indica un non e un in. Una doppia negazione che non è posizione, ma una scivolata nel linguaggio dell’altrimenti che essere. Tuttavia una negazione significante di una significazione anteriore alla presenza, in una relazione non riconducibile all’ontologia, significante nella sua Trascendenza, nel suo Silenzio!

Di fronte all’in-assenza dalla Trascendenza l’uomo è interpellato nel suo atteggiamento e nel linguaggio che esso deve assumere. Un linguaggio che in Levinas è descritto con i caratteri del Dire, in Neher assume l’aspetto drammatico della responsabilità dell’uomo di fronte al Silenzio.

È qui che ci si scontra con un altro silenzio: quello dell’uomo che si estende nei primi undici capitoli di Genesi, come se una chiave della creazione fosse stata smarrita. «Questa chiave è il termine stesso che designa la parola nella Bibbia: il termine dabar. Ora, è con l’abracadabrante avventura del dabar che tutto avrebbe avuto inizio e che, nella Bibbia, il silenzio attinge una nuova dimensione, perforando l’inerzia per accedere all’energia».48

La nostra analogia si estende alle considerazioni sul Dire senza Detto e alla paradossalità del dabar.

4. La paradossalità del Dabar

4.1. L’esigenza iperbolica della significazione

Dal fondo dell’il y a il soggetto esposto può risolversi nella responsabilità anarchica verso Altri. Il soggetto, convocato da Altri, ritrova una nuova identità non al riparo della propria forma, del proprio concetto di Io, ma come eletto ed unico, votato al non-desiderabile, alla bontà, in un incremento infinito che è gloria.49

Tale esigenza iperbolica non nasce dall’iniziativa di una sostanza costituita in Io-penso, ma da una totale inversione di questo movimento, in una passività estrema, dalla quale emerge la responsabilità della soggettività anarchica. Un’estroversione che porta il nome di sincerità.50

E la sincerità è resa tale solo attraverso il Dire perché in esso vi è una significazione all’Altro che spicca su ogni altra relazione, una significazione possibile in quanto soggettività. Bisogna comprendere bene cosa Levinas intende per Dire.

4.2. La significazione anteriore del Dire nell’intrigo della prossimità

In primo luogo possiamo esaminare cosa sia il Dire, e come esso sia possibile fenomenologicamente a partire dall’esperienza del Detto.

Secondo Lavinas il Detto è inteso come noema di un atto intenzionale, nel quale il soggetto si restringe in pensiero e fornisce un segno che rinvia ad un significato. Ma il soggetto del Dire non è il significato di questo segno, e la significazione del Dire non si risolve tutta nel Detto. Essa rinvia a un intrigo preoriginario della responsabilità che può essere descritto come rovesciamento dell’intenzionalità.51

Il Dire, infatti, non si risolve nell’invio di segni, perché questo presuppone una preliminare rappresentazione di questi. Ci troveremmo di fronte a un soggetto già costituito come Io-penso che traduce i suoi pensieri in linguaggio, in segni. Si tratterebbe, dunque, di un’azione intenzionale.

L’invio di segni, invece, presuppone già una prossimità ad Altri, un intrigo di tipo etico che è anteriore alla rappresentazione. «L’intrigo della prossimità e della comunicazione non è una modalità della conoscenza».52

4.3. L’esposizione significante

Nel Dire il soggetto si trova totalmente destitutito, stanato dalla sua permanenza in sé, non abitando più nessun luogo. Questa non abitazione si risolve non nel dare segno, ma nel farsi segno, nella totale obbedienza.53

Il Dire è quindi una risposta che sorge come iperbole dalla passività, nella responsabilità per Altri, una passività che è rovescio dell’intenzionalità, un rovescio senza diritto, un essere come vulnerabilità. Situazione nella quale il soggetto è vocato come unico.54

Vulnerabilità dell’essere che si espone al rischio del non senso, e così alla possibilità della Trascendenza che deve necessariamente prodursi come contro-senso.^[56]

4.4. Il disfarsi dell’essenza in significazione

Si tratta ora di esaminare come il Dire possa seguire l’onda del disinteressamento. Per far ciò dobbiamo partire dal problema della verità e del suo svelamento.

«La soggettività in quanto sapere si subordina al senso dell’oggettività».55 La soggettività è dunque sempre chiamata a raccogliere la manifestazione, e ogni gioco che essa giocasse al di fuori di questo sistema sarebbe velamento dell’essere.

Questo significa che la verità, cioè il rapporto di svelamento tra gli enti non esiste se non all’interno di un sistema che li vede in relazione tra loro, sciolti dal quale, i soggetti si occultano. Anche la soggettività è concepita all’interno di questo sistema. Il ruolo che essa svolge è quello di raccogliere la manifestazione e, così, di rientrare nell’inglobante atto d’essere.

