Galileo atomista e la disputa eucaristica

Assai mi duole chi ha scoperto tutto atomi… talché ha dato manica a nemici di negar tutte le cose celesti che V. S. ci addita. Vostra Signoria armi lo stile di perfetta matematica e lasci li atomi per da poi.

— T. Campanella a Galileo, 8 marzo 1614

Galileo Galilei è un personaggio al quale la cultura filosofica e scientifica moderna deve certamente moltissimo; è stato uno dei primi filosofi a cercare una differenziazione tra le questio filosofiche e scientifiche; è stato uno dei primi scienziati ad aver inteso veramente la scienza non più in termini qualitativi, ma in una visione quantitativa, distinta della metafisica, dalla quale la matematica non poteva più essere esclusa. Prima di lui gli eventi naturali venivano spiegati in termini aristotelici, ossia secondo un corpus di dottrine che Aristotele aveva presentato in alcuni libri fra i quali il De caelo. La fisica aristotelica concepiva una descrizione del mondo in termini antropocentrici ed abbastanza legata alle esperienze comuni che si presentano ai nostri sensi. Galileo irrompe nel mondo filosofico e scientifico per scardinare passo per passo questa impostazione filosofica, che aveva dominato molte delle menti di intellettuali che lo avevano preceduto e soprattutto ancora incombeva, per motivi religiosi, sui suoi contemporanei.

1. Lettere di difficile interpretazione

Attraverso l’analisi della corrispondenza privata degli ultimi dieci anni della vita di Galileo è possibile analizzare l’intensa attività filosofica che il Linceo tenne nonostante la condanna subita nel 1633 dal Tribunale dell’Inquisizione. Fra gli scambi epistolari più interessanti ci sembra di poter individuare la fitta corrispondenza con il professor Fortunio Liceti. Di particolare importanza per l’inizio della nostra analisi sono alcune righe scritte da Arcetri il 25 agosto 1640:

Contro a tutte le ragioni del mondo, vengo io imputato della peritatetica dottrina, mentre io professo e son sicuro di osservare più religiosamente i peripatetici, o per meglio dire aristotelici insegnamenti, che molti altri, li quali indegnamente mi spacciano per avverso alla buona e peripatetica filosofia.1

Tali affermazioni attirano la nostra attenzione perché rappresentano una sconvolgente «professione di fede peripatetica»2 da parte di un filosofo e uomo di scienza che, come vedremo in seguito, più di una volta aveva sposato dottrine filosofiche in dissonanza con la dottrina aristotelico-tomista e che aveva subito una condanna dal Tribunale dell’Inquisizione in cui era stata dichiarata «formalmente eretica la dottrina eliocentrica»3 da lui stesso più volte avvallata.

Fortunio Liceti era uno dei maggiori esponenti del corpo accademico delle università di Bologna e di Padova. Professore di filosofia e medicina, esperto in tutti i campi della medicina ma anche in letteratura e archeologia così come in astronomia e filosofia naturale. Nacque a Rapallo il 3 ottobre 1577. Dopo aver conseguito la laurea in medicina a Bologna, Liceti insegnò a Pisa, per poi tornare a Bologna e, infine, a Padova, dove rimase per tutta la vita. Studiò, tra le varie questioni naturalistiche, il problema della generazione vivente, fornendo soluzioni riprese in gran parte da Aristotele. Sostenne la nascita spontanea degli animali inferiori nel De spontaneo viventium ortu del 1618 e riprese le soluzioni aristoteliche sul problema delle anomalie genetiche nel De monstruorum natura, caussis et differentiis del 1634. Trattò anche la questione dell’anima delle bestie nel De feriis altricis animae del 1631.

Galileo nel Dialogo lo indicherà come un «peripatetico di gran nome» per indicare il grande acume filosofico dello studioso padovano e la stima reciproca che vi era fra loro. In una lettera a Galileo lo stesso Liceti indicherà il percorso filosofico che egli ha sempre seguito nei suoi studi:

Mi è sommamente cara la libertà filosofica […] Se poi nelle mie opere io faccio pala dell’autorità di infiniti scrittori per confermare le mie opinioni, o pure di fondamenti dedotti dalla natura delle cose et dalla autorità di un solo, Aristotele, et talora di Platone, me ne rimetto a chi con occhi propri li vede.4

Le prime lettere tra Galilei e Liceti risalgono già al 1611 e riguardano le prime osservazioni che Galileo fa con il suo cannocchiale: egli annunzia le osservazioni fatte a Padova che lo portarono alla scoperta delle macchie solari e il Liceti risponde come «haverà V. S. inteso che ‘l S.or Vincenzo Dotti e ‘l S.or Pignoni con un loro occhiale hanno osservato molte macchie nere nel corpo solare […] Io non ho ancora potuto essere a parte di tale osservazione, però non gnene posso dare più minuto ragguaglio».5 In alcune lettere successive nel 1620 Galileo gli comunica la sua scoperta degli anelli di Saturno afferrmando che «stellae laterales, eorum quae praedicere ausus fui, id effecerunt quod ego assertive affermavi».6

Riceve successivamente una risposta dal professore in cui gli comunica informazioni sulla situazione dell’Università di Padova. Ma non è solo il Linceo a comunicare le sue scoperte al professore di Bologna: nel 1622 il Liceti manda a Galileo una copia del suo De Cometis invitandolo ad esaminare il suo operato e suscitando nel Linceo un senso di profonda gratitudine e ammirazione per aver condotto a «fine una fatica atlantica».7

Nel 1632 sarà invece Galileo ad inviare una copia del suo Dialogo sopra i massimi sistemi del mondo tolemaico e copernicano, ricevendo come risposta i ringraziamenti del professore e altri suoi lavori. Questo tipo di corrispondenza fatta di scambi di lavori, apprezzamenti, richiesta di informazioni, critiche più o meno accentuate continuerà anche negli anni seguenti e toccherà un tema di particolare importanza che servirà da punto di partenza per la nostra ricerca: la pietra di Bologna e le idee corpuscolari sull’origine della luce. Esse saranno al centro di scambi di opinioni tra Galileo e Liceti e nel ripercorre in breve la storia di questa pietra cercheremo di mettere in evidenza in che modo i nostri due protagonisti interverranno in questa disputa e le conseguenze delle loro affermazioni.

1.1. «De lapide bononiensi»8

Per circa tre secoli, dai primi del Seicento all’inizio del Novecento, la città di Bologna deve il suo posto nella storia della chimica soprattutto ad una pietra, che da essa prese il nome, utilizzata per ricavarne fosfori, ossia materiali capaci di dare fosforescenza. La pietra colpì innanzitutto la curiosità e l’immaginario popolare, attirò verso la città l’interesse dei viaggiatori, ispirò testi letterari, suggerì teorie più o meno fantasiose e alimentò numerose dispute scientifiche. La pietra, cui furono attribuiti vari nomi (pietra fosforica bolognese, pietra di Bologna, pietra luciferina, pietra di luna, spongia lucis, lapis illuminabilis, lapis lucifer, phosphorus ecc.) è una varietà di barite o baritina (solfato di bario anidro), raggiata e nodulare, che una volta macinata, impastata con bianco d’uovo o altri leganti e calcinata su carbone, si trasforma in solfuro di bario.

La data della scoperta delle singolari proprietà della pietra di Bologna non è nota con esattezza. Tuttavia, secondo gli storici, si colloca fra il 1602 e il 1604. Essa viene generalmente attribuita a Vincenzo Casciarolo (o Casciorolo), un calzolaio bolognese che, passeggiando presso Paderno, vide scintillare una pietra, la raccolse, la portò a casa, la fece cuocere e scoprì, forse casualmente, che mettendola al buio dopo averla esposta al sole, riluceva. La prima citazione delle proprietà della pietra di Bologna è dovuta a Giulio Cesare La Galla nel 1612, mentre la prima descrizione dettagliata della preparazione di materiale fosforescente a partire da essa è di Pietro Poterio.9 Secondo Poterio, colui che per primo rese luminosa la pietra nell’intento di ricavarne oro, fu un noto alchimista di Bologna, Scipio Bagatello. Il nome di Casciarolo non compare nel lavoro di Poterio. L’attribuzione della scoperta al “chimico” Casciarolo è di Majolino Bisaccione e Ovidio Montalbani, in due lettere pubblicate nel 1634. Quest’ultimo, addirittura, propose di chiamare la pietra “lapis casciarolanus”.

Il riconoscimento pieno a Casciarolo venne proprio da Fortunio Liceti, nell’opera Litheosforus sive de lapide bononiensi, pubblicata a Udine nel 1640.10 Secondo Liceti, fu appunto Casciarolo, uomo di umili condizioni, che trovò la pietra, ne scoprì le proprietà e la mostrò a Bagatelli. Questi ne parlò a Magini, professore di matematica a Bologna, il quale ne mandò campioni a vari scienziati, tra cui Galileo Galilei, e ad alcuni sovrani europei. Tutto ciò rese rapidamente famosa la pietra, indusse a riprodurre il procedimento di preparazione dei fosfori e ad interpretarne il comportamento. Nacquero le ipotesi più disparate. Per un certo periodo, da parte di alcuni (Niccolò Cabeo, Athanasius Kircher), si pensò che la pietra si comportasse con la luce così come un magnete si comporta con il ferro. Anche Galileo intervenne nella disputa, come vedremo successivamente, con una lettera a Leopoldo di Toscana, scritta per confutare alcune osservazioni di Liceti sulle opinioni dello stesso Galileo in merito al “candor lunare”.11

Nella sua opera il Liceti era riuscito ad adattare il fenomeno della luminescenza della pietra alla teoria aristotelica della luce e aveva messo in relazioni questo fenomeno con la luminescenza lunare nei quarti di luna. Egli infatti sosteneva nella sua opera che si trattava di un fenomeno identico a quello della pietra di Bologna e non si trattava dunque di luce solare riflessa come Galileo aveva invece sostenuto nel Sidereus Nuncius e ribadito successivamente. Al di là della disputa, giusta o sbagliata, riguardante l’origine del candore lunare, ci interessa sottolineare che in questa discussione scientifico-filosofica il Liceti si rifà a idee corpuscolari sull’origine della luce e indica in Galileo un punto di riferimento per l’interpretazione materialista della luce. Proprio queste accuse di materialismo rivolte a Galileo saranno al centro dello scambio epistolare che ora tentiamo di ricostruire ed interpretare in quest’ottica.

1.2. La disputa filosofica

Il 23 agosto 1939 il Liceti invia a Galileo una copia del suo De quaesitis e gli annuncia che di lì a poche settimane andrà in stampa «il mio volumetto De Lapide bononiensi lucifero» e che «le ne manderò parimenti un esemplare».12 A causa di alcune vicissitudini Galileo non riceverà il testo immediatamente dopo la stampa, e in una successiva lettera Liceti, oltre a promettere una nuova copia della sua opera, indicherà con chiarezza a Galileo che «nel cinquantesimo capitolo V.S. vedrà quelle ragioni che mi ritraggono dalla sua opinione della causa di quella luce che si scorge nel disco lunare».13

Alcuni passi del testo di Liceti suonano come un campanello d’allarme per la tradizione aristotelica. Sono infatti affermazioni che sostengono la corporeità della luce e che vengono attribuite da Liceti ad opere del Linceo. Egli afferma che «la luce è un corpo, una parte del quale è attirata dalla pietra di Bologna, come il fuoco lo è dalla nafta, il ferro dal magnete».14

Ci sembra significativo infatti, che nelle sole quattro pagine del capitolo L del Litheosphorus così come riportato nell’Edizione Nazionale15 figurano ben otto riferimenti al Sidereus Nuncius di Galileo, oltre naturalmente a citazioni di altre opere galilaiane. Ad ogni modo, la risposta alle accuse del Liceti Galileo la inserirà nella lettera al principe Leopoldo di Toscana che scriverà nel marzo 1640. Questa lettera consiste di una prima parte in cui prende le difese della propria spiegazione del candore lunare, ribadendo che esso è causato dal riflesso di luce solare emanato dalla Terra, affermando che «quel tenue lume secondario che nella parte tenebrosa della luna si scorge, […] essere effetto cagionato dal riflesso de’ raggi solari sulla superfice del nostro globo terrestre».16 Nella seconda parte, invece, critica le argomentazioni addotte dal filosofo padovano a favore della fosforescenza dell’atmosfera lunare. È importante sottolineare come in entrambe le argomentazioni Galileo si fermi a sottolineare il problema del rapporto tra concezioni fisiche e riscontro dei dati dell’osservazione. Egli infatti accusa il Liceti di errare nella sua indagine scientifica perché non tiene conto del fatto che la prima osservazione può essere ingannevole ed è possibile accertare la veridicità delle affermazioni scientifiche solo dopo il corretto utilizzo dell’intelletto.

