Michel Henry. Una discussione con Renaud Barbaras

1. Introduzione

Il decennale della morte di Michel Henry vede una presenza sempre più significativa del suo pensiero nel dibattito filosofico contemporaneo, in particolare di ascendenza fenomenologica. Questo non solo in Francia ma, si può dire, in tutto il mondo, come mostrano i numerosi convegni e colloqui internazionali che ogni anno vengono organizzati sul suo pensiero. Neppure l’Italia fa eccezione; prova ne sono altresì le traduzioni delle sue opere principali apparse nel frattempo. Significativo è soprattutto il fatto che si sia imposta una giovane generazione di studiosi, più libera e disponibile a battere nuove strade, del tutto in linea con l’audacia di cui il pensiero di Henry ha dato costantemente prova. Pensiero che, certo, si è sviluppato all’interno di una scuola — al pari di Paul Ricœur, di Emmanuel Levinas, anch’egli è stato alla «scuola della fenomenologia» — senza tuttavia rimanerne mai prigioniero, al punto anzi di prospettarne un vero e proprio rovesciamento. In ciò si è posto, se non come un caposcuola, sicuramente come un maestro, riconosciuto da pensatori come Jean Luc Marion che, pure, si sono incamminati per una strada propria.

Certo non si può dire che le perplessità, le vere e proprie diffidenze che hanno circondato il pensiero di Henry, lui vivente, siano venute completamente a cadere. Innanzitutto da parte dei filosofi, a causa di quel tournant théologique che Dominique Janicaud gli ha imputato, insieme a buona parte della più recente fenomenologia francese. Ora non c’è dubbio che le ultime opere del filosofo di Montpellier, la cosiddetta trilogia cristologica, possano offrire argomenti a sostegno di questa tesi, e tuttavia non è questo il punto. Non meno sospetto infatti il pensiero di Henry appare ai teologi, per motivi opposti ma convergenti, nella misura in cui C’est moi la vérité, Incarnation, Paroles du Christ, non sono propriamente opere di teologia, né vogliono esserlo. E tuttavia si può dire che anche in questo campo le diffidenze, le posizioni pregiudiziali, più attente alla forma che alla sostanza del discorso, se non sono venute meno, hanno tuttavia lasciato il posto a un confronto più di merito, teso a cogliere gli impulsi profondi che ne scaturiscono ai fini di un ripensamento della «verità» del cristianesimo e, più in generale, della teologia come discorso su Dio, al di fuori di ogni dogmatica confessionale.

Questo intervento, tuttavia, non vuole essere né meramente commemorativo, né tracciare una sorta di rendiconto generale della presenza di Michel Henry a dieci anni dalla sua morte. Più semplicemente, ma in modo altrettanto impegnativo, esso intende proseguire l’approfondimento critico del suo pensiero, e della sua incidenza, assumendo come terreno di discussione quello che, a mio giudizio, costituisce un confronto critico tra i più diretti e serrati con il pensiero henryano, intrapreso da Renaud Barbaras particolarmente nelle sue ultime opere, Introduction à une phénoménologie de la vie e La vie lacunaire.1

2. Henry nella prospettiva di Barbaras

Perché Barbaras? Innanzitutto perché la sua prospettiva non appare minimamente sospettabile di connivenza con il citato tournant théologique, essendo solidamente impiantata sul tronco principale della fenomenologia, costituito in particolare dal pensiero di Merleau-Ponty, cui Barbaras ha dedicato eccellenti e fondamentali studi. Ebbene credo si possa dire che lo studioso francese abbia incrociato l’opera di Michel Henry proprio a partire dal coté merleau-pontyano, contraddistinto dai temi del «corpo» e della «carne», i quali costituiscono altresì il terreno di confronto e di scontro di Henry con Merleau-Ponty. Come ho già avuto modo di osservare a questo proposito, il filosofo di Montpellier non fa che riprendere e sviluppare in piena autonomia il progetto del suo grande predecessore, progetto che si può compendiare in quella «fenomenologia dell’invisibile» che funge da emblema stesso del loro pensiero. Ciò, beninteso, senza assolutamente pregiudicare la diversità dei loro percorsi e, soprattutto, dei loro approdi.2

