Panikkar senza interculturalità. Il contributo alla cristologia

1. Il pathos di tutta una vita

Porre qualsiasi discussione del contributo teologico di Raimon Panikkar nel contesto del tema dell’interculturalità e del dialogo interreligioso (due cose che dal suo punto di vista praticamente si equivalgono) appare non solo perfettamente lecito, ma anche indispensabile. Ad indurre a quest’approccio c’è una formidabile schiera di elementi convergenti: la sua vita personale (dalle origini famigliari fino alla varie vicende della sua esistenza, che lo portano per lungo tempo a dividere il suo domicilio tra la California e l’India); l’ampiezza e la costanza dei suoi studi in proposito (praticamente impossibile trovare, se si eccettuano alcuni scritti giovanili, pagine in cui tale prospettiva non sia presupposta od oggetto diretto di studio); le sue esplicite dichiarazioni che indicano questa linea come ispiratrice della maggior parte dei suoi sforzi; infine, la concordia in proposito degli interpreti. Proprio per questo, però, può essere di un certo interesse, per una volta, tentare una lettura diversa: esaminare cioè un punto cruciale del contributo di Panikkar prescindendo il più possibile da quest’orientamento, ipotizzando cioè che il punto di arrivo possa (almeno in parte, almeno da un certo punto di vista) essere separato dalla strada tramite cui esso è stato raggiunto: il che implica a sua volta il presupposto, certo discutibile, che in generale la via possa essere separata dalla meta. Sarà il risultato dell’esperimento a dirci se quest’ipotesi di lavoro abbia una qualche utilità.

Nella grande e magmatica produzione di Panikkar, condurremo quest’esperimento su una sola opera: La pienezza dell’uomo. Una cristofania, pubblicato nel 1999 per la prima volta in italiano.1 La scelta non è difficile da giustificare: si tratta di un volume chiaramente confrontabile con un tema teologico classico, quello della cristologia (pure se Panikkar intende distinguere dalla tradizione di questa la sua, appunto, «cristofania»), scritto inoltre con una linearità architettonica e (relativa) chiarezza che incoraggia a considerazioni critiche, al quale infine Panikkar stesso assegna un ruolo cruciale nel complesso della sua opera: «Questo studio costituisce il tentativo di concentrare in poche pagine il “pathos” di tutta una vita; è da più di mezzo secolo, infatti, che medito e scrivo su tale argomento» (p.  19). Cercheremo quindi, prescindendo il più possibile dalla prospettiva intenzionalmente interreligiosa in cui Panikkar pone la sua ricerca, di mettere in luce quale sia la linea del contributo che egli porta ai problemi della cristologia contemporanea e quali nuovi interrogativi questo contributo pone in luce.

Ma che cosa intende Panikkar per «cristofania» e in che modo egli la distingue dalla «cristologia», verso la quale peraltro egli non polemizza affatto (ma che anzi considera come un suo presupposto indispensabile)? Tra le tante differenze, è lui stesso che indica quella a suo avviso fondamentale: se la cristologia predilige un approccio razionale alla realtà di Cristo, la cristofania fa invece appello allo Spirito, senza subordinarlo al Logos. Tutto ciò non significa scegliere un registro emotivo o sentimentale, ma piuttosto mistico: come vi sono esperienze sensibili e conoscenze razionali, così vi è anche la visione mistica. La «fania» di cui si occupa la cristofania è appunto una manifestazione che avviene direttamente nella coscienza umana, indipendentemente da un eventuale successivo atto di comprensione razionale. In questo modo l’«esperienza» riceve il suo significato più pieno: benché ogni esperienza debba essere poi verificata dal complesso delle facoltà umane, è lì che si trova l’istanza ultima di qualunque attività umana. Solo ciò che è veramente sperimentato, possiamo dire, può costituire origine di significato per l’uomo. È a partire da questo primato del mistico sul razionale e sul sensibile (in altri termini, come vedremo, dello spirito sull’anima e sul corpo) che si riorganizzano le altre caratteristiche che Panikkar attribuisce alla cristofania: essa intende offrire un’immagine credibile di Cristo a tutti, sia a coloro che sono solidamente attaccati al dogma cristiano sia a coloro che nutrono semplicemente interesse per la figura storica di Gesù; la cristofania vuole gettare una luce sull’umanità dell’uomo senza con ciò manipolare il divino; la cristofania elabora il modo in cui Cristo si manifesta alla coscienza umana; la cristofania è più preoccupata di descrivere passivamente questa manifestazione che di elaborarla attivamente; la cristofania vuol essere autenticamente teologica e proprio per questo rifiuta la separazione tra filosofia e teologia.

Già questa caratterizzazione mette in luce l’originalità di approccio. Com’è evidente, essa sta e cade con il riconoscimento di una modalità di esperienza diversa sia da quella sensibile, sia da quella intellettuale: una modalità che viene appunto definita «mistica». La parola non risolve certo i problemi, anzi «mistica» è più il nome di un complesso problema che l’etichetta di un campo esattamente delimitato nella storia o nell’esperienza cristiana. In questione può essere per esempio la pertinenza alla fede cristiana di un complesso di fenomeni che possono essere giudicati estranei alla predicazione di Gesù e al suo spirito (dopo un iniziale entusiasmo per la Theologia deutsch, questa fu per esempio grosso modo la posizione di Martin Lutero, che si è riverberata in buona parte della tradizione riformata). In questione può essere invece l’omogeneità di esperienze che paiono avere poco in comune al di là dell’etichetta, a volte postuma, di «misticismo» (e anche quando quest’etichetta è rivendicata: la Teologia mistica di Jean Gerson è davvero coerente con l’omonima opera capostipite di Dionigi l’Areopagita? o non sono forse all’opera slittamenti così profondi da porre l’intera storia moderna della mistica sotto una luce affatto diversa da quella antica?). Panikkar non affronta qui nessuno dei due problemi (che però evidentemente presuppone risolti positivamente), ma fa qualcosa di più semplice: cioè rivendica la continuità con un lunghissimo filone della storia cristiana. È proprio questa continuità che in un certo senso esime dal compito di un’analisi più dettagliata dell’essenza della mistica, un’analisi che in effetti va riconosciuta come estremamente difficile. Tale continuità può però affondare le sue radici nel vangelo stesso: alcune delle pagine centrali della cristofania di Panikkar, come vedremo, sono dedicate al vangelo di Giovanni, il quale con il suo linguaggio dell’immanenza reciproca e dell’unità (tra Cristo, il Padre e i discepoli) in un certo senso stabilisce quell’ideale «mistico» con cui la successiva storia dovrà misurarsi. Quantunque diverse nello stile e nel lessico, anche diverse affermazioni delle lettere di Paolo andrebbero poi annoverate tra questi archetipi mistici della tradizione cristiana, che si riverberano poi in modo tutto particolare nel linguaggio liturgico (un tema al quale dovremo tornare). Insomma, le intenzioni di Panikkar potrebbero forse essere tradotte in questa domanda: se la teologia mistica ha sempre fatto parte del discorso cristiano, e la liturgia ha fatto sempre parte della sua vita, perché neutralizzarne le affermazioni come metafore poetiche, come linguaggio esagerato, da interpretare «cum multis explicationibus», e ritenere letterale il linguaggio dogmatico, anziché invertire piuttosto la gerarchia, ritenendo a modo suo letterale il linguaggio mistico e cultuale e invece provvisorio quello dogmatico?

Le cose non sono però così semplici. È giustificato per esempio in linea di principio l’appello alla mistica giovannea? In questo riferimento si trova uno dei punti critici della proposta di Panikkar: la moderna esegesi storico-critica ha in genere espresso grande cautela, se non repulsione, verso un’interpretazione mistica del vangelo di Giovanni. Nell’ormai classico commentario di Rudolf Schnackenburg, questa è per esempio sistematicamente respinta. Mentre si può ammettere che Giovanni polemizzi con tendenze così orientate interne al giudaismo, tutte le interpretazioni mistiche di ciò che egli afferma in positivo sarebbero fuori strada: il linguaggio di Giovanni sarebbe sempre solo un riferimento alle esperienze concrete dell’ascoltare, del seguire, del credere. L’immanenza di cui parla il vangelo non sarebbe altro che quella sperimentata all’interno della vita comunitaria. Discutendo le possibili interpretazioni dell’«escatologia realizzata» di Giovanni, cioè la sua caratteristica tendenza ad usare il tempo presente per parlare della vita eterna, Schnackenburg liquida definitivamente questa pretesa:

Un tempo si parlava volentieri di ‘mistica’ giovannea nel senso di una spiritualizzazione e interiorizzazione, oppure di una ellenizzazione della mistica paolina dell’essere in Cristo; ma in tempi recenti il discorso è stato abbandonato. Di fatto, ‘mistica’ è un termine ambiguo che suscita idee errate. Anche in Io. decisiva è la rivelazione di Gesù in parole e segni e decisiva è l’accettazione, per fede, di questa rivelazione. Anche per Io. come per Paolo, l’esistenza cristiana si può definire come vita nella fede, ma senza quella tensione escatologica fra il già e il non ancora, che è così caratteristica in Paolo (vol.  II, p.  709).2

La lettura mistica sarebbe quindi fuori strada non solo nel senso più tecnico di un riferimento ad esperienze di unità, ma anche in quello più generale di un accento sull’interiorità. Questa posizione (non per ultimo per il prestigio che ha avuto nei decenni seguenti l’opera in cui è espressa) può essere considerata una buona rappresentante del metodo storico-critico nel suo complesso, con il quale si accorda nella tendenza a preferire interpretazioni naturali ogni qualvolta possibile: detto in un modo leggermente diverso, il Vangelo di Giovanni forse usa un linguaggio mistico, ma esso va a modo suo demitizzato per non essere ingenuamente tradotto in affermazioni oggettivo-spirituali che forse non hanno nulla a che fare con la fede cristiana. E in più, lo stesso quarto vangelo metterebbe all’opera questa demitizzazione (per esempio laddove pone al posto del racconto eucaristico dell’ultima cena la scena di Gesù che lava i piedi ai discepoli). Per quanto sia attraente, questa posizione non vale però come una confutazione. Bisogna infatti osservare che in primo luogo il primato del metodo storico-critico può essere sostenuto solo con una sorta di petitio principii: di fatto sono state diverse le letture del Vangelo di Giovanni in chiave mistica che esplicitamente hanno affermato il presupposto della liceità di altri metodi di lettura. In secondo luogo si può notare che pure all’interno del metodo storico-critico si può rivendicare un significato mistico del Vangelo di Giovanni: si tratta di prendere più sul serio le possibili polemiche che ammetteva già Schnackenburg e riconoscere che molti elementi del suo lessico intendono individuare i confini di una mistica alternativa a quella contemporanea giudaica, il che rende del tutto storicamente possibile che sia l’autore del vangelo, sia la sua comunità, abbiano vissuto concorrenti esperienze mistiche. Questa è stata la posizione sostenuta in anni più recenti da Jey Kanagarj, che si è fondato su un confronto, forse non conclusivo ma indubbiamente scrupoloso, con le correnti mistiche diffuse nell’ambiente ebraico di Gesù: precludere la possibilità di una lettura mistica significherebbe allora non già evitare un anacronismo, ma al contrario introdurlo. Ma se è così una cristofania costruita a partire da una prospettiva mistica non avrebbe in effetti prima facie uno svantaggio metodologico certo.3

2. Condividere l’esperienza di Gesù

L’intento di Panikkar non sarebbe però esattamente rappresentato se ad esso non si aggiungessero due precisazioni convergenti. La prima è che, diversamente da una tradizione consistente (e certamente dalla comprensione comune) la mistica non è intesa come il campo di esperienze eccezionali riservate ad una minoranza di spirituali. Circoscrivere (senza negare) i limiti di una comprensione dottrinale significa invece fare esattamente il contrario:

Una certa teologia, che si potrebbe chiamare elitaria, contrariamente a tanti altri «venite» del maestro, («venite a me» Mt XI, 28; «lasciate che i bambini vengano a me» Mt XIX, 14; Mc X, 14 eccetera) ci ha voluto far credere che l’esperienza di Cristo, e dunque della sua grazia, sia riservata ai pochi che raggiungono le alte vette della contemplazione, e che l’uomo comune, cioè i piccoli, non possano andare, né vedere niente…

La cristofania tenderebbe insomma ad esprimere (e ovviamente a favorire) quell’esperienza personale che viene prima di una sua elaborazione dottrinale, forse ne può perfino prescindere (come, osserva acutamente Panikkar, poterono incontrare direttamente Cristo ed essere da lui trasformate la samaritana, la sirofenicia e la donna peccatrice). Qui è in gioco insomma una trasformazione dell’essere, sulla quale è possibile mettere l’accento fino a ritenerla, appunto, non un’appendice sfumata e superflua al discorso su Cristo, ma il suo centro e addirittura punto di partenza. La vita umana conosce in realtà benissimo due registri nei quali l’esperienza di una trasformazione dell’essere è fondante: quella dell’innamoramento, in cui gli innamorati diventano in un certo senso reale un solo spirito, e quella della trascendenza, in cui lo spirito umano percepisce qualcosa che «stando dentro di noi, è più grande di noi» (p.  51). Ora, argomenta Panikkar, l’esperienza della cristofania unisce queste due esperienze, perché in essa è in gioco contemporaneamente e inseparabilmente un innamoramento umano e una trascendenza divina: non dunque fenomeni eccezionali, ma esperienze costitutive dell’umanità. Dall’altra parte anche la dogmatica cristiana ha sempre affermato che esse sono in opera nei sacramenti: nell’eucarestia, per esempio, contemporaneamente esperienza di trasformazione dell’essere, di innamoramento fisico e di trascendenza assoluta. È in effetti significativo che più volte nella sua Cristofania Panikkar sente il bisogno di mettere in guardia dai rischi e dalle deviazioni della mistica.4

La seconda precisazione è che un discorso su Cristo che prende le mosse dalla mistica non significa affatto, contrariamente ad una certa idea comune, l’allontanamento dalle preoccupazioni riguardo alla vita concreta, personale, sociale. È evidente che Panikkar vede incombente questo rischio se più volte richiama per esempio la teologia della liberazione come un esempio positivo di come la teologia debba diventare significativa: la stessa cristofania non può dunque rinunciare ad essere «in favore degli oppressi» (p.  218). Nel nostro tempo, afferma anzi Panikkar, la figura di Cristo più convincente è proprio quella che rende coscienti delle ingiustizie del mondo.

Entrambe queste precisazioni sollevano problemi quasi pari a quelli che intendono risolvere. Certamente l’appello a quella che potremmo denominare una mistica quotidiana è significativa e non è estranea ad una rinascita di interesse avvenuta nel Novecento (si pensi per esempio alle opere di Thomas Merton). Il richiamo a non intendere la mistica come una fuga o anche un’indifferenza di fronte alla realtà è certamente benvenuto: è del resto molto opportuno il cenno che Panikkar stesso fa alla tragica situazione dei dalit (i fuori casta) che esprime un’ingiustizia ancor maggiore di quella che ha ispirato la teologia della liberazione in America Latina, tanto più che la loro condizione ha una giustificazione «religiosa». Resta però il dubbio che queste di Panikkar siano essenzialmente petitiones principii, scarsamente sostenute proprio dalla tradizione alla quale egli fa continuamente appello. È per esempio significativo che il termine «liberazione» viene usato promiscuamente da Panikkar o per riferirsi alla liberazione umana e sociale propugnata dalla teologia che da essa si denomina, o per intendere una liberazione in senso spirituale e mistico che di primo acchito pare condurre più all’indifferenza di fronte alla realtà che alla volontà di cambiarla sotto l’ispirazione di una fede. Su questo punto, cruciale, torneremo con qualche considerazione conclusiva.

Vediamo ora invece l’esecuzione concreta del disegno: che cosa significa costruire un discorso su Cristo a partire da una prospettiva mistica? Il piano della cristofania di Panikkar è lineare e si trova praticamente tutto intero nella seconda parte della sua opera. In un primo passo vengono discussi tre possibili approcci alla figura di Cristo. In un secondo passo sono analizzate tre frasi pronunciate da Gesù, in cui secondo Panikkar è riassunto tutto il suo insegnamento, il cui punto centrale è, come vedremo, il suo rapporto con il Padre. In un terzo passo, infine, si tenta di chiarire più sistematicamente quale sia stata l’esperienza mistica di Gesù, che egli presenta ad ogni uomo come imitabile. Già dalla sua architettura, questo approccio mostra subito la sua originalità: un approccio mistico a Cristo non significa tanto fare un’esperienza mistica di lui, quanto condividere la medesima esperienza che lui ha compiuto. Di questa tesi sembrano esservi nel discorso di Panikkar una serie di motivazioni convergenti. Anzitutto, se si attribuisce a Cristo una natura pienamente umana, non si vede perché egli non possa essere studiato anche come si studierebbe qualsiasi altro uomo: e in tal campo rientra ovviamente il tentativo di comprendere la sua esperienza. In secondo luogo, rinunciare a questo compito significherebbe mettere tra parentesi proprio l’essenziale dell’umanità, che consiste nella sua capacità di autocomprensione: e l’esperienza mistica è autocomprensione al suo massimo grado. Infine, se Cristo non è considerato dalla fede cristiana solo come l’annunciatore, ma anche il contenuto dell’annuncio, questa esigenza cresce ancora di più: la tradizionale cristologia certamente ha realizzato questo compito, ma in maniera solo parziale, allo stesso modo in cui una comprensione intellettuale di un’altra persona è solo una lontana approssimazione alla comprensione del suo vissuto. Senza insomma nulla togliere alla dogmatica tradizionale (Panikkar lo ripete più volte), si tratta di raggiungere un livello più profondo, che è quello (lo abbiamo già visto) in cui gli esseri umani del resto incontrano le cose più belle e preziose della propria vita: se Cristo fosse soltanto un teorema metafisico da conoscere intellettualmente, ne risulterebbe una fede non già superiore al resto dell’esperienza, ma clamorosamente inferiore.

3. Tre antropologie

La cauta presa di distanza di Panikkar dalla dogmatica non è in realtà l’unica, né forse la più importante. Preliminare e ancora più importante è superare i limiti imposti da un’antropologia individualistica: quella cioè secondo cui ogni essere umano è un’isola senza vie di comunicazione, un presupposto che si sarebbe affermato soprattutto con la Riforma e che si manifesta in tante forme della sensibilità contemporanea. La stessa questione sulla conoscenza dell’altro sarebbe qui illecita, perché colui che la pone è a sua volta un individuo. L’unica via di accesso sarebbe dunque quella indiretta: cioè esaminare le parole e le opere lasciate dall’altro uomo, il contesto in cui le ha pronunciate e operate e infine (a mo’ di compensazione) il contesto nuovo a partire dal quale queste tracce vengono interpretate. Ma in questo modo, argomenta Panikkar, sicuramente si può giungere all’identificazione di un uomo, non però alla sua identità. Ancor di più: in questo modo il paradigma della conoscenza naturale-scientifica, che ha il suo lecito campo di applicazione, viene indebitamente esteso agli esseri umani, con i quali invece sappiamo (per esempio) che l’amore costituisce un presupposto indispensabile per una vera comprensione. Non è infatti un caso, ritiene Panikkar, che l’individualismo porta a ritenere in fin dei conti impossibile la conoscenza dell’altro e impossibile l’amore: e cambia poco che questo avvenga sostenendo che «l’inferno sono gli altri» (alla Sartre) o in nome di un’etica dell’esteriorità (alla Levinas).5

Di là dalle considerazioni antropologiche (e forse da una certa esagerazione sistematica che qui Panikkar mette in scena), l’obiettivo polemico è (se non erriamo) inequivocabile: si tratta del metodo storico-critico. Se il testo è in proposito alquanto sfuggente, alcune note presentano invece un giudizio netto. Pure se si può ammettere che l’esegesi storico-critica svolga un ruolo importante, essa è fallimentare perché pretende di interpretare i vangeli trascurando proprio ciò che di quei testi è la preoccupazione maggiore: la trasformazione personale. È solo questa poi, sotto la forma del «fatto personale e mistico che uno trova in Gesù qualcos’altro» dalle circostanze ambientali (p.  83, nt. 30), che spiega perché mai questa figura sia degna d’interesse più di altre che sono parimente avvincenti quanto agli enigmi storiografici che presentano.

Una volta superata un’antropologia individualistica, si apre l’ingresso ad un’antropologia personalistica, in cui si riconosce che l’uomo è una persona, cioè un sistema di relazioni e non un nucleo isolato. È il livello in cui si può riconoscere che lo stesso «essere» ha in ultima analisi una natura personale (un’affermazione che secondo Panikkar è stata velata dal «terrore cristiano del panteismo», p.  93). La persona non è solo in comunicazione, ma è essa stessa comunicazione, anzi comunione: cioè coappartenenza reciproca. Evidentemente un discorso su Cristo formulato in questa prospettiva sarà completamente diverso dal precedente: non soltanto perché metterà in campo il termine «persona» (o i suoi corrispondenti greci prósopon e hypóstasis), ma soprattutto perché riconoscerà la possibilità di un’autentica conoscenza. Se nel primo caso associare l’antropologia individualistica al metodo-storico critico (e alle conseguenti «cristologie dal basso») andava da sé, in questo caso è meno facile chiarire gli intenti di Panikkar: certamente c’è un certo accenno alle «cristologie dall’alto» tradizionali (e con esse una certa corrispondenza di struttura), ma il discorso è a volte molto ellittico. Quello che parrebbe sufficientemente certo è che Panikkar riconosce nella tradizionale cristologia la presenza di vicoli ciechi proprio nelle sue affermazioni fondanti: pensare un’unica persona divina in Cristo, dalla quale tuttavia è assunta una natura umana, lascia aperta ed enigmatica la domanda su che cosa significhi l’umanità di Cristo: una questione diventata paradossalmente più acuta quando il concetto di persona, in età contemporanea, ha investito la stessa formulazione dell’ontologia. L’intento della cristofania diventa in ogni caso più evidente laddove Panikkar riassume le prime due tappe e insieme presenta la terza, quella di un’antropologia «pneumatica»:

Desideriamo conoscere Gesù. Abbiamo detto, inizialmente, che c’era una sola porta per penetrare nell’intimità di un essere: esaminare le tracce lasciate dalle sue parole e dalle sue opere. Questo metodo è legittimo solo a due condizioni: che siamo consapevoli di quello che facciamo e che chiediamo il permesso per una simile incursione. È stato questo l’approccio del nostro primo tipo di antropologia — il quale è pericolosamente simile all’«esperimento» scientifico (psicologia sperimentale).

Abbiamo detto, in un secondo momento, che il forzare la porta è fuori luogo, perché la coscienza personale non è uno spazio recintato, ma un’«agora» comune dove gli esseri umani trovano la loro comunione stando insieme e interagendo. Ciò di cui abbiamo bisogno, quindi, è di condividere gli stessi ideali, e soprattutto di amare, il che ci consentirà di stabilire una certa comunione, in quanto già siamo partecipi della stessa struttura personale della realtà. Questo è stato il nostro secondo approccio, significativamente simile all’«osservazione» della psicologia (profonda).

Ma ce n’è anche un terzo, che consiste nel condividere non solo idee e ideali, ma l’Essere. La Scrittura e la tradizione cristiane insistono non solo perché si abbiano gli stessi sentimenti di Cristo, ma perché siamo uno con lui e trasformati in lui. È questa la via dell’«esperienza» — il metodo mistico (p.  98).

I tre approcci, riprendendo un’antica terminologia, potrebbero anche essere posti in corrispondenza con i tre elementi di un’antropologia tripartita: sóma, psyché, pnéuma. In una dimensione pneumatica il problema della conoscenza non moverebbe più dal presupposto che questa è un’attività individuale e privata: si tratterebbe piuttosto di riconoscere che l’uomo partecipa alla conoscenza che in lui è riversata. Questo è del resto il linguaggio che si trova anche nel Nuovo Testamento. Condividere l’esperienza mistica di Cristo non appare quindi un sovrappiù per un’élite spirituale, ma esattamente l’unico modo possibile in cui egli è realmente conoscibile! «Se tramutiamo Gesù in oggetto della nostra conoscenza, — scrive Panikkar — allora possiamo giungere a una certa conoscenza oggettiva di un individuo di nome Gesù, ma non giungeremo a conoscere Gesù, il quale non conosceva se stesso come oggetto, e non ne condivideremo l’autoconoscenza» (p.  98). Tutto il linguaggio dell’immanenza presente nel Vangelo di Giovanni in bocca a Gesù non fa altro quindi che sottolineare questa esigenza: rimanere in Cristo significa «diventare» lo stesso Cristo. Conoscere non è dunque né formulare ipotesi storiografiche sulle sue parole e opere, né soltanto condividere il suo pensiero, ma piuttosto compiere quell’atto mistico di identificazione con lui. Ciò non significa perdere la propria identità, perché la fede cristiana è trinitaria: nella Trinità c’è posto sia per l’identità sia per la differenza. La differenza è insomma mantenuta allo stesso modo in cui Cristo è diverso dal Padre nello stesso momento in cui afferma e sperimenta di essere una cosa sola con lui. In una sintesi che, diversamente dalle altre, tenta più chiaramente di mantenere la liceità di tutti i livelli di lettura, Panikkar mette in rapporto i tre possibili approcci a Cristo con le parole con le quali egli dichiara di essere «la via, la verità, la vita» (p.  105): l’antropologia individualistica lo incontrerebbe come «uno sconosciuto affascinante e sconvolgente», latore di una dottrina: quindi come «via»; l’antropologia personalistica come un compagno vivo e misterioso con il quale è possibile un incontro: quindi come a «verità»; l’antropologia pneumatica infine come la figura nel quale è trasformato l’io umano, quindi «vita» vissuta nell’esperienza mistica.

È lecita questa lettura nel quadro della dogmatica cristiana? Panikkar, malgrado ripetute delimitazioni del suo obiettivo e rivendicazioni del carattere fallibile e non definitivo della sua proposta, insiste nel dire che essa gli appare, ben più che possibile, indispensabile. Il modo più efficace in cui può sostenerlo è facendo appello (come già accennato) alla tradizionale dottrina dei sacramenti: definire cristiano chi è stato battezzato e ha ricevuto l’eucarestia significa indicare colui non che ha certe idee (o anche certi comportamenti: un punto sul quale il discorso di Panikkar è meno esplicito), ma piuttosto colui che ha effettuato un incontro personale. La dottrina tradizionale cristiana afferma appunto che nei sacramenti vi è la grazia stessa di Cristo, che nell’eucarestia vi è la sua persona stessa, con la quale nel sacramento si realizza esattamente quell’intimità di cui Gesù parla nel vangelo di Giovanni: quell’unione con lui che contemporaneamente fa sperimentare l’unità con il Padre. Al di fuori di un discorso mistico su Cristo, dunque, gli stessi sacramenti e la stessa definizione dell’essere cristiano svanirebbero o diventerebbero incomprensibili. In ogni caso giova ricordare che i sacramenti in greco vengono indicati come mystéria, facendo dunque appello sia all’esperienza mistica, sia a quel «mistero» che è la Chiesa intesa non come istituzione ad immagine di quelle civili, ma piuttosto come luogo della salvezza che raccoglie tutti gli uomini dalla creazione del mondo sino alla sua fine. Certo si potrebbero avanzare obiezioni sul fatto che tra la partecipazione ai mystéria della fede e l’esperienza mistica vi sia inevitabile continuità o addirittura identità, ma non sul fatto che in effetti qui Panikkar tocca un punto nevralgico del discorso cristiano su Cristo, o perlomeno formula una domanda degna di risposta: com’è possibile presentare un’immagine convincente di Cristo dal punto di vista della fede cristiana mettendo tra parentesi, o connettendo estrinsecamente, proprio ciò che dall’altra parte (e anche letteralmente: in un’altra parte, cioè in altri trattati teologici) viene affermato come unica sorgente di vita? Certamente la cristofania di Panikkar non può essere insomma rimproverata di non prendere sul serio l’ideale della «fides quaerens intellectum», che egli stesso richiama più volte (pp.  36, 115, a p.  35 nella variante «fides petens intellectum»). Con una formula icastica, questo tentativo può essere definito come una «cristologia dall’interno»:

Oggi si è soliti parlare di una cristologia «dall’alto», in contrasto con una cristologia «dal basso». Le etichette, per quanto pratiche, limitano sempre la realtà che, come l’arcobaleno, non ha frontiere fra i colori; ma, dovesse questo studio entrare in una classificazione, potrebbe essere definito una cristologia «dall’interno» — sapendo che il «regno dei cieli» è «entós», né «fra» né «dentro», ma nello stesso rapporto intimo con tutto il creato6 — perché tutta la realtà è «trina». Per questo motivo dobbiamo sempre sottoporre le nostre esperienze al dialogo e alla critica del «noi», il «tu» della comunità (p.  117).

4. Sperimentarsi come puro dono

Una volta posta questa complessa premessa (che, in un modo che abbiamo appena sfiorato, tocca anche numerosi elementi squisitamente filosofici: non dimentichiamo che secondo Panikkar la divisione tra teologia e filosofia è essa stessa artificiale), i due passi successivi, benché più importanti nell’economia del testo, possono essere più brevemente percorsi. Il secondo, come già anticipato, consiste in un’interpretazione di tre detti di Gesù. Nel dettaglio: «“Abba”, Padre, tutto è possibile a te; allontana da me questo calice! Però non ciò che voglio io, ma ciò che vuoi tu» (Ev. Marc. 14, 36); «Io e il Padre mio siamo una sola cosa» (Ev. Ioh. 10, 30); «In verità vi dico: è bene per voi che io me ne vada perché, se non me ne vado, non verrà a voi il Consolatore; ma quando me ne sarò andato, ve lo manderò» (Ev. Ioh. 16, 7). Nel primo Gesù chiama Dio suo Padre e spinge i suoi discepoli a fare lo stesso, come in effetti è testimoniato da alcuni passi cruciali di Paolo che vedono proprio nell’uso di questo nome affettuoso la prova della presenza dello Spirito: Dio viene indicato come la sorgente dell’essere, del proprio essere, e contemporaneamente nella maniera più intima possibile. Il fatto che la filiazione divina degli uomini sia diversa da quella di Cristo non toglie che essa è presentata dal Nuovo Testamento come realissima: se pure la si vuole chiamare una figliolanza «adottiva», si tratta di un’adozione «completa», che realmente deifica l’uomo (p.  134). Essere figli di Dio significa quindi essere (e sperimentarsi) come un puro dono: anche il proprio «io» è dono.

Il secondo detto di Gesù la relazione tra Padre e Figlio che dice contemporaneamente identità e differenza: entrambi i nomi indicano in effetti una relazione e non sono altro che relazione. Ma questa unità è possibile solo nella misura in cui l’io scompare: «e il mio “ego” scompare nella misura in cui consente a se stesso di essere condiviso da chiunque venga a me, si ‘nutra’ di me o, vedendomi, non veda me ma ciò che dico, ossia ciò che sono. Questo avviene quando posseggo quella trasparenza che è tanto più pura quanto più sono libero dal mio piccolo “ego”» (p.  151). Ovviamente queste formulazioni sono possibili a Panikkar appunto perché egli ritiene che l’esperienza mistica di Cristo possa e debba essere appropriata ad ogni credente: ciò che del resto tante volte la tradizione spirituale cristiana ha espresso per esempio sotto la forma dell’invito a diventare «alter Christus». Questo non è orgoglio, sottolinea Panikkar, è piuttosto l’esperienza della Pasqua e della Pentecoste che «ci umanizza divinizzandoci» (p.  152). Dire meno di questo significherebbe in fin dei conti prepararsi ad allineare Cristo ai tanti maestri dell’antichità.

Nel suo terzo detto infine è presente quello che Panikkar indica come «lo stadio più profondo dell’esperienza spirituale», il più profondo paradossalmente «perché il più umano» (p.  157). In esso Gesù manifesta di essere venuto non per rimanere come un ospite, ma piuttosto per restare nel cuore dell’uomo: una presenza quindi spirituale ed opera dello Spirito. L’andar via di Gesù significa il suo sottrarsi ad un insediamento sia politico, sia concettuale. Per questo pure il «cristocentrismo» o il «pancristismo» sono degli errori: Cristo se ne è andato proprio affinché il mondo eserciti la sua libertà e responsabilità, senza rimanere aggrappato alla sua autorità. Dall’altra parte, l’andarsene di Cristo è simbolo reale della pericoresi trinitaria, cioè del modo in cui la vita divina avvolge in maniere diverse l’intero cosmo, proprio perché la sua partenza coincide con l’invio dello Spirito. Le considerazioni qui avanzate da Panikkar, nel loro intreccio di interpretazione della coscienza di Cristo e di proposta di una condivisione di questa esperienza ad opera dell’uomo, sono tra le meno facili da seguire esattamente, malgrado si radichino evidentemente nell’affermazione di Gesù secondo cui «conviene» che egli se ne vada per lasciare spazio allo Spirito consolatore. A volte si ha l’impressione che le parole commentate (che segnerebbero, si noti bene, proprio il culmine dell’esperienza mistica di Gesù) non significhino alla fine molto di diverso da una serena rassegnazione stoica davanti alla morte, nella quale si è consci che la propria missione sarà portata avanti da qualcun altro. L’esperienza straordinaria di Gesù consisterebbe nell’«essere libero da pensieri, superare l’ansia per il futuro, imparare dai fiori che oggi sbocciano e domani saranno appassiti, rinunciare a fantasticare sul futuro vivendo una vita proiettata sempre sul domani — lasciandosi così sfuggire i momenti tempiterni [sic] della nostra esistenza umana» (p.  169). Tutto qui?

Il capitolo successivo, che intende presentare in maniera più sistematica l’esperienza mistica di Gesù, se non risolve quest’aporia, almeno getta una luce sul suo senso. Qui viene infatti ripetutamente sottolineato che il misticismo di Gesù Cristo va intesa come semplicemente e puramente umano e come non potrebbe essere inteso altrimenti. Quella di Cristo fu insomma la «pura esperienza umana» (p.  176): anche il rilievo dato al titolo «Figlio dell’Uomo» significherebbe in fondo questo. Le espressioni prima analizzate vanno quindi intese come pronunciate a partire dall’umanità di Cristo: e l’esperienza che egli ha compiuto in quanto uomo è dunque aperta a qualsiasi altro uomo nella misura in cui egli è coinvolto nel processo di divinizzazione, che è contemporaneamente realizzazione dell’umanità: cammino verso «la pienezza dell’uomo», come recita il titolo dell’opera. Essere pienamente uomini significa abbandonare il proprio «io», cosa che Cristo ha fatto perfettamente. Anche il suo andarsene va quindi interpretato in questo modo: «In quanto umani, come individui, dobbiamo andarcene. Tutti se ne sono andati, compreso Gesù. In quanto divini, quando noi ce ne andremo, rimarrà lo Spirito. Non lasciamo la realtà orfana della nostra presenza. Siamo stati — per sempre» (p.  177). Come in numerosi casi, Panikkar osserva che tutto questo è sì incompatibile con un «rigido monoteismo», ma invece pienamente sensato in una visione trinitaria, esattamente la stessa che la cristologia tradizionale ha espresso con il suo linguaggio. È a questo punto che Panikkar può reintegrare anche la terminologia calcedoniana della perfetta divinità e perfetta umanità di Cristo, aggiungendo però un ulteriore particolare accento sulla corporeità:

Il mistero di Cristo è il mistero di tutta la realtà: divina, umana, cosmica, senza confusione, ma senza separazione. Cristo non sarebbe Cristo se non fosse divino, anzi se non fosse Dio. Il divino non può essere spaccato in parti. Cristo non sarebbe Cristo se non fosse umano, anzi se non fosse tutta l’umanità. Ma questa umanità «distesa» nel tempo, non è (ancora) compiuta, né lo sarà mai mentre il tempo è tempo, e il tempo non ha fine perché la fine è già temporale. La vita è questa novità o creazione costante. Cristo non sarebbe Cristo se non fosse corporale, anzi se non fosse tutta la corporeità. Ma questa corporeità, o materialità «estesa» nello spazio, non è (ancora) finita, né lo sarà mai mentre lo spazio è spazio, perché il limite dello spazio è già spaziale. La materia è parte del reale — insieme alle altre ‘due’ dimensioni in interpenetrazione infinita (p.  178).

Anche per questo aspetto Panikkar può del resto rivendicare la continuità non solo con le celebri affermazioni paoline sul ruolo cosmico di Cristo, ma pure con una sensibilità che ancora nell’epoca patristica era ampiamente diffusa, per esempio testimoniata da Origene che afferma che «Cristo ha tutto il genere umano, anzi tutta la creazione come corpo, e ciascuno di noi è un membro secondo la sua parte (nel creato) » (p.  185) o più tardi da Bonaventura quando nel suo Itinerarium invita a contemplare Cristo come sintesi dell’universo: «Guarda il propiziatore e ammira, poiché in lui il primo principio è congiunto con l’ultimo, Dio con l’uomo formato nel sesto giorno, l’eterno è congiunto con l’uomo temporale, nato dalla Vergine nella pienezza dei tempi, il più semplice con il più composito, il più reale con chi più soffrì e morì, il più perfetto e immenso con il piccolo, l’assolutamente uno e multiforme con un individuo composito e distinto dagli altri: ossia l’uomo Gesù Cristo» (p.  187). Se queste affermazioni appaiono prive di senso, o al massimo metafore poetiche da non prendere sul serio nel contesto di un discorso rigoroso, è solo perché oggi risuonano in una visione del mondo che ha pregiudizialmente precluso ogni comprensione che non avvenga sul piano della conoscibilità scientifica.7 Questo aspetto è ulteriormente affrontato nella parte conclusiva della Cristofania: essa svolge un ruolo in gran parte riassuntivo, ma almeno su questo aspetto contiene un chiarimento interessante: il ruolo cosmico di Cristo, se progressivamente messo tra parentesi dalla cristologia, ha però continuato a giocare un ruolo essenziale nella liturgia cristiana, che sottolinea sempre un «oggi» che è transtorico: se il giorno di Natale si afferma che Cristo è nato «oggi» ciò non è per una finzione poetica. Cristo nella fede cristiana è veramente «ieri, oggi e sempre»: l’intuizione che sta al centro della celebrazione cristiana è quella che può e deve anche tornare al centro del discorso su Cristo (non più solo cristologico, ma anche cristofanico). È così che Panikkar può terminare la sua opera enunciando tre compiti ai quali vede chiamata questa impresa:

Se separiamo Gesù Cristo dalla Trinità, la sua figura perde ogni credibilità; egli sarebbe un nuovo Socrate o un qualunque grande profeta. Se scindiamo Gesù Cristo dalla sua umanità, egli diventa un ideale platonico di perfezione e spesso uno strumento di dominio e di sfruttamento degli altri; egli diventa un Dio. Se separiamo la sua umanità dal suo effettivo camminare storico sulla terra e dalle sue radici storiche, lo convertiamo in una mera figura gnostica, che non condivide la nostra condizione umana concreta e limitata.

La coniugazione dei tre è il compito di una cristofania per il nostro tempo (p.  229).

5. Un compito possibile

Giunti al termine di questo esperimento di ricostruzione dell’itinerario di Panikkar nella sua Cristofania, alcune considerazioni si impongono. La prima è molto semplice: è effettivamente possibile esporre in maniera organica e argomentata la proposta di Panikkar senza fare alcun riferimento ai temi del dialogo interculturale e interreligioso che in lui pure sono onnipresenti. Questo era il primo compito che ci eravamo prefissi, che pare andato a buon fine: certo molto minore di quello che Panikkar assegna alla cristofania stessa, ma non privo d’interesse. Chi confrontasse questo tentativo con il testo completo della Cristofania potrebbe certo replicare che ciò è avvenuto in maniera quasi equilibristica: per esempio evitando accuratamente di citare la terminologia sanscrita e le categorie filosofiche orientali che Panikkar invece usa costantemente; poi mettendo tra parentesi il fatto che una delle spinte maggiori, forse la maggiore, della sua impresa è l’esistenza di diverse visioni del mondo (tra cui, in maniera predominante, quella indiana), al cospetto delle quali il tradizionale linguaggio cristologico rischia di restare alieno e incomprensibile; infine trascurando il fatto che il contesto del dialogo tra i popoli è per Panikkar non solo una provocazione intellettuale, ma anche vitale, storica, sociale: il problema della pace è legato a doppio filo con la comprensione reciproca, senza che questa venga tradotta nella formulazione di un quadro di riferimento inglobante in cui tutte le differenze trovino ordinatamente posto (donde, per esempio, la curiosa compresenza di un tono estremamente assertivo con la protesta della provvisorietà e fallibilità delle proposte avanzate).8 Un’interpretazione condotta come una corsa ad ostacoli, si può insomma replicare, non può pretendere di essere adeguata. L’obiezione avrebbe certamente del vero: ma quello che abbiamo voluto suggerire è solo che il discorso di Panikkar mantiene il suo interesse e la sua coerenza anche quando sia isolato da tutto questo. La sua cristofania merita di essere discussa seriamente non solo come un capitolo della teologia del dialogo interreligioso, ma anche come una proposta di cristologia (prendendo questo termine ovviamente in maniera ampia). Si potrebbe anzi avanzare un dubbio sul fatto che il contesto interreligioso in cui Panikkar situa la sua opera non sia alla fine piuttosto incerto e caduco, malgrado la straordinaria conoscenza ed esperienza che egli possiede. Per esempio: fino a che punto le tradizioni religiose che egli cita e alle quali egli si appella sono oggi rilevanti sulla scena mondiale? Il problema consiste da una parte nella presenza di quel campo complesso di fenomeni posti sotto l’etichetta di secolarizzazione (che Panikkar cita solo fuggevolmente un paio di volte: a ciò torneremo), dall’altra nella stessa evoluzione interna delle tradizioni religiose e in ogni caso nell’enorme distanza che esiste tra vette isolate di spiritualità e prassi concreta del sentimento religioso. Probabilmente Sankara rappresenta l’induismo contemporaneo tanto poco quanto Teresa di Gesù (puta caso) rappresenta il cattolicesimo contemporaneo.9 Ciò ovviamente non significa che le religioni non siano rilevanti di fronte alla questione della pace mondiale, ma solo che probabilmente il dialogo interreligioso (che già in sé ha enormi problemi di autocomprensione) ha da dire purtroppo meno di quanto possa apparire. Analoghi i dubbi che potrebbero essere avanzati nei confronti del gemello dialogo interculturale.10

Un’ulteriore considerazione riguarderà allora, più da vicino, quale rapporto possa avere la proposta di Panikkar con i problemi della cristologia contemporanea. Ma quali sono essi? Una breve digressione preliminare è necessaria per una risposta almeno minimamente circostanziata. Anche in questo caso, scegliamo la scorciatoia di limitarci ad un solo testo: l’articolo scritto da Karl Rahner nel 1954 dedicato ai «problemi attuali della cristologia».11 L’onere di riassumere le provocazioni avanzate da Rahner è particolarmente lieve perché è lui stesso che enuncia in otto punti i problemi fondamentali che la cristologia del futuro è chiamata ad affrontare. Il primo consiste nel tentativo di una sorta di «deduzione trascendentale della fede in Cristo»: si tratta di discutere non solo della credibilità dell’oggetto della fede cristiana, ma anche della possibilità da parte di un soggetto di esercitare quest’atto di fede, di ricostruire cioè quale sia la sua apertura nei confronti di essa. Individuare un tale «a priori religioso» (così anche lo chiama Rahner) non significa ovviamente ai suoi occhi sminuire l’importanza dell’elemento storico della rivelazione: ma senza di esso il messaggio storico riguardante Gesù rischia sempre di essere scartato come un elemento mitologico. Il secondo consiste nella costruzione di una «fenomenologia teologica dell’atteggiamento religioso di fronte a Cristo»: di fatto, osserva Rahner, la natura divina ha il sopravvento nella cristologia e, malgrado l’unione che pure è richiesta dal dogma di Calcedonia, l’umanità di Cristo non svolge praticamente alcun ruolo nei trattati teologici. Ma una fenomenologia di questo tipo non solo sarebbe di vantaggio per la vita spirituale, ma risolverebbe anche i problemi che hanno condotto all’appello alla «demitizzazione»: Rahner non approfondisce qui il suggerimento, ma è facile ipotizzare che una diversa collocazione dell’umanità di Cristo escluderebbe in anticipo la richiesta di giungere ad un nucleo «esistenziale» del messaggio evangelico liberandolo del rivestimento concettuale di un’immagine del mondo non più condivisibile. La fede sarebbe infatti, per così dire, fin dall’inizio situata su un piano di umanità. Il terzo problema consiste in una migliore collocazione nel quadro della storia generale delle religioni: non sotto la forma di una «caccia alle somiglianze», ma perché la storia delle religioni testimonia appunto quell’apertura trascendentale che il primo problema ha evocato. Era questa del resto l’intuizione dei Padri della Chiesa che hanno visto il Logos divino all’opera dall’inizio della creazione. La quarta sfida consiste in un maggiore interesse verso i «misteri della vita di Cristo», lasciati in ombra da una cristologia condotta lungo le linee di un «astratto formalismo»: ma in questo modo è l’intera natura umana di Cristo che riceve un’attenzione troppo esigua, limitata ai suoi aspetti «straordinari» e non considerata nella sua compenetrazione con quella divina (Ek-sistenz, scrive Rahner). La vera domanda da porre non è sull’interesse per l’uomo della straordinaria vita di Cristo, ma piuttosto sull’interpretazione della nostra vita: «che cosa significa la nostra vita, questa vita che in fin dei conti non riusciamo a comprendere quando esaminiamo noi stessi, per quanto possiamo avere famigliarità con essa, che cosa significa, giacché essa è in primo e in ultimo luogo la vita di Dio? ». Il quinto problema riguarda in particolare la soteriologia: così come il resto della sua vita, anche la passione di Cristo riceve un’attenzione solo superficiale sulla base del presupposto che qualsiasi sua azione morale avrebbe potuto essere accettata da Dio come salvifica. Ma in questo modo il rapporto tra morte di Cristo e redenzione viene ridotto ad una pura formalità e non solo il significato umano della morte viene aggirato, ma anche il rapporto tra l’unione delle due nature di Cristo e la redenzione rimane enigmatico. Il sesto problema racchiude due temi correlati: quello della singolarità di Cristo e quello della sua collocazione nel tempo. In entrambi i casi si tratta di interrogarsi (senza rifugiarsi troppo rapidamente nella volontà divina) sulla unicità di Cristo: perché esiste una sola incarnazione e una sola divino-umanità? e che cosa significa il fatto che c’è senza dubbio un’evoluzione del cosmo e dell’uomo, e che tuttavia l’incarnazione ne rappresenta il culmine? Significa ciò forse che «l’irruzione di Dio nel mondo e l’apertura radicale del mondo alla libera infinità di Dio in Cristo» è sì già avvenuta, ma deve ancora pienamente rivelarsi? Il settimo problema riguarda la connessione della cristologia con le altre discipline teologiche (il che significa anche, in generale, mettere in questione la divisione e il reciproco rapporto di tutte le discipline). Ciò è vero per Rahner soprattutto in alcuni casi: per esempio nella trattazione della grazia, la quale dovrebbe essere maggiormente intesa nell’ambito di un’assimilazione a Cristo. Come si afferma che l’anima umana di Cristo possedeva una grazia santificante, così si dovrebbe affermare inversamente che la grazia nell’uomo è «il dispiegamento all’interno della natura umana dell’unione dell’umano con il Logos». L’ottavo problema riguarda infine le «criptoeresie», cioè il modo in cui la dottrina su Cristo viene erroneamente concepita nel credente comune. In questo modo gli accenti della ricerca teologica potrebbero essere corretti e si riconoscerebbe che temi apparentemente marginali sono invece della massima importanza: una teologia veramente più scientifica è insomma già di per sé una teologia più «kerygmatica», maggiormente orientata all’annuncio.

6. La cristofania e il futuro della cristologia

Per procedere, così come abbiamo fatto con il testo di Panikkar, cerchiamo di mettere tra parentesi la provocazione specificamente interreligiosa. Ovviamente, è necessario quindi prescindere dal terzo problema, in cui questa prospettiva è esplicitamente nominata. Ma che cosa fare del primo (una deduzione trascendentale della fede in Cristo) e del sesto (la singolarità di Cristo e la sua collocazione nel tempo)? Evidentemente sono connessi strettamente al tema del dialogo interreligioso, in un caso perché ne vengono stabilite le condizioni, nell’altro perché ne vengono indicati i limiti: questi nessi potrebbero indurre a ritenere artificiale qualsiasi tentativo di scorporare dal campo problematico della cristologia una prospettiva interreligiosa. È però possibile ragionare anche in maniera contraria e rilevare come le dimensioni teoretiche che costituiscono l’impalcatura del dialogo interreligioso in prospettiva cristiana sono in realtà già di per sé problemi teologici, e più precisamente problemi cristologici. Ciò che esprime condizioni e limiti (in negativo) del dialogo interreligioso esprime anche condizioni e limiti (in positivo) del discorso cristiano. Tali interrogativi insomma esisterebbero anche se non ci fossero altre religioni con le quali confrontarsi.

Nel primo caso, che è quello determinante, ciò è testimoniato da Rahner stesso, il quale introduce il problema di una deduzione trascendentale della fede in Cristo al primo posto: il problema è quali siano le condizioni all’interno delle quali possa avvenire qualcosa come il riconoscimento dell’eterno nella temporalità, il riconoscimento del senso nella casualità, la possibilità di una decisione totale della propria vita nell’orizzonte di una frammentazione apparentemente insuperabile. Tra gli otto problemi elencati da Rahner, questo primo in effetti riceve da lui in maniera più evidente elaborazione, nelle lezioni sulla filosofia della religione Uditori della parola.12 Ma anche se si ritenesse insufficiente o inaccettabile la soluzione di Rahner, la questione che viene posta è certamente cruciale: nella domanda sulla «credibilità», che è implicita in qualsiasi discorso teologico (teologico-fondamentale, con terminologia più moderna) è implicita l’assunzione di una modalità particolare di rapporto al creduto. Pure se il credere fosse semplicemente classificato come una forma di conoscenza, ciò non toglierebbe l’opportunità di chiarire che cosa sia la conoscenza, quali siano i caratteri di questa forma, e perché proprio questa forma avrebbe il privilegio di incontrarsi con ciò che viene affermato dal soggetto come decisivo per la sua esistenza.

Analoghe sono le considerazioni che potrebbero essere avanzate riguardo alla singolarità di Cristo: certo, la domanda compare ogniqualvolta è sul tavolo un confronto con altre esperienze religiose. Ma è nondimeno presente esattamente al centro della pretesa cristiana: pure se, sulle orme di Kierkegaard, si volesse affermare che esattamente in questo paradosso e nel suo carattere sfuggente nei confronti della ragione si trova il punto cruciale della fede cristiana, non parrebbe illecito chiedersi appunto quale sia il senso di questo paradosso, perlomeno dal punto di vista umano (cosa che per esempio Kierkegaard stesso fa nella sua Postilla), piuttosto che spiegarlo (o non spiegarlo) semplicemente con il ricorso a quell’asylum ignorantiae che è la volontà divina. Forse, ancor più che non illecito: necessario, se è interessante non soltanto definire formalmente il contenuto della fede, ma anche vederne il significato umano. Perlomeno questo pare, espressa in termini appena un poco diversi, il senso stesso dell’impresa di Rahner: pure se, ripetiamolo, si reputassero i suoi esiti inaccettabili per un qualsiasi ordine di motivi.

Ora, è interessante vedere che praticamente tutte le domande di Rahner ricevono una qualche risposta nella Cristofania di Panikkar. Già una loro sintesi inevitabilmente ha riecheggiato diversi aspetti della sua proposta. La deduzione trascendentale della fede in Cristo viene riformulata in un’antropologia mistica, nella quale la condivisione dell’esperienza totale di Cristo è identificata con la pienezza dell’umano (il che, analogamente a quanto accade in Rahner pure se per strade differenti, porta ad allargare la possibilità di una relazione a Cristo di là dai confini del cristianesimo istituito). La fenomenologia teologica dell’atteggiamento di fronte a Cristo è il nome che si potrebbe dare all’intero tentativo di Panikkar di interpretare l’esperienza mistica come unità con Cristo, a partire proprio (come voleva Rahner) dalla sua umanità che rende possibile questa sorta di empatia pneumatica. I «misteri della vita di Cristo» ricevono di per sé limitata attenzione nella Cristofania: ma questa è compensata dallo straordinario interesse per l’umanità della vita di Cristo e per il significato che essa può avere per il credente: «la nostra impresa non è un problema da risolvere, ma una vita da vivere» (p.  105), scrive Panikkar. La soteriologia è decisiva nell’interpretazione del culmine dell’esperienza mistica di Cristo, in cui egli dà un senso alla propria morte come estremo svuotamento di sé che permette l’invio dello Spirito: la perplessità di Rahner sul formalismo della dottrina della salvezza riceve dunque una risposta a suo modo perentoria.13 Il tema della singolarità di Cristo e della sua unica collocazione del tempo viene in Panikkar per così dire capovolto: non si tratta più di dare un motivo, ma piuttosto di mostrare come l’esperienza pienamente umana supera entrambe queste domande: il fatto che Cristo sia unico non toglie che ogni uomo ha la possibilità di vivere la sua stessa esperienza, il fatto che Gesù Cristo sia un personaggio storico non toglie che l’«oggi» nel quale egli continua a nascere è transtorico e abbraccia l’universo intero. La connessione delle discipline teologiche potrebbe essere poi considerata addirittura uno dei motivi ispiratori della proposta di Panikkar: la sua cristofania appare da questo punto di vista come una cristologia riformulata sulla base della teologia della liturgia e dei sacramenti e della teologia mistica, che supera una divisione evidentissima nel discorso tradizionale su Cristo. L’ultima domanda di Rahner trova infine una risposta puntuale nella ricostruzione compiuta degli stalli della cristologia in corrispondenza di antropologie difettose. Insomma: se si dà credito all’acume di Rahner nell’aver individuato i problemi teologici maggiori del Novecento, l’opera di Panikkar può essere letta come un contributo estremamente centrato, anche se ovviamente discutibile, al progresso della loro discussione. Due teologi da accostare? Forse no, o certamente non senza molte cautele: le loro prospettive sono molto diverse. Se però si puntasse l’attenzione sull’elemento centrale del ruolo della mistica nella vita cristiana, non si può fare a meno di ricordare che anche Rahner ha sostenuto che «il cristiano del futuro o sarà un mistico o non sarà»: un’affermazione che forse Rahner desume dallo stesso Panikkar, ma che in ogni caso fa propria.14 Tutto questo, ripetiamolo per chiarezza, indipendentemente dalla questione del dialogo interculturale e interreligioso.

7. Non sarà questa la buona novella?

Una terza considerazione riguarda invece la pertinenza del discorso di Panikkar nella scena culturale contemporanea. La questione non equivale (purtroppo) a quella a cui abbiamo appena dato risposta: la teologia cristiana, per molti motivi, ha una cittadinanza difficile nella cultura di oggi, e nel XXI secolo molto più di quanto ciò poteva apparire nella seconda metà del secolo XX. Più di un osservatore attento ha annotato che la teologia cristiana oggi sembra semplicemente scomparsa dal panorama, incapace di produrre idee che oltrepassino il circolo degli addetti ai lavori. Ma la questione non equivale neppure a quella dell’impegno interreligioso di Panikkar: in parte per i motivi cui abbiamo già accennato, in parte perché la questione del dialogo tra religioni pare scavalcato dal montare sulla scena pubblica di un’antropologia secolarizzata che potrà sì trovare alleanze strategiche con il discorso religioso (puta caso: nella questione ecologica), ma che in fondo non sa che farsene di ciò che è specifico di ogni tradizione religiosa. A che pro spendere tante forze per un dialogo quando pragmaticamente è molto più semplice e (almeno apparentemente) più efficace mettere fuori gioco il religioso in quanto tale, lasciandolo alla sfera individuale dove la questione del dialogo è inutile per definizione? Il «culturale» non avrebbe in ciò una sorte migliore, ridotto ad elementi poco più che folclorici per i quali è facile e innocuo sostenere che «le differenze sono una ricchezza». Ancora una volta, quindi, tentare una lettura di Panikkar indipendentemente da questa visione può essere fruttuoso, anche per verificare se preoccupazioni per lui vivissime e senza dubbio centrali nella scena mondiale di oggi (per esempio quella della pace, o della giustizia sociale) possano trovare adito nella sua proposta anche indipendentemente dall’afflato interculturale.

Qui ci pare che una risposta possa esplorare due vie. La prima è quella personale. Abbiamo già notato che Panikkar, seppure tra formulazioni oscillanti, ha poca simpatia per il metodo storico-critico; la scarsa simpatia è anzi esattamente argomentata e fa parte del nucleo della sua proposta. Tuttavia ciò non deve nascondere il fatto che su un certo piano egli condivide quasi perfettamente uno degli intenti alla base del successo del metodo storico-critico: quello di ritrovare Gesù nella sua umanità concreta, e a partire da questa scoperta riformulare il valore che egli può avere per gli uomini d’oggi, di là da una tradizione dogmatica che potrebbe velare questo valore più che renderlo evidente attraverso una codificazione concettuale. Da questo punto di vista il nome più significativo è ovviamente quello di Rudolf Bultmann. Ora, è interessante che Panikkar, pur senza prenderne in esame il pensiero, lo inserisca nell’elenco dei suoi ispiratori per ben due volte (una volta come teologo, una volta come filosofo), e in una nota (p.  117, nt. 89) lo porti come testimone del fatto che una conoscenza oggettiva di Cristo si scontra con limiti insuperabili. Ma c’è anche un altro debito, seppure dialettico, che Panikkar pare avere nei suoi confronti: l’importanza data alla visione del mondo come possibile orizzonte di comprensione delle parole di Gesù. Se nel suo celebre manifesto della demitizzazione Bultmann affermava che la moderna visione scientifica del mondo impedisce di dar credito alla lettera del Nuovo Testamento, che usa un linguaggio e una concettualità «mitologici», Panikkar sostiene che la moderna visione del mondo impedisce radicalmente la comprensione di Cristo: sia perché istituisce un metodo sbagliato di approccio alla persona, che mai potrà raggiungere la sua identità, sia perché la comprensione della realtà che essa impone mette preliminarmente fuori gioco proprio quella prospettiva mistica che alla fine è invece determinante.15 Le due affermazioni sono meno diverse di quanto appaia, sia perché Bultmann, malgrado l’ambiguità della primitiva formulazione, intende in realtà affermare che il messaggio cristiano dev’essere formulato e compreso indipendentemente da qualsiasi visione del mondo (dunque pure da quella scientifica), sia perché la sua soluzione consiste nell’individuare alla fine uno strato esistenziale, che dica qualcosa essenzialmente dell’uomo e della sua posizione di fronte alla realtà. Che Panikkar nel suo testo usi molte volte e senza la minima remora l’aggettivo «esistenziale» per indicare il carattere di diversi passaggi del suo discorso non deve quindi meravigliare, e colloca la domanda sulla pertinenza culturale della cristofania esattamente in questo punto: in che misura sia rilevante un approccio che interpella sulla possibilità di effettuare in maniera trasformante un’esperienza di sé che sia contemporaneamente esperienza della realtà. La crisi del paradigma scientifico, malgrado i suoi continui successi nel campo della comprensione della realtà e delle applicazioni tecnologiche, è ormai proclamata da decenni: forse la lettura di Panikkar induce a chiedersi se in questa crisi, per un gioco di specchi, non venga semplicemente vista la crisi della comprensione dell’uomo, per la quale alla fine vi è un interesse molto maggiore di quanto si vorrebbe far credere.

Una seconda via da esplorare è quella sociale. Già abbiamo osservato che i cenni in proposito di Panikkar appaiano più dichiarazioni di intenti che elementi convincenti e sviluppati. Se insomma si è potuta scrivere, in maniera a suo modo convincente, una pedagogia dell’oppresso, appare di primo acchito molto meno chiaro che cosa possa essere una «mistica dell’oppresso». Hic Rhodus, hic salta! Nell’opera che abbiamo considerato c’è, se non erriamo, un unico passo in cui questo compito traluce con un contorno più definito. Ciò avviene laddove Panikkar osserva come la disponibilità a diventare «pane di vita» passa attraverso un’esperienza personale accessibile ad ogni essere umano:

Anche se lontano dall’essere eucaristico, pane di vita per gli altri, e molto lento nel realizzare che chi entra in contatto con me entra in comunicazione e comunione proprio con la fonte stessa di vita, che in verità dà la Vita a me e a tutti gli altri, o ancora così opaco che non tutti quelli che vedono me vedono il Padre, non posso negare che tutte queste esperienze appartengono anche a me e sono quindi alla portata di ogni essere umano. Non potrebbe essere proprio questa la vera «buona novella»? (p.  155)

L’osservazione finale, seppure formulata in pochissime parole e con tono dubitativo, è degna di essere pensata. Il senso stesso del Vangelo potrebbe consistere alla fine nel riconoscimento della possibilità reale di essere «pane di vita», e non nel senso di un comando etico esteriore, ma di una realizzazione di umanità. Ferma restando la necessità di mediare tutto questo nel drammatico intrico delle prassi del mondo contemporaneo, è difficile negare che in questo appello (che è un appello fondamentalmente alla cura della persona, all’educazione alla sua preziosità e al suo mistero) vi sia qualcosa di decisivo per la pace come problema mondiale.


  1. Raimon Panikkar, La pienezza dell’uomo. Una cristofania, Jaca Book, Milano 1999. Nel seguito indicheremo questo testo anche con il suo sottotitolo Cristofania: non si confonda però con quello che Panikkar liquida come «un opuscolo frettolosamente pubblicato» (p. 181) con questo titolo (EDB, Bologna 1994), che costituisce una prima stesura della terza parte del volume del 1999. ↩︎

  2. Rudolf Schnackenburg, Das Johannesevangelium, 4 voll., Herder, Freiburg i.B. 1965-1984; trad. it. di Gino Cecchi, Il vangelo di Giovanni, 4 voll., Paideia, Brescia 1973-1987; qui vol. 2, p. 709. Il commentario venne in realtà terminato con il terzo volume nel 1975. Il quarto contiene appendici e integrazioni che non mutano questa presa di distanza: anzi, essa viene in particolare applicata al discorso sul «pane del cielo» per affermarne, a differenza da altri interpreti, l’estraneità ad una visione mistica. Come vedremo, questo sarà invece uno dei punti forti della lettura di Panikkar, pur non facendo lui in questo caso diretto richiamo alle parole di Giovanni. ↩︎

  3. Jey[aseelan] J[oseph] Kanagarj, Mysticism in the Gospel of John: An Inquiry Into Its Background, Sheffield Academic Press, Sheffield 1998 (il testo deriva dalla omonima tesi di dottorato dell’autore, presentata tre anni prima al Dipartimento di Teologia dell’Università di Durham). Il nome dell’autore tradisce la sua origine indiana e può indurre a sospettare che, più o meno come nel caso di Panikkar, la sua provenienza culturale abbia svolto un ruolo nella lettura di Giovanni. In effetti è interessante che Kanagarj, nel presentare il suo lavoro di dottorato, nota che un ruolo c’è stato sì, ma negativo: «The Gospel of John first excited my deep interest during teaching and interaction with students in the Union Biblical Seminary, Pune, India. In particular, I found that the fascinating theme “Johannine mysticism”, had been given little previous attention. I then started to study this subject in depth, in particular in the light of the Hindu understanding of “mysticism”. […] As I progressed with my research, I soon realized what an ambigious word “mysticism” is. I became convinced that my own understanding of “mysticism” as “union with God” is irrelevant for understanding the “mystical” thought of a document that belongs to the late first century C. E.» (p. IX: nella molto più ampia prefazione del volume del 1998 questa annotazione biografica viene omessa). Panikkar non pare citare mai Kanagarj (né, prevedibilmente, avviene il contrario): le due prospettive sono in effetti molto diverse. È però vero che con questo studio viene convincentemente messo in crisi un presupposto che potrebbe far accantonare il tentativo di Panikkar come metodologicamente incongruo, senz’alcuna analisi di merito. Una linea simile è stata poco più tardi portata avanti da April D. DeConick, Voices of the Mystics. Early Christian Discourse in the Golspels of John and Thomas and Other Ancient Christian Literature, Sheffield Academic Press, Sheffield 2001. Su un piano diverso vedi anche Jean-Christian Petitfils, Jésus, Fayard, Parigi 2011, che ha sostenuto il primato storiografico del vangelo di Giovanni sui sinottici e l’attendibilità dei discorsi di Gesù ivi contenuti: tesi ovviamente controversa, ma degna di attenzione e sostenuta con argomenti puramente storici. Se si volessero invece indicare alcune proposte di lettura al di fuori di una prospettivo storico-critica, c’è l’imbarazzo della scelta: possiamo per esempio citare Juan Mateos, Juan Barreto, Juan: Texto y comentario, Cristiandad, Madrid 1979; trad. it. ampliata e migliorata di Teodora Tosatti, Il vangelo di Giovanni. Analisi linguistica e commento esegetico, Cittadella, Assisi 1982 (in una prospettiva strutturale-teologica); John A. Sanford, Mystical Christianity: A Psychological Commentary on the Gospel of John, Crossroad, New York 1993 (in una prospettiva psicologica junghiana); e Demetrius Dumm, A Mystical Portrait of Jesus: New Perspectives on John’s Gospel, The Liturgical Press, Collegeville 2001 (in una prospettiva mistica). ↩︎

  4. Per esempio: «Questa conoscenza ha i suoi pericoli che non dovrebbero essere ignorati: allucinazioni e fantasticherie patologiche di ogni tipo. E anche i suoi limiti: il tu partecipa della coscienza allo stesso modo dell’io, ma i due sono distinti e non possono essere ridotti a uno. […] La storia del misticismo è piena di esempi di confusioni false e malsane. L’io e il tu non sono solo interdipendenti, ma “interindipendenti”, come nella Trinità. Possiamo conoscere il tu, benché non penetreremo mai completamente in un’altra coscienza proprio perché ciascuno di noi partecipa in modo unico di quella stessa coscienza» (p. 98). Sulla base di queste e simili affermazioni (e anche per esempio della un po’ sorprendente assenza di qualsiasi riferimento a Nicholas Cabasilas, malgrado la ripetuta citazione — quattro volte — del tema della «luce taborica»), si potrebbe ipotizzare che la distanza di Panikkar da posizioni come quella sopra esemplificata da Rudolf Schnachenburg sia meno grande di quanto appaia. Certamente il «mistico» in Panikkar pare non aver niente a che fare con una esperienza sensibile preternaturale. ↩︎

  5. Mentre non giunge inatteso il rituale riferimento a Sartre e alla sua concezione del fallimento tragico dell’amore, un po’ stupisce l’evidente allusione a Levinas, il quale peraltro viene incluso all’inizio dell’opera in un elenco di autori ai quali Panikkar si dichiara debitore per aver riportato sulla scena il problema dell’humanum (costoro sono, citati in ordine alfabetico, Balthasar, Barth, Bonhoeffer, Brunner, Bultmann, Congar, Feuerbach, Garrigou-Lagrange, Jaspers, Levinas, Lonergan, de Lubac, Mancini, Rahner, Scheeben, Schmaus, Tillich: autori peraltro differentissimi tra loro, che testimoniano l’ampiezza di interessi di Panikkar e la sua profonda conoscenza, se ci fosse bisogno di prova, del pensiero occidentale). A ben vedere tale osservazione non è però peregrina e soprattutto non completamente aliena dalle intenzioni di Levinas, che non rifiuterebbe le conseguenze che gli attribuisce Panikkar. Come è noto, la stessa parola «amore» ha una presenza molto fragile nel lessico di Levinas, indicato in genere come qualcosa che non ha nulla a che fare con l’etica. Ciò che probabilmente questi avrebbe da replicare è che l’etica è assolutamente e direttamente esperienza di Dio e che l’orientamento all’altro è esattamente effetto del rimando che Dio stesso effettua, in quanto trascendente, per mantenere la sua trascendenza e non lasciarla inglobare in qualche rappresentazione o in qualche autonomia del godimento. Questa è l’idea sviluppata nel cruciale «Dieu et la philosophie», Le Nouveau Commerce, nn. 30-31, 1975, pp. 95-128, poi incluso in De Dieu qui vient à l’idée, Vrin, Paris, 1982, pp. 93-127. La lettura di questo testo potrebbe essere del resto utile per porre inversamente una domanda a Panikkar: quanto cioè la sua esperienza mistica, quantunque ben distinta dalla conoscenza intellettuale, non cada nel medesimo paradigma della «rappresentazione» da cui evidentemente vorrebbe affrancarsi (ciò che per esempio Levinas rimprovera, pur senza nominarlo, a Karl Barth). La risposta sarebbe probabilmente negativa, ma argomentarla servirebbe a rendere più chiaro perché l’esperienza mistica, se concepibile in generale, non possa essere intesa come una super-conoscenza. ↩︎

  6. Notiamo incidentalmente che Panikkar dà per ovvia la tradizionale interpretazione del celebre passo di Ev.Luc. 17,21, contro quella più comune in epoca contemporanea «il Regno dei Cieli è in mezzo a voi» (o varianti). Che quest’ultima lettura sia più fondata è tutt’altro che certo: vedi per esempio la mole di documentazione portata in Ilaria Ramelli, «Luke 17:21: “The Kingdom of God is inside you”. The Ancient Syriac Versions in Support of the Correct Translation», Hugoye: Journal of Syriac Studies, n. 12/2 (2009), pp. 259-286 (non solo dal punto di vista della traduzione siriaca, come annuncia il titolo). È uno dei casi in cui viene il sospetto che non un’interpretazione mistica sia preclusa dal metodo storico-critico, ma piuttosto che questo sia stato di fatto influenzato da un pregiudizio anti-mistico. ↩︎

  7. È per questo che, se non erriamo, Panikkar sembra avere scarsissima simpatia per il tentativo di Pierre Teilhard de Chardin, che a prima vista parrebbe un buon compagno di strada sia in una comprensione mistica di Cristo, sia ovviamente nella sottolineatura del suo ruolo cosmico. Nella sua Cristofania, a fronte di un’unica citazione esplicita di Teilhard de Chardin, considerato come rappresentante di una spiritualità che ha posto l’accento sulla divinità di Cristo (ma non sulla sua umanità), le prese di posizione polemiche e argomentate contro il pensiero evoluzionistico sono diverse e inequivocabili: questo, indipendentemente dai suoi meriti scientifici, sarebbe solo il segno dell’«invasione» della mentalità oggettivo-scientifica quando tenta di interpretare la stessa coscienza umana come un prodotto dell’evoluzione, misconoscendo quindi l’assoluta differenza tra animali e uomo: solo questo può divinizzarsi. ↩︎

  8. Per esempio: «Questo scritto, comunque, […] non vuole essere polemico o critico di altre posizioni; presenta semplicemente un punto di vista. L’autore è lieto di imparare da altri e di essere eventualmente corretto, sempre pronto ad apprendere meglio, in ampiezza, estensione, altezza e profondità, l’amore di Cristo — che supera ogni conoscenza, perché appartiene al “pleroma” di Dio (Ef III,18-19)» (p. 29). ↩︎

  9. Per sostituire con una battuta quello che sarebbe un lungo discorso: qualche tempo fa venne presentata in un luogo ecclesiale prestigiosissimo una app per portare ai «giovani» la preghiera del rosario («pedagogia tecnologica»), collegata ad un costoso gadget che indossato a mo’ di braccialetto riconosce l’esecuzione del segno della croce e sblocca, come in un videogioco, i «livelli superiori» di rosario, accompagnato, a scelta, da suoni rilassanti o melodie new age: una proposta (si sottolineò) «alla portata di tutti» (esattamente ciò che Panikkar dice dell’esperienza mistica). Mettendo tra parentesi la domanda sull’effettiva sintonia esistenziale di questa proposta con il mondo dei «giovani», che questa presentazione sia avvenuta senza la minima esitazione il 15 ottobre, giorno della festa liturgica di S. Teresa di Gesù, fa sorridere e mostra perlomeno quanta cautela bisogna avere nel ritenere le grandi figure della storia della spiritualità rappresentanti di sensibilità maggioritarie. ↩︎

  10. Ci contentiamo di citare, senza affrontarlo, un problema marginale: ci si potrebbe chiedere se diverse delle difficoltà che vengono sovente rilevate nel discorso teologico di Panikkar (per esempio: una separazione tra «Gesù» e «Cristo» non sempre chiara nella sua estensione e nelle sue intenzioni) non derivino proprio tutte intere dalla componente interreligiosa e se quindi debbano essere addebitate al complesso del suo pensiero: in effetti la nostra ricostruzione di un Panikkar senza interculturalità ha potuto evitarle pressoché interamente. È comunque significativo che il testo di Panikkar possa avere una prefazione elogiativa di uno studioso attento e di incontestata ortodossia come Julien Ries, che oltre ad una messa in guardia riguardo alla complessità del discorso che segue si permette solo la lieve ironia di definirne l’autore «un alchimista del pensiero» (con una probabile allusione alla giovanile laurea in chimica di Panikkar). ↩︎

  11. Karl Rahner, «Chalkedon — Ende oder Anfang?», in Alois Grillmeier, Heinrich Bacht (curatori), Das Konzil con Chalkedon. Geschichte und Gegenwart, vol. 3, Echter, Würzburg 1954, pp. 3-49; ripubblicato come «Probleme der Christologie von heute», in Idem, Schriften zur Theologie, vol. 1, Benziger, Einsiedeln 1954, pp. 169-222. Il fatto che non sia affatto recente, che anzi risalga praticamente agli inizi della produzione teologica matura di Karl Rahner, è controbilanciato dal fatto che egli lo continuò a citare, senza mai prenderne le distanze, fino almeno all’anno 1972 (questa la data del testo più recente delle sue Schriften zur Theologie in cui ancora lo cita espressamente) e dal fatto che i problemi in esso enunciati appaiono (con una vistosa eccezione) ancora compiti aperti all’interno della sua stessa opera, senza nulla togliere ai contributi che egli ha successivamente offerto e alla sintesi del 1976 nel contesto del Grundkurs des Glaubens (vedi al proposito Evelyne Maurice, La christologie de Karl Rahner, Desclée, Parigi 1995, la cui ricostruzione tra l’altro si giova anche di molti scritti inediti). Il testo è comunque unanimemente considerato una pietra miliare nell’evoluzione della cristologia cattolica del XX secolo. Quanto pure l’accostamento tra Rahner e Panikkar sia meno peregrino di quanto a prima vista potrebbe accadere, lo noteremo poi. ↩︎

  12. Karl Rahner, Hörer des Wortes. Zur Grundlegung einer Religionsphilosophie, Kösel, Monaco 1941. Le lezioni qui trascritte vennero tenute da Rahner a partire dal 1937: si potrebbe quindi sostenere che si tratta di una risposta anticipata di ben una quindicina d’anni. Con una piccola esagerazione, si potrebbe anche dire che è l’unico tra gli otto problemi individuati nel 1954 che riceva da lui una risposta definitiva. ↩︎

  13. Ciò ci pare che debba correggere l’impressione secondo cui la cristofania di Panikkar è reticente nei confronti della dottrina della salvezza: vedi per esempio Erik Ranstrom, Bob Robinson, “Without Ceasing to Be a Christian”. A Catholic and Protestant Assess the Christological Contribution of Raimon Panikkar, Fortress, Minneapolis 2017. Nella misura in cui egli ignora la classica teoria della «soddisfazione vicaria», non è poi molto diverso dalla maggior parte dei teologi contemporanei (ivi incluso, per fare un solo nome, Joseph Ratzinger nella sua celebre Introduzione al cristianesimo) e le aporie che si possono rilevare nel suo discorso su Cristo non sono molto diverse da quelle che compaiono nel complesso della teologia contemporanea (su questo abbiamo detto qualcosa in «Un’esecuzione capitale redentrice? Un dialogo a distanza tra Uta Ranke-Heinemann e Karl Rahner», di prossima pubblicazione); in ogni caso sarebbe sbagliato voler fare troppe deduzioni e silentio, soprattutto quando la sua opera viene intesa sulla linea (seppure non nello stile) della tradizionale cristologia che di fatto era più interessata al problema dell’essere di Cristo che al suo ruolo come salvatore. Panikkar inoltre prende evidentemente posizione nell’antica disputa sull’incarnazione del Logos pure in assenza del peccato: riconoscere un ruolo cosmico a Cristo pienamente Dio e pienamente uomo significa evidentemente mettere in primo piano un’idea allargata di incarnazione e dunque non ritenere più il tema della redenzione la porta d’ingresso nella comprensione dell’unione ipostatica. Tutto ciò ovviamente non toglie che si possano avere perplessità sul merito di un’interpretazione che sembra ignorare la maggior parte dei testi neotestamentari in proposito. ↩︎

  14. La celebre affermazione si trova in una conferenza originariamente pronunciata nel 1976: «[…] daß der Christ der Zukunft ein Mystiker sei oder nicht mehr sei» (Karl Rahner, «Zur Theologie und Spiritualität der Pfarrseelsorge», in Idem, Schriften zur Theologie, vol. 14, Benziger, Zurigo 1980, p. 161). Una molto simile era però presente già dieci anni prima: «Der Fromme von morgen wird ein “Mystiker” sein, einer, der etwas “erfahren” hat, oder er wird nicht mehr sein» («Frömmigkeit früher und heute», in Karl Rahner, Schriften zur Theologie, vol. 7, Benziger, Zurigo 1966, pp. 22-23). La derivazione da Panikkar viene sostenuta come certa da Maciej Bielawski, sulla base della testimonianza di Enrico Castelli: «Il 23 ottobre 1962, presso il Collegio Germanico, ha luogo il dibattito tra Karl Rahner e Raimundo Panikkar, condotto proprio da Enrico Castelli. Durante la discussione sul tema storia e teologia, Panikkar a un certo punto afferma che il cristiano di domani o sarà un mistico o non sarà. Non so quale effetto ebbero queste parole lì per lì e cosa veramente intendesse dire colui che le pronunciò. Il fatto è che questa frase, poi inserita nei saggi di Rahner, senza indicarne il vero autore, ha ottenuto un vero e proprio successo tra i teologi cristiani» (Maciej Bielawski, Panikkar. Un uomo e il suo pensiero, Fazi, Roma 2013, p. 102). Comunque stiano le cose (che a quattro anni di distanza Rahner pronunci un’espressione praticamente identica è certo curioso), si tratta di un contatto ideale che varrebbe la pena approfondire. Vedi per esempio Harvey D. Egan, Karl Rahner: Mystic of Everyday Life, Crossoroad, New York 1998 (che non cita mai Panikkar). ↩︎

  15. I tre testi capitali di Bultmann in proposito sono raccolti in traduzione italiana in Rudolf Bultmann, Nuovo Testamento e mitologia. Il manifesto della demitizzazione, Queriniana, Brescia 1970. Le date di pubblicazioni dei rispettivi testi sono 1948, 1952, 1961. È significativo che l’ultimo di essi («Zum Problem der Entmythologisierung», Archivio di Filosofia, 1961, pp. 19-26) è collocato nel contesto di uno dei seminari di filosofia della religione di Enrico Castelli in cui anche Panikkar era coinvolto. Qui Bultmann sottolinea come la demitizzazione nasce dall’esigenza di superare un linguaggio oggettivante e di intendere l’avvenimento di Cristo come realmente presente all’uomo: preoccupazioni che, così formulate, ci sembra siano perfettamente sottoscrivibili da Panikkar. ↩︎