Logica, testualità, relazione. Uno studio sull’epistemologia linguistica di Vailati

1. Storia e comparazione: il metodo delle prime Prolusioni

Le opinioni, siano esse vere o false, sono pur sempre dei fatti, e come tali meritano ed esigono di essere prese ad oggetto di indagine, di accertamento, di confronto, d’interpretazione, di spiegazione precisamente come qualunque altro ordine di fatti, e allo stesso scopo; allo scopo cioè di determinare per quanto ci è possibile, in mezzo alle loro varietà […] gli elementi costanti, le uniformità, le leggi insomma da cui il loro succedersi è regolato (SF: 44).1

Si tratta del noto passo — tratto dalla prima prolusione accademica — in cui Vailati ipotizza l’esistenza di un nesso concettuale di base tra scienza e storia.2 Tutto il senso del suo primo lavoro metodologico converge infatti nella seguente questione: quando viene meno l’insieme di condizioni volte a giustificare una posizione critica nei confronti del passato, compito dello storico della scienza diventa quello di eliminare progressivamente la diffidenza nei confronti del mondo delle «opinioni» favorendo un complessivo processo di trasformazione della tradizionale storia delle scienze di tipo evolutivo/positivistico3 in una storia «speciale» la cui caratteristica è da un lato quella di sottrarsi al procedimento di raccolta «cumulativa» di isolate discipline scientifiche, dall’altro quella di proporsi come «storia comparata» delle varie scienze, volta cioè ad «analizzare e considerare da un punto di vista generale i vari metodi di indagine e la parte che ciascuno di essi ha effettivamente avuta nell’incremento dei vari rami del sapere» (SF: 45).

In questo senso è già evidente nel giovane Vailati l’assunzione di un metodo di ricerca volto a garantire una risposta non convenzionale alle due questioni fondamentali della storiografia scientifica: la ricerca delle analogie e l’individuazione delle cause del successo di un metodo rispetto ad un altro, cioè, in qualche modo, della logica interna ai mutamenti della scienza.4 Il succedersi delle teorie, la storia dei loro mutamenti strutturali vanno così intesi come «processo di approssimazioni successive paragonabili ad una serie esplorazioni in un paese sconosciuto, ciascuna delle quali corregge o precisa meglio i risultati delle esplorazioni precedenti» (SF: 46). Con il concetto di teoria come «strumento» siamo subito nell’ambito problematico che caratterizza la seconda e concettualmente più densa prolusione, quella dedicata al Metodo deduttivo come strumento di ricerca. Strumenti vengono infatti definiti più volte i procedimenti scientifici all’interno di un determinato periodo storico-culturale. Vale dire mezzi attraverso cui si articola e interpreta l’utilità di una teoria, e non in primo luogo principi primi in grado di verificare astrattamente i fatti che presuppongono: «è piuttosto la conformità delle conclusioni a cui si arriva, coi dati dell’esperienza, che giustifica i principi e limita il campo delle ipotesi da cui è conveniente partire» (SF: 58). È questo, secondo Vailati, l’aspetto centrale nello sviluppo della moderna coscienza scientifica occidentale riconosciuto e teorizzato per la prima volta nel Discours di Cartesio. Traendo spunto dalla storia della meccanica (che nella produzione vailaiana assume spesso il ruolo di privilegiato exemplum storiografico) Vailati scrive infatti:

nelle lunghe lotte tra i vari principi che nelle successive fasi di sviluppo della statica si sono contesi il primato […] il criterio dell’evidenza immediata o della confrontabilità diretta coi dati dell’esperienza ha dovuto sempre più cedere il passo alle considerazioni riguardanti la diversa semplicità e agevolezza con la quale i vari principi si prestavano a raggruppare intorno a sé, come conseguenze ottenute per deduzione, i fatti e le leggi che l’osservazione era andata man mano constatando (SF: 64).

Tutto ciò significa che la stessa pretesa purezza dei «fatti», lo stesso idolatrato orizzonte dell’osservazione, può non essere l’elemento centrale del procedimento scientifico. Il pragmatismo o strumentalismo vailatiano — già qui embrionalmente configurato — nasce non certo come espressione di una presa di posizione ideologica generica contro i sistemi o le ingenue speculazioni positivistiche, ma, sempre più chiaramente, come verifica testuale, come costante processo di re-interpretazione dei risultati ottenuti dalle singole storie delle discipline scientifiche — in questo caso, come abbiamo detto, della storia della meccanica.5

Il punto di partenza della seconda Prolusione è rappresentato da una densa ricognizione sulla storia della «ricezione», se così si può dire, del metodo deduttivo e sulla sua progressiva svalutazione in età moderna. Un’analisi della sistemazione aristotelica dei metodi induttivo/generalizzante e deduttivo/dimostrante mirerà a ristabilirne un significato originario ampiamente misconosciuto dai tradizionali studi di storia della scienza. In effetti il primo livello soggetto ad una rettifica storiografica sarebbe proprio quello relativo alla pretesa estensione universale tentata da Aristotele del principio della deduzione rispetto a quello dell’induzione: «[il fatto] che il carattere speciale del ragionamento deduttivo sia da Aristotele indicato col dire che esso conduce a conclusioni necessarie o forzose» non significa necessariamente che debba «significare, come gli fecero più tardi dire i suoi seguaci, che le conclusioni ottenute per deduzione meritino, per ciò solo, maggior fiducia di quelle cui si arriva per mezzo dell’induzione» (SF: 61). La necessità cui si riferisce Aristotele sarebbe infatti secondo Vailati una necessità più di natura logico-retorica generale — in quanto implicante «naturalmente» che da una premessa ne possano discendere diverse altre — che un’espressione di certezza assoluta scientifica. Già Aristotele sembra infatti, da questo punto di vista, rendersi perfettamente conto che la serie illimitata delle deduzioni deve in qualche modo rimontare ad una qualche proposizione iniziale desunta induttivamente e confortata dalla «testimonianza diretta dei sensi» (SF: 62). Il nodo problematico di quest’esame storiografico della dottrina aristotelica è infatti secondo