Il soggetto, dunque, verrebbe assorbito totalmente nel Detto e non sarebbe l’origine di alcuna significazione. E anche la significazione, l’intelligibilità e lo spirito risiederebbero nella manifestazione, nella presenza.56

Ma nello straordinario del rapporto etico abbiamo intravisto una significazione anteriore alla presenza. Pertanto la significanza della significazione non si esercita come modo della rappresentazione, la significazione non riposa nell’essere.57

E la relazione nella quale il soggetto è chiamato come unico è la responsabilità. Essa rompe con l’anfibologia dell’essere e dell’ente, ma anche con la spiritualità della manifestazione, come articolazione del senso e avventura dello spirito.58

Nella significazione del Dire il soggetto è liberato in quanto unico cioè come soggettività anarchica e responsabile.59

In questo senso la significazione è una nascita latente del soggetto60 in quanto unico, latente in quanto anarchica, in quanto precedente ad ogni rappresentazione, in un obbligo senza impegno preso. In questa nascita senza inizio, nel disinteressamento, si ode la voce dell’Infinito che viene dal di fuori dei confini dell’ontologia.61

Sopra abbiamo detto che il soggetto che si costituisce come Io all’interno del sistema della manifestazione e nella quale la sua soggettività è tale nel suo raccogliere la rappresentazione, si cristallizza nel Detto. Ora di fronte alla voce dell’Infinito che la disfa in disinteressamento, la soggettività si apre ad una manifestazione che non si concretizza nel Detto.

«Davanti a questa an-archia — davanti a questo senza-inizio — fallisce la raccolta dell’essere. La sua essenza si disfa in significazione, in Dire al di qua dell’essere e del suo tempo, in dia-cronia della trascendenza».62

4.5. Il significante dicente il Dire stesso

In Totalità e Infinito Levinas sottolinea come il Dire sia rilevante anche dalla parte dell’Altro, del Significante. Il Significante non è il significato del segno, ma «è di faccia, nonostante l’interpolazione del segno, senza proporsi come tema». La significazione è pertanto un atto del Significante che riprende il segno esponendolo, è un assistere alla donazione di segno.63

In tal senso la significazione è affidata ad Altri, alla sua parola con la quale riprende il segno dato per illuminarne ciò che nella parola era ancora oscuro. La verità è promessa, e la promessa è linguaggio, è Dire.

È solo all’interno di questo intrigo che l’oggettività acquista un peso, che la verità può rivelarsi come promessa, come Dire. Solo questa alterità permette di infrangere l’incantesimo del sistema segno-significato. Il significante è esteriore, è Altro, Altri.64

4.6. Il Dire come testimonianza dell’Infinito

Il Dire mette quindi l’oggetto in rapporto con l’Altri, con l’esteriorità, con ciò che non può essere concepito dal pensiero: con l’Infinito. La definizione è tale solo come relazione all’Infinito. Solo a partire dall’Infinito è possibile definire.

L’Infinito a sua volta si segnala nel Dire come assistente all’iterazione del segno. «L’infinito nel quale si staglia ogni definizione non si definisce, non si offre allo sguardo, ma si segnala […]; non si segnala soltanto, ma parla, è volto».65

L’Infinito, dunque, non solo mi interessa nel disinteressamento della relazione etica, ma mi significa nel volto d’Altri. Dal brusio dell’il y a emerge la verità come volto che mi guarda guardare.

Questo Infinito è così attestato, è Detto all’interno del mio Dire? E il mio Dire nel suo disdirsi lo afferma?

Il Dire non è un dare iperbolico. Se così fosse, si resterebbe nell’ambito dell’ontologia e l’Infinito che il Dire testimonia rientrerebbe nei confini dell’essere come ente eccelso.66

Nel Dire, invece, vi é la fissione dell’ultima sostanzialità dell’Io e l’uscita dall’ontologia nella quale si attua il rapporto paradossale con Infinito in noi. Infinito che non può apparire perché si smentirebbe come tema, non può essere aggetto di rappresentazione, ma appartiene a un passato che non fu mai presente. Questa Gloria, nell’entrare in rapporto col soggetto nel Dire, lacera ogni logica.67

La soggettività responsabile, senza vie d’uscita, non può dirsi, dunque, in un Detto, quantunque smentito e reiterato, ma può solo emettere una parola dalla voce più tenue del silenzio: «eccomi».68

«Eccomi» come testimonianza che non tematizza ciò che testimonia perché esso non è rappresentazione. E non vi è testimonianza che dell’Infinito. Tutto può essere detto perché appare a chi lo dice come noema e, pertanto, può essere tematizzato. Non così per l’Infinito. «L’Infinito non appare a colui che ne fa testimonianza. Al contrario, è la testimonianza che appartiene alla gloria dell’Infinito. È attraverso la voce del testimone che la gloria dell’Infinito si glorifica».69

4.7. L’infinito all’inverso

L’Infinito non è davanti al suo testimone, non gli appare come Detto, come un noema. Rispetto a esso il testimone non si pone come soggetto che afferma, ma come accusativo che è chiamato a obbedire a un comando appartenente a un passato che mai fu presente, mai fu dinnanzi al suo testimone.70

Il modi in cui l’Infinito non appare a colui che lo testimonia è ordinando attraverso la sua stessa bocca, divenendo ispirazione e profezia.71