Incrociando per questa via l’opera di Michel Henry, Renaud Barbaras si mostra estremamente sensibile alle obiezioni che questi muove al pensiero di Merleau-Ponty e tuttavia, almeno nei saggi precedenti, le concessioni che egli fa a tali obiezioni non mettono sostanzialmente in discussione la propria adesione di fondo all’impostazione fenomenologica merleau-pontyana.3 In essi il confronto critico tra Henry e Merleau-Ponty è condotto essenzialmente sulla base — rispettivamente — di Philosophie e t phénoménologie du corps (1965) e della Phénoménologie de la perception (1945), con al centro il tema della corporeità e della carne, concepita a partire dal corpo inteso come «corpo proprio» — che è, com’è noto, la traduzione di Merleau-Ponty dell’husserliano Leib. Ora il limite della concezione merleau-pontyana è chiaramente riconosciuto da Barbaras, per il quale il corpo proprio, pur sempre concepito come un ente tra gli altri, è inteso come «strumento di una soggettività, il suo mezzo di rapportarsi al mondo, strumento il cui statuto permane oscuro».4 Sotto questo riguardo l’obiezione s’incontra perfettamente con l’elaborazione di Philosophie et phénoménologie du corps, volta alla concreta definizione del corps subjectif, che fa tutt’uno con la soggettività, riscattata da ogni persistente residuo dualistico; donde l’approdo decisivo di Henry all’«identità dell’essere della soggettività con quello del corpo».5 Nello stesso senso, del resto, sembra andare l’affermazione di Merleau-Ponty Je suis mon corps, apparentemente in netto contrasto con il limite strumentalistico poc’anzi rilevato. Senonché, a rimarcare la differenza sussistente tra Merleau-Ponty e Michel Henry, Barbaras ritiene che l’affermazione non vada intesa nel senso dell’immanenza, come vorrebbe Henry, ma della trascendenza verso il mondo. Scrive infatti: «la formula je suis mon corps» significa […] che l’“io” è il suo corpo, che l’essere della soggettività è quello del corpo, non come oggetto ma come trascendenza verso il mondo».6 Su questo punto, in particolare, la conclusione di Henry non lasciava spazio ad ambiguità. Infatti, nel momento stesso in cui faceva propria l’affermazione je suis mon corps, così l’esplicitava: «[ciò] significa molto precisamente che l’esperienza originaria del mio corpo è un’esperienza interna trascendentale e quindi la vita di questo corpo è un modo della vita assoluta dell’ego».7 Per Henry, che il corpo costituisca un momento della vita assoluta dell’ego significa essenzialmente che sfugge a ogni visibilità estatica, non certo allo scopo di negare la trascendenza, che è la stessa immanenza a rendere possibile. L’affermazione dell’immanenza da parte di Henry, come sappiamo fin da L’essence de la manifestation, non va certo a scapito della trascendenza, dal momento che ne costituisce il fondamento ultimo: «L’immanenza è l’essenza della trascendenza», è detto a chiare lettere.8 Ci sembra invece che interpretare, come fa Barbaras, je suis mon corps nel senso di je est un corps, introduca di fatto una sfasatura tra l’io e il corpo, con la conseguenza oltretutto di rendere estremamente problematico intenderlo come «corpo proprio» alla maniera di Merleau-Ponty.

La critica di Barbaras alla concezione della corporeità di Merleau-Ponty si fa decisamente più radicale in Introduction à une phénoménologie de la vie, ove senza mezzi termini si dice: «In effetti non si può non essere colpiti dal fatto che [nella Phénoménologie de la perception] il corpo resta da cima a fondo pensato a partire dalla coscienza, e infine tematizzato come una modalità di questa»; e ancora: «Merleau-Ponty non supera veramente la concezione metafisica del corpo come ciò che viene a confondere o a rendere opaca la trasparenza della Ragione, come la parte di contingenza cui è sottoposto il soggetto conoscitivo: il corpo conserva il significato negativo di ciò che fa ostacolo al compimento della coscienza razionale».9 Ebbene, questo giudizio pressoché ultimativo sulla concezione merleau-pontyana del corpo ci appare in profonda sintonia con la critica di Henry, e la cosa non è certo secondaria, dal momento che assume una decisiva rilevanza nella delucidazione della chair, centrale tanto nel Merleau-Ponty di Le visible et l’invisible quanto nell’Henry di Incarnation. Ma al di là della convergenza critica di Barbaras con Henry alle tesi di Merleau-Ponty, sempre più marcata su punti specifici, a colpire è soprattutto il profondo consenso sulla vita come grande tema fenomenologico, posta al centro dell’Introduction, caratterizzata da un forte impegno teoretico oltre che critico. In essa Barbaras mira a elaborare una propria «fenomenologia della vita», che passa inevitabilmente per una discussione del pensiero di illustri predecessori (Heidegger, Merleau-Ponty, Hans Jonas, Patocka), confrontandosi direttamente anche con Henry, che del tema della vita ha fatto il centro stesso del suo pensiero. Da questo punto di vista, fondamentale è il riconoscimento espresso fin nelle prime pagine secondo cui la vita, in quanto tale, costituisce «l’impensato» del pensiero di Husserl e dei suoi discepoli e prosecutori, Merleu-Ponty compreso, con l’unica eccezione di Michel Henry il cui pensiero si qualifica appunto come una «fenomenologia della vita». Ciò non significa, beninteso, una sostanziale adesione di Barbaras alle tesi di quest’ultimo; al contrario, egli muove da subito un’obiezione radicale, se la vita cioè possa essere intesa come semplice «autoaffezione». Non per questo il confronto critico di Barbaras si chiude su questa obiezione apparentemente insuperabile; esso continua invece nell’Introduction ma, soprattutto, in La vie lacunaire con aperture che ci paiono estremamente significative, nonostante il permanere del dissenso. Per questo mi sembra utile esaminare più dettagliatamente i punti di consenso e di dissenso, al fine di far emergere quello che, platonicamente, costituisce l’unità nella differenza e la differenza nell’unità.

