Recensione a Marta Cristiani (curatrice), Giovanni da Ripa e dintorni. Una cultura della complessità: la civiltà del XIV secolo

AA.VV., Giovanni da Ripa e dintorni. Una cultura della complessità: la civiltà del XIV secolo, a cura di Marta Cristiani, Avagliano Editore, Cava de’ Tirreni 2001.

Districare un filo conduttore lungo i percorsi labirintici della storia della cultura è un’impresa ardua, soprattutto quando il labirinto risulta in parte inesplorato, selva di intrecci filosofici e di tensioni non riconducibili ad un’unica prospettiva. Quando poi il labirinto da esplorare presenta in se stesso un ulteriore processo di incastri, trame di un pensiero i cui punti di riferimento sono ancora avvolti nella foschia di un panorama intuito ma non ancora ben visibile, allora il lavoro risulta impervio, carico di richieste di ponderatezza che solo un atteggiamento sapienziale di equilibrio può realizzare. È quanto accaduto con la pubblicazione degli Atti di un Convegno su Giovanni da Ripatransone, Giovanni da Ripa e dintorni. Una cultura della complessità: la civiltà del XIV secolo, a cura di Marta Cristiani, Avagliano Editore, Cava de’Tirreni 2001. Il volume sorprende per la struttura e l’organizzazione: intorno alla figura di Giovanni da Ripa si descrive un complesso universo culturale, un’epoca, meglio sarebbe dire una civiltà come recita il sottotitolo del volume, quella del XIV secolo, con le sue conquiste speculative, con le sue tensioni politiche, con le sue ansie religiose.

I contributi (Sapere universitario e Teologia dal Duecento al Trecento, di Leonardo Sileo; Il rinnovamento dello sguardo. La scienza della prospettiva nel XIV secolo, di Valeria Sorge; Il pensiero politico di un’epoca inquieta, di Carlo Dolcini; I movimenti francescani nella regione delle Marche, di Roberto Lambertini; Il labirinto dei sofismi e il desiderio di *sapientia: Giovanni da Ripatransone tra illapsus mistico e Latitudines entium**, di Francesco Bottin; *Le tentazioni della Teologia: «Trasformazione vitale» secondo Giovanni da Ripa, di Marta Cristiani; Giovanni da Ripa: un autore riscoperto, di Alessandro Ghisalberti) conducono via via dall’iniziale sguardo sul sapere universitario nella fase di passaggio dal Duecento al Trecento fino alle ricostruzioni dei nodi problematici del pensiero di Giovanni da Ripa, impegnate nel comprendere le mediazioni speculative tra slancio mistico, tradizione neoplatonica e crisi della cosmologia aristotelica, toccando gli sviluppi della scienza della prospettiva, le inquietudini politiche, le agitazioni spirituali animate dai movimenti francescani nelle Marche. Con questo volume si offre così un approdo da cui partire per accostarsi alla complessa figura di Giovanni da Ripa, usufruendo di lavori maturati alla luce delle più recenti ricerche sull’argomento e di prospettive interpretative di spessore speculativo.

Pochi sono i dati biografici su Giovanni da Ripa: essi risalgono agli studi di Combes, principale curatore dell’edizione critica del Prologo alla Lectura super primum Sententiarum realizzata con la collaborazione di F. Ruello per il secondo volume; della Quaestio de gradu supremo insieme al P. Vignaux; e delle Determinationes. Si sa che Giovanni da Ripa proviene dal convento francescano di Ripatransone, in provincia di Ascoli; ha insegnato a Parigi in un periodo tra il 1345 e il 1370, commentando il Liber Sententiarum; e avrebbe presieduto al commento di Francesco da Perugia, suo discepolo, a questa stessa opera nel 1368. Un ulteriore dato biografico rilevante, la cui interpretazione da parte della critica non è unanime, è la presunta condanna di Giovanni da Ripa da parte delle autorità universitarie parigine, testimoniata da Gerson nelle Notulae e da Giovanni da Basilea nel suo commento al Liber Sententiarum. Ciononostante, le scarse notizie intorno alla vita di Giovanni da Ripa consentono di capire quali ambiti del sapere e del vivere del XIV secolo sono da considerare per comprendere la sua opera.

