L’omicidio nell’opera di Niccolò Machiavelli: un atto politico

1. Introduzione

La grande fama, propria del pensiero di Machiavelli e delle sue opere è dovuta ad una molteplicità di elementi. Ancora oggi l’opera di Machiavelli genera scalpore in chi la legge, è un punto di riferimento, coloro che ne discutono e che riflettono su di essa sono colpiti da quanto emerge nella prosa, rigorosa e asciutta, dell’autore fiorentino. Così come ancora Machiavelli è accostato in maniera riduttiva ed impropria al concetto di «Machiavellico», senza comprendere le radici proprie di concetti interni al suo pensiero e che certamente a tutta prima generano scalpore nel lettore. L’intenzione di questo lavoro è quella di discutere e riflettere su uno dei concetti più estremi che emerge nei testi di Machiavelli: l’omicidio, o meglio l’omicidio politico. Quanto più alcuni concetti quali quello dell’omicidio, del non tener fede alla parola data, del colorire la inosservanzia sono considerati «machiavellici» nel senso più largamente diffuso tanto più essi invece acquisiscono una peculiarità specifica propria ed interna all’ambito politico definito dall’autore fiorentino.

Ci si concentrerà per la maggior parte sul Principe pur tenendo in considerazione, tramite alcuni accenni, ai Discorsi. Si farà infine riferimento alla breve Descrizione del modo tenuto dal Duca Valentino nello ammazzare Vitellozzo Vitelli, Oliverotto da Fermo, il signor Pagolo e il duca di Gravina Orsini, un testo contiguo ad una parte del capitolo VII del Principe e che risulta utile per comprendere con quale lente Machiavelli legge l’omicidio politico, come lo giudica e all’interno di quali coordinate il giudizio è situato. Non si tratta infatti solo di rilevare come Machiavelli metta nero su bianco un atto così deplorevole, si tratta di capire il come ed il perché lo faccia. E infine di comprendere se ed in che misura questo atto sia poi così deplorevole, in virtù della prospettiva da cui lo si giudica. Affinché si riesca in tutto ciò bisogna assolutamente avvicinarsi con prudenza al concetto in questione. Ciò significa che per capire in che contesto è calato e in che maniera è trattato bisogna prima volgere uno sguardo prospettico alla teoria politica nel suo insieme, per poi soffermarsi su alcuni elementi della pratica politica. Con quali valori si tratta di giudicare un atto così violento e così estremo come l’omicidio politico? Chi deve ricorrere ad un’azione come questa? E per quali motivi? Per rispondere a queste domande allora bisogna avvicinarsi con cautela al discorso del fiorentino. Avvicinarsi con cautela significa capire infatti prima di tutto il problema storico che i testi politici dell’autore intendono affrontare. La soluzione di questo problema storico è allora anche uno dei fini a cui si vuole pervenire. Il problema storico va di pari passo con un altro problema, ovvero il ruolo che la storia stessa gioca come forza argomentativa per Machiavelli. Infine, ci si deve concentrare sul concetto di virtù. Un termine cardine dell’opera di Machiavelli, tanto centrale quanto problematico. Fatto ciò, ovvero solo dopo aver gettato uno sguardo prospettico sull’opera di Machiavelli e solo dopo esserci soffermati su alcuni elementi chiave si può allora porre il problema dell’omicidio politico e del significato che esso assume nei tesi di Machiavelli, nostro punto di arrivo.

2. Il contesto storico e il valore della storia

Il rapporto tra valenza universale di quanto si afferma e definizione di un fatto storico particolare in una prospettiva evenemenziale è un carattere proprio del Principe, che attraversa l’opera nel suo insieme. Le molteplici finalità con cui Machiavelli scrive il Principe fanno emergere e rivelano questo rapporto problematico. La storia ha una molteplice valore nel Principe e senza dubbio adempie a più funzioni. Per comprendere il ruolo ed il valore che la storia assume, per alcuni versi nel Principe, ma più in generale in una prospettiva ampia della teoria politica di Machiavelli possiamo partire dai fini interni al Principe.

Ad iniziare dalla dedica a Lorenzo dei Medici e da quanto emerge nella famosa Lettera1 a Francesco Vettori comprendiamo come il primo fine dell’opera sia privato, con la dedica infatti Machiavelli esplicita il tentativo di ottenere un qualche incarico ed essere riabilitato alla vita politica, dalla quale era stato espulso ed esiliato da Firenze. Come infatti scrive Machiavelli a Francesco Vettori:

Io ho ragionato con Filippo di questo mio opuscolo, se gli era ben darlo o non lo dare; e, sendo ben darlo, se gli era bene che io lo portassi, o che io ve lo mandassi. Il non lo dare mi faceva dubitare che da Giuliano e’ non fussi, non che altro, letto; e che questo Ardinghelli si facessi onore di questa ultima mia fatica. El darlo mi faceva la necessità che mi caccia, perché io mi logoro, e lungo tempo non posso stare cosí che io non diventi per povertà contennendo. Appresso al desiderio harei che questi signori Medici mi cominciassino adoperare, se dovessino cominciare a farmi voltolare un sasso; perché, se poi io non me gli guadagnassi, io mi dorrei di me; e per questa cosa, quando la fussi letta, si vedrebbe che quindici anni, che io sono stato a studio all’arte dello stato, non gli ho né dormiti né giuocati; e doverrebbe ciascheduno haver caro servirsi di uno che alle spese di altri fussi pieno di esperienza.2

Le altre due finalità dell’opera sono certamente più rilevanti a livello teorico e cioè: l’azione del principe e l’esortazione a liberare l’Italia dagli stranieri. La prima è la definizione di quanto il principe deve compiere affinché possa conservare e potenziare lo stato. Qui gli viene in soccorso la precedente pratica politica. Ciò che viene allora espresso nell’opera si basa, come afferma Machiavelli, sull’esperienza e su quanto ha appreso in tanti anni di vita politica. L’esperienza politica direttamente vissuta viene tuttavia sempre mescolata e compenetrata con quanto i testi antichi insegnano sulle vicende umane e sulle leggi della politica. Come emerge da questo passo del Principe, che ben esplica tanto l’utile di Machiavelli nella dedica quanto il metodo di ricerca basato sulla compenetrazione tra studi dei testi antichi ed esperienza delle vicende contemporanee all’autore:

Desiderando io, adunque, offerirmi alla Vostra Magnificenzia con qualche testimone della servitù mia verso di quella, non ho trovato, intra la mia suppellettile, cosa quale io abbi più cara o tanto esistimi quanto la cognizione delle azioni degli uomini grandi, imparate da me con una lunga esperienzia delle cose moderne e una continua lezione delle antique, le quali avendo io con gran diligenzia lungamente escogitate ed esaminate, e ora in uno piccolo volume ridotte, mando alla Magnificenzia Vostra.3

La seconda finalità riguarda invece il tentativo di definire una proposta realisticamente alla portata e realizzabile, ma allo stesso tempo di prospettiva. Un obiettivo politico che, seppur realizzabile (non certamente con facilità), si presenta come proposta utopica. Il secondo obbiettivo viene espresso nel capitolo finale dell’opera, nell’esortazione a pigliare l’Italia.

Entrambi gli obbiettivi mostrano come Il Principe si muove tanto su una prospettiva di circostanza storica del momento (pigliare l’Italia), quanto di definizione di elementi teorici che non derivano direttamente da una contingenza ma che hanno una validità universale (gli antiqui esempli). All’interno di questa stessa prospettiva si colloca il concetto di storia nell’opera di Machiavelli, concetto che ha appunto una duplice valenza.

La riflessione di Machiavelli nasce certamente dal fatto che dopo aver vissuto per anni a diretto contatto con le vicende politiche della Repubblica Fiorentina e in maniera più ampia con la contemporanea situazione politica italiana, si trova ora fuori dai giochi. Le riflessioni più fertili e proficue del realismo politico nascono infatti dai soggetti che, dopo aver preso parte direttamente alle vicende politiche, ne sono stati tuttavia allontanati e, posti in una situazione di distacco, ragionano su queste. È quanto fa Machiavelli, il quale riflette su quanto per lunghi anni ha appreso direttamente e su quanto ha tastato esso stesso con mano. L’esperienza diretta è allora la prima fonte dalla quale si rielabora quanto appreso e si costituisce una teoria. Il contesto storico in cui è calata l’Italia alle soglie del 1500 è l’orizzonte prolifero e fertile entro il quale la riflessione del fiorentino prende forma. In questo senso il primo ruolo che la parola storia gioca entro le opere di Machiavelli può essere definito come contesto storico. Questo contesto storico ha a sua volta una duplice valenza, da un lato è il punto di partenza della meditazione di Machiavelli sulle cose della politica, il punto di avvio di una ricerca basata sull’esperienza concreta dei fatti vissuti, dall’altro lato il contesto storico si configura come una situazione politica ben precisa, l’orizzonte entro il quale si erige la proposta politica del Principe. La situazione politica emerge chiaramente in molti punti dell’opera, dove Machiavelli lamenta la condizione entro cui l’Italia si trova:

così, al presente, volendo conoscere la virtù di uno spirito italiano, era necessario che la Italia si riducessi nel termine che ella è di presente, e che la fussi più stiava che gli Ebrei, più serva ch’è Persi, più dispersa che gli Ateniesi; sanza capo, sanza ordine, battuta, spogliata, lacera, corsa; ed avessi sopportata d’ogni sorte ruina.4

C’è nelle parole di Machiavelli, oltre al dato descrittivo sulla condizione dell’Italia, un chiaro disappunto, se non un giudizio politico, per quanto questa sia stiava e vituperata. Su tale contesto si sviluppa e si erge il capitolo finale del Principe, con il quale l’opera si chiude in uno scatto vitalistico. Machiavelli mostra qui (come anche nei Discorsi) di non essere un pensatore che riflette sullo Stato, ma un pensatore che riflette per lo Stato. Egli avverte con grande lungimiranza le difficoltà che l’Italia, divisa e frammentata, ha nel far fronte alle nuove grandi potenze degli Stati nazional-territoriali, avverte come non può certamente competere per forza ed organizzazione. Avverte come il destino ineluttabile della penisola sia quello di essere preda degli Stati stranieri. È in questo contesto storico ben preciso allora che si costruisce la proposta politica del Principe. Machiavelli sente che l’occasione politica offerta dal contesto storico deve assolutamente essere colta:

Non si debba, adunque, lasciare passare questa occasione, acciò che la Italia, dopo tanto tempo, vegga uno suo redentore.5

La questione della storia allora si presenta anzitutto come contesto storico, il quale si manifesta in una condizione e situazione politica ben precisa, su cui Machiavelli medita. Una situazione politica sperimentata direttamente negli anni passati al servizio della repubblica di Firenze. Il contesto storico tuttavia determina allo stesso tempo una occasione politica che il principe deve sfruttare affinché l’Italia venga riscattata dalla situazione di ruina in cui attualmente versa.

Il ruolo giocato dalla storia tuttavia non si rivela solo dal versante del contesto storico, essa si configura anche come fonte teorica, come afferma Machiavelli nella Lettera a Francesco Vettori:

Venuta la sera, mi ritorno a casa ed entro nel mio scrittoio; e in sull’uscio mi spoglio quella veste cotidiana, piena di fango e di loto, e mi metto panni reali e curiali; e rivestito condecentemente, entro nelle antique corti delli antiqui huomini, dove, da loro ricevuto amorevolmente, mi pasco di quel cibo che solum è mio e ch’io nacqui per lui; dove io non mi vergogno parlare con loro e domandarli della ragione delle loro azioni; e quelli per loro humanità mi rispondono; e non sento per quattro hore di tempo alcuna noia, sdimentico ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottisce la morte: tutto mi transferisco in loro.6

La lezione delle antique cose è allora una fonte teorica da cui Machiavelli continuamente attinge per comprendere le vicende moderne e diventa nella teorizzazione anche una pietra angolare per il principe che agendo guarda alla storia passata come maestra. Ciò emerge chiaramente in molteplici punti del Principe dove, per spiegare le azioni degli uomini grandi e per averne cognizione spesso si ricorre ad esempi storici tratti dall’antichità. Altrettanto emerge nei Discorsi, dove si riflette su ciò che ha fatto grande la Repubblica Romana, sugli equilibri interni e sulla forza delle sue istituzioni. Nel Proemio al libro primo dei Discorsi è presente chiaramente il valore che la storia assume come fonte teorica da cui attingere, come punto di riferimento per comprendere le azioni degli uomini e le vicende moderne sulla scorta della lezione di quelle antique:

…e veggendo de l’altro canto le virtuosissime operazioni che le storie ci mostrono, che sono state operate da e regni e repubbliche antique, […] essere più tosto ammirate che imitate […], non posso fare che insieme non me ne maravigli e dolga.7

Machiavelli sottolinea come nonostante nelle storie antiche siano presenti e si mostrino a noi delle azioni virtuosissime, tuttavia «la politica antica non viene imitata, al limite solo “ammirata”, tanto che la virtù antica è cancellata dal mondo».8 Egli allora non si limita solo a definire il valore della storia nella sua funzione «educativa», ma problematizza la degenerazione dell’imitazione in ammirazione. «La mancata comprensione del “senso” rende impossibile pensare la possibilità dell’imitazione, e viceversa, la sfiducia rispetto alla possibilità di imitare preclude la via alla vera comprensione delle storie.»9 Il quadro allora viene a complicarsi. Afferma ancora Machiavelli:

Donde nasce che infiniti che le leggono, pigliono piacere di udire quella varietà degli accidenti che in esse si contengono, sanza pensare altrimenti di imitarle, giudicando la imitazione non solo difficile ma impossibile; come se il cielo, il sole, li elementi, l’uomini fussino variati di moti, d’ordine e di potenza da quello che gli erono antiquamente.10

Volendo pertanto trarre l’uomini da questo errore bisogna non solo mostrargli la maniera in cui le storie vanno comprese, ma vi è anzitutto bisogno di pensare che «gli uomini, tutti gli uomini, restano uguali tra loro e nel tempo, attraverso le molteplici contingenze del presente e nell’eterno scorrere delle stagioni […]»11. Machiavelli pensa allora che la condizione degli uomini, la struttura passionale e la natura non muti, sia sempre la stessa e perduri nel tempo. Solo pensando ciò allora è possibile cercare la cognizione delle storie, comprendendo il valore della storia nel suo versante teorico ed educativo.

3. La virtù

Dopo esserci soffermati sulla funzione che la storia svolge come punto di riferimento nella cognizione delle cose, dopo aver dato allora uno sguardo prospettico sul piano teorico occorre soffermarci sulla questione della virtù. Un concetto fondamentale attorno al quale ruota la pratica politica per Machiavelli. Comprendere la virtù è altresì fondamentale affinché si esplichino i valori che Machiavelli attribuisce alla politica, ciò insomma che ha fatto e che fa ancora tanto scalpore nei testi del fiorentino. La virtù è infatti la chiave di lettura per comprendere l’omicidio, inteso come atto politico.

Prima di entrare però nel vivo della questione, problematizzando il concetto di virtù, occorre soffermarsi un momento sul rapporto che si instaura tra il piano teorico, che si è appena scrutato nel momento in cui abbiamo riflettuto sul concetto di storia, e piano pratico. Afferma a tal proposito Althusser:

Per cogliere la vera natura di questo dispositivo (frammenti teorici che hanno come centro la formazione di un problema politico) e i suoi effetti, bisogna andare oltre: abbandonare una concezione che considera solo la teoria, per una concezione che prenda in considerazione la pratica, e poiché si tratta qui della politica, la pratica politica.

Per rapporto politico intendo non un rapporto di teoria politica, ma un rapporto di pratica politica. Il fatto che questo rapporto di pratica politica metta in gioco elementi di teoria politica è per Machiavelli una necessità della pratica politica stessa. Ma è solo il punto di vista della pratica politica che fissa la modalità del rapporto con gli elementi della teoria politica, e la modalità e il meccanismo degli elementi della teoria politica stessa.12

Il rapporto tra piano teorico e piano pratico è fondamentale. Althusser afferma che è una necessità della pratica politica mettere in gioco elementi propri della teoria politica. Uno degli approcci di Machiavelli (perché è pretensioso e riduttivo ritenere di poter leggere Machiavelli pensando che l’approccio alle molteplici tematiche sia univoco), come emerge dai fini del Principe è certamente un approccio di pratica politica. Machiavelli riflette per lo Stato, riflette su ciò che è utile o dannoso al mantenimento dello Stato, ed è solo all’interno di quest’ottica che delineano e si desumono gli strumenti della teoria politica. Questi strumenti sono però a servizio della pratica politica e del fine dell’azione politica. La riflessione di Machiavelli è allora una riflessione che, in quanto politica, riconduce tutti i concetti alla loro modalità politica. Ciò è emerso con la storia, come si è visto nella sua molteplicità e pluralità di forme. Ed è quanto evidenzieremo nel caso specifico della virtù e dell’omicidio. Due concetti appartenenti alla pratica politica.

Perché si possa comprendere l’omicidio, in quanto omicidio politico, dobbiamo prima interrogare la virtù e comprendere ciò che consegue da un’analisi generale del concetto. Poiché è all’interno di questa nozione, fonte di senso della pratica politica, che si può comprendere l’omicidio politico. Il valore della virtù determina infatti in maniera diretta il senso dell’omicidio politico e il valore stesso di quest’ultimo.

Poiché si è detto che la riflessione di Machiavelli riconduce i concetti alla loro modalità politica, ovvero tutti i concetti sono intesi nella loro accezione e qualità politica, la stessa virtù è virtù politica. Cercare di comprendere il senso che la virtù assume nei testi di Machiavelli significa cogliere il senso puramente politico del termine. «La virtù, che così entra in scena, deve essere anche un’arte, sempre in grado di adeguarsi al nuovo che nasce e sottrarlo al disordine. Se designiamo con il nome di fortuna l’insieme delle forze esterne, per indicare la molteplicità dei fattori che interagiscono ma in modo disordinato e con il nome di virtù, l’abilità di ordinare la materia, allora si può dire che il divenire e la virtù, insieme, determinano l’ambito per eccellenza dell’agire politico.»13 Dal capitolo XV al capitolo XXIV del Principe Machiavelli concentra la propria argomentazione sulle qualità del principe, qualità che in maniera più ampia potremmo definire proprie dell’uomo politico. Attraverso le qualità definite in questi capitoli si evince come l’agire politicamente virtuoso sia per lo più scisso da quelli che sono i valori tradizionalmente intesi. Per tradizionalmente intesi possiamo intendere certamente tutti i valori che vengono ricondotti per esempio alla regola aurea «non fare agli altri ciò che non vuoi sia fatto a te». In questi capitoli invece emergono dei consigli, dei precetti totalmente altri dai valori tradizionali della morale e del senso di «bene». È proclamata l’autonomia della politica, la piena indipendenza dalla morale. Ciò che è giusto politicamente, e per giusto politicamente Machiavelli intende ciò che è utile alla conservazione dello stato, non sempre coincide con ciò che è moralmente giusto. Come afferma Machiavelli nel capitolo XV, uno dei più permeanti e sorprendenti del Principe:

Ma sendo l’intento mio scrivere cosa utile a chi la intende, mi è parso più conveniente andare drieto alla verità effettuale della cosa, che alla immaginazione di essa. E molti si sono imaginati republiche e principati che non si sono mai visti né conosciuti essere in vero; perché egli è tanto discosto da come si vive a come si dovrebbe vivere, che colui che lascia quello che si fa per quello che si dovrebbe fare impara piuttosto la ruina che la perseverazione sua: perché uno uomo che voglia fare in tutte le parte professione di buono, conviene rovini infra tanti che sono buoni. Onde è necessario a uno principe, volendosi mantenere, imparare a potere essere non buono, e usarlo e non l’usare secondo la necessità.14

Da queste poche parole, asciutte e dense di significato (in un paese come il nostro abituato a fare bagni nella retorica), emerge che è molto più utile, ai fini della conservazione dello stato, agire secondo l’utile e la necessità, indipendentemente dai valori propri della morale. Molti hanno trattato della politica rincorrendo il «dover essere» e non tenendo conto del fatto che agendo secondo il bene moralmente inteso si è destinati a ruinare. La necessità impone all’uomo politico di dover agire per la perseverazione sua. Bisogna agire per il perseguimento di un fine che a volte necessita anche di imparare a potere essere non buono. È interessante rilevare come in queste pagine Machiavelli utilizzi il concetto di bene secondo la morale tradizionale, per poi tuttavia negare l’utilità di questo bene in sede politica, a favore di un sistema di valori totalmente altro. L’indipendenza della sfera politica da quella morale è definita dunque dall’incongruenza tra bene tradizionalmente inteso e ciò che è bene politicamente inteso (ovvero ciò che è utile alla conservazione e al mantenimento dello stato). Lo strappo tra morale e politica non è uno strappo totale al contrario di quanto notoriamente si intende con machiavellico. Morale e politica sono essenzialmente due ambiti separati, con sfere di influenza e ordini interni rispettivamente propri. Sottomettere allora sul piano teorico la politica alla morale significherebbe sul piano pratico per Machiavelli condannarsi politicamente. Bisogna infatti non partirsi dal bene, potendo, ma sapere intrare nel male, necessitato.15 Allo stesso modo però il fine è sempre quello del mantenimento dello stato e quindi un fine socialmente valido:

Et etiam non si curi di incorrere nella infamia di quelli vizii sanza é quali possa difficilmente salvare lo stato; perché, se si considerrà bene tutto, si troverrà qualche cosa che parrà virtù, e seguendola, sarebbe la ruina sua; e qualcuna altra che parrà vizio, e, seguendola, ne riesce la securità e il bene essere suo.16

In questo passo emerge chiaramente come ciò che noi intendiamo vizii, non solo sono utili per mantenere lo stato, ma a volte risultano necessari. La virtù allora viene definita come il valore utile al mantenimento dello stato, un valore che si esplica nella condizione della circostanza dell’azione politica. Questa pratica è totalmente slegata dalla virtù moralmente e tradizionalmente intesa, anzi, se fosse ancorata a quest’ultima sarebbe la ruina sua. Per riprendere quanto affermato nella citazione di Althusser riguardante il legame tra teoria politica e pratica politica, la stessa virtù risulta essere un concetto di teoria politica. Questo concetto tuttavia è messo in gioco e definito dalla pratica politica, la quale fissa la modalità del rapporto con gli elementi della teoria politica.

Nel corso dei capitoli Machiavelli definisce e fissa in maniera concreta, dettagliata e minuziosa il concetto di virtù, affermando: quanto il principe debba evitare il disprezzo e l’odio, quanto debba essere più temuto che amato, quanto sia meglio essere parsimonioso che liberale e quanto egli debba fare attenzione all’esercito e alla religione come strumenti di potere politico. Ciò che è assolutamente fondamentale, e che Machiavelli non smette mai di sottolineare, è quanto sia importante per il principe da un lato non tenere fede alla parola data, se ciò gli risulta politicamente conveniente, dall’altro avere il favore del popolo, poiché senza quest’ultimo certamente si ruina. La virtù politica è allora per Machiavelli, come afferma Cerroni17:

questa complessa capacità di fronteggiare l’insieme oggettivo-soggettivo della storia orientandolo mediante un progetto che faccia forte lo Stato. Ma per far forte lo Stato il politico non deve soltanto mutare se stesso adempiendo ai tempi: deve farlo tutelando il Bene Comune perché a uno principe è necessario avere el populo amico; altrimenti non ha, nelle avversità, remedio.18.

La virtù in conclusione è un concetto della teoria politica, che tuttavia non può svelare la propria essenza sul piano teorico, ma si dispiega per quello che è nella pratica politica, manifestandosi nella singolarità dell’azione e nella scelta del mezzo più idoneo al perseguimento del proprio fine, sia anche moralmente disprezzabile ma politicamente lecito.

4. L’omicidio

Tra i vari esempi presenti nel Principe Machiavelli afferma che le azioni compiute da Cesare Borgia, figura con la quale egli ha avuto diretti contatti, siano le migliori che si possano indicare ad un principe nuovo. Nelle azioni di Cesare Borgia, da cui dunque si deve trarre ispirazione, troviamo allora il dispiegamento dell’azione virtuosa. Afferma Machiavelli:

io non saprei quali precetti mi dare migliori a uno principe nuovo, che lo esemplo delle azioni sua: e se gli ordini suoi non profittorono, non fu sua colpa, perché nacque da una estraordinaria ed esprema malignità di fortuna.19

Senza soffermarci sul rapporto complesso che vi è tra virtù e fortuna, che necessiterebbe di lunghe considerazioni, possiamo concentrarci direttamente su quali siano le azioni politicamente virtuose di Cesare Borgia. Attraverso le azioni del Valentino, e alcuni altri esempi, possiamo comprendere che posizione assume l’omicidio politico in relazione alla virtù, e come questo atto sia giudicato da Machiavelli. Prima di entrare in media res, e trattare quanto il Valentino ha compiuto in materia di omicidio politico, bisogna tenere presente come questo concetto sia largamente diffuso e presente nei tesi di Machiavelli. Nel capitolo III del Principe per esempio, nel momento in cui si discorre sui mezzi utili al mantenimento di un principato nuovo appena acquisito, Machiavelli afferma senza troppi problemi che:

Quando é sieno, è facilità grande a tenerli, massime quando non sieno usi a vivere liberi; e a possederli securamente basta avere spenta la linea del principe che li dominava…20

Si evince allora come una delle azioni politicamente utili e quindi virtuose, nel momento della conquista di un principato nuovo, è quella dell’estinzione della dinastia che regnava precedentemente. L’omicidio, in questo caso addirittura di un’intera linea familiare, è necessario affinché non sorgano problemi nello stato acquisito. Un altro esempio è presente invece nel capitolo IX del primo libro dei Discorsi, laddove Machiavelli argomenta come sia meglio essere soli nella costituzione dei buoni ordini di una repubblica o nella riforma di quelli antichi. Qui Machiavelli si sofferma sulla figura di Romolo, il fondatore di Roma:

Conviene bene che, accusandolo il fatto, lo effetto lo scusi; e quando sia buono, come quello di Romolo, sempre lo scuserà: perché colui che è violento per guastare, non quello che è per racconciare, si debbe riprendere.

E Romolo fusse di quelli che nella morte del fratello e del compagno meritasse scusa, e che quello che fece fusse per il bene comune e non per ambizione propria, lo dimostra lo avere quello subito ordinato uno Senato con il quel si consigliasse secondo la opinione del quale deliberasse.21

Secondo Machiavelli Romolo, per dare dei buoni ordini a Roma (tra questi il Senato), si è spinto ad agire anche con violenza, fino al fratricidio. E sebbene un’azione così immorale come la soppressione di una vita umana sia certamente da tutti condannata e disprezzata, nelle pagine di Machiavelli viene invece scusata, giustificata, anzi diviene manifestazione di virtù politica. Questo perché la violenza è politicamente necessaria ed utile se usata per racconciare, mentre è invece da condannare se usata solo per guastare. È utile allora prendere anche ad esempio casi in cui l’omicidio politico si presenta come un atto ingiustificato, è questo il caso di Agatocle:

Non si può ancora chiamare virtù ammazzare é sua cittadini, tradire gli amici, essere sanza fede, sanza pietà, sanza religione; li quali modi possono fare acquistare imperio, ma non gloria.22

Le azioni perpetrate con violenza da Agatocle, tiranno di Siracusa, non sono associate da Machiavelli ad alcuna virtù, in quanto esse non denotano nessun obiettivo politico che le scusasse. Il giudizio squisitamente politico che Machiavelli da sull’omicidio è allora determinato non sulla base dell’atto in sé, quanto degli effetti che sortiscono dall’azione. La differenza tra quanto compiuto da Romolo e quanto compiuto da Agatocle non risiede allora nell’immoralità dell’omicidio in sé, in quanto atto deprecabile, ma poggia ed ha come fondamento l’utilità politica e l’effetto che essa determina. Se l’azione è compiuta per racconciare questa sarà sempre scusata, sia anche l’uccisione del proprio fratello, come nel caso di Romolo. È però nella figura di Cesare Borgia che la congiura e l’omicidio assumono la loro forma di virtù politica per eccellenza. Nel capitolo VII del Principe Machiavelli narra brevemente le vicende del Valentino e le azioni più degne di nota, per tracciare il riferimento migliore per il principe nuovo. La grande lungimiranza, l’ampiezza di vedute, il vedere discosto miscelate insieme ad una ferocia ed una violenza inaudita si concretizzano nelle azioni di Cesare Borgia. La natura volpina del Valentino in materia inganni, usati per colorire la inosservanzia e ai fini del delitto, si manifesta in tutta la sua «grandezza» e virtù in due casi particolari. Il primo caso è quello dell’uccisione di Ramiro de Lorqua, luogotenente in Romagna nel 1501. Machiavelli narra come Cesare Borgia, dopo aver conquistato la Romagna, deve darle buon governo per ridurla pacifica e obediente al braccio regio, e per fare ciò fece ministro Romiro de Lorqua, uomo crudele ed espedito. Cesare Borgia comprende che il suo luogotenende ha ridotto il popolo al controllo, alla pace e all’unione. Tuttavia avendolo fatto con eccessiva autorità dubitassi non divenissi odiosa. Per fuggire l’odio del popolo, cosa che lo stesso Machiavelli afferma essere dannosa per il principe, decide di liberarsi del suo ministro:

E presa sopr’a questo occasione, lo fece a Cesena, una mattina, mettere in dua pezzi in sulla piazza, con uno pezzo di legno e uno coltello sanguinoso a canto. La ferocità del quale spettaculo fece quelli populi in uno tempo rimanere satisfatti e stupidi.23

Il caso dell’omicidio perpetrato da Cesare Borgia ai danni del suo ministro viene lodato da Machiavelli come un’azione politica virtuosissima, nonostante sia stata di una ferocia inaudita e certamente moralmente infima. Con un singolo atto violento Cesare Borgia ottiene il favore del popolo, sventa ogni pericolo di essere odiato, usando il suo ministro come capro espiatorio ed addossandogli la colpa dell’eccessivo rigore usato nei confronti del popolo per renderlo obbediente. Allo stesso tempo però il popolo rimane colpito dalla ferocia del proprio principe, il quale sarà certamente temuto e rispettato. Il contesto entro il quale l’omicidio si consuma ed i benefici che Borgia trae dall’uccisione del suo uomo, denota quanto l’immoralità dell’omicidio a volte sia politicamente utile ed esempio di grande virtù. La violenza e la ferocia del delitto sembra qui addirittura essere direttamente proporzionata ai vantaggi che il Valentino trae dall’atto e quindi direttamente proporzionata alla virtù messa in campo. Il secondo caso invece è l’inganno di Senigallia, un evento narrato sia nel Principe che nel breve testo della Descrizione del modo tenuto dal duca Valentino. In questo caso l’omicidio politico è invece usato da Cesare Borgia per la soppressione dei suoi avversari e di coloro che intralciano i suoi ambiziosi progetti. Machiavelli narra come i generali delle truppe mercenarie del Borgia, rendendosi conto che la sempre maggiore forza politica del principe sarebbe stata la loro ruina, decidono di cospirare contro di lui24. Il Valentino, trovandosi senza truppe e a dover far fronte a molti problemi, si volse agli inganni, mostrando tutta l’efficacia e l’utilità della natura volpina25. Organizzò allora, simulando, una finta riconciliazione con i congiuranti. Il luogo stabilito per la congiura è Senigallia. Machiavelli, narrando delle gesta del Borgia, cita nel capitolo VII del Principe questo evento non risparmiando commenti positivi al rigurado. Mentre nel breve testo della Descrizione del modo tenuto dal Duca Valentino il fiorentino descrive il contesto della congiura ordita dal principe ai danni dei suoi generali. In questo testo Machiavelli non esprime giudizi sull’effetto politico, positivo o negativo, che sortisce l’esito della congiura, né esprime giudizi riguardo la virtù o meno che muove l’azione del duca. Tuttavia, leggendo questo breve resoconto della congiura alla luce di quanto Machiavelli espone nel Principe, possiamo trarre delle conclusioni sull’azione del Valentino. Il testo si apre con una breve descrizione del contesto politico entro cui la congiura viene ordita, prosegue con una oggettiva descrizione degli avvenimenti e del luogo della congiura (lo stesso Machiavelli era presente), fino alla chiusura del testo dove si tirano le fila degli avvenimenti:

Ed entrati in Sinigaglia, e scavalcati tutti a lo alloggiamento del duca, ed entrati seco in una stanza secreta, furono dal duca fatti prigioni.

Ma venuta la notte, e fermi é tumulti, al duca parve di fare ammazzare Vitellozzo e Liverotto; e conduttogli in uno luogo insieme, gli fé strangolare.

Pagolo e el duca di Gravina Orsini furno lasciati vivi per infino che il duca intese che a Roma el papa aveva preso el cardinale Orsino, l’arcivescovo di Firenze e messer Iacopo da santa Croce; dopo la quale nuova, a dì diciotto di gennaio, a Castel della Pieve furno ancora loro nel medesimo modo strangolati.26

Si evince come il linguaggio descrittivo di Machiavelli non lasci spazio a giudizi di sorta sull’azione, virtuosa o meno del duca. Tuttavia, se si legge il testo con gli occhi del lettore del Principe e si tiene conto del contesto di necessità politica che Machiavelli evidenzia nel capitolo VII, si comprende facilmente come l’azione del duca sia di certo politicamente utile e dunque virtuosa. Anche qui la virtù del principe non si può giudicare sulla base di valori morali e apolitici, seguendo i quali certamente il duca avrebbe ruinato, ma risponde alle coordinate proprie della sfera politica, le quali spesso confliggono con la morale tradizionale. La natura volpina del duca, la sua capacità di colorire e di dissimulare, la sua spietatezza e la sua crudeltà sono allora qualità squisitamente politiche. La differenza tra quanto compiuto da Agatocle e quanto compiuto da Borgia non sta nella crudeltà e nella spietatezza delle proprie azioni, ma risiede nel movente che le muove e nell’effetto che esse sortiscono. Agatocle non può quindi essere considerato politicamente virtuoso perché è lontano dal perseguimento di un fine dettato dalla logica dell’utilità pubblica e politica. Le azioni di Cesare Borgia invece sono laudabilissime, poiché hanno come obiettivo la realizzazione di un progetto politico ben preciso.

Facci dunque uno principe di vincere e mantenere lo stato: é mezzi saranno sempre iudicati onorevoli e da ciascuno laudati.27

Il principe dunque può spingersi fin anche ad applicare mezzi quali la congiura ed il delitto. In questo quadro l’omicidio è allora uno strumento politico, un mezzo politico proprio del principe virtuoso.

Quelle di Machiavelli sono pagine a tratti cruente, che lasciano spesso il lettore in sgomento per la loro forza espressiva e per la radicalità del loro contenuto. Spesso al loro interno non si dà spazio a soluzioni generose o a compromessi. La continua attualità che Machiavelli ha avuto nel corso del tempo non lascia incertezze riguardo al fondo di verità presente nei suoi scritti, alla loro efficacia. Chissà che ancora oggi queste pagine taglienti abbiano dopotutto valore anche nei suoi elementi moralmente più ripugnanti e politicamente più estremi come l’omicidio politico, affermando ancora una volta un primato dell’immutabilità della natura umana e del realismo politico.


  1. N. Machiavelli, Lettera a Francesco Vettori, (Lettere, 11). ↩︎

  2. Ibidem. ↩︎

  3. N. Machiavelli, Il Principe, Milano, Mondadori, 2012, pp. 3-4. ↩︎

  4. Ivi, pp. 126. ↩︎

  5. Ivi, pp. 130. ↩︎

  6. N. Machiavelli, Lettera a Francesco Vettori↩︎

  7. N. Machiavelli, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, Milano, Rizzoli, 2016, 55-56. ↩︎

  8. F. Frosini, «Dubitando non incorrere in questo inganno di che io accuso alcuni»: Storia memoria giudizio nelle prefazioni e nella dedicatoria dei Discorsi, pp.95. ↩︎

  9. Ivi, pp.96. ↩︎

  10. N. Machiavelli, Discorsi, pp. 56. ↩︎

  11. R. Caporali, L’uguale dismisura, pp.56. ↩︎

  12. L. Althusser, Machiavelli e noi, Stock/IMEC, Roma, 1995, pp.35. ↩︎

  13. P. Vincieri, Machiavelli: il divenire e la virtù, pp.20. ↩︎

  14. N. Machiavelli, Il Principe, pp.77. ↩︎

  15. Ivi, pp. 89. ↩︎

  16. Ivi, pp. 78. ↩︎

  17. U. Cerroni, Privato e pubblico in Machiavelli, pp. 11. ↩︎

  18. N. Machiavelli, Il Principe, pp. 50. ↩︎

  19. Ivi, pp. 34. ↩︎

  20. Ivi, pp. 12. ↩︎

  21. N. Machiavelli, Discorsi, pp. 86. ↩︎

  22. N. Machiavelli, Il Principe, pp. 44. ↩︎

  23. Ivi, pp. 37. ↩︎

  24. Organizzano vicino Perugia, nel luogo della Magione, una Lega contro Cesare Borgia. ↩︎

  25. Come afferma Machiavelli il principe deve sapere bene usare la bestia e l’uomo, e necessitato di quelle pigliare la golpe e il lione↩︎

  26. N. Machiavelli, Descrizione del modo tenuto dal Duca Valentino nello ammazzare Vitellozzo Vitelli, Oliverotto da Fermo, il signor Pagolo e il duca di Gravina Orsini ,pp. 77-78. ↩︎

  27. N. Machiavelli, Il Principe, pp. 90. ↩︎