3. La vita come tale

Innanzitutto di grande peso è la constatazione da cui prende le mosse l’Introduction, in profonda sintonia con la démarche henryana. Barbaras infatti, dopo aver rapidamente richiamato l’husserliana Lebenswelt, la «vita fattizia» del primo Heidegger, la concezione del Merleau-Ponty anteriore alla Phénoménologie de la perception, nonché la vita come autoaffezione pura di Henry, osserva:

Tutto accade come se la vita non fosse mai pensata per se stessa ma solo invocata come ciò che, per certi versi evidente, permette di far proprio o di determinare quanto costituisce il vero centro tematico della fenomenologia […] La vita è insieme onnipresente e curiosamente assente, almeno in quanto non è oggetto di un’autentica interrogazione.10

Che lo si riconosca o meno, questo è precisamente il leit-motiv del pensiero di Henry il quale, non a caso, amava ripetere che Spinoza gli aveva insegnato soprattutto che la filosofia è pensiero della vita, non della morte, e che in un tempo come il nostro la vita appare totalmente assente là dove si penserebbe particolarmente d’incontrarla, nei laboratori dei biologi. Questo perché, spiega Henry chiamando a proprio sostegno François Jacob, nei laboratori si studiano le cellule, ridotte ad algoritmi, a formule chimiche, non la vita come tale. Da parte sua Barbaras fa un’osservazione analoga quando, citando Georges Canguilhem per il quale «il pensiero del vivente deve trarre dal vivente l’idea del vivente», conclude che la vita di cui parla la biologia trae il proprio senso dalla vita che ciascuno vive, non viceversa.11 Di qui la necessità di pensare positivamente la vita, in se stessa, per ciò che si manifesta e appare, e non semplicemente come ciò che si oppone strenuamente alla morte, secondo la famosa espressione di Bichat, non a caso considerata la più pertinente definizione che della vita sia stata data in campo medico-scientifico. Non diversamente stanno le cose per la filosofia, rileva giustamente Barbaras richiamandosi a Hans Jonas: «l’ontologia dell’epoca moderna è sorretta da una rimozione fondamentale della vita e le distinzioni da essa instaurate procedono direttamente da questo misconoscimento: l’ontologia moderna, in cui s’inscrive la fenomenologia, è un’ontologia della morte».12

Altrettanto importante e profondamente in sintonia con la prospettiva di Henry è l’avvertenza che Barbaras si premura di avanzare, ossia che «una filosofia della vita non può prescindere da una riflessione sul rapporto tra il pensiero e la vita, ossia sulla forma che prende la vita nel pensiero e, quindi, su un’eventuale distorsione della vita allorché questa, facendosi pensiero, tenta di raggiungere se stessa.13 Anche sotto questo profilo non si può non rilevare come la concezione henryana di una fenomenologia «impressionale», in luogo di una fenomenologia «intenzionale» o «estatica», sia precisamente mossa dall’istanza di un pensiero che non si ponga a distanza dalla vita, meglio ancora che non ponga la vita a distanza da sé, operando così uno scarto all’interno di essa e congiurando così alla sua evacuazione. Giacché, come Henry non manca di ripetere, proprio della vita è il non potersi mai mettere a distanza da sé, di manifestarsi sempre nel proprio essere e secondo il proprio essere, ossia come affettività. Come si legge in Incarnation, «La vita […] non è altro che il provarsi stesso senza differire da sé, al punto che questa prova è una prova di sé e non di altro, un’autorivelazione in senso radicale».14

Queste dunque le istanze di fondo del pensiero di Michel Henry, riproposte di fatto da Renaud Barbaras nel suo progetto di una fenomenologia della vita capace infine di pensare la vita nella sua stessa essenza. Il suo riconoscimento, da questo punto di vista, appare pieno: «L’apporto specifico di Michel Henry al movimento fenomenologico è consistito proprio nell’assumere, fondandola rigorosamente, la donazione della vita nel vissuto e, conseguentemente, nell’affermare una forma d’identità assoluta tra la coscienza e la vita».15 E ciò, evidentemente, al di là dei motivi di dissenso rispetto alla proposta complessiva. Non è nostro intento seguire in tutte le sue articolazioni l’elaborazione che Barbaras compie di tale fenomenologia della vita, né nella sua parte destruens, né in quella più propriamente costruttiva, bensì quello d’instaurare una sorta di dialogo critico con lo studioso francese sul pensiero di Michel Henry.

Ancora una volta, di grande significato è il confronto che si addensa attorno al pensiero di Merleau-Ponty e, in particolare, alla sua nozione di chair du monde. Come i lettori di Henry ben sanno, la critica di tale pensiero, già chiaramente delineata in Philosophie et phénoménologie du corps, si approfondisce e si precisa in Incarnation sulla base di una lettura attenta dell’opera postuma di Merleau-Ponty, Le visible et l’invisible, concentrandosi proprio sulla nozione di chair du monde. Con essa il filosofo intendeva superare, mediante altresì i concetti di entrelacs e chiasme, la dicotomia di soggettivo e di oggettivo, di «corpo senziente» e di «corpo sentito», da lui stesso considerata il limite persistente della Phénoménologie de la perception. E ciò sulla base del fatto che nella dimensione del sensibile, della «carne», si dà una reversibilità assoluta tra il soggettivo e l’oggettivo, giusto il famoso argomento secondo cui la mano che tocca l’altra mano, tocca e insieme si sente toccare, facendosi così da senziente sentita, e viceversa. Donde la conclusione di Merleau-Ponty: «Il soggetto toccante passa alla condizione di toccato, discende nelle cose, cosicché il tatto si effettua nel cuore del mondo e come in esse».16 È su questa base che il filosofo giunge a concepire la «carne del mondo». Ebbene, tale conclusione appare a Henry assolutamente inaccettabile. Che le mani possano scambiarsi i ruoli, per cui una mano da toccante si fa toccata, da senziente a sentita, non toglie che, dal punto di vista trascendentale, tale distinzione mantenga intatta la sua validità. Se Merleau-Ponty, partendo dall’inversione dei ruoli delle mani, giunge alla svalutazione della struttura oppositiva toccante/toccato, costituente/costituito, a essa speculare, è perché, secondo Henry, «in modo surrettizio ma del tutto illegittimo ha proceduto nell’estensione al mondo intero del rapporto toccante/toccato, caratteristico del corpo proprio e che si produce solo in esso [c. di H.]».17 In questo modo si finisce per perdere la natura sensibile, soggettiva della carne, il suo essere tutt’uno con la soggettività trascendentale come ego vivente incarnato che, per Henry, rappresenta la grande conquista della fenomenologia contemporanea. Ego vivente incarnato o, come si dice in Incarnation, «corporeità originaria invisibile»,18 in quanto la sua ragion d’essere non si riconduce al mondo. Ciò implica che la natura sensibile del corpo non sia spiegabile a partire da questo, dal suo orizzonte di visibilità, bensì da un corpo originario, senziente, non «oggetto d’esperienza» ma «principio d’esperienza».19 Solo l’assunzione del corpo come «principio d’esperienza» è capace per Henry di dirimere l’ambiguità insita nella nozione di «corpo sensibile», cui a suo giudizio non sfugge neppure la concezione merleau-pontyana.

Ora tale corporeità originaria non è altro che la carne, «carne impressionale e affettiva», luogo del soffrire e del gioire originari, svelato da L’essence de la manifestation . Non dunque «carne del mondo», perché la carne è sempre carne di un ego, di un’ipseità vivente che si sente vivere, essendo «la carne legata al Sé come sua condizione fenomenologica di possibilità più intima, al punto da identificarsi con esso».20 Se l’Io si definisce essenzialmente come un Io posso e non un Io penso alla maniera di Kant — cosa su cui tanto Husserl che Merleau-Ponty e Henry convengono perfettamente — è nella carne che hanno origine tutti i nostri poteri, quei poteri che fanno di ciascuno di noi il corpo vivente che siamo, il quale scopre il mondo come campo aperto di possibilità, meglio ancora, dalle possibilità. In questo modo il corpo radicalmente soggettivo di Philosophie et phénoménologie du corps diventa il corpo incarnato di Incarnation, giacché non c’è carne senza incarnazione, ossia senza «il presupposto trascendentale» della carne — lo definisce Henry — essendo ciò che la rende possibile. Dalla carne all’incarnazione dunque, giacché l’incarnazione «non consiste nell’avere un corpo, bensì nel fatto di avere una carne, forse, ancor più, nell’essere carne [c. n.] ».21 Che poi «la chiarificazione sistematica della carne, del corpo, del loro enigmatico rapporto» costituisca in Incarnation il presupposto fondamentale per la delucidazione dell’incarnazione in senso cristiano, non inficia affatto la sua validità dal punto di vista fenomenologico. Per Henry infatti è la verità fenomenologica il fondamento della verità cristiana, non viceversa.

Tornando a Barbaras, la sua presa di distanza rispetto alla concezione di Merleau-Ponty, già delineata nell’Introduction, si fa decisamente marcata ne La vie lacunaire, in cui si esprime il pieno accordo con la critica di Henry circa la non reversibilità assoluta tra il sentire e il sentito, il che rende improponibile la nozione merleau-pontyana di chair du monde. Ma tale accordo si spinge oltre: esso riguarda il procedimento stesso adottato da Henry, di partire dal movimento stesso della vita per giungere alla carne e al corpo, non viceversa. Da parte sua, osserva Barbaras: «È la vita a dover dare il senso del corpo, non il corpo il senso della vita», affermazione così postillata in nota: «Per radicale e sorprendente che appaia tale impostazione, essa si rivelerà l’unica possibile», sebbene — viene subito precisato — in una prospettiva completamente diversa da quella di Michel Henry .22 Ne La vie lacunaire l’adesione al procedimento di Henry risalente dal corpo alla carne, quindi all’incarnazione e alla vita, è ulteriormente ribadito: «Non è muovendo dal regno dell’esteriorità, ossia del corpo, pur esteso alle dimensioni di una carne del mondo, che si ha la minima possibilità di chiarire l’essenza della carne»; pertanto diventa inevitabile accettare «la scommessa teorica di Michel Henry […] quella di concepire il corpo non più muovendo dal mondo ma dalla vita» .23 Ma ecco subito profilarsi l’obiezione:

La questione è però proprio quella di sapere quale sia il senso della vita che si attesta nel fenomeno della carne, di mettere alla prova di questa carne che è un corpo la determinazione iniziale della vita come Affettività e Immanenza.24

Se dunque il terreno di confronto si è ormai decisamente spostato dalla chair du monde all’incarnation, permane tuttavia la critica che fin dall’inizio Barbaras ha avanzato nei confronti di Henry e che tocca necessariamente la concezione della carne, quindi della vita intesa come affettività e immanenza; cosa che lo porta a elaborare una diversa fenomenologia della vita con gli apporti di pensatori, giudicati altrettanto importanti o forse più, come Patocka e Jonas.25

4. La vita e il mondo: correlazione a-prioristica della fenomenologia

Perché dunque Henry per Barbaras non è la risposta al problema? Perché, nonostante tutte le ragioni che militano a favore della sua posizione, concepire la vita come immanenza e affettività, significa non riuscire a dar conto compiutamente della relazione della vita con il mondo, del fatto che la vita è in se stessa un movimento che apre un mondo e che ha la sua sede nel corpo. Questo è precisamente il significato della «correlazione» che, scoperta da Husserl, costituisce per Barbaras l’a-priori stesso della fenomenologia, la sua anima profonda, per cui non può esserci fenomenologia se non come «fenomenologia della correlazione». Ciò pur nella difficoltà che essa rappresenta, dal momento che si tratta di «pensare il senso d’essere del soggetto in modo che, pur essendo condizione dell’apparire del mondo, appartiene tuttavia al mondo che esso costituisce, esistendo quindi anche alla stregua degli altri enti intramondani»26: precisamente la situazione che Merleau-Ponty ha tentato di pensare attraverso il chiasma della carne. Ebbene, se quest’ultimo ha fallito nell’impresa per le ragioni sommariamente esposte, non per questo si può dire che vi riesca Michel Henry, la cui fenomenologia appare a Barbaras del tutto incapace di correlazione. In altre parole, se la fenomenologia henryana delinea efficacemente il movimento ascendente, che dal corpo risale alla vita come sua condizione, si mostra costitutivamente incapace di configurare il movimento discendente, che dalla vita giunge al corpo e al mondo. In altri termini ancora, a tale fenomenologia sfugge propriamente la vita nella duplice dimensione di transitività e intransitività, che Barbaras sintetizza nei termini di leben ed erleben. Scrive infatti: «Vivere significa indistintamente un vivere intransitivo (erleben) e un vivere transitivo (leben); nel vivere il soggetto prova se stesso e un mondo di cui, al tempo stesso, fa parte e in cui intrattiene relazione in quanto vivente».27 In Henry sarebbe espressa unicamente la dimensione dell’erleben, della vita nella sua intransitività, mentre appare assolutamente carente il suo aspetto transitivo, con conseguenze dirette anche sulla concezione della carne. Questo perché «la mia carne, in cui la mia vita si attesta, è sempre anche un corpo nel senso di una realtà che si espone all’esteriorità e si offre ad altri sguardi. Porre la questione dell’essere della carne implica affrontare il problema del modo di relazione tra la sua vita, in quanto s’impressiona da sé, e questa esteriorità».28 Questione che, secondo Barbaras, Henry propriamente elude nella misura in cui si appella a un doppio regime di verità e di manifestazione, che nelle ultime opere è caratterizzato come «verità del mondo» e «verità della vita». Il dissenso quindi si focalizza, a ben vedere, sulla possibilità teorizzata dal filosofo di Montpellier di una «fenomenologia impressionale» opposta alla «fenomenologia intenzionale» di Husserl diversamente sostenuta, come si vedrà, da Barbaras, il quale interpreta perfettamente Henry allorché, cogliendo il punto essenziale del suo discorso, scrive: «L’intenzionalità sensibile esige un ritorno all’immanenza della vita, dall’istante in cui è riconosciuta come potere».29

L’intenzionalità infatti, come ama ripetere Henry, non si spiega con l’intenzionalità stessa; per esplicarsi, deve far fondo su una realtà che non è intenzionale, ossia sulla vita quale fonte di ogni potere. Se intendiamo quindi l’intenzionalità come il potere fondamentale per cui la vita è insieme in sé e fuori di sé, risulta ancora del tutto in linea con il pensiero di Henry l’osservazione secondo cui «il potere non è semplice potere di fare, o piuttosto, per essere il potere di fare, deve avere il potere originario di impadronirsi di sé, di possedersi, in una parola di coincidere con sé: il potere come impulso rimanda all’autoaffezione come potere della vita stessa».30 Su questo Barbaras ritiene senz’altro di poter convenire. Il punto per lui decisivo è tuttavia un altro, ossia che la presa di possesso dell’immanenza è unicamente in funzione dello slancio verso la trascendenza, sì che il ritorno a sé è pur sempre in vista dell’uscita da sé. Pertanto alla vita come force pathétique di Henry, bisognerebbe opporre a suo giudizio la vita come force voyante di cui parla Patocka.31

Ciò detta a Barbaras un’affermazione che, crediamo, Henry non avrebbe rifiutato: «Riferire la fenomenicità a una forza, non è ricondurla all’immanenza ma, al contrario, fondare sull’immanenza un’apertura alla trascendenza».32 Ma non è questo il significato della fenomenologia impressionale nel senso di Henry, proprio quanto egli ha inteso compiere fin da L’essence de la manifestation? Il vero punto di contrasto è che Barbaras pensa ancora in termini — diciamo pure — dialettici, esattamente secondo quella dialettica per cui l’essere, per manifestarsi, deve farsi altro da sé, concezione che Henry decisamente contesta: basti pensare alle pagine che in quell’opera sono dedicate alla critica della Schiedlichkeit schellinghiana o, nell’appendice, alla famosa Entäusserung di Hegel. Comune a queste concezioni è, per Henry, l’idea che l’Io si attui nella scissione, nell’alienazione come farsi altro da sé, in vista del ritorno e della perfetta riunificazione con sé. Del tutto sintomatici sono, in questo senso, alcuni passi di Barbaras che evocano direttamente la «lacerazione» che Henry imputa a quella che, ne L ‘e ssence de la manifestation, definisce «filosofia della coscienza». Scrive Barbaras:

Così il vivere della vita, colto a partire dal movimento in cui si produce, non conduce all’immanenza impressionale ma a un sé che è la propria lacerazione. L’io è il proprio passaggio nell’esteriorità, di modo che è passando fuori di sé che diventa se stesso; è alienandosi che si raccoglie.33

Hegelianamente il sé diviene se stesso solo facendosi altro da sé. Tutto ciò si riassume nella dicotomia che, per Barbaras, caratterizza il proprio rapporto con il pensiero di Henry, espressa dal titolo del capitolo a lui dedicato ne La vie lacunaire: «L’essenza della vita: pulsione o desiderio?». In sostanza la concezione henryana della vita sarebbe essenzialmente pulsionale, nel senso appunto dell’affettività e dell’autoaffezione, la quale si esaurisce in un movimento interno incapace di vera trascendenza. Il doppio regime di verità — «verità del mondo» e «verità della vita» — , teorizzato da Henry, non farebbe da questo punto di vista che sanzionare l’incomunicabilità tra i due piani, invece di pensare l’uno quale fondamento dell’altro. Nel definire pulsionale l’essenza della vita per Henry, Barbaras non sembra alludere espressamente al grande ruolo che le pulsioni hanno nella concezione della vita di Schopenhauer, di Nietzsche o di Freud; in ogni caso non avrebbe mancato il bersaglio, visto il consenso di fondo e la gratitudine che, pur con i dovuti distinguo, Henry manifesta verso questi pensatori che, ai suoi occhi, hanno avuto il grande merito di aver riportato la vita al centro del pensiero. Con essi infatti «l’essere riceve per la prima volta in modo esplicito il senso di essere la vita».34 Ebbene, caratterizzando come pulsionale la concezione henryana della vita, Barbaras intende criticarne innanzitutto la chiusura in se stessa, la sua incapacità di trascendenza, di apertura del e al mondo. Alla pulsione viene quindi opposto il desiderio come essenza stessa della vita, capace nel suo dinamismo di infrangerne la chiusura e di aprirla al mondo.

5. Il desiderio come essenza della vita.

È nella terza parte dell’Introduction, intitolata appunto «Vita e desiderio», che Barbaras sviluppa più direttamente la propria fenomenologia della vita. Questa, come si è accennato, è debitrice di vari apporti: Jonas, Patocka, non ultimo Henry, in misura forse anche maggiore di quanto l’autore voglia ammettere. Il suo tratto originale è costituito appunto dall’individuazione del «desiderio» come l’essenza positiva della vita, perché solo in questo si esprime quella «correlazione» capace di assicurare il legame tra vita e mondo. Anche per Barbaras dunque, come per Henry, l’essenza della vita risiede nell’affettività, essendo il desiderio un aspetto essenziale di questa. È lui stesso ad ammetterlo, non senza rimarcare ancora una volta la diversità della propria posizione. Infatti dopo aver affermato che la prova di sé della vita (espressione che Henry ci ha reso per sempre familiare) non è altro che l’affettività come desiderio, dandosi quindi una «consustanzialità» tra vita e affettività, dichiara tuttavia di divergere radicalmente da Henry quanto al significato da attribuire a essa. Ed ecco il punto che si vuole dirimente: «Ci sembra che la cooriginarietà di affettività e vita può essere fondata solo a condizione di pensare l’essenza dell’affettività non come autoaffezione, di rinunciare dunque a ribatterla in una sfera di pura immanenza».35 Torna dunque l’obiezione più volte richiamata: non la riconquista dell’immanenza, che lo stesso Barbaras considera fondamentale, ma la sua insuperabile chiusura in se stessa. In realtà egli è pronto a concedere che in Henry le cose forse non stanno proprio così ma, dal suo punto di vista, si tratterebbe piuttosto di incoerenze del suo pensiero dovute a una posizione intrinsecamente insostenibile. Dal nostro punto di vista, invece, le presunte incoerenze di Henry sono dovute piuttosto a un limite di comprensione del suo concetto di autoaffezione; e ciò sia detto senza nulla togliere all’acutezza e alla serietà dell’interprete, oltretutto fortemente simpatetico, come si sta vedendo. Analizzando le pagine finali dell’ampio capitolo dell’Introduction intitolato «Il desiderio come essenza del vivere», nelle quali Barbaras mira a demarcare la propria posizione da quella di Henry, possiamo verificare il massimo di prossimità, insieme al massimo di distanza tra i due pensatori. Qui, in nuce, sono già espressi i termini del più ampio confronto instituito ne La vie lacunaire. Ebbene in queste pagine a colpirci sono soprattutto affermazioni come la seguente dove, con riferimento al rapporto tra il «sentire» e l’«io posso», Barbaras giunge ad affermare: «Il dinamismo della vita, per cui essa si fa forza e movimento, è l’esatta contropartita di un’impotenza del sentire».36 Il riferimento è, con tutta evidenza, al grande tema henryano della passività, quale fondamento dell’attività, di cui il sentire costituisce la spia e, al tempo stesso, l’espressione: si pensi soltanto all’interpretazione che Henry, in vari passi delle sue opere, dà del cartesiano sentimus non videre, in cui il patire e l’agire appaiono strettamente congiunti, ma secondo un rapporto trascendentale in cui il primo spiega l’altro, non viceversa.37 Del resto, se così non fosse, non si capirebbe neppure Barbaras il quale, dopo aver affermato che «il desiderio non è un affetto tra gli altri ma l’affetto di tutti gli affetti […] affettibilità più che affetto in senso proprio», fa spazio anche lui al patire e alla passività, con accenti tipicamente henryani. Scrive infatti verso la conclusione del capitolo:

Impegnata nell’ampiezza stessa del mondo, l’avanzata del suo [della vita] movimento è al tempo stesso l’immobilità della pura ricettività e la sua inquietudine […] è sinonimo di pura tranquillità. In una parola, come agire non qualificato, aspirazione pura, il desiderio è al tempo stesso patire: la sua attività è pura passività o, piuttosto, identità realizzata di attività e passività. È legittimo concludere che il Desiderio è l’essenza stessa dell’affettività […] in una parola la forma stessa della ricettività.38

In questione, dunque, è il desiderio come movimento di trascendenza, che ha però — se capiamo bene — nell’immanenza come passività e ricettività la propria origine. Non siamo dunque lontani da Henry, sebbene Barbaras interpreti la propria posizione come primato dell’eteroaffezione sull’autoaffezione.39 Se volessimo trovare un altro punto di riferimento per la posizione di Barbaras, si potrebbe pensare a Levinas che, non a caso, egli cita in questo giro di pagine a proposito del desiderio. Senonché, proprio sul desiderio, la posizione di Levinas appare alquanto divergente dal momento che per lui il desiderio è espressione di una pienezza, di un’eccedenza, non di una mancanza. Ci sembra piuttosto che, in passi come questo appena citato, si avverta ancora fortemente l’influsso di Merleau-Ponty, della sua «filosofia dell’ambiguità», per riprendere la classica definizione di Alphonse de Waelhens; ambiguità che, in questo caso, funge come indistinzione tra immanenza e trascendenza, passività e attività, in ultima istanza tra soggettivo e oggettivo. Più in generale si può dire che Barbaras, pur mutandone il segno, tende a salvaguardare il carattere intenzionale della fenomenologia interpretandola come desiderio, in termini dunque di affettività: «Solo a condizione di pensare la vita come Desiderio diventa possibile dar conto della vita percettiva, di fondare ciò che Husserl intravede mediante la dottrina degli adombramenti».40 Questo perché, come nella vita percettiva fatta di adombramenti (Abschattungen) la realtà è data e non è data insieme o, per meglio dire, è data solo come una «promessa di pienezza», la stessa cosa avviene nel desiderio, espressione di mancanza e, insieme, aspettativa di compimento. Il desiderio, pertanto, è il sintomo più evidente del carattere lacun aire della vita, capace di spiegare al tempo stesso il movimento e l’intenzionalità: «Poiché la sua [del desiderio] effettuazione è la prova di una lacuna e si realizza solo come movimento, essa apre la profondità del mondo, si fa intenzionalità».41

È su questo piano, dunque, che la massima prossimità di Barbaras a Henry manifesta altresì tutta la sua distanza; prova ne siano le conseguenze che egli trae in ordine all’incarnazione concepita come un farsi: è nel e per il desiderio che il soggetto non è carne ma «diventa carne», il che fa sì che il processo d’incarnazione non sia mai realmente concluso, stante la natura lacunaire del desiderio stesso. Ne deriva, coerentemente, che «il movimento della vita può essere caratterizzato come realizzazione di un irrealizzabil e», come «relazione originaria di una Realizzazione e di un’incompiutezza».42 Con tutta evidenza siamo lontani dalla visione della vita, da quell’historialité de l’Absolu di cui parla L’essence de la manifestation in cui la vita è insieme e indistantamente «joie e souffrance», nel loro stesso alternarsi; funzioni tuttavia di una pienezza, non di una lacuna o di un’indigenza. Gioia e sofferenza costituiscono dunque per Henry l’effettività della Parusia,43 lo sfolgorio originario, l’epifania assoluta in cui l’essere si manifesta in tutta la sua verità. Questo è precisamente ciò che fa la «dolcezza dell’essere e della vita», dal momento che l’essere è la vita e questa è affettività da cima a fondo. Sofferenza e gioia sono quindi per Henry le tonalità ontologiche da cui tutte le altre traggono origine come tonalità esistenziali, e il desiderio tra queste; ontologiche perché è in esse che l’Assoluto stesso si fa presente, Parusia. Leggiamo in Incarnation: «L’affettività originaria è la materia fenomenologica dell’autorivelazione che costituisce l’essenza della vita. Essa fa di tale materia una materia impressionale che non è mai materia inerte, identità morta di una cosa».44 È questa materia impressionale che Henry chiama propriamente carne; a essa, e a essa soltanto, pertiene quindi la pienezza atemporale propria della vita, che è la vita.


  1. R. Barbaras, Introduction à une phénoménologie de la vie, Vrin, Paris 2008; La vie lacunaire, Vrin Paris 2011. Renaud Barbaras è professore di Filosofia contemporanea all’Università Paris I Panthéon-Sorbonne e membro dell’Institut Universitaire de France. ↩︎

  2. G. Sansonetti, Per una fenomenologia della carne. Michel Henry lettore e critico di Merleau-Ponty, in «Humanitas», 4, 2010, pp. 557-571. ↩︎

  3. In particolare il riferimento è a R. Barbaras, Le tournant de l’expérience. Recherches sur la philosophie de Merleau-Ponty, Vrin, Paris 1998, nel quale il confronto critico con il pensiero di Henry è molto accentuato. ↩︎

  4. Ivi, p. 133. ↩︎

  5. M. Henry, Philosophie et phénoménologie du corps, PUF, Paris 1965, p. 255. ↩︎

  6. R. Barbaras, Le tournant…, cit., p. 117. ↩︎

  7. Philo sophie et phénoménologie du corps, p. 271. ↩︎

  8. M. Henry, L’essence de la manifestation, PUF, Paris 1963, p. 303. ↩︎

  9. R. Barbaras, Introduction…, p. 71. ↩︎

  10. Ivi, p. 7. ↩︎

  11. Ivi, p. 26. ↩︎

  12. Ivi, p. 19. ↩︎

  13. Ivi, p. 11. ↩︎

  14. M. Henry, Incarnation. Une philosophie de la chair, Seuil, Paris 2000, p. 89; Incarnaz ione. Una filosofia della carne, a cura di G. Sansonetti, SEI, Torino 2001, p. 70. ↩︎

  15. R. Barbaras, Introduction…, p. 30. ↩︎

  16. M. Merleau-Ponty, Le visible et l’invisible, Gallimard, Paris 1963, p. 176; Il visibile e l’invisibile, a cura di M. Carbone, Bompiani, Milano 1993, p. 150. ↩︎

  17. Incarnation, p. 165; trad. it., p. 133. ↩︎

  18. Ivi, p.172; trad. it., p. 139. ↩︎

  19. Ivi, p.160; trad. it., p. 129. ↩︎

  20. Ivi, p. 178; trad. it. p. 143. ↩︎

  21. Ivi, p. 9; trad. it. p. 4. ↩︎

  22. Introduction…, p. 32. ↩︎

  23. Op. cit., p. 34 e p. 32. ↩︎

  24. Ibidem↩︎

  25. Per un possibile rapporto tra Henry e Jonas mi permetto di rinviare al mio Per un’ontologia della vita: Hans Jonas e Michel Henry, in «I castelli di Yale», n. 9, 2007-2008, pp. 103-114. ↩︎

  26. Introduction…, p. 15. ↩︎

  27. La vie lacunaire, p. 43. ↩︎

  28. Ivi, p. 42. ↩︎

  29. Ivi, p. 35. ↩︎

  30. Ivi, p. 36. ↩︎

  31. Ivi, p. 48. ↩︎

  32. Ivi, p. 49. ↩︎

  33. Ivi, p. 47. ↩︎

  34. M. Henry, Généalogie de la psychanalyse, PUF, Paris 1985, p. 257; Genealogia della psicanalisi, a cura di V. Zini, Ponte alle Grazie, Firenze 1990, p. 195. ↩︎

  35. Introduction…, p. 298. ↩︎

  36. Ivi, p. 299. ↩︎

  37. Si veda per esempio il commento di Henry all’espressione sentimus non videre contenuta in una lettera di Descartes a Plempius: «[essa] contrappone la nostra visione in quanto visione fenomenologica effettiva a quella degli animali che, appunto, non vedono; la qual cosa implica l’immanenza nel vedere stesso di un sentire più antico di esso e di un altro ordine, di un autosentire, senza del quale il vedere non vedrebbe» (Incarnation, p.168 nota; trad. it., p. 136 nota). ↩︎

  38. Introduction…, p. 300. ↩︎

  39. Ivi, p. 301. ↩︎

  40. Ivi, p. 343. ↩︎

  41. La vie lacunaire, p. 50. ↩︎

  42. Introduction…, p. 364, p. 365. ↩︎

  43. L’essence de la manifestation, p. 832. ↩︎

  44. Op. cit., p. 89; trad. it., p. 71. ↩︎