Mentre io vo ricercando di assicurarmi della verità del fatto, trovo che non mancano circustanze, per le quali il senso nella prima apprensione, può errare ed essere bisognoso di correzione, da ottenersi mediante l’aiuto del retto discorso razionale.17

Egli, infatti, vuole evidenziare come ad una prima osservazione può risultare evidente che tale candore sia causato solo dal riflesso «dell’etere ambiente»18 e non anche dal riflesso della Terra. Tali affermazioni, chiaramente riferite al giusto utilizzo della logica aristotelica, suonano però anche come una secca smentita di qualsiasi interpretazione materialista della luce e del calore. In una successiva lettera su tale argomento Galileo si esprimeva in questi termini:

Parlo dell’essenza della luce, di che sono stato sempre in tenebre […] Qui non vorrei che mi fosse detto che io non mi quietassi su la verità del fatto poiché così mi mostra succedere la esperienza; la quale […] mi assicura dello an sit, ma guadagno nessuno mi arreca del quomodo.19

Mettendo a frutto tutta la sua abilità nell’utilizzo dell’ironia il Linceo si mostra “ignorante” nelle questioni che riguardano la qualità della luce e soprattutto afferma che i suoi studi sono finalizzati a capire se i fenomeni si verificano in natura e non il modo in cui essi si verificano. È importante per Galileo dissociare con forza il proprio nome dalle teorie materialiste di cui viene accusato da Liceti.

Mi sono meravigliato che ella per cosa accennata da filosofo Lagalla mi attribuisca che io habbia tenuto il lume per cosa materiale e corporea […] che mi sarei esibito a star in carcere in pane e acqua, purchè io fussi stato assicurato di conseguire una da me tanto disperata cognizione.20

Risulta abbastanza evidente dall’analisi dei testi che l’intento di Galileo non sia soltanto quello di confutare le teorie del professore, ma anche quello di estendere il dibattito ad un problema più generale che è quello dei rapporti tra la filosofia aristotelica e i suoi interpreti e il pensiero galileiano, come testimonia il seguente frammento:

Da i quali spererei aver assenso ed applauso alle mie giustificazioni, poiché esse non procedono contro alla peripatetica filosofia ma contro ad alcuno di quelli i quali la filosofia e la aristotelica autorità oltre a i limiti termini vogliono estenderla.21

E spostando la prospettiva del dibattito le affermazioni di Galileo si fanno sempre più importanti e pesanti.

Io stimo (e credo che anche essa ancora stimi) che l’esser veramente peripatetico, cioè filosofo Aristotelico, consista principalissimamente nel filosofare conforme alli Aristotelici insegnamenti, procedendo con quei metodi e con quelle vere supposizioni e principij sopra i quali si fonda lo scientifico discorso. […] Sin qui dunque io sono Peripatetico.22

Siamo ritornati all’inizio della nostra argomentazione. Galileo afferma con forza e chiarezza, in più occasioni, la sua fede peripatetica. Afferma di essersi sempre attenuto ai canoni della logica aristotelica, utilizzando deduzioni argomentative che avessero come premesse delle sicure esperienze. E dinanzi a tale accuratezza di metodo è naturale il senso di meraviglia espresso da Galileo allorché gli vengono imputate dottrine avverse ad Aristotele. L’impressione è però quella di avere dinanzi un uomo sconfitto, non libero di parlare e argomentare. La risposta compiaciuta del Liceti dinanzi a tali affermazioni suona come una beffa per il filosofo pisano. Egli infatti afferma che «che V.S. professi di non contraddire alla dottrina aristotelica, mi è molto caro sì come (per dirglielo liberamente) mi è molto nuovo, parendomi dagli scritti suoi ricorrere il contrario».23 In seguito a queste accuse Galileo ribadirà ancora una volta di essere ammiratore di Aristotele e tenterà di smentire ogni ipotesi contraria alla sua fedeltà ai canoni peripatetici. Allo stesso tempo, però, spiegherà anche che il mondo non è racchiuso tutto nei testi aristotelici, poiché il mondo stesso è un libro che va scoperto con l’esperienza e decifrato con la matematica.24

È giusto allora chiedersi quale interpretazione dare alle sopra citate affermazioni dei due filosofi. Dobbiamo concludere che Galileo era un aristotelico? A questa domanda impegnativa non si può rispondere con un semplice si o un no. È necessaria una risposta complessa che sarà oggetto del nostro lavoro. Possiamo però porre le fondamenta del nostro discorso.

Dalle precedenti affermazioni del Linceo è possibile dedurre che lo stesso Galileo era consapevole del fatto che nel rapporto tra il suo punto di vista epistemologico e quello aristotelico esistevano indubbiamente profonde tracce di somiglianza. Una delle più importanti sicuramente consiste nell’anteporre l’esperienza al discorso, allontanando il suo pensiero da interpretazioni platoniche del metodo scientifico.

Non ci si può fermare in maniera semplicistica dinanzi tali affermazioni. Infatti esaminando la stessa lettera al Principe Leopoldo di Toscana, sebbene Galileo faccia appello all’esperienza, egli sa molto bene che la percezione conoscitiva può errare ed è necessario fare appello, oltre che alla logica, anche alla matematica. Essa farà da guida per una giusta elaborazione di percezioni scorrette e per una giusta osservazione della natura. In un certo senso Galileo “va oltre” Aristotele e non “contro” Aristotele.

È chiaro che, considerato dal punto di vista del metodo matematico utilizzato nei suoi studi, Galileo non può essere considerato un aristotelico e probabilmente non fu neanche un filosofo, dato che la sua unica preoccupazione fu principalmente quella di favorire lo sviluppo della scienza.25

C’è un elemento che a nostro giudizio allontana Galileo da Aristotele; ed è proprio l’oggetto della scambio epistolare con Liceti: la natura corpuscolare della materia e in particolare della luce, se si prende in considerazione il “tema” di questa disputa. Nella sua opera più importante, Galileo eretico,26 Pietro Redondi sostiene in maniera forte che una della principali cause di condanna dell’opera di Galileo sia stata la sua audacia nel mettere in dubbio il principio aristotelico-tomista della transustanziazione ribadito con forza dal Concilio di Trento. Alla base di tutto questo vi è un esplicito riferimento, nel pensiero di Galileo, a dottrine democritee e atomiste riscontrabili in diverse opere, soprattutto nel Saggiatore. La tematica atomica in Galileo ci pone diversi interrogativi in merito al rapporto tra le tesi galileiane, dogmi di fede cristiana e idee filosofiche che sono alla loro base: c’è conciliazione oppure contrasto?

2. L’atomismo galileiano tra vecchie e nuove idee

Secondo molti studiosi, Redondi in primis, nel Saggiatore, pubblicato nel 1623, Galileo ipotizza una teoria corpuscolare della luce, continuazione di studi simili, già intrapresi in precedenza, sul calore e sulla struttura dei solidi.27 Il suo interesse per la struttura della materia fu un riflesso dell’interesse galileiano per l’ipotesi copernicana e le leggi del moto; non è possibile infatti individuare, nell’opera di Galileo, una trattazione completa e dettagliata sulla natura delle particelle ultime della materia.28 È possibile individuare tre momenti particolari in cui tale problema viene affrontato: quando si mise ad indagare sul galleggiamento dei corpi nel 1610; in occasione del dibattito sulle comete nel 1618; nel 1638, quando esamina il fondamento matematico della teoria atomica nei Discorsi.29

Un diversa periodizzazione la possiamo trovare negli scritti di Redondi. Anch’egli, infatti, articola l’evoluzione dell’atomismo in tre fasi, ma con una suddivisione differente: una iniziale fase pisana e scolastica, caratterizzata dalla critica aristotelica, che culmina nel De Motu; una seconda fase tra Firenze e Roma, meccanicistica, in cui è forte la critica ai gesuiti e che culmina con il Saggiatore; un’ultima fase matematica, che ha come momento culminante la Prima giornata dei Discorsi. A queste tre fasi principali Redondi affianca dei periodi intermedi, interessanti ma un po’ nell’ombra: essi sono il periodo padovano e la prima scuola fiorentina.30 Sarà nostro obbiettivo esaminare le differenti tappe evolutive del pensiero di Galileo. A tale scopo seguiremo la suddivisione temporale, più che concettuale, proposta da Shea, anche se non mancheranno continui riferimenti al lavoro svolto da Redondi.

Galileo aveva avuto modo di guardare con rispetto la dottrina dell’atomismo e la critica mossa da Aristotele ad essa sin dai banchi dell’università pisana dove il suo maestro, Jacopo Mazzoni, era professore di filosofia platonica e scriveva che ai fini di una nuova filosofia cristiana la teoria degli atomi figurata nel Timeo e di Lucrezio era di gran lunga più raccomandabile della fisica aristotelica; in questi anni Galileo dà prova di conoscere e criticare gli argomenti di Democrito. Si tratta di posizioni che si attestano entro i canoni della filosofia aristotelico-tomista del Collegio romano e che si esprimono soprattutto nei trattati De caelo e De elementis. Egli infatti scrive nel De caelo a proposito della formazione del mondo:

condensatione et rarefactione fuisse genitum; nonnulli, ex atomorum concursu et vacuo intercepto, ut Democritus et Leucippus. […] Ex hoc intelligitur error Democriti et sectatorum, qui asseruerunt plures esse mundos, […] existimantes et mundum hunc et alios infinitos ex atomorum concursu casu fuisse factos […] mundus in hunc finem est procreatus, ut Dei cognitionem mens nostra devenerit.31

Galileo nel De elementis invece, a proposito del minimo naturale assegnabile agli elementi, respingeva la tesi tomista e affermava che «gli elementi e i composti omogenei non hanno termini di grande e di piccolo».32 Da queste posizioni critiche, che provavano quanto Galileo fosse al corrente delle discussioni nominaliste sulla quantità e la sostanza, si evince il riferimento del Linceo alla filosofia del Collegio Romano, che proprio in quegli anni, grazie a Suárez, si apriva alle istanze nominaliste.

Il distacco critico da Aristotele prende una forma più netta nel De motu; attraverso la critica del mondo naturale e degli elementi aristotelici Galileo è automaticamente condotto a respingere, anche se implicitamente, le grandi critiche dell’atomismo di Democrito che, contenute nel De caelo aristotelico, erano alla base della cosmologia dello stagirita.

2.1. Una «buona scuola antica»

Erano decenni comunque che non si sentiva parlare, sia in ambito protestante sia cattolico, di un rinnovamento della filosofia naturale a partire da un punto di vista democriteo. In questo periodo storico si può assistere anche ad una vera e propria rinascita di Democrito. Tale rinascita era riscontrabile in una numerosa famiglia di atomisti che era attraversata da una gamma differenziata di impostazioni filosofiche e religiose.33 Oltre agli studiosi citati in precedenza, ci sembra importante evidenziare le figure di Sennert, esponente di un corpuscolarismo chimico, di Gassendi, cattolico e di scuola galileiana, oltre che Borelli e Boyle.

In questo senso, per Redondi, «la rinascita della fisica di Democrito e Lucrezio non era il frutto di nuove osservazioni o di nuovi studi matematici».34 È infatti importante notare che furono successivi all’avvento dell’atomismo sia l’utilizzo di procedimenti infinitesimali in meccanica, sia l’osservazione al microscopio. Si potrebbe allora pensare che il ritorno in auge dell’atomismo sia conseguenza del vuoto cosmico che l’avvento delle teoria cosmologiche copernicane aveva creato tra i pianeti dell’universo. Redondi non sembra essere convinto di tale idea, anzi afferma con determinazione che «l’infinitamente piccolo fu semmai un antecedente logico della nuova astronomia, non una sua conseguenza».35 Parlando a proposito delle dimensioni della sfera stellare Copernico si esprime in questi termini:

fin dove si estenda questa immensità non è affatto noto. Come in senso opposto avviene per i corpuscoli piccolissimi e indivisibili che si chiamano atomi che non essendo percepibili, in due o in più non riescono subito a formare un corpo visibile, ma possono tuttavia essere moltiplicati fino al punto di arrivare a formare un corpo di grandezza visibile.36

Ci si pone dunque il problema di quale fosse il compito e a cosa servisse questa rinascita dell’atomismo materialista di ispirazione democritea. Apparentemente questo ritorno di Democrito e compagni poteva far intravedere un tentativo di secolarizzazione della scienza, che era rimasta imbavagliata dai dogmi di fede per molti secoli. Ma è lo stesso Galileo a smentire questa ipotesi di decristianizzazione della fisica; in alcuni passi del Dialogo più volte sottolinea come tale teoria resti sempre tra “i puri termini naturali”, intentendo per naturali la derivazione divina di tale struttura materiale.37 Proprio alla luce di quanto affermato da Galileo è possibile provare a demarcare gli elementi che differenziano l’atomismo della cultura tardo-rinascimentale da quello d’origine. Bisogna innanzitutto evidenziare il giudizio estremamente positivo che Galileo aveva degli atomisti presocratici, da lui definiti nel Saggiatore una “buona scuola antica”. Il legame diretto tra Galileo e l’atomismo antico è rappresentato dagli “strumenti di conoscenza” usati dal grande scienziato e cioè: dallo strumento matematico, dalla sistematicità metodologica, dal valore assegnato alla conoscenza razionale rispetto a quella sensibile. Queste sono le basi fondanti che spianeranno la strada alla rivalutazione del concetto di atomo e porteranno nei secoli successivi ad aver sempre più fede nella sua esistenza.