L’Infinito non può che ordinare mediante l’ambivalenza dell’ispirazione per restare tale, infinito, trascendente. Mediante l’ispirazione la soggettività è chiamata, con tutto il peso della responsabilità, ad agire di propria iniziativa mediante la responsabilità, come se dovesse essere un passo avanti all’Infinito che le ordina. «L’infinito non è davanti al suo testimone, ma come al di fuori o «all’inverso» della presenza, già passato, fuori presa».72

4.8. Debarîm ´ahudîm. Le parole chiuse nel Detto

Le considerazioni che faremo sul silenzio di Dio come energia in A. Neher, ruotano intorno al significato del termine dabar. Significato complesso e profondo perché dabar ha una doppia serie di possibilità di significati: cosa, fatto, oggetto, parola, avvenimento, rivelazione, comandamento ecc.73

Le analisi che Neher compie evidenziano che il termine dabar non compare nei primi capitoli di Genesi. Ma quando esso appare è con questa espressione: debarîm ´ahadîm. Di qui la sorprendente lezione che i debarîm erano chiusi.74

Ciò significa che la terra era bloccata, che in essa la Parola non aveva trovato via d’uscita, tutto era rimasto dialogo abortito. E nella Bibbia si possono trovare i paradigmi di tali dialoghi abortiti: tra Adamo ed Eva, o Caino e Abele, ma anche tra i progenitori e Dio e Questi e Noè, che esegue solo pedissequamente le indicazioni che gli vengono date.

Ora il termine debarîm ´ahadîm si trova nell’episodio di Babele, che rappresenta da una parte l’idea di universo concentrazionario, dall’altra la volontà superba dell’uomo di soppiantare l’ordine della creazione annullando la distanza terra-cielo.75 Le parole e le cose a Babele divengono solo oggetti commerciabili, e come tali, secondo la terminologia levinasiana, in-significanti perché la significazione ha origine dalla primigenia prossimità ad Altri. Qui, invece, l’uomo stesso è ridotto a cosa.

Di fronte all’iniziativa di Babele Dio reagisce con un evento dissolutivo, cioè disperde le potenzialità chiuse nei debarîm in diverse lingue, conferendo all’iniziativa umana un’autonomia irreversibile. Ma Dio non tocca l’alienazione dei debarîm, «e sarà necessario qualcun altro per dissigillare i debarîm, per provocare l’esodo della parola, la sua redenzione dal di dentro delle cose».76

Un dabar libero: ecco ciò che Dio aspettava dopo aver liberato la sapâ. Un dabar liberato, dall’interno, dall’uomo, e non dall’esterno, da Dio; ecco il compito per cui si rendeva necessaria la comparsa di un Prometeo che creasse questo dabar, con un’iniziativa di assoluta libertà umana.

«Questo Prometeo sarà Abramo […] . Abramo ha dissigillato i debarîm chiusi: ha provocato l’esodo della parola e la sua redenzione. Abramo è l’inventore della Parola».77

4.9. La Parola divenuta Verbo

Il dabar può essere liberato in tutte le sue potenzialità solo come risposta libera, autonoma e responsabile, eteronima, rispondente a un appello anteriore alla coscienza, come Dire, come Profezia.

Abramo è l’inventore del dialogo, quello orizzontale con gli uomini e verticale con Dio. Egli è il primo uomo nella Bibbia a dare del tu, alla moglie Sara. Quanto al dialogo verticale, esso matura in Abramo dopo un silenzio abbastanza lungo e, alla sua comparsa, presenta una caratteristica del tutto nuova, l’iniziativa. Abramo si rivolge a Dio al versetto 2 del capitolo XV «Che mi darai? », e quando Dio non entra nel gioco della sua domanda, lui non si interrompe, ma riprende il dialogo al verso 3 «Ecco a me tu non hai dato discendenza… ». È l’uomo a gettare a Dio la sfida del dialogo, e Dio la raccoglie come se l’avesse attesa da sempre, la raccoglie rivolgendo all’uomo la Promessa.

Abramo osa ledabber a Dio: per la prima volta, Abramo parla a Dio attraverso il dabar. Il dabar non è fuori di lui, ma dentro, dandogli la forza per ergersi davanti a Dio in un atteggiamento d’indignazione profetica. Qui grammaticalmente, dabar è un verbo: si potrebbe dire che con Abramo, la Parola è diventata Verbo.^[80]

Da dove prende Abramo tutta questa potenza? Paradossalmente dal silenzio. La sua avventura comincia nell’obbedienza silenziosa ai comandi di Dio, ed anche al vertice del dialogo, nell’episodio di Mamre, egli cessa all’improvviso di parlare, fermandosi alla clemenza per dieci giusti, forse credendo che la misericordia di Dio non possa andare oltre una cifra ragionevole, e così rinuncia alla propria responsabilità lasciando che Dio prosegua la sua opera da solo. Poi è Dio a lasciarlo nel silenzio della prova quando gli chiede di sacrificare Isacco. Infine, dopo l’episodio della ’aqedâ entrambi i partners di questo dialogo potente tacciono. Un dialogo nato e terminato nel silenzio.78

4.10. Behibbar’am. Dalla creazione alla storia mediante il dabar

Che cosa segna questo silenzio? Segna un passaggio, una crescita, in questo caso la trasformazione di Abram in Abramo, il cambio di nome, che non è solo una metatesi nominale, bensì una cosmica.