Giovanni da Ripa è anzitutto un teologo francescano, un francescano delle Marche, che ha svolto attività didattica a Parigi nel mezzo del XIV secolo. La riflessione non può non rievocare tutta una serie di dati, di cui immediatamente si ricordano: la teologia di francescani come Duns Scoto e Guglielmo d’Occam, ritenuti responsabili da una certa critica storica della perduta armonia tra il sapere filosofico e teologico; la politica papale durante il periodo avignonese; le tensioni provocate dagli spirituali, gruppi di francescani, condannati dalla curia avignonese e particolarmente attivi nelle Marche, che rivendicavano una radicale osservanza della regola del loro fondatore. Già la considerazione di questi dati lascia emergere quanto complesse possano essere la figura e l’opera di Giovanni da Ripa, acuto per il suo ingegno tanto da essere denominato doctor super-subtilis.

Senz’altro una luce alla comprensione di Giovanni da Ripa viene da una più adeguata interpretazione dell’organizzazione del sapere universitario nel XIV secolo: le tensioni esplose in questo periodo non possono essere ricondotte né ad una presunta rivalità fra la scuola domenicana e quella francescana, né all’atteggiamento del Tempier con le condanne del 1277. Piuttosto il pensiero teologico universitario è sorto fin dall’esordio sotto l’insegna del pluralismo, realtà di fatto nel XIII secolo, costatazione, verificabile nell’atteggiamento dei maestri del periodo, che conduce a negare quella posizione storiografica che vuole considerare il sapere universitario del secolo XIV sotto il segno della reazione al tomismo, della rivolta contro la potenza della razionalità aristotelica e della rottura con l’ideale della concordanza perseguita e raggiunta nel secolo XIII. La situazione del sapere universitario in tanta temporis egestate, come lamenta Clemente VI, è frutto di nuovi itinerari di ricerca la cui direttrice è data dal ripensamento epistemologico che spinge i teologi ad un più vivace pluralismo dottrinale con apertura verso nuove accentuazioni problematiche, come si ha per esempio con la comprensione della scientia beatorum tradotta come visio beatorum, termine finale in cui si compirà la teologia del viator.

Un altro aspetto della cultura scientifica del XIV secolo è dato dal ridimensionamento della filosofia della natura di Aristotele, la cui rappresentazione del mondo si mostra sempre meno esclusiva e posta nella necessità di essere corretta. Crescono, inoltre, i dibattiti sulla radicalità della potentia Dei absoluta rispetto alla potentia ordinata con la conseguenza di considerare precaria ogni connessione logica indotta all’interno della contingenza del mondo. Ad accentuare questo complesso stato di ripensamento del legame Dio-natura subentra l’atteggiamento dei teologi a trattare le questioni con sottili procedimenti logici, travalicando in questo modo la razionalità prevista dall’Organon aristotelico. Il fenomeno del superamento della posizione di Aristotele è evidente nel lavoro dei calculatores, per i quali la matematica, scienza «astratta» per Aristotele, diviene la scienza che permette di accrescere lo studio della natura. Si configura in questo modo l’indirizzo della nuova fisica degli scolastici, concentrata soprattutto sulle proporzioni, sull’infinito e continuo, sui limiti dei processi, sull’intensione e remissione delle forme, tematiche che si riflettono in Giovanni da Ripa, come mettono bene in evidenza Cristiani e Ghisalberti.

Il secolo XIV si caratterizza così per fermenti ed esplosioni: la scienza della prospettiva, per esempio, subisce in questo periodo un nuovo criterio di certezza maturato dalla riformulazione del problema gnoseologico dovuta al progressivo rilievo acquisito dalla notitia intuitiva di Occam. Da questa nuova teorizzazione il sapere si rivolge sempre più verso i segni con cui si designano e si manifestano gli oggetti così come essi si danno secondo le condizioni della nostra esperienza conoscitiva. In questo modo, la scienza della prospettiva travalica i confini della filosofia della natura, ancora ben delimitati nel XIII secolo, e coinvolge le questioni riguardanti la conoscenza sensibile e la certezza che essa è in grado di offrire.

L’epoca in cui vive Giovanni da Ripatransone è dunque caratterizzata da nuovi fermenti scientifici, da inquietudini politiche e tensioni religiose. La sua opera risente non solo di quanto costituisce questo scenario storico, ma soprattutto dei dibattiti riflessi sul piano più propriamente filosofico-teologico: le complicate trattazioni sulla «divina semplicità», caratteristica del pensiero teologico del ’300, trovano, infatti, nella riflessione del maestro marchigiano un vertiginoso approdo, quando si chiede se «dal grado assolutamente supremo dell’essere si possa derivare in maniera contingente l’insieme dei gradi dell’essere». La riflessione sull’infinito, già centrale nel pensiero di autori precedenti, diviene così la questione da sviluppare, intorno alla quale articolare l’adeguata compresione di Dio e della possibile coesistenza di infiniti creati in atto. Un’ulteriore presa di distanza dalla filosofia aristotelica, che negava la possibilità di un infinito in atto, poiché Giovanni da Ripa non si spinge solo all’elaborazione di una nozione di Dio come infinito, operazione ormai già consolidata dalla tradizione teologica, quanto piuttosto alla distinzione tra l’infinità divina e gli infiniti entitativi in atto. Giovanni da Ripa avverte così l’esigenza di abbandonare la tradizionale caratterizzazione di Dio come infinito, interpretandola nella nozione di immensitas, l’unica in grado di esprimere l’essere che supera ogni misura immaginabile, mentre la gradazione degli enti, l’intensio, può essere misurata su una scala infinita, in cui ogni ente ha la propria latitudo.