Una differenza si può riscontrare nel fatto che, nell’universo di Democrito e di Epicureo, tutto era naturale e riconducibile al gioco tra atomi e vuoto; la materia è discontinua; essa risiede nei piccolissimi e indivisibili atomi che sono separati da vuoto. È un qualcosa di poroso, con pori vuoti tra atomo e atomo. Per Democrito le proprietà della materia sono poi le proprietà dei singoli atomi che la costituiscono. Le forme degli atomi sono responsabili di alcune qualità secondarie (colore, sapore…) che noi osserviamo.

Galileo invece, pur condividendo molte delle impostazioni democritee, tracciava una linea di demarcazione tra naturale e soprannaturale, senza però negare l’esistenza di Dio. Galileo era infatti a conoscenza dell’atomismo testamentario di Bodin, secondo cui Dio aveva infuso ordine imponendo delle leggi alle cose. E l’idea di una legislazione divina alla quale aderiva lo stesso filosofo pisano che in una lettera a madama Cristina di Lorena si esprimeva dicendo che «la natura procede dal verbo divino […] come osservatissima esecutrice degli ordini di Dio […] e mai non trascende i termini delle leggi impostegli».38 In questo contesto, per Redondi, la filosofia corpuscolare serviva quasi a dimostrare l’esistenza di Dio. In altri suoi studi Galileo si pone in questa linea di pensiero: la dottrina aristotelica della incorruttibilità della materia celeste, anche alla luce della visione degli atomisti, è contraria alla verità rivelata dalle Scritture secondo cui «i cieli e tutto il mondo non pure essere generati e incorruttibili, ma generati e dissolubili e transitorii.».39

Rifiutandosi di racchiudere il mondo nell’ordine ideato da Aristotele, i novatores tentavano di negare all’aristotelismo la patente di filosofia religiosa ortodossa. Era proprio nel contesto polemico con i gesuiti che Galileo aveva scelto e sceglierà, soprattutto con la pubblicazione del Saggiatore, di schierare le sue idee corpuscolari.

2.2. L’atomismo galileiano nel dibattito sul galleggiamento dei corpi

Galileo affronta il tema sul galleggiamento dei corpi con l’opera del 1612, Discorsi intorno alle cose che stanno in sull’acqua o che in quella si muovono,40 allo scopo di mostrare, in termini archimedei, che l’unica causa del galleggiamento o dell’affondamento dei corpi era la maggiore o minore gravità specifica del solido in relazione all’ambiente.41 Nella sua trattazione è forte l’opposizione agli aristotelici contemporanei che invece ponevano come causa la forma e la resistenza del liquido.

A quello che per ultima conclusione produce il Sig. Buonamico, di voler ridurre il discendere o no all’agevole e alla difficile division del mezzo e al dominio de gli elementi, rispondo, quanto alla prima parte, ciò non potere in modo alcuno aver ragione di causa, avvenga che in niuno de’ mezzi fluidi […] sia resistenza alcuna alla divisione, ma tutti da ogni minima forza sono penetrati. […] all’altra parte dico […] chi adduce per cagione il predominio dell’elemento, apporta la causa della causa, e non la causa prossima e immediata.42

Da questa affermazione si evince che l’unica ipotesi conciliabile con il principio di Arcihimede era appunto che l’acqua si trovava in uno stato “atomico”.43 L’immagine stessa che Galileo adotta per spiegare la separazione di ciò che era già diviso, oltre a commentare con chiarezza la tesi sostenuta, evidenzia anche la sua finezza e praticità intellettuale.

Si che la resistenza che si sente nel muoversi per l’acqua sia simile a quella che proviamo nel camminar avanti per una gran calca di persone, dove sentiamo impedimento, e non per difficoltà che si abbia nel dividere, non si dividendo alcuno di quelli onde la calca è composta, ma solamente nel muovere lateralmente le persone, già divise e non congiunte. Due maniere, pertanto, di penetrare ci rappresentano: una nei corpi le cui parti fossero continue, e qui par necessaria la divisione; l’altra negli aggregati di parto non continue, ma contigue solamente, e qui non fa bisogno di dividere, ma di muovere solamente. Ora, io son ben risoluto se l’acqua e gli altri fluidi si devono stimar di parti continue, o contigue solamente. Sento bene inclinato al crederle al più presto contigue.44

Ma credeva davvero nella presenza degli atomi nell’acqua? Egli, come detto più volte, fa riferimento all’opinione degli atomisti greci, Democrito in particolare, secondo cui «alcuni atomi ignei, li quali continuamente ascendono per l’acqua, spignessero in su e sostenessero quei corpi gravo che fossero molto larghi, e che gli stretti scendessero al basso, perché poca quantità de’ detti atomi contrasta loro e ripugna».45 La riposta allora è positiva: l’acqua è composta di atomi che ostacolano la caduta di un corpo attraverso di essa con maggiore o minor forza a seconda della sua forma. Questi atomi, però, “non siano potenti” di sollevare e spingere verso l’alto un corpo pesante immerso nell’acqua fredda, quale che sia la forma. Espresse allora l’opinione che, immersi dei corpi in acqua e posto il tutto su dei carboni ardenti, «i nuovi corpuscoli ignei, penetrata la sustanzia del vaso, ascenderanno per quella dell’acqua, senza dubbio, urtando nel solido sopradetto, lo spigneranno sino alla superficie, e quivi lo tratterranno sin che durino le incursioni e’ detti corpuscoli» .46

Galileo in queste affermazioni mostra l’ampia conoscenza della «teoria democritea secondo la quale dei corpi piatti più pesanti dell’acqua galleggiano perché sospinti verso l’alto da atomi di calore che salivano in superficie attraverso l’acqua».47 Per Galileo, dunque, «gli atomi di calore salivano attraverso l’acqua, si riunivano alla superficie e s’immettevano nell’aria quando formavano un numero sufficiente per potersi aprire un varco. Anche gli atomi individuali cercavano di liberarsi».48 Essi però «vengono ritenuti in gran copia dall’acqua aderente, come nello scender per l’aria molti corpuscoli si fermano sull’acqua per l’aderenza dell’aria».49

In questa sua teoria Galileo evidenzia tutta l’importanza che nel suo metodo ha la sperimentazione empirica, in contrapposizione con l’aristotelismo che parlava di atomi affermando semplicemente gli effetti, in termini di forze ignote, che li producevano. Aristotele nel De caelo aveva però obiettato a Democrito che, se il galleggiamento dei corpi fosse dovuto all’ascesa nell’acqua di atomi ignei, tanto più i corpi dovrebbero galleggiare nell’aria, dove gli atomi possono muoversi più velocemente. Ma Galileo, come ci segnala Redondi,50 respinge questa critica e precisa quale sia il corretto meccanismo degli atomi nei fluidi. Infatti nell’aria «non vanno unitamente come nell’acqua, ma si discontinuano, e come diciamo noi, si sparpagliano e però, come ben risponde Democrito risolvendo l’istanza, non vanno a urtare e a fare impeto unitamente».51 È dunque giustificata, data questa struttura atomica, la maggiore pesantezza dei corpi nell’aria. In questo passo «Galileo rivendica il valore della teoria atomista proprio per spiegare in modo meccanico i fenomeni macroscopici della meccanica contro la fisica qualitativa»,52 di cui l’esperimento riportato nelle pagine precedenti è dimostrazione esemplare.

Per Shea, però, l’ipotesi atomista che Galileo avanza in questa opera non fu altro che un’ipotesi ad hoc per salvaguardare i principi archimedei del moto.53 Nelle risposte che Galileo scrive a Giorgio Coresio, che contestava l’atomo indivisibile, egli mostrò di non aver ancora elaborato una sua teoria dettagliata. Scrive infatti che «gli atomi, son così detti, non perché siano non quanti, ma perché sendo minimi corpuscoli, non se ne danno altri minori da i quali possino esser divisi».54 In questo periodo, dunque, il Linceo si attesta su posizioni simili ai commentatori aristotelici, credendo che gli atomi erano praticamente, ma non necessariamente intrinsecamente, indivisibili.55

2.3. Atomi e calore dalla Disputatio al Saggiatore

La discussione sugli elementi costitutivi della materia, iniziata con il dibattito sul galleggiamento dei corpi, fu ripresa nella controversia sulle comete, nel 1618. Come abbiamo sottolineato in precedenza, Galileo non espose mai in maniera completa il suo pensiero in tema di struttura della materia. Tanto meno lo fece nel Saggiatore. È nostro compito allora cercare nel testo, con l’aiuto di autorevoli interpreti, gli elementi che interessano la nostra ricerca. Infatti, «il Saggiatore fu l’occasione per Galileo di regolare alcuni conti con altri avversari, e di esporre alcune questioni di cui, in quegli anni, non aveva potuto o non aveva parlato osare pubblicamente»,56 vale a dire la teoria atomista della materia.

Nelle notti del dicembre 1618 una cometa apparve nei cieli europei: Keplero la osservò e ne testimoniò la portata scientifica con il De cometis, pubblicato nell’autunno del 1619. Egli, rompendo la tradizione millenaria della circolarità dei movimenti celesti, suggerì che la cometa del 1607, e tutte le comete, si spostassero in linea retta attraverso il sistema solare. Assumendo la traiettoria rettilinea e ammettendo il movimento della terra, Keplero dichiarava di essere così riuscito a comprendere lo straordinario fenomeno cometario del 1618.

Nel maggio dello stesso anno, Mario Guiducci, discepolo di Galileo, tenne all’Accademia Fiorentina una lezione sulle comete nella quale si prefigurava un’idea del tutto analoga a quella espressa da Keplero e la pubblicò con il titolo di Discorso delle comete nel giugno di quell’anno.57 A Roma gli esponenti del Collegio Romano, presa visione del fenomeno, espressero il loro punto di vista in proposito. Verso la fine del febbraio del 1619, uscì il breve opuscolo De Tribus cometis disputatio, il cui autore anonimo si è subito individuato in Orazio Grassi. Due erano i messaggi della Disputatio: innanzitutto «la grande cometa non deve essere temuta poiché è un vero e proprio corpo celeste»;58 e poi i vari calcoli sulla grande cometa mostravano giustificata la condanna ecclesiastica contro la teoria copernicana. Questa presa di posizione era sostenuta con tre argomentazioni: la parallasse, il movimento della cometa ritenuto simile ad un arco di movimento di un pianeta, la notevole lontananza della cometa dalla terra.

Il Discorso delle comete fu la risposta che Galileo fece alla Disputatio, attraverso la voce di Guiducci. La pars destruens è una vera e propria requisitoria contro la vecchia opinione aristotelica sulla comete59 e contro la concezione cometaria proclamata nella Disputatio.60 Di fronte al tentativo di Galileo e compagni di distruggere il suo impegnativo lavoro, la reazione del matematico del Collegio fu immediata. Nell’ottobre 1619, sotto lo pseudonimo di Sarsi, pubblica a Perugia la Libra astronomica ac philosophica. Il testo, che Galileo riporta integralmente nel Saggiatore, è talvolta giudicato come un’opera scolastica di scarso significato.61

La tematica del Saggiatore, che Galileo pubblicherà nel 1623, corrisponde a quella esposta nel testo di Keplero e ripropone l’arduo interrogativo: la comprensione del fenomeno cometario non costituisce forse una via privilegiata per determinare quale sia il vero sistema del mondo? Galileo reagiva, con il Saggiatore, al tentativo del gesuita Orazio Grassi di imporre il sistema proposta da Tycho Brahe alla cultura controriformata.62 Quasi tutto il testo del Saggiatore, infatti, è dedicato a controbattere la Libra, e ribadisce le critiche espresse nel Discorso delle comete contro i tre argomenti della Disputatio: non si può calcolare la parallasse della cometa; non si può dedurre dai dati dell’osservazione della sua posizione apparente che la sua traiettoria si sia svolta in un cerchio massimo; la mancanza di ingrandimento telescopico non ne prova la grande distanza dalla terra.63 Naturalmente il Saggiatore non fu solo l’occasione per Galileo per rispondere a Grassi, ma fu utilizzato per esporre alcune questioni di cui non aveva ancora parlato pubblicamente. Fra alcune di esse troviamo le varie ipotesi corpuscolari riferite al calore e alla luce.

In questo dibattito ampio e difficile sulle comete, la tematica della struttura della materia viene trattata da Galileo a proposito del problema dell’origine del vapore e del calore. È il tema dell’accensione delle comete che secondo Redondi permette a Galileo di scrivere un «primo abbozzo di una tesi meccanicistica dei fenomeni termologici per “confricazione” di “sottilissime parti”».64 Egli infatti criticava l’opinione aristotelica secondo cui calore e vapore erano prodotti in cielo dalla rotazione delle sfere celesti. Supera, nel Discorso delle comete, la semplice considerazione di particelle di fuoco emesse nella combustione, come nel Discorso del 1612, spiegando il meccanismo atomico che produce il calore. In collaborazione con Guiducci, elabora una teoria secondo cui il moto non produce cambiamento: solo l’attrito e la compressione originano il calore. Le diverse parti sottili in cui è divisa la materia infatti, «movendosi, penetrano per li meati dalla nostra carne e nel passar per essa, secondo che saranno pochi o molti, tardi o veloci, produrranno col lor toccamento in noi un certo grato diletico che noi poi chiamiamo caldo soave, o vero una violenta dissoluzione di parti con molto nostro dolore, la qual scottamento o abbruciamento vien detta».65

Se invece si consideravano superfici molto dure o lisce (vetro e diamanti), esse non diventano calde perché nessuna particella si separa dai corpi. Come ci segnala Shea, questa teoria galileiana fu soggetta a molte critiche, in modo particolare ci sembra importante segnalare l’opinione di Giovanni Battista Baliani e proprio di Orazio Grassi.66 Il primo fa notare a Galileo come nella sua teoria non fosse chiaro come mai piccole particelle producevano sensazioni spiacevoli se si muovevano velocemente, sensazioni piacevoli se il loro moto fosse stato più lento. Egli infatti afferma che «è ben il vero ch’io non ho ben potuto capire la sua opinione […], come si senta il caldo; né posso intendere in che modo quelle sottilissime parti del corpo sminuzzato, penetrando nella nostra carne, si facciano sentire soavemente se sono tarde, con dolore se violenti».67 Né tanto meno era chiara la differenza tra calore di un corpo che brucia e calore di chi lo sente. La critica mossa da Grassi, come indicato da Shea, ha carattere meno speculativo e sposta la discussione su un livello empirico e quantitativo.68 Egli infatti aveva pesato un pezzo di rame prima in condizioni normali e successivamente, dopo averlo reso incandescente. Il risultato era che il peso non era cambiato nelle diverse situazioni. Con tono quasi ironico Grassi si chiede da cosa Galileo deducesse che le piccole parti si son perse.69

La risposta di Galileo, in due postille alla Libra, è altrettanto precisa e pungente. A proposito della perdita di peso afferma che «ciò non sorprende: considera infatti, che se batti con un martello per mezz’ora, si consuma tanto oro quanto se ne consuma in un anello che porti per due mesi, in cui non noti alcuna perdita, anche se in realtà si verifica».70 E ancora a proposito delle parti che si perdono che «questo si conosce, perché quei corpi de’ quali nulla si perde, non si riscaldano, adunque di quelli che si riscaldano è credibile che qualche parte, ben che insensibile, se ne perda».71 Più tardi, in una postilla di risposta al successivo libro di Grassi, la Ratio ponderum, Galileo scriverà che queste parti sono così insensibili da essere, benché sostanziali e quanti, «invisibili».72

3. Alle radici dell’atomismo galileiano

Il dibattito sul moto come causa del calore aveva dunque condotto Galileo a postulare l’esistenza di particelle invisibili di materia che agiscono sugli organi sensoriali e provocano una risposta soggettiva chiamata calore. Il celebre brano del Saggiatore che riportiamo di seguito indica con forza come i segni della natura, per essere interpretati con certezza, devono essere riconosciuti da considerazioni matematiche ed esperienziali.

Per tanto io dico che ben sento tirarmi dalla necessità, subito che concepisco una materia o sostanza corporea, a concepire insieme ch’ella è terminata e figurata di questa o di quella figura, ch’ella in relazione ad altre è grande o piccola, ch’ella è in questo o quel luogo, in questo o quel tempo, ch’ella si muove o sta ferma, ch’ella tocca o non tocca un altro corpo, ch’ella è una, poche o molte, nè per veruna imaginazione posso separarla da queste condizioni; ma ch’ella debba essere bianca o rossa, amara o dolce, sonora o muta, di grato o ingrato odore, non sento farmi forza alla mente di doverla apprendere da cotali condizioni necessariamente accompagnata: anzi, se i sensi non ci fussero scorta, forse il discorso o l’imaginazione in se stessa non v’arriverebbe già mai. Per lo che vo io, pensando che questi vapori, odori, colori etc., per la parte del suggetto nel quale ci par che riseggano, non sieno altro che puri nomi, ma tengano solamente la residenza nel corpo sensitivo, si che rimosso l’animale, sieno levate e annichilite tutte questa qualità.73

Quando Galileo scriveva questa pagina, non pensava, come ci dice Redondi, al “misterioso libro della natura”, ma ad un testo ben determinato di Aristotele, il De anima, che era alla base della convinzione comune che il calore appartenesse agli attributi o proprietà reali dei corpi.74 Il Saggiatore sovvertiva questa gerarchia e, come schematizza bene Redondi: attribuiva alla sola intuizione della materia proprietà geometriche e meccaniche; le proprietà della materia erano percepibili con i sensi, e non “per discorso”; se le qualità sensibili esistono solo nella sensazione e non nella sostanza materiale, sapore, odore e colore sono dei nomi rispetto alla sostanza in cui sembrano risiedere.

Galileo proponeva in fisica un linguaggio fatto per la prima volta di definizioni e regole: gli oggetti fisici sono proprietà matematiche e meccaniche; il Saggiatore proponeva di sostituire la fisica aristotelica, trasformando le sue proposizioni basate sulla qualità in proposizioni nuove, basate sull’esperienza. Il passaggio appunto da “il fuoco è caldo” a “il fuoco trasmette la sensazione di calore”.75 Galileo si appellò al senso comune e all’esperienza quotidiana per confermare le sue teorie. Egli osservò, per esempio, il movimento della mano su una statua e su una persona vivente.

Io vo movendo una mano ora sopra una statua di marmo, ora sopra un uomo vivo […] all’azione che vien dalla mano rispetto ad essa mano è la medesima sopra l’uno e l’altro soggetto, c’è di quei primi accidenti, cioè moto e toccamento, né per altri nomi vien da noi chiamata.76

Tale movimento è si identico, ma produce nell’uomo, specialmente sulle piante dei piedi e sotto le ascelle, una sensazione nota con il nome di solletico «e parmi che gravemente errerebbe chi volesse dire, la mano, oltre al moto e al toccamento, avere in se un’altra facoltà diversa da queste, cioè il solleticare, si che il solletico fusse un accidente che risedesse in lei».77

L’affermare che gusti, odori e colori esistono separati dagli organi sarebbe dunque un errore. Ciò che esiste nell’oggetto, che produce una sensazione, è materia in movimento. Particelle di varia grandezza, forma, quantità e velocità urtano contro gli organi sensoriali e danno origine a differenti sensazioni. Più specificamente, gli elementi in ordine di ascendente immaterialità, cioè la terra, l’acqua, il fuoco, l’aria e la luce colpiscono rispettivamente i sensi del tatto, del gusto, dell’odorato, dell’udito e della vista. Le pagine del Saggiatore che citiamo di seguito descrivono il diverso modo di percepire le particelle da parte di ogni organo sensoriale; innanzitutto il tatto:

Un corpo solido, e, come si dice, assai materiale, mosso ed applicato a qualsivoglia parte della mia persona, produce in me quella sensazione che noi diciamo tatto, la quale, se bene occupa tutto il corpo, tuttavia pare che principalmente risegga nelle palme delle mani, e più ne i polpastrelli delle dita, co’quali noi sentiamo piccolissime differenze d’aspro, liscio, molle e duro, che con altre parti del corpo non così bene le distinguiamo; e di queste sensazioni altre ci sono più grate, altre meno, secondo la diversità delle figure de i corpi tangibili, lisce o scabrose, acute o ottuse, dure o cedenti: e questo senso, come più materiale de gli altri e ch’è fatto dalla solidità della materia, par che abbia riguardo all’elemento della terra.78

Galileo espone anche il caso del gusto e dell’olfatto: egli dice che alcuni di questi corpi si vanno continuamente dividendo in particelle minime, delle quali alcune, più pesanti dell’aria, scendono verso il basso, ed altre, più leggere, salgono verso l’alto. Ecco allora come nascono i due sensi:

Quei minimi che scendono, ricevuti sopra la parte superiore della lingua, penetrando, mescolati colla sua umidità, la sua sostanza, arrecano i sapori, soavi o ingrati, secondo la diversità de’ toccamenti delle diverse figure d’essi minimi, e secondo che sono pochi o molti, più o men veloci; gli altri, che accendono, entrando per le narici, vanno a ferire in alcune mammillule che sono lo strumento dell’odorato, e quivi parimente son ricevuti i lor toccamenti e passaggi con nostro gusto o noia, secondo che le lor figure son queste o quelle, ed i lor movimenti, lenti o veloci, ed essi minimi, pochi o molti. E ben si veggono providamente disposti, quanto al sito, la lingua e i canali del naso: quella, distesa di sotto per ricevere l’incursioni che scendono; e questi, accommodati per quelle che salgono: e forse all’eccitar i sapori si accommodano con certa analogia i fluidi che per aria discendono, ed a gli odori gl’ignei che ascendono.79

Di questo movimento di particelle nell’aria resta da esaminare il caso del suono e quindi del senso dell’udito: le particelle del suono giungono a noi da tutte le direzioni, sia per proprietà loro, sia per predisposizione dell’orecchio; i suoni sono percepiti e “sentiti” in noi quando si verifica un “tremore nell’aria”, come di “onda increspata”, che muove la cartilagine del timpano del nostro orecchio.80 Nella sua descrizione Galileo riesce a spiegare anche come si origina l’acutezza o la gravità di un suono. Infatti «le maniere poi esterne, potenti a far questo increspamento nell’aria, sono moltissime; le quali forse si riducono in gran parte al tremore di qualche corpo che urtando nell’aria l’increspa, e per essa con gran velocità si distendono l’onde, dalla frequenza delle quali nasce l’acutezza del suono, e la gravità dalla rarità».81 Per quanto riguarda l’ultimo senso, quello della vista, Galileo fa semplicemente riferimento alle descrizioni esposte per gli altri quattro sensi. Shea sottolinea come a Galileo non basti avere affermato che i sensi fondamentali del tatto, dell’odorato, del gusto, dell’udito e della vista, che sembrano risiedere in oggetti esterni, non hanno una realtà al di fuori del soggetto che li percepisce, ma ha necessità di allargare la sua analisi anche al calore.82

Non ànno veramente altra essistenza che in noi, e fuor di noi non altro che nomi, dico che inclino assai a credere che il calore sia di questo genere, e che quelle materie che in noi producono e fanno sentire il caldo, le quali noi chiamiamo con nome generale di fuoco, siano una moltitudine di corpicelli minimi, in tal modo figurati, mossi con tanta e tanta velocità.83

Il fuoco dunque è semplicemente un nome per indicare la moltitudine di minuti corpuscoli che colpiscono gli organi sensoriali. Questi corpuscoli causano una sensazione piacevole quando aiutano il processo di traspirazione, e una sensazione spiacevole quando lacerano e bruciano la carne. In se stesso, il fuoco non è nulla oltre alla forma, al moto e al potere di penetrazione delle sue particelle; ma i corpuscoli del fuoco non potrebbero produrre calore se non fossero mobili, e in questo senso il moto è la causa del calore. Quest’ultima asserzione fu suggerita dall’aver osservato che la calce viva non produce calore a meno che non venga fatta cadere nell’acqua. Galileo spiegò che le particelle di fuoco sono trattenute immobili nei pori della calce fino a quando questi non vengono aperti dall’azione dell’acqua.84 Questa elaborata da Galileo è, per Redondi, «una teoria meccanicistica della materia: particelle invisibili dotate di velocità, peso, effetto d’urto».85 Una cinematica che non ha precedenti nella storia della scienza antica. Essa è una nuova teoria del moto, che non ha dietro di sé alcuna tradizione matematica, come quella del moto dei gravi o della Terra, ma riflette le idee di Lucrezio e Democrito e critica con forza Aristotele.

3.1. La materia della luce

Nella fisica galileiana la luce doveva avere una funzione importantissima. Secondo una testimonianza di Orazio Rucellai, riportata dal Favaro, Galileo pensava che «la luce fosse il cominciamento universale della natura, e ciò imperciocchè credeva che la luce fosse l’estrema espansione, cioè l’ultima rarefazione che dar si potesse, dal quale primo principio tutte le cose, condensandosi essa, dove più e dove meno, si componessero fino alla più spessa e fitta condensazione anco delle pietre più dure et impenetrabili».86 Ma oltre ad identificarsi come il principio atomico della realtà, la luce viene considerata da Galileo come fonte di vita:

parermi che nella natura si trovi una substanza spiritosissima, tenuissima e velocissima, la quale, diffondendosi per l’universo, penetra per tutto senza contrasto, riscalda, vivifica e rende feconde tutte le viventi creature; e di questo spirito par che ‘l senso stesso ci dimostri il corpo del sole esserne ricetto principalissimo.87

Nonostante la terminologia difforme sulla struttura della materia che Galileo manifestava nel Saggiatore, come ci indica Redondi, l’ultimo stadio di risoluzione della materia stessa era la luce. Uno stato atomico, come si evince dal testo, prossimo ad uno stato di trasformazione. Solo alla massima risoluzione della materia, solo alla luce, spettano atomi e atomi speciali: indivisibili.

E forse mentre l’assottigliamento e attrizione resta e si contiene dentro i minimi quanti, il loro moto è temporaneo, e la lor operazione calorifica solamente; che poi arrivando all’ultima ed altissima risoluzione in atomi realmente indivisibili, si crea la luce […] potente per la sua non so s’io debba dire sottilità, rarità, immaterialità.88

Sulla scia di quanto fatto in precedenza per il calore, anche per la luce Galileo ipotizzava una teoria corpuscolare per cui «come a i quattro sensi considerati ànno relazione i quattro elementi, così credo che per la vista, senso sopra tutti gli altri eminentissimo, abbia relazione la luce, ma con quella proporzione d’eccellenza qual è tra ‘l finito e l’infinito, tra ‘l temporaneo e l’instantaneo, tra ‘l quanto e l’indivisibile, tra la luce e le tenebre».89 Come fa notare Redondi in riferimento a questo passo del Saggiatore, è la prima volta che il termine indivisibile viene usato in funzione propositiva, opposto a quanto. Galileo distingue l’atomo materiale, detto quanto, dall’indivisibile che è non quanto e dunque immateriale. Sembra quasi che nel Saggiatore si verifichi già quella transizione dal linguaggio atomista fisico alla concezione infinitista che caratterizzerà l’ultima fase dell’atomismo galileiano, nei Discorsi. La prima che definisce in senso fisico le particelle materiali, filosoficamente neutre, la seconda che conferisce agli atomi un valore filosofico ermetico e neoplatonico.90

3.2. Il Saggiatore tra atomi e comete

Il Saggiatore, collegato alle opere cui faceva esplicito riferimento, appariva come il prodotto della disputa in seguito alle apparizioni cometarie. Diversi studiosi dell’opera di Galileo hanno continuato a leggerlo e interpretarlo come l’opera in cui il contenuto da privilegiare fosse astronomico (la teoria delle comete), pur dando il dovuto rilievo alle numerose digressioni al tema principale. Molti studiosi, quali Shea, Drake e Fantoli, infatti sottolineano l’importanza, per la società e per la cultura, di quelle tre comete e hanno spesso ribadito la centralità del dibattito cometario nel Saggiatore. In conformità con tale impostazione Drake e O’Malley produssero nel 1960 la traduzione inglese del Saggiatore e delle opere di Grassi e Guiducci ad esso legate.

Ludovico Geymonat, rifacendosi ad una pagina di Leonardo Olschki del lontano 1912, annotava che «tutto sommato sembrava più giusto riconoscere che la teoria delle comete non costituisce il vero nucleo della polemica svolta nel Saggiatore, ma il suo punto di partenza».91 Anche Redondi, nel 1982, esplorando nuove interessanti aree, ha sostenuto che la questione cometaria fu solo l’occasio scribendi dell’opera polemica galileiana, trascurando persino il rapporto tra teoria galileiana e sistema copernicano. Il contenuto sarebbe da ravvisare nelle digressioni metodologiche e filosofiche, avente per scopo l’affermazione della propria filosofia.92 Redondi infatti scrive che «nessuno si era mai sognato di fare il Saggiatore per avanzare nascostamente idee copernicane, dal momento che Copernico non parlava mai di comete. L’intento manifesto e voluto era quello di contestare la filosofia aristotelica del Collegio Romano e del suo professore di matematica».93 La lettura di Redondi, come si evince nel suo testo principale, era ancorata essenzialmente al rinvenimento di una denuncia anonima conservata negli Archivi Vaticani94 nella quale veniva rivelata l’incompatibilità della dottrina eucaristica della transustanziazione, così come indicato nei paragrafi precedenti.95

L’importanza di questi documenti è indubbiamente grandissima, e mostra come diversi esponenti ecclesiastici rilevarono, nelle parole di Galileo, un momento di conflittualità tra l’idea galileiana e i dogmi della fede. Le repliche di Grassi della Ratio ponderum, di cui abbiamo dato spiegazione al paragrafo precedente, ne sono una testimonianza autorevole. Questi documenti sono anche la testimonianza della penetrazione dell’atomismo antico nella cultura scientifica del Seicento; tale intromissione era vista dall’autorità ecclesiastica come un pericolo per la salvaguardia di dogmi fondamentali della religione cristiana, come appunto era l’eucaristia.96

Sulla scia di quanto sostenuto da Besomi e Helbing nelle prime pagine dell’edizione critica del Saggiatore, a nostro giudizio è eccessivo vedere in queste accuse, basate sulle idee corpuscolari di Galileo, il motivo centrale del contrasto tra Grassi e Galileo stesso, mettendo in secondo piano la questione cometaria. In base a quanto esposto, ci sembra riduttivo leggere quest’opera galileiana alla luce delle ultime denunce, giudicando insignificante il dibattito sulle comete. Questo è e rimane il motivo ispiratore del Saggiatore. Grande importanza, tuttavia, non si può negare alla teoria atomista che Galileo espone in modo diffuso in tutto il testo, e soprattutto non si può negare l’impatto dirompente che tale teoria ebbe nel mondo ecclesiastico del XVII secolo. Va sottolineato che l’affermare il carattere antidogmatico e antiecclesiastico della teoria atomista galileiana non significa per forza di cose definire «Galileo eretico», come sostiene Redondi nel suo testo;97 né tanto meno si può imputare la condanna di Galileo alle colpe sommate delle teorie copernicane del Dialogo e delle teorie atomiste del Saggiatore. La nostra posizione, in questo dibattito, si pone appunto nel riconoscere il carattere oggettivo delle idee di Galileo sulla costituzione atomica della materia e delle conseguenze filosofiche derivanti da esse, senza però attribuire loro il carattere di causa principale del processo e della condanna di Galileo. D’altra parte, come riferisce lo stesso Battistini in coda al suo studio, l’idea di Redondi di un Galileo eretico e condannato dalla Chiesa non per via delle idee copernicane ma per la dottrina degli atomi, si «fondava soltanto su congetture, ingegnose sì, ma prive di vere conferme documentarie».98

4. La disputa sull’Eucaristia

È molto importante per la nostra ricerca cercare di evidenziare le reazioni che la lettura del Saggiatore provocò sui contemporanei. Il testo galileiano, oltre che confutare il testo aristotelico del De anima, ritenuto sacro nella filosofia universitaria scolastica, faceva balzare agli occhi dei contemporanei diversi nomi del panorama filosofico.

Democrito, prima di tutto, perché a leggere il famosissimo brano sul libro dell’universo non si poteva non pensare a lui: naturalmente non solo per queste affermazioni, ma soprattutto per il costante riferimento alla suddivisione della materia in corpuscoli. Dietro il Saggiatore si scorgevano anche quelle idee democritee citate nel De elementis di Galeno: il colore e il sapore erano opinioni, mentre erano verità gli atomi e il vuoto. Essendo il De elementis uno dei testi più letti e studiati nel cursus filosofico, era evidente che alcune affermazioni scritte da Galileo avrebbero immediatamente collegato i suoi scritti alle idee dei due filosofi greci.

Un’altra opera citata molto spesso nelle università del tempo era il De rerum natura di Lucrezio, in cui il filosofo latino faceva la stessa critica alla realtà del calore aristotelica. Con i criteri che aveva dichiarato, il Saggiatore andava ad interpretare la dottrina aristotelica del moto come causa del calore, con l’assunzione di tale ruolo da parte di atomi ignei e l’emissione di particelle di sostanza. Tale interpretazione rimandava anche al libro De rerum natura iuxta propria principia di Telesio che, come Galileo, proponeva per il moto come causa di calore, l’emissione appunto di particelle di fuoco e di altri elementi. La nuova grammatica della fisica galileiana, distinguendo tra puri nomi e concetti percepibili, evocava la grammatica logica di Occam e la sua distinzione tra intentiones primae, nomi che si riferiscono alle cose, e le intentiones secundae, nomi riferiti alla specie, al genere, all’accidente.99

Redondi, a proposito di questi rimandi delle idee galileiani ad altri autori, fa una annotazione che condividiamo a pieno: il Linceo viveva, dopo la condanna dell’eliocentrismo del 1616, nella condizione di «copernicano in libertà vigilata».100 Ci sembra interessante questa sottolineatura, perché se a Galileo era stato vietato di essere copernicano in astronomia, non gli era stato posto alcun divieto in fisica. Può sembrare una annotazione ironica, ma l’ipotesi degli atomi e soprattutto atomi materiali, di cui si serviva per continuare la sua lotta all’aristotelismo sul fronte della fisica, Galileo l’aveva sotto gli occhi proprio nel De rivolutionibus di Copernico, nel primo libro, in cui l’astronomo polacco parlava della corporeità degli atomi. Passando dall’universo al mondo microscopico egli infatti dice:

Come, per contro avviene nei corpuscoli più piccoli e indivisibili che son chiamati atomi, non essendo percettibili duplicati o moltiplicati alcune volte, non formano un corpo visibile, ma possono essere moltiplicati finchè non bastano finalmente a serrarsi in una grandezza capace di apparire.101

Democrito, Epicuro, Lucrezio, Occam, Telesio, Copernico: la filosofia della natura del Saggiatore evocava una galleria di autori ben poco raccomandabili. Tutti, infatti, erano stati condannati dall’autorità ecclesiastica.

4.1. Il problema delle «qualità» e il sacramento eucaristico

Appare dunque evidente che le lunghe e ampie descrizioni di Galileo che abbiamo riportato ai paragrafi precedenti entravano in diretto contrasto con la metafisica di impostazione aristotelico-tomista in particolare sul problema delle qualità della sostanza materiale.

La filosofia di impostazione scolastica discerne tradizionalmente tra qualità proprie (oggetto di un senso particolare, come il colore per la vista, il suono per l’udito, l’odore per l’olfatto, ecc.) e qualità comuni (oggetto contemporaneamente di più sensi, come l’esteso che si può simultaneamente vedere e toccare). Si distingue inoltre tra qualità originarie (il caldo, il freddo, l’umido, il secco) e le qualità derivate, conseguenti le diverse combinazioni delle primarie, come il duro e il molle.102 Fu proprio con l’applicazione della matematica allo studio della natura, e in particolare a partire da Galileo, che si introdusse una nuova distinzione celebre nella filosofia moderna per merito di Cartesio, fra qualità primarie (che appartengono al corpo in virtù della materia e della quantità, come la grandezza, la figura, il movimento, ecc.) e qualità secondarie (come l’odore, il colore e il sapore).103 Si può osservare che la duplice terminologia (scolastica e di derivazione cartesiana) rimanda ad «ambiti di dimensioni quidditative sostanzialmente equivalenti»,104 identificando perciò le qualità primarie con quelle comuni e le secondarie con quelle proprie.

Questa distinzione comporta che le qualità secondarie forniscano alle qualità primarie la ragione stessa della loro manifestazione. Non si potrebbe attingere la figura di un corpo se non attraverso il colore, la resistenza, il movimento. In cambio le qualità primarie conferiscono alle secondarie proprio una maniera d’essere speciale: al colorato aggiunge la forma, all’odoroso aggiunge la percezione dello spostamento, e così via.105 Entro lo schema aristotelico, quindi, percezione significava penetrazione dei sensi da parte delle qualità reali delle cose: così i sensi non potevano ingannarsi per quanto riguarda le qualità tattili, i colori, i gusti, i suoni, gli odori, ma potevano errare per quanto riguarda le qualità primarie “dedotte”.106 Per l’atomista invece, la percezione non era più una partecipazione indiretta della realtà del mondo, ma una interpretazione soggettiva della disposizione fisica degli atomi che assalivano l’apparato sensorio. Ecco giustificate alcune affermazioni di Galileo nel Saggiatore secondo cui «vo io pensando che questi sapori, odori, colori, etc., per la parte del suggetto nel quale ci par che riseggano, non sieno altro che puri nomi, ma tengano solamente lor residenza nel corpo sensitivo, sì che rimosso l’animale, sieno levate ed annichilate tutte queste qualità».107

Sin dalla pubblicazione del Sidereus Nuncius furono sollevati a Galileo diversi problemi circa la validità delle osservazioni fatte con il telescopio: alcune di carattere tecnico, altre di carattere gnoseologico, relative alla reale possibilità di cogliere la verità della natura attraverso la mediazione di una lente. In questo senso si inserisce la polemica con Giulio Cesare La Galla, sostenitore della tradizione aristotelica e secondo cui «la certezza della dimostrazioni matematiche valeva solo per gli astratti oggetti della geometria e dell’aritmetica, mentre ne erano privi gli oggetti dei sensi».108 Egli infatti scrive:

et quamvis aliquando etiam ad physicas quantitates Mathematica descendat, ut Optica et Harmonica, nihil tamen eius contemplationem physica et naturalis qualitas afficit, cum eam tantum ex accidenti consideret; ut has disciplinas, theorice tantum et scientifice, non autem practice se mechanice, exercenti est manifestum.109

L’argomentazione di La Galla si legava in maniera diretta alla discussione sulle forme e qualità sensibili e sostiene l’ipotesi secondo cui

nempe circa communia sensibilia, motum scilicet, quietem, numerum, magnitudinem et figuram, sensus decipi; qui circa propria, ut colorem, vel saporem, aut nullo modo aut quam minimum falli solent. Cum enim communia sensibilia non huius aut illius certi et determinati quanti passiones sint, ut propria sensibilia esse necesse est, quae ad certas dispositiones sequuntur, sed quanto accidant, ut quantum est et ut eius passiones; inde fit, ut sensus nihil certi aut constituti de eis iudicare possit.110

E portava l’esempio del bastone immerso nell’acqua, che appariva piegato alla vista, ma diritto al tatto. Naturalmente la risposta galileiana si mostrò impaziente verso le speculazioni filosofiche e si risolse in termini tecnici, facendo derivare l’errore nell’osservazione non dal sensibile comune, ma dalla diversità dei mezzi.

La risposta definitiva di Galileo però a queste discussioni viene data proprio nel Saggiatore. Egli infatti, nelle pagine esaminate in precedenza, attribuì alla materia delle “proprietà primarie e reali” (figura, dimensione, spazio e tempo), proprietà considerate come distinte dalle qualità secondarie della sensazione che esse producevano nel corpo sensitivo. Così il Linceo ricavò gli elementi essenziali della sua spiegazione della produzione di differenti qualità sensibili, rappresentati come oggetti del tatto e caratterizzati solo dai sensibili comuni. Definendo così la relazione che intercorre nel passaggio tra mondo percepito e organismo percepente, Galileo individuava un programma di ricerca che avrebbe posto le basi per la futura distinzione fisica tra sensazione e percezione.111

La ricostruzione del pensiero atomista di Galileo e le considerazioni sul valore metafisico e gnoseologico della affermazioni galileiane ci portano inevitabilmente ad aprire una breve finestra sullo scontro tra teologia e fisica che, con l’adozione di tale tesi, riappariva in maniera forte a proposito della trasmutatio materiae, ossia l’interpretazione delle trasformazioni fisiche delle sostanze; questo scontro, a giudizio di Redondi,112 portò i gesuititi ad accusare l’atomismo galileiano di “eresia eucaristica” nel libro di risposta al Saggiatore, la Ratio ponderum librae et symbellae del 1626.113

La disputa sul sacramento eucaristico ferveva come non mai, all’epoca di Galileo. L’eucaristia è il più importante tra i sacramenti della religione cristiana. Fra tutti i segni che esprimono la partecipazione dell’uomo alla vita divina, esso è l’unico che rende Cristo realmente e integralmente presente in mezzo agli uomini attraverso la “trasformazione”114 del pane e vino in corpo e sangue di Cristo. Era stata una pratica centrale nel cristianesimo delle origini ed era venerata senza l’imposizione di una dottrina esplicativa. Da sant’Agostino a Galileo, però, si era svolta la lunga storia di una parola che era stata adotta dai teologi per dare fondamento filosofico al sacramento dell’altare: “transustanziazione”.

Il termine, apparso solo nel XI secolo, aveva avuto divulgazione grazie alle istruzioni pastorali dei vescovi, divenendo così dogma, ufficioso prima e ufficiale poi, con il Concilio Lateranense del 1215. Un dogma, come dice Redondi, è per una religione ciò che un postulato è per una teoria deduttiva: nessuno pretende di dimostrarlo, ma è giusto chiedersi se la sua formulazione non vada incontro a contraddizioni.115 C’è stato un lungo conflitto dentro la cultura cristiana in cui si contrapponevano da un lato i sostenitori di una dottrina consacrata, densa di conseguenze filosofiche e concetti astratti, come quello di sostanza, e dall’altra ipotesi che valorizzavano la conoscenza sensibile, oppure spiegazioni atomistiche: dialettici, nominalisti, atomisti.

Questa dottrina dell’eucaristia, infatti, poneva alcuni interrogativi all’intelletto umano. Come si produce questa trasformazione della sostanza: per annichilazione o conversione? E ancora come spiegare la permanenza dei dati sensibili originari e la loro percezione fisica? Ogni filosofia che avesse introdotto nella nozione di sostanza degli elementi quantitativi, come estensione e numero, avrebbe reso difficile la condizione di esistenza della sostanza nel sacramento. Nessuna poteva essere più consona, se non la metafisica aristotelico-tomista e il cosiddetto ilemorfismo.116

Nell’eucaristia si aveva una sostanza, il corpo di Cristo, diversa nella sua estensione, l’ostia, e che non coincideva con le sue qualità sensibili. Per san Tommaso, tutta la sostanza del pane, ossia forma e materia, è “trasmutata” nel corpo di Cristo. Pertanto la quantità (estensione) dell’ostia consacrata non è sostenuta né dalla materia del pane né dall’aria circostante. Essa permane miracolosamente, senza sostanza. Tale teoria, detta degli «accidenti senza soggetto»,117 metteva al riparo sia dai problemi dell’esperienza sensibile del colore, dell’odore e del sapore, così come dallo scetticismo degli intellettuali.

Galileo non parlava di eucaristia nel Saggiatore, e come afferma Redondi, potremo anche stupirci di un’obiezione dottrinale così lontana dalla fisica.118 Ma nel XVII secolo, come visto, colore, odore e sapore erano termini culturali che rimandavano ad un linguaggio teologico e un’autorità dogmatica. Con le affermazioni atomiste esposte in precedenza, Galileo aveva voluto attaccare il principio d’autorità e l’inestricabile connessione tra ragione e fede propagandata dai gesuiti? Era a conoscenza di quello che avrebbe significato abbandonare la commistione fra scolastica e fisica? Per Redondi la risposta a questi interrogativi, non si trova nel Saggiatore, ma nel libro di replica dei gesuiti, pubblicato a Parigi e poi a Napoli nel 1626, la Ratio ponderum, in cui si reclama un intervento del Sant’Uffizio su questo problema.119 Di questo testo, scritto da Grassi, vogliamo evidenziare un brano che ci sembra davvero significativo:

Remanent, aiunt illi, in ostia sensibiles species, calor, sapor et reliquie: Galileus vero, Calor, inquit, et sapor extra sentientem ac proinde in ostia, pura sunt nomina hoc est nihil. Inferendum igitur ex Galileo erit: Calor et sapor in ostia non remanent. Horret animus cogitare.120

Dal nostro punto di vista, sostenuti anche dagli studi di Redondi, ci appare giusto affermare che la fisica corpuscolare ponesse oggettivamente una questione de fide, «giacché reinterpretare meccanicisticamente la realtà dei sapori, odori e colori, equivaleva ad auspicare un divorzio tra fede e tomismo […] la canonica spiegazione tomista dell’eucaristia andava a farsi benedire».121

4.2. I gradi del sapere122

È evidente che Galileo con le sue idee corpuscolari suscitava una questione de fide. Dopo quasi quattro secoli di dibattimenti intorno alla condanna di Galileo e alle sue idee “rivoluzionarie” in diversi ambiti culturali, negli ultimi decenni si è stato riproposto autorevolmente il problema del rapporto tra scienza e fede, che tanto ha fatto discutere filosofi, scienziati e uomini di fede e di cui il processo galileiano era stato uno degli argomenti più discussi.

Il rapporto tra scienza, filosofia e teologia è un argomento di enorme ampiezza e spessore, richiamato non molti anni fa anche da alcune autorevoli espressioni della Enciclica Fides et Ratio di Giovanni Paolo II. Il pontefice in quest’opera così si rivolge agli scienziati «che con le loro ricerche ci forniscono una crescente conoscenza dell’universo nel suo insieme e della varietà incredibilmente ricca delle sue componenti, animate ed inanimate, con le loro complesse strutture atomiche e molecolari. Il cammino da essi compiuto ha raggiunto, specialmente in questo secolo, traguardi che continuano a stupirci. Nell’esprimere la mia ammirazione ed il mio incoraggiamento a questi valorosi pionieri della ricerca scientifica, ai quali l’umanità tanto deve del suo presente sviluppo, sento il dovere di esortarli a proseguire nei loro sforzi restando sempre in quell’orizzonte sapienziale, in cui alle acquisizioni scientifiche e tecnologiche s’affiancano i valori filosofici ed etici, che sono manifestazione caratteristica ed imprescindibile della persona umana. Lo scienziato è ben consapevole che la ricerca della verità, anche quando riguarda una realtà limitata del mondo o dell’uomo, non termina mai; rinvia sempre verso qualcosa che è al di sopra dell’immediato oggetto degli studi, verso gli interrogativi che aprono l’accesso al Mistero».123

Dopo la lontananza, che ha trovato il suo emblema proprio nel “caso Galilei”, ecco aprirsi per il nuovo millennio la possibilità di un nuovo e fecondo rapporto, che se non è di frattura non deve neanche considerarsi necessariamente di “santa alleanza”, ma di autonomia relativa e convergente. La Fides et Ratio afferma, sul rapporto tra verità scientifica, filosofica e teologica, che «questa verità, che Dio ci rivela in Gesù Cristo, non è in contrasto con le verità che si raggiungono filosofando. I due ordini di conoscenza conducono anzi alla verità nella sua pienezza. L’unità della verità è già un postulato fondamentale della ragione umana, espresso nel principio di non contraddizione. La Rivelazione dà la certezza di questa unità, mostrando che il Dio creatore è anche il Dio della storia della salvezza. Lo stesso e identico Dio, che fonda e garantisce l’intelligibilità e la ragionevolezza dell’ordine naturale delle cose su cui gli scienziati si appoggiano fiduciosi, è il medesimo che si rivela Padre di nostro Signore Gesù Cristo. Quest’unità della verità, naturale e rivelata, trova la sua identificazione viva e personale in Cristo».124 È significativo che l’Enclica faccia riferimento diretto al caso Galileo, riprendendo un discorso di Giovanni Paolo II in cui si asserisce che Galileo «ha dichiarato esplicitamente che le due verità, di fede e di scienza, non possono mai contrariarsi “procedendo di pari dal Verbo divino la Scrittura sacra e la natura, quella come dettatura dello Spirito Santo, e questa come osservantissima esecutrice degli ordini di Dio” come scrive nella lettera al Padre Benedetto Castelli il 21 dicembre 1613. Non diversamente, anzi con parole simili, insegna il Concilio Vaticano II: “La ricerca metodica di ogni disciplina, se procede […] secondo le norme morali, non sarà mai in reale contrasto con la fede, perché le realtà profane e le realtà della fede hanno origine dal medesimo Dio” (Gaudium et spes, 36). Galileo sente nella sua ricerca scientifica la presenza del Creatore che lo stimola, che previene e aiuta le sue intuizioni, operando nel profondo del suo spirito».125

Solo qualche pagina prima infatti si era affermato che «la ragione e la fede, pertanto, non possono essere separate senza che venga meno per l’uomo la possibilità di conoscere in modo adeguato se stesso, il mondo e Dio».126 Secondo la rivelazione biblica, non ha motivo di esistere competitività tra la ragione e la fede, perché “l’una è nell’altra, e ciascuna ha il suo spazio proprio di realizzazione”, poiché Dio e l’uomo, nel loro rispettivo mondo, sono posti in un rapporto unico.

Alla luce di quanto descritto dalla Fides et ratio, ogni disciplina (sia filosofica che scientifica) è condizionata, nel suo attuarsi, dalle effettive possibilità della ragione umana. La ragione umana lavora mediante un processo di astrazione di ciò che è intelligibile (percepibile all’intelletto) della realtà. Quando i medievali ci avvisano che nell’intelletto non si trova nulla che prima non fosse nel senso, ci ricordano che la nostra conoscenza si appoggia per un buon tratto di strada a ciò che ci viene dai sensi, e quindi beneficia delle capacità di alcune facoltà della nostra natura, peraltro comuni a tanti animali (la vista e il tatto anzitutto, ma anche l’udito, il gusto e l’olfatto). Tuttavia ciò su cui lavora l’intelletto viene dai sensi: potremmo anche dire che l’intelletto libera qualcosa che si nasconde nel puro dato sensoriale.

Distinguiamo allora nell’astrazione due processi, o se vogliamo anche due livelli: l’astrazione totale e l’astrazione formale.127 Si tratta di due passaggi importanti perché base ad essi, in particolare in base al secondo, noi procediamo in una conoscenza sempre più approfondita della realtà e dell’essere. L’astrazione totale è semplicemente il passaggio, spontaneo per l’intelletto, dal piano sensibile al piano intelligibile: vedo questa penna, penso “questa penna”. L’astrazione totale consegna alla nostra intelligenza l’essenza della penna, anzitutto di questa penna e quindi custodendo un riferimento alla materia signata. L’astrazione totale dunque non è nulla di strano, ma è l’attività abituale del nostro essere al mondo come esseri dotati di intelligenza. È una attività spontanea, che ci fornisce gli strumenti per riferirci alle cose, sia pur conservando la possibilità di più o meno ampi approfondimenti.128

L’astrazione formale invece, pur essendo per molti versi altrettanto abituale, dal momento che tutti noi ci serviamo di concetti, di idee che abbiamo raffinato tramite l’astrazione formale, potrà sembrare qualcosa di più complesso. Il primo punto da tener presente è che i concetti ai quali perveniamo tramite l’astrazione formale nei suoi vari livelli non si sovrappongono immediatamente alla cosa (che abbiamo dinanzi agli occhi) nella sua interezza, ma ci rivelano qualcosa che è custodito anche nella cosa ma non solo nella cosa. L’astrazione formale distilla quei concetti che abbiamo ottenuto con l’astrazione totale, ne considera alcuni aspetti lasciandone cadere altri. Mentre l’astrazione totale ci restituisce la cosa nel suo complesso, senza far cadere la nostra attenzione su un aspetto particolare ed anzi includendo un riferimento alla materia, al contrario l’astrazione formale ci porta a concentrare la nostra attenzione su un versante particolare.

Ogni scienza procede per astrazione secondo le modalità che le sono proprie. Data la complessità del reale e il modo con cui questo viene conosciuta dall’intelletto, il sapere non può se non organizzarsi in modo interdisciplinare. Generalmente vengono distinti tre livelli di distillazione, tre gradi dell’astrazione formale.129 Il primo si raggiunge prescindendo dalla materia individuale, il secondo dalla materia individuale e sensibile, il terzo da ogni materia, individuale sensibile e intelligibile. I tre gradi indicano tre modi tipici dell’intelligenza di vedere nella medesima cosa profili diversi, diversi per il legame con la materia e quindi diversi nella loro intelligibilità e visibilità. Quando consideriamo il primo grado dell’astrazione formale diciamo di astrarre dalla materia individuale. Ciò significa che ci serviamo dei concetti avendoli svincolati dal riferimento alla materia signata quantitate, maneggiamo dunque il concetto e non più l’oggetto.130

Parliamo di secondo grado dell’astrazione formale quando diciamo di astrarre dalla materia individuale e sensibile; l’intelligenza vede il rettangolo, l’occhio continua a vedere il tavolo. Ora, cosa posso fare con questo concetto, come lo posso impiegare? Si tratta di un concetto più plastico, perché posso impiegarlo per conoscere un profilo della res — ecco allora che dirò il tavolo è rettangolare! — ma posso anche impiegarlo speculativamente per conoscere le proprietà di ogni figura rettangolare e di altre figure geometriche inscritte, come ad es. il triangolo.131 Questo secondo impiego non è possibile con i concetti astratti al primo grado, perché questi ultimi sono funzionali solo alla conoscenza delle cose sensibili e non si prestano ad operazioni speculative: dal concetto di colore non traggo (deduco) le proprietà del colore, che invece osservo nel petalo della gerbera; invece nel caso dei concetti ottenuti al secondo grado di astrazione, l’intelligenza può scegliere se ritornare sulle cose o se trattenersi a livello concettuale e speculativo (nell’immaginazione avrebbe detto Tommaso) per scoprire le implicazioni del concetto di rettangolo. Trattenendosi in quest’ambito l’intelligenza si apre alla conoscenza matematica, conoscenza che gode di una estrema purezza e precisione proprio perché è svincolata dal sensibile: «nulla di sensibile o di sperimentale entra nella definizione di ellisse o di radice quadrata». Ma altro è conoscere le proprietà universali del rettangolo o del triangolo isoscele ed altro è riconoscere in un tavolo la forma rettangolare: il rettangolo che vediamo nel tavolo è nuovamente impastato di materia individuale e sensibile, difficilmente i suoi angoli misureranno precisamente 90°; la conoscenza matematica gode di una precisione assoluta, dovuta proprio alla esclusione dell’apporto dei sensi nel procedimento conoscitivo, e infatti sappiamo bene che nell’applicare le deduzioni matematiche alla realtà sensibile, gran parte di questa purezza e precisione va perduta.

C’è poi un ulteriore grado di astrazione: diciamo allora di astrarre da ogni materia o anche dalla materia sensibile e intelligibile. Quest’espressione può generare qualche perplessità, perché non è agevole di primo acchito capire che materia rimanga da rimuovere una volta che si sia estratta quella individuale e ulteriormente quella sensibile.132 Se già nella definizione di rettangolo «non rientra nulla di sensibile», è difficile pensare che si possa rimuovere ancora qualcosa di materiale, di sensibile. Dobbiamo allora intendere che con materia indichiamo ancora una volta una certa opacità, una certa indisponibilità alla presa concettuale; diremo allora che quanto al processo della conoscenza delle cose anche la matematica perde lucidità quando la applichiamo alla conoscenza di un oggetto, dell’oggetto in cui abbiamo visto il rettangolo. I concetti che invece elaboriamo al terzo grado dell’astrazione sono diversi nel fatto che in nessun caso quando ci rivolgiamo alle realtà esistenti e dunque nel processo conoscitivo vengono a patti con la materia o le sono sottoposti. A questo genere appartengono “concetti” molto particolari, che invero non vengono neppure chiamati più concetti, ma trascendentali: sostanza, buono, bello, uno etc.

Anche nel concetto di sostanza (che ci può venire, nel suo iter astrattivo, da un tavolo come da un uomo) non vi è nulla di materiale, così come nel concetto di rettangolo; però a differenza di quest’ultimo, un uomo o un tavolo esistenti presentano il profilo della sostanza senza imprecisioni, senza opacità dovute alla materia. Un tavolo è sostanza proprio per ciò che sostanza significa, mentre è rettangolare con buona approssimazione. In altre parole ancora, i concetti distillati al terzo grado dell’astrazione non perdono mai la propria limpidezza, in qualunque modo li si consideri e li si applichi nel processo conoscitivo che ci porta alle cose: questi concetti segnano il massimo della capacità di comprensione della conoscenza concettuale, il massimo profilo di visibilità all’intelligenza di ogni ente, la massima libertà della forma, la totale libertà dalla materia.

5. Conclusione

Il problema de fide suscitato dall’atomismo di Galileo risulterebbe oggi, per la Chiesa e anche a nostro giudizio, un problema mal posto. L’opera galileiana si pone ad un livello di astrazione differente rispetto al dogma di fede. La sua indagine sulla struttura della materia non può minimamente interferire sulla percezione che un credente ha del “miracolo eucaristico”. Né tanto meno la ricerca di una struttura della materia coerente con le leggi del moto può essere una motivazione sufficiente per mettere in dubbio un dogma di fede che, essendo tale, non necessita di dimostrazione scientifica. L’affermare la struttura corpuscolare della materia non toglie nulla al valore di un fenomeno miracoloso, che rimane tale per un credente, indipendentemente dalla struttura molecolare o meno del pane eucaristico: l’uomo di fede crede e continuerà a credere che nella particola è presente Cristo.

Se il dato storico impone di segnalare il problema fin qui trattato (le possibili implicazioni antidogmatiche dell’atomismo galileiano) per una completezza d’indagine, il filosofo attento non può non evidenziare che tale argomento, alla luce di quattro secoli di dibattito filosofico e stando anche a quanto affermato autorevolmente dal magistero della Chiesa dal Concilio Vaticano II in poi, appare come un discorso destinato ad assumere toni meno accesi sintetizzabili in questa affermazione per cui «la fede e la ragione sono come le due ali con le quali lo spirito umano s’innalza verso la contemplazione della verità».133


  1. Lettera di Galileo a F. Liceti, 25 agosto 1640, in G. Galilei, Opere di Galileo Galilei, Ediz. Naz. a cura di Favaro A., Firenze 1890-1909, (d’ora in poi Opere), XVIII, p. 234. ↩︎

  2. P. Redondi, Galileo Eretico, Torino 19882, p. 26. ↩︎

  3. M. D’Addio, Il caso Galilei, Roma 1993, p. 206. ↩︎

  4. Lettera di F. Liceti a Galileo, 8 giugno 1940, Opere, XVIII, pp. 202. ↩︎

  5. Lettera di F. Liceti a Galileo, 16 dicembre 1611, Opere, XI, p. 244. ↩︎

  6. Lettera a F. Liceti, 11 gennaio 1620, Opere, XIII, p. 13. ↩︎

  7. Cfr. Lettera a F. Liceti, 30 luglio 1622, Opere, XIII, p. 93. ↩︎

  8. Il titolo del paragrafo è tratto dal titolo dell’opera del Liceti Litheosphorus sive de lapide bononiensi pubblicata a Udine nel 1640. ↩︎

  9. P. Poterio, Pharmacopea Spagyryca, Bologna 1622. ↩︎

  10. F. Liceti, Litheosphorus sive de lapide bononiensi, Udine, 1640 ↩︎

  11. Cfr. Lettera al Principe Leopoldo di Toscana, Opere, VIII, pp. 487-542. ↩︎

  12. Lettera di F. Liceti a Galileo, 23 agosto 1639, Opere, XVIII, p. 90. ↩︎

  13. Lettera di F. Liceti a Galileo, 10 gennaio 1640, Opere, XVIII, p. 106. ↩︎

  14. F. Liceti, Litheosphorus sive de lapide bononiensi, Udine, 1640, p. 178. ↩︎

  15. Capitolo L del Litheosphorus, Opere, VIII, pp. 483-486. ↩︎

  16. Lettera al Principe Leopoldo di Toscana, Opere, VIII, p. 493. ↩︎

  17. Ibid, p. 511. ↩︎

  18. Ibid, p. 514. ↩︎

  19. Lettera a F. Liceti, 23 giugno 1640, Opere, XVIII, p. 208. ↩︎

  20. Lettera a F. Liceti, 25 agosto 1640, Opere, XVIII, pp. 233-234. ↩︎

  21. Lettera al Principe Leopoldo di Toscana, Opere, VIII, p. 542. ↩︎

  22. Lettera a F. Liceti, 15 settembre 1640, Opere, XVIII, p. 248. ↩︎

  23. Lettera di F. Liceti a Galileo, 7 settembre 1640, Opere, XVIII, p. 245. ↩︎

  24. Cfr. Lettera a F. Liceti, gennaio 1641, Opere, XVIII, p. 295. ↩︎

  25. Cfr. L. Geymonat, Galileo Galilei, op. cit., p. 252. ↩︎

  26. P. Redondi, Galileo Eretico, op. cit. ↩︎

  27. Cfr. Ibid., p. 16. ↩︎

  28. Cfr. W. Shea, Galileo e l’atomismo, in «Acta philosophica», X 2001, p. 257. ↩︎

  29. Cfr. Ibid↩︎

  30. P. Redondi, Atomi, indivisibili e dogma, in «Quaderni storici», XX 1985, p. 531. ↩︎

  31. Opere, I, pp. 22-23, 28. «proviene per condensazione e rarefazione, secondo alcuni, come Democrito e Leucippo, dal concorso degli atomi e del vuoto inteposto […] e da ciò si comprende l’errore di Democrito e dei suoi seguaci che asserivano che molti fossero i mondi […] reputando che questo mondo e gli altri infiniti fossero stati creati a caso dal concorso degli atomi […] ma il mondo è creato al fine di permettere alla nostra mente di pervenire alla conoscenza di Dio». Trad. it. tratta da P. Redondi, Atomi, indivisibili e dogma, op. cit., p. 531. ↩︎

  32. P. Redondi, Atomi, indivisibili e dogma, op. cit., p. 532. ↩︎

  33. P. Redondi, I problemi dell’atomismo, in Largo campo di filosofare. Eurosymposium Galileo 2001, eds. J. Montesinos e C. Solis, Fundacion Canaria Oratova de Historia de la Ciencia, La Oratova 2001, pp. 664-665. ↩︎

  34. Cfr. Ibid, pp. 665-666. ↩︎

  35. Cfr. Ibid↩︎

  36. N. Copernico, Opere, a cura di F. Barone, Torino 1979, p. 195. ↩︎

  37. Cfr. Opere, VII, p. 64. ↩︎

  38. Lettera a Madama Cristina di Lorena, 1615, Opere, V, p. 317. ↩︎

  39. Opere, V, p. 138. ↩︎

  40. Opere, IV, pp. 57-141. ↩︎

  41. Cfr. W. R. Shea, Galileo e l’atomismo, op. cit., p. 258. Segnaliamo l’ampia trattazione che Shea compie sull’argomento in W. R. Shea, La rivoluzione intellettuale di Galileo, trad. it. di P. Galluzzi, Firenze 1974, pp. 30-70. ↩︎

  42. Opere, IV, p. 86. Aristotele nel De caelo riconosceva alla viscosità dell’acqua una resistenza proporzionale all’ampiezza delle figure galleggianti. ↩︎

  43. Cfr. W. R. Shea, Galileo e l’atomismo, op. cit., p. 258. ↩︎

  44. Opere, IV, pp. 105-106. ↩︎

  45. Ibid, p. 129. ↩︎

  46. Ibid, p. 132. ↩︎

  47. Cfr. W. R. Shea, Galileo e l’atomismo, op. cit., p. 258. ↩︎

  48. Ibid, p. 259. ↩︎

  49. Postilla a Considerazioni di Accademico Ignoto, Pisa 1612, Opere, IV, p. 195. ↩︎

  50. Cfr. P. Redondi, Atomi, indivisibili e dogma, op. cit., p. 541. ↩︎

  51. Opere, IV, p. 131. ↩︎

  52. P. Redondi, Atomi, indivisibili e dogma, op. cit., p. 541. ↩︎

  53. Cfr. W. R. Shea, Galileo e l’atomismo, op. cit., p. 259. ↩︎

  54. Postilla agli Errori di Giorgio Coresio di Bendetto Castelli, Opere, IV, p. 281. ↩︎

  55. Cfr. W. R. Shea, Galileo e l’atomismo, op. cit., p. 260. ↩︎

  56. Cfr. G. Galilei, Il Saggiatore, ed. critica e commento a cura di O. Besomi e M. Helbing, Roma-Padova 2005, p. 40. L’edizione citata del Saggiatore, da quanto si evince anche dalle introduzioni al testo, nasce con l’intento dei curatori di confermarsi alla princeps delle opere critiche del testo galileiano. L’edizione ripropone i testi integrali, in ordine cronologico, dell’intero dibattito sulle comete: la Libra di Orazio Grassi, le Postille di Galileo alla Libra, il Saggiatore. Restituisce quindi all’interno del libro galileiano l’opera dell’avversario con cui entra in polemica. In tal senso è possibile segnalare il caso illustre dell’Edizione Nazionale, nella quale Favaro ha scorporato il testo della Libra. Per contro Alberi ha riproposto in G. Galilei, Opere, a cura di Alberi, IV, pp. 63-121 e pp. 145-369 il testo rispettivamente della Libra e del Saggiatore. Per la prima volta, in questa edizione critica, si fornisce un commento integrale del Saggiatore, di cui sono per lo più conosciuti solo alcuni passi antologizzati. ↩︎

  57. Cfr. G. Galilei, Il Saggiatore, op. cit., p. 11. ↩︎

  58. G. Galilei, Il Saggiatore, op. cit., p. 18. ↩︎

  59. Esse sarebbero delle bruciature che si verificano nella regione superiore dell’atmosfera celeste. ↩︎

  60. Cfr. G. Galilei, Il Saggiatore, op. cit., pp. 24-25. ↩︎

  61. Ibid, p. 31. ↩︎

  62. Cfr. G. Galilei, Il Saggiatore, op. cit., pp. 14-16. ↩︎

  63. Ibid, p. 39. ↩︎

  64. Cfr. P. Redondi, Atomi, indivisibili e dogma, op. cit., p. 546. ↩︎

  65. Opere, VI, p. 56. ↩︎

  66. Cfr. W. R. Shea, Galileo e l’atomismo, op. cit., p. 261. ↩︎

  67. Lettera di G. B. Baliani a Galileo, 8 agosto 1619, Opere, XII, p. 475. ↩︎

  68. Cfr. W. R. Shea, Galileo e l’atomismo, op. cit., p. 261. ↩︎

  69. Ibid. Segnaliamo nel testo di Shea una attenta traduzione di alcune parti del commento di Grassi alle teoria di Galileo trattata nella Libra↩︎

  70. W. R. Shea, Galileo e l’atomismo, op. cit., p. 262. ↩︎

  71. Opere, VI, p. 162, postilla 147. ↩︎

  72. Opere, VI, p. 481. ↩︎

  73. Opere, VI, pp. 347-348. ↩︎

  74. Cfr. P. Redondi, Galileo Eretico, op. cit., p. 66. ↩︎

  75. Ibid, pp. 67-68. ↩︎

  76. Opere, VI, p. 348. ↩︎

  77. Ibid↩︎

  78. Ibid, pp. 348-349. ↩︎

  79. Ibid, p. 349. ↩︎

  80. Cfr. Ibid. ↩︎

  81. Ibid, p. 350. ↩︎

  82. Cfr. W. R. Shea, Galileo e l’atomismo, op. cit., p. 264. ↩︎

  83. Opere, VI, p. 350. ↩︎

  84. Ibid, p. 351. ↩︎

  85. P. Redondi, Atomi, indivisibili e dogma, op. cit., p. 548. ↩︎

  86. A. Favaro, Pensieri, sentenze e motti di Galileo Galilei, Firenze 1910, pp. 105-106. ↩︎

  87. Lettera a P. Dini, 23 marzo 1615, Opere, V, p. 301. ↩︎

  88. Opere, VI, p. 352. Il corsivo è mio. ↩︎

  89. Ibid, p. 350. ↩︎

  90. P. Redondi, Atomi, indivisibili e dogma, op. cit., p. 550. ↩︎

  91. L. Geymonat, Galileo Galilei, op. cit., p. 128. ↩︎

  92. Cfr. G. Galilei, Il Saggiatore, op. cit., p. 64. ↩︎

  93. P. Redondi, Galileo Eretico, op. cit., p. 182. Besomi e Helbing, nella loro edizione critica del Saggiatore, a queste parole di Redondi, sottolineano come Copernico parli, se pur brevemente, delle comete, nel cap VII del primo libro del De rivolutionibus. ↩︎

  94. Il documento indicato come G3 e trascritto in P. Redondi, Galileo Eretico, op. cit., pp. 427-430. ↩︎

  95. Ci sembra giusto sottolineare un altro documento di denuncia senza data, il cui autore è stato individuato in Melchior Inchofer, scoperto da Mariano Antigas e Thomas Cerbu. Cfr. A. Antigas, Un nuovo documento sul caso Galilei, in «Acta philosophica», X 2001, pp. 199-214; T. Cerbu, Melchior Inchofer, “Un homme fin et resù”, in Largo campo di filosofare. Eurosymposium Galileo 2001, op. cit., pp. 587-611. ↩︎

  96. Cfr. G. Galilei, Il Saggiatore, op. cit., p. 66. ↩︎

  97. P. Redondi, Galileo Eretico, op. cit., pp.407-421. ↩︎

  98. A. Battistini, Introduzione a Galilei, Bari 1989, p. 166. ↩︎

  99. Occam aveva affermato che nessuno di questi nomi del secondo tipo apparteneva alla realtà, e che entità metafisiche, come la bianchezza, non avevano realtà empiriche, essendo frutto di supposizione personale. L’attribuzione di realtà a tali nomi era infondata. ↩︎

  100. Cfr. P. Redondi, Galileo Eretico, op. cit., p. 77. ↩︎

  101. N. Copernico, De rivolutionibus orbium caelestium, a cura di A. Koire, trad it. di C. Vivanti, Torino 1975, p. 62. ↩︎

  102. Cfr. A. Alessi, Sui sentieri della verità, Roma 2001, p. 184. ↩︎

  103. Opere, VI, p. 348. ↩︎

  104. A. Alessi, Sui sentieri della verità, op. cit., p. 184. ↩︎

  105. Ibid, p. 196. ↩︎

  106. Cfr. W. R. Shea, Galileo e l’atomismo, op. cit., p. 269. ↩︎

  107. Opere, VI, p. 348. ↩︎

  108. A. C. Crombie, Le proprietà primarie e le qualità secondarie nella filosofia naturale di Galileo, in A. Carugo (a cura di), Galileo, Milano, 1977, p. 212 ↩︎

  109. G. C. La galla, De phaenomenis in orbe Lunae, in Opere, III, p. 323. «…e sebbene talvolta la matematica scenda a contatto con quantità fisiche, come nell’ottica e nell’armonia, nondimeno le qualità fisiche e naturali non influiscono sulla teoria (contemplatio), giacchè essa considera soltanto in maniera accidentale; come appare ovvio a chiunque studi questi soggetti soltanto da un punto di vista teorico e scientifico, ma non pratico e meccanico». Trad. it. tratta da A. C. Crombie, Le proprietà primarie e le qualità secondarie nella filosofia naturale di Galileo, op. cit., p. 213. ↩︎

  110. G. C. La galla, De phaenomenis in orbe Lunae, in Opere, III, p. 324. «…i sensi ingannano circa i sensibili comuni, ossia il moto, la quiete, il numero, la dimensione e la figura; sebbene essi normalmente non errino affatto o minimamente circa i sensibili propri, come il colore o il sapore. Infatti, poiché i sensibili comuni non sono attributi di questa o di quella quantità fisica e determinata, come è invece necessario nel caso dei sensibili propri che si accompagnano a certe disposizioni, ma appartengono alla quantità in quanto quantità e in quanto ne sono attributi, accade così che il senso non può esprimere nessun giudizio certo e definitivo in merito ad esse». Trad. it. tratta da A. C. Crombie, Le proprietà primarie e le qualità secondarie nella filosofia naturale di Galileo, op. cit., p. 214. ↩︎

  111. Cfr. Ibid, pp. 216-217. ↩︎

  112. P. Redondi, I problemi dell’atomismo, op. cit., p. 661. Per una trattazione più ampia sul tema, oltre al testo citato si rimanda al cap. VII di P. Redondi, Galileo Eretico, op.cit., a cui faremo riferimento nelle pagine seguenti per ricostruire il dibattito attorno all’eucaristia. ↩︎

  113. Opere, VI, pp. 373-500. ↩︎

  114. Sappiamo bene che per un teologo cattolico l’utilizzo di questo termine risulterebbe improprio. ↩︎

  115. Cfr. P. Redondi, Galileo Eretico, op. cit., p. 263. ↩︎

  116. Un corpo, secondo questa teoria, è composto da due principi metafisici: la materia, che dà al corpo la sua estensione, e la forma, principio qualitativo che gli conferisce attività e proprietà specifiche. La sostanza risulta essere il prodotto di questi due principi. ↩︎

  117. Cfr. Summa Teologica, Questiones 73-83. ↩︎

  118. Cfr. P. Redondi, Galileo Eretico, op. cit., p. 283. ↩︎

  119. P. Redondi, I problemi dell’atomismo, op. cit., p. 668. ↩︎

  120. Opere, VI, p. 487. «Nell’ostia è comunemente affermato, le specie sensibili, il calore, il sapore e così via, permangono: Galileo invece dice che il colore e il sapore, fuori da colui che li avverte, e pertanto anche nell’ostia, sono dei puri nomi, ossia essi son niente. Si dovrà dunque inferire da ciò che Galileo dice, che il calore e il sapore non sussistono nell’ostia. L’animo prova orrore solo a pensarlo. Trad. it. in P. Redondi, Galileo Eretico, op. cit., p. 433. ↩︎

  121. P. Redondi, I problemi dell’atomismo, op. cit., pp. 674-675. ↩︎

  122. Per il titolo e per il contenuto di questo paragrafo si è fatto riferimento a J. Maritain, Distinguere per unire: i gradi del sapere, trad. it. di E. Maccagnolo, Morcelliana, Brescia 1981; J. Maritain, Distinguer pour unir: ou les degres du savoir, in J. Maritain - R. Maritain, Œuvres complètes, a cura di J. M. Allion, M. Dany, D. e R. Mougel, Paris 1986-2000, IV, pp. 257-1111. ↩︎

  123. Giovanni Paolo II, Lettera Enciclica «Fides et ratio» sui rapporti tra fede e ragione, Città del Vaticano 1998, n. 106. ↩︎

  124. Ibid, n. 34. ↩︎

  125. Ibid, n. 34, nota 29. ↩︎

  126. Ibid, n. 16. ↩︎

  127. Cfr. J. Maritain, La philosophie de la nature, in J. Maritain - R. Maritain, Œuvres complètes, op. cit., V, p. 837. Trad. it. J. Maritain, La filosofia della natura, Brescia 1974. ↩︎

  128. Cfr. Ibid, pp. 840-843. ↩︎

  129. Cfr. Ibid, p. 845. ↩︎

  130. Cfr. J. Maritain, Sept lesons sur l’etre e les primiers principes de la raison speculative, in J. Maritain - R. Maritain, Œuvres complètes, op. cit., V, p. 611. Trad. it. J. Maritain, Sette lezioni sull’essere e sui primi principi della ragione speculativa, introduzione di V. Possenti, Milano 1981. ↩︎

  131. Cfr. Ibid, p. 612. ↩︎

  132. Cfr. Ibid, pp. 613-614. ↩︎

  133. Giovanni Paolo II, Lettera Enciclica «Fides et ratio»…, op. cit., n. 1. ↩︎