Neher compie una stupenda analisi di Gen 2, 4 in cui compare il termine toledôt, generazione/storia. La massora esige che la lettera ה della parola בהבראם (quando vennero create) di tale versetto sia scritta in grafia minuscola: «behibbar’am: è per mezzo di hibbar’am che il mondo creato da Dio possiede una storia.

Ora, le cinque lettere del termine hibbar’am הבראם costituiscono in ebraico l’anagramma delle cinque lettere del termine אברהם Abramo. Ma poiché il ה è minuscolo, il segreto rivelato dalla massora diventa evidente: non è mediante Abram, mediante l’esistenza statica di quest’uomo che il mondo possiede una storia, ma mediante la mutazione dinamica che ha trasformato le quattro lettere אברהם Abram nelle cinque mhrba Abramo. Questa inopinata introduzione del minuscolo h ha fatto esplodere la dimensioni del mondo. Passando da Abram ad Abramo, è l’universo intero che compie un salto: il salto dall’Essere al Divenire. La creazione è ormai Storia».79

4.11. Hitallek lepanay. La pro-vocazione

La seconda caratteristica di questo cambio è la sua irreversibilità. Abramo non è più nominato col termine Abram in tutta la Bibbia. Il cambio del suo nome ha dato alla storia un indirizzo, una direzione irreversibile. Dalla Genesi all’Esodo.

Quando Dio chiama Abram gli dice lek-leka, «vattene» (Gen 12, 1); ma quando gli cambia il nome in Abramo gli dice hitallek lepanay, «cammina davanti a me» (Gen 17, 1). La vocazione dell’Esodo è quella di camminare davanti a Dio.80

Abramo corre così davanti a Dio come responsabile della Storia. Quando il dialogo tra i due partners si interrompe, dopo l’aqedà, Abramo viene lanciato da Dio in avanti, verso il silenzio dell’avvenire. Egli sperimenta, senza afferrarne il perché, ma raccogliendone l’incontestabile evidenza che, per l’uomo dell’Esodo, gli appuntamenti con la Parola sono ineluttabilmente appuntamenti mancati.81

Abramo lanciato avanti verso l’avvenire, nei confronti del quale è responsabile in prima persona. Un avvenire nel quale Dio spesso scompare, lascia solo l’uomo con la sua responsabilità proprio perché essa resti tale rispetto a una Trascendenza che, per restar tale, ha bisogno di contrarsi, di interrompersi — per dirla con Levinas. Una Trascendenza ambigua.

5. L’ambiguità della trascendenza

5.1. La trascendenza nella pro-vocazione

Nel camminare davanti all’Infinito, nella responsabilità, vi è la testimonianza dell’Infinito e della sua trascendenza. La Trascendenza nella provocazione!

In questo modo Dio non diviene mai tema, ma resta nella sua «terzialità» anche quando viene nominato.

«Nella frase in cui Dio viene per la prima volta a mescolarsi con le parole, la parola Dio è ancora assente. Essa non si enuncia in alcun «io credo in Dio». Testimoniare Dio non è precisamente enunciare questa parola stra-ordinaria, come se la gloria potesse dimorare in un tema e porsi come tesi o farsi essenza dell’essere. Segno dato all’altro di questa significazione stessa, l’«eccomi», mi significa in nome di Dio al servizio degli uomini che mi riguardano, senza aver niente con cui identificarmi, se non il suono della mia voce o con la figura del mio gesto, con il dire stesso».82

5.2. La trascendenza epifenomenica

Mediante l’ispirazione la Trascendenza resta tale entrando in una relazione col soggetto che non è tetica, e nemmeno sfugge al pensiero come concetto negativo — che la legherebbe ancora all’essere e al pensiero. Il soggetto non dice, ma testimonia l’Infinito, nel gioco del linguaggio, nel quale la testimonianza significa attraverso l’ambiguità di ogni Detto, mediante il farsi segno nella donazione di segno, nel profetismo che riveste le apparenze di informazioni circolanti come le altre, che subiscono le influenze dei limiti e delle ferite del soggetto stesso. Ambiguità, ma anche regime di trascendenza dell’Infinito.83

Così ciò che eccede il pensiero, l’ideatum che infrange la propria idea, che rovescia la coscienza la quale si disfa in significazione nel Dire, «accade» nella quotidianità mediante la sua interruzione, nel profetismo e nell’ambiguità di questo. Non è, infatti, profetismo solo quello che sembra eccesso nel parlare, ma lo sono finanche i limiti e le ferite del soggetto. Ogni ferita è fessura attraverso la quale l’Infinito irrompe nel tempo, nella vita. Vi irrompe non come fenomeno evidente, dimostrabile e tematizzabile, ma mediante la propria contrazione rinvenibile tuttavia nelle tracce.

La Trascendenza non come fenomeno, ma come epifenomeno.

5.3. L’ambiguità dell’epifania

La Trascendenza raggiunge la soggettività in modo ambiguo appellandola nella responsabilità anarchica, infinita, per Altri verso cui si è esposti. Il soggetto entra nei disegni dell’Infinito, vi entra mediante la propria responsabilità, tale da essere chiamato in prima persona, ad agire non contando su niente e nessuno, come se tutto dipendesse da sé, dal finito. Ma è proprio questo l’unico modo in cui l’Infinito può accadere senza smentirsi in quanto Infinito.^[87]

«L’Enigma dell’Infinito il cui Dire in me, responsabilità in cui nessuno mi assiste, diviene contestazione dell’Infinito, ma contestazione attraverso la quale tutto m’incombe a me».84

Solo attraverso l’ambiguità fino alla contestazione l’Infinito può entrare nell’intrigo della soggettività senza smentirsi in quanto Infinito, senza porsi come oggetto infinito della conoscenza.

5.4. La trascendenza che tradisce il senso nel Dire

Il Volto non è segno, ma significante, parla. Eppure, il Volto diviene apparire ed epifania, si pone anch’esso in una dimensione di ambiguità tra la rappresentazione e la prossimità. Bisogna chiedersi se, malgrado tutto, la soggettività si enunci nell’indiscrezione del Detto, in una dissimulazione che la filosofia è chiamata a ridurre, attraverso un abuso che giustifica la prossimità stessa nella quale l’Infinito avviene come ambiguità dell’ispirazione nella quale la parola Dio entra come «una parola abusiva».85 È così che fenomenologicamente il Silenzio possiede una voce, non sonora, ma più tenue del silenzio.

5.5. L’interruzione dell’Infinito nella giustizia

La filosofia è chiamata a ridurre la dissimulazione del Dire nel Detto. Ora se la prossimità ordinasse solo ad Altri nella sua solitudine non vi sarebbe alcun problema. Essa, invece, è turbata dall’entrata del terzo, dell’altro, dal prossimo, che pure chiede responsabilità e obbliga alla giustizia.

E proprio in questo sistema il soggetto rientra, «grazie a Dio», come altro per Altri nella giustizia.86

Giungiamo quindi alla postulazione della realtà e del suo studio, a partire non dall’Io e dal suo colonialismo, ma dalla responsabilità verso Altri, e dalla sua ambiguità. Ambiguità che è la condizione nella quale l’Infinito s’innalza come terzo nella prossimità del prossimo.87 Ambiguità dell’ordine verso il prossimo che mi ossessiona, nella quale, mediante la mia sostituzione, si innalza la gloria. Sostituzione nella quale sono però io, responsabile senza possibilità di sottrarmi.

Essere responsabili verso colui che non può rispondermi, essere responsabili che non è un porre domande. Eppure in questa doppia ambiguità si attua la trascendenza. La trascendenza che si lascia trovare dal Desiderio che misura l’Infinito, lo misura nella sua impossibilità di essere misura.

«Mi feci ricercare da chi non mi consultava, mi feci trovare da chi non mi cercava. Dissi «Eccomi, eccomi», a una nazione che non invocava il mio nome» (Is 65, 1).

5.6. L’improvvisazione della libertà umana

Le considerazioni circa il Dire come responsabilità richiamano ad un aspetto biblico del Silenzio, analizzato da Neher, che è la sua dimensione di sfida. Una sfida doppia, da parte di Dio e dell’uomo, che prende le mosse fin dalla creazione dell’uomo, concepita come improvvisazione.88

Neher individua questa improvvisazione nell’espressione «facciamo l’uomo» nella quale Dio si rivolgerebbe a Adam in potenza come a dire «facciamo, io (Dio) e tu (Adam), l’Uomo», in un rapporto che implica l’intrigo della propria responsabilità e libertà.89

Dio obbliga l’uomo a essere libero di rispondere a una chiamata. È con questa libertà che il silenzio assumerà anche i connotati di sfida.

5.7. Il problema della libertà

Dio fa tanto appello alla libertà dell’uomo che lo chiama con l’interiezione «Ascolta! ». Con questa esclamazione l’uomo è creato tale nella sua possibilità di rispondere agli appelli di Dio nella storia. Dio cerca l’uomo, lo invita a un incontro nella storia.

«Tra gli scambisti efficaci della storia, alcuni hanno voluto sfuggire a questa caccia, a questa «persecuzione» di Dio. Sono i profeti».90

Tra i grandi profeti, quello che può meritare certamente questo nome è Ezechiele la cui esperienza è una vera e propria tragedia del silenzio.91 Ezechiele, a un punto della sua vicenda, si trincera in un ostinato isolamento. Come risponde Dio a tutto ciò? Chiude nel silenzio Ezechiele e anch’Egli si chiude nel silenzio fino a che, parlerà di nuovo al suo profeta sciogliendogli la lingua per permettergli di parlare al suo popolo in sua vece.

«Due esseri di cui l’uno tentava di sfuggire all’altro sulla scena luminosa del Faccia a Faccia, si ritrovano nel rovescio silenzioso dei Volti nascosti […] . Cessando di essere un rifugio, il silenzio diventa il luogo della suprema aggressione. La libertà invita Dio e l’uomo all’appuntamento ineluttabile, ma è l’appuntamento nell’universo opaco del silenzio».92

5.8. L’ambiguo silenzio dell’avvenire

La libertà è legata al silenzio, lo richiede come un palcoscenico nel quale essa può impersonare il proprio ruolo di libertà. La libertà e il silenzio sono legati tra di loro in molti modi, ma in particolare in una dimensione, quella del futuro perché l’obiettivo della libertà non può che essere l’avvenire e davanti a lei propulsano le dimensioni dell’avvenire che sono il sogno, l’utopia e la speranza.93

L’avvenire è legato al silenzio, perché il passato e il presente possono essere conosciuti, narrati, interrogati. Solo l’avvenire è silenzioso e ambiguo come il silenzio.94

Ora nella sfida della libertà, della responsabilità, l’uomo ha da dire Sì al Silenzio, hinnenî, Sì io! Nella storia Biblica è soprattutto Abramo che pronuncia questo eccomi/sì, io nelle interpellanze che Dio gli fa’, fino all’aqedà, all’equivoco e alla svolta della prova.95

Dopo la prova di Moria il dialogo tra Abramo e Dio si chiude, come se per Abramo quell’evento fosse stato lo spezzarsi di una corda troppo tesa. Due vie si aprono, dunque, davanti a lui, quella del sogno e quella dell’opera. Entrambe comportano la loro parte di silenzio. Abramo si incammina su entrambe: il sogno/promessa restituito che è il figlio, e l’opera, concreta e silenziosa, che è la vita.96

5.9. Il Sì ambiguo della speranza

Il Sì dell’Opera è anche il Sì che pronuncia Giobbe, non suicidandosi e scegliendo la vita. Il rinvio all’opera sarebbe il mezzo col quale Giobbe trova la via d’uscita pronunciando, nella propria infermità, un Sì al male.97 Sì che possiede tutta la forza inerziale, energetica e di sfida del silenzio e dell’ambiguità.

È, infatti, nel bel mezzo del dialogo sfida con Dio che Giobbe pronuncia questo Sì, e lo fa grazie al procedimento ermeneutico del qerê-ketib, che consente all’orecchio umano di sentire ciò che dovrebbe leggersi, e allo sguardo umano di leggere ciò che dovrebbe sentirsi.

«In quel versetto infatti (13, 15), Giobbe pronuncia due parole che significano simultaneamente la speranza e la disperazione:

לו איחל

לא איחל

Spero in Lui, grida, ma anche:

Non spero, facendo di queste grida contraddittorie ma simultanee la matrice di un nuovo mondo».98

5.10. L’ambiguità dell’alleanza

Giobbe non è, tuttavia, un martire del Silenzio per i maestri della tradizione ebraica, i quali trovano questo martirio nell’emergenza silenziosa di un intervallo che c’è tra il primo e il secondo versetto del capitolo XX del libro di Ezechiele. In questo brano alcuni anziani di Israele vanno a consultare Dio che non si lascia interrogare da loro. Dopo tale affermazione troviamo un rigo bianco e poi un’esclamazione di Dio, per bocca del profeta, che afferma che non lascerà vivere il suo popolo come le altre genti, e regnerà su di lui con mano forte.99

Ciò che forse impensierisce gli interlocutori di Dio non è la fine dell’Alleanza, più volte minacciata, ma le sue perpetue tergiversazioni di fronte alle quali si richiede da Dio una risposta schietta, oggettiva e inequivocabile. A questa esigenza di tranquillità della coscienza Dio risponde con tutta l’aggressività del silenzio e dell’ambiguità.100

Neher propone un’altra interpretazione che è quella del Rashi. Ciò che preoccupa gli interlocutori del profeta è l’eccessiva luce dell’Alleanza; ciò che li stanca è proprio la responsabilità alla quale sono chiamati davanti a tutti i popoli, il non aver alcun appoggio in un Dio. Quindi ciò che li spinge a interpellarlo non è il desiderio di una sistemazione borghese, ma la nostalgia di un silenzio che faccia da barriera tra il loro Io e il mondo, il loro Io e Dio che li ossessiona col suo comando.101

Ed è per questo che Dio li travolge con l’uragano di parole pronunciate dal profeta. Come Giobbe di fronte all’uragano aveva imparato che non si può artificiosamente parlare davanti a Dio, così, adesso, essi imparano che non si può artificiosamente tacere davanti a Dio.102

5.11. Hen lâ. Nonostante tutto. La fede ex nihilo

Ancora al Rashi dobbiamo l’ipotesi circa l’identità di quegli uomini. Sono Anania, Azaria e Misaele. A Nabucodonosor, che vuole costringerli all’idolatria, hanno risposto di essere disposti a subire il fuoco, sicuri che Dio li salverà. Ora sono venuti a consultare il profeta per essere rassicurati nelle loro convinzioni. Dio risponde che non li salverà. Proprio loro che sono rimasti fedeli all’Alleanza, subiscono l’ira riservata agli infedeli. Ebbene, anche se Dio li abbandonasse, essi sono disposti al martirio.

«NONOSTANTE TUTTO, sappi o re, che noi non adoreremo il tuo! ».

«Questo nonostante tutto […] . Hen lâ! Strana sfida della lingua ebraica che si prende gioco delle contraddizioni e dei paradossi ed esegue con essi sorprendenti acrobazie […]! Hen lâ, formula della contraddizione, altro non è che la contiguità del e del no […] . È dal di dentro del vuoto, dall’interno dell’assenza, dal cuore del No che scaturisce il : la fede è una genesi, appare ex nihilo! ».103

La fede e il martirio nascono dal silenzio, perché dovunque si presentasse la parola verrebbe meno l’esposizione totale del martirio. «Martire è soltanto l’uomo che può ergersi davanti a Dio e lanciare verso di lui il grido del midrash, con cui il versetto biblico della Presenza: chi è come te fra gli dei, mî kamôkâ ba’elîm (Es 15, 11), è capovolto da cima a fondo per diventare il versetto dell’Assenza, il versetto dell’uomo ritto davanti al Silenzio opprimente di Dio: mî kamôkâ ba’illemîm, chi è come te tra i muti? ».104

L’in-assenza di Dio.

5.12. Qedôšê dummyyâ. I martiri del Silenzio

Costoro sono i martiri del Silenzio: gli uomini che vivono nella storia obbedendo a un comando che sembra provenire dalla loro coscienza, come profezia, avendo avanti a sé un Dio che li lascia camminare davanti a Lui, senza nessuna sicurezza, li lascia smarrire, perire. Costoro sono testimoni della Trascendenza col loro «eccomi», con la loro responsabilità assoluta di fronte al silenzio di Dio.

Essi camminano-avanti con tutto il dolore della speranza/non-speranza, sollevando a Dio un grido che, nonostante la loro disperazione non può essere mai rottura dell’Alleanza ambigua, un grido che rimane una delle possibilità del rapporto faccia a faccia con Dio.

Dopo aver incontrato Dio, l’uomo scende dal Sinai incontro alla storia. La terra è stata promessa, ma non è assicurata una fine. L’uomo deve combattere con Dio le battaglie della storia, combattere da solo le battaglie della responsabilità per realizzare l’Opera che solo a lui spetta compiere nel Silenzio.


  1. Neher A., L’esilio della parola. Dal silenzio biblico al silenzio di Auschwitz, Maretti, Genova 1983 19972; d’ora in poi citato Neher. ↩︎

  2. Levinas E., Dieu, la Mort et le Temps¸édition Grasset et Fasquelle, Paris 1993, trad. it. di S. Petrosino e M. Odorici, Dio, la Morte e il Tempo, Jaka Book, Milano 1996, p. 180; d’ora in poi citato DMT; ecco l’elenco delle altre abbreviazioni: Autrement qu’être ou au-delà de l’essence, Nijhoff, La Haye 1974, trad. it. di M.T. Aiello e S. Petrosino, Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, Jaka Book, Milano 1983: AE; De Dieu qui vient à l’idée, Vrin, Paris 1982, trad. it. di G. Zennaro, Di Dio che viene all’idea, Jaka Book, Milano 1986: DQVI; E. Lévinas, Éthique et Infini, Feyard, Paris 1982 ; trad. It. di E. Baccarini, Etica e Infinito, Città Nuova, Roma 1984: EI; Le temps et l’autre, Fata Morgana, Montpellier 1979, trad. it. Di F. Ciglia, Il tempo e l’altro, Il Melangolo, Genova 1987: TA; Totalité et Infini, Nijhoff, La Haye 1961, trad. it. di A. Dell’Asta, Totalità e infinito, Jaka Book, Milano 1980 19902: TI. ↩︎

  3. Cfr. Ibib., pp. 172-174. ↩︎

  4. Ibid., pp. 174-175 passim. ↩︎

  5. Cfr. ivi. ↩︎

  6. DQVI, pp. 78-79 passim. ↩︎

  7. Cfr. DMT, pp. 226-229. ↩︎

  8. Cfr. Ibid. p. 231. ↩︎

  9. Cfr. Ibid. p. 232. ↩︎

  10. Ibid. p. 58. ↩︎

  11. Cfr. Ibid. pp. 62-63. ↩︎

  12. DQVI p. 151. ↩︎

  13. Ph. Nemo, Giobbe e l’eccesso del male, Città Nuova, Assisi 1981. ↩︎

  14. Cfr. DQVI p. 155. ↩︎

  15. Ibid. p. 158. ↩︎

  16. Cfr. Ibid. p. 161. ↩︎

  17. Ibid. p 162. ↩︎

  18. Cfr. Neher, p. 140. ↩︎

  19. Cfr. Ibid. p. 142. ↩︎

  20. Ibid. p. 144. ↩︎

  21. Cfr. Ibid. pp. 145-146. ↩︎

  22. DMT pp. 190-191 passim. ↩︎

  23. «Questa responsabilità arriva fino alla fissione, fino alla de-nucleazione dell’io. E questa è la soggettività dell’io». DMT p. 191. ↩︎

  24. Ibid. p. 224. ↩︎

  25. Cfr. Ibid. pp. 221-222. ↩︎

  26. Ibid. p. 235 passim. ↩︎

  27. AE p. 126. ↩︎

  28. DMT p. 237 passim; vedi anche AE pp. 127-128 passim. ↩︎

  29. Cfr. Ibid. pp. 241-242. ↩︎

  30. Ibid. pp. 242. ↩︎

  31. Ibid. p. 265 passim. ↩︎

  32. Ibid. p. 266 passim. ↩︎

  33. Cfr. TA p. 21. ↩︎

  34. EI p. 66. ↩︎

  35. Cfr. AE p. 204. ↩︎

  36. Ivi. ↩︎

  37. Ibid. p. 205. ↩︎

  38. Cfr. Neher pp. 70-71. ↩︎

  39. Cfr. Ibid. p. 72. ↩︎

  40. Cfr. Ibid. pp. 73-74. ↩︎

  41. Ibid. pp. 74-75. ↩︎

  42. Cfr. Ibid. p. 77. ↩︎

  43. Ibid. p.81. ↩︎

  44. Cfr. Ibid. pp. 84-86. ↩︎

  45. Cfr. Ibid. p. 90. ↩︎

  46. Cfr. Ibid. pp. 91-92. ↩︎

  47. Cfr. Ibid. pp. 96-97. ↩︎

  48. Ibid. p. 99. ↩︎

  49. Cfr. DQVI p. 97. ↩︎

  50. Cfr. Ivi. ↩︎

  51. Cfr. AE pp. 58-59. ↩︎

  52. Ibid. p. 61. ↩︎

  53. Cfr. Ibid. pp. 62-63. ↩︎

  54. Cfr. Ibid. pp. 63-64. ↩︎

  55. AE p. 166. ↩︎

  56. Crf. Ibid. pp. 169-170. ↩︎

  57. Crf. Ibid. p. 171. ↩︎

  58. Crf. Ibid. p. 173. ↩︎

  59. Cfr. DMT p. 223. ↩︎

  60. Crf. AE p. 175. ↩︎

  61. Cfr.Ibid. pp. 175-176. ↩︎

  62. Ibid. p. 176. ↩︎

  63. Cfr. TI pp. 91-96. ↩︎

  64. Cfr. Ibid. p. 96. ↩︎

  65. Ibid. p. 98 passim. ↩︎

  66. Cfr. AE p 180 nota 8. ↩︎

  67. Cfr. Ibid. p. 181. ↩︎

  68. Cfr. Ibid. p. 182. ↩︎

  69. Ibid. 184. ↩︎

  70. Crf. DMT p. 274. ↩︎

  71. AE pp. 186-187. ↩︎

  72. Ibid. p. 187; vedi anche DMT p. 274. ↩︎

  73. Crf. Neher p. 103. ↩︎

  74. Cfr. Ibid. p. 105. ↩︎

  75. Cfr. Ibid. p. 115. ↩︎

  76. Ibid. p. 122. ↩︎

  77. Ibid. p. 123 passim. ↩︎

  78. Crf. Ibid. pp. 128-129. ↩︎

  79. Ibid. pp. 129-130. ↩︎

  80. Cfr. Ibid. pp. 131-132. ↩︎

  81. Cfr. Ibid. p. 134. ↩︎

  82. AE p. 187. ↩︎

  83. Cfr. Ibid. p. 191. ↩︎

  84. Ibid. p. 193. ↩︎

  85. Cfr. Ibid. pp. 195-196. ↩︎

  86. Cfr. Ibid. p. 198. ↩︎

  87. Cfr. Ibid. pp. 202-203. ↩︎

  88. Cfr. neher pp. 156. ↩︎

  89. Cfr. Ibid. pp. 156-157. ↩︎

  90. Ibid. p. 160. ↩︎

  91. Crf. Ibid. pp. 168-176. ↩︎

  92. Ibid. p. 178 passim. ↩︎

  93. Crf. Ibid. p. 179. ↩︎

  94. Cfr. Ibid. p. 180. ↩︎

  95. Cfr. Ibid. p. 186. ↩︎

  96. Cfr. Ibid. p. 190. ↩︎

  97. Cfr. Ibid. pp. 203-205. ↩︎

  98. Ibid. p. 209. ↩︎

  99. Cfr. Ibid. pp. 212-213. ↩︎

  100. Cfr. Ivi. ↩︎

  101. Cfr. Ibid. pp. 215-216. ↩︎

  102. Cfr. Ibid. p. 217. ↩︎

  103. Ibid. pp 218-219 passim. ↩︎

  104. Ibid. pp. 219-220. ↩︎