Tra i «labirinti» della razionalità e il desiderio di sapientia, Giovanni da Ripa prospetta così una soluzione per conoscere razionalmente la divina semplicità, districandosi nella conciliazione della dottrina di Illapsus neoplatonica su basi aristotelico-averroistiche.

L’opera di Giovanni da Ripa sembra, dunque, spingersi verso i confini ultimi del pensiero, trasgredendo i limiti e seguendo le tentazioni della teologia fino all’ardua ipotesi di origine averroistica della immutatio vitalis, «vero e proprio processo di divinizzazione dell’intelletto, quando l’oggetto di conoscenza è l’assoluto divino», come ha modo di scrivere Marta Cristiani (pp. 127-128). Un’ipotesi che non è riconducibile solo allo stato di vita dell’anima separata dal corpo, ma anche allo stato di vita presente, e garantita da Aristotele e Averroè con l’ammissione dell’unione dell’intelletto agente, identificato con l’intelletto divino, all’intelletto possibile. La felicità consiste così nell’unione diretta all’intelletto agente, senza intermediari creati, contrapponendosi in questo modo alle posizioni dei doctores che ricorrevano a una teofania, a una qualitas creata, il lumen gloriae, da interporre fra l’intelletto individuale e quello divino.

La formulazione di una tale ipotesi, tentativo di chiarificazione del processo della visio beatifica, matura all’insegna del tema dell’infinito e della dilatazione della nozione di forma introdotta da Giovanni da Ripa per comprendere come l’infinità divina per la sua stessa onnipotenza possa dare origine a una infinità creata, con la conseguenza della messa in crisi di uno dei processi dimostrativi propri del XIII secolo, il processo ut infinitum.

L’opera di Giovanni da Ripa si presenta dunque articolata e complessa, non priva di contraddizione, senz’altro però ricca di suggestioni rilevanti per la storia della cultura del XIV secolo. Tra i suoi vari aspetti messi in evidenza nel volume, di cui abbiamo seguito alcune linee, un particolare approfondimento merita la nozione di immensitas riservata da Giovanni da Ripatransone a Dio: «Non è l’infinitas la prerogativa esclusiva di Dio, bensì l’immensitas, intesa come infinita infinitas, di contro a una infinitas creata, e perciò finita infinitas» (p. 152), come scrive Ghisalberti nel suo contributo, che si distingue per l’approccio filologico, offrendo sia dati biografici sia dati di critica testuale sulle opere di Giovanni da Ripa, e per una chiara interpretazione della Quaestio de gradu supremo. È proprio nell’elaborazione della nozione di immensitas uno dei più grande lasciti che Giovanni da Ripa ha fatto al pensiero occidentale: con essa, sottolinea Ghisalberti, l’istanza apofatica della trascendenza ha guadagnato un nuovo modo di dirsi, poiché l’immensità divina dice per Giovanni da Ripa quell’eccedenza per nulla riconducibile ad alcuna serie infinita, in nessuna latitudo di enti. La dimostrazione di Dio come immensitas afferma la necessità di un gradus fixus per ogni latitudo entium, la quale, benché infinita, è pur sempre derivata e dipendente, ossia postula un indipendente per sé esistente.

Riprendendo l’iniziale immagine del labirinto, si può dire che il volume offre un percorso con molte vie di uscita, descrive itinerari e traccia linee di sviluppo, il tutto organizzato in una visione di insieme in grado di affrescare un’intera civiltà, quella del XIV secolo, fine di un epoca e inzio di un’altra. Spesso il giudizio sul ruolo svolto dalla cultura filosofica e scientifica del ’300 è stato condizionato troppo facilmente da polemiche di scuola. Alla revisione di questo giudizio conduce significativamente il volume, facendo emergere tematiche e questioni dell’epoca nella loro complessità, senza tuttavia perdersi in selve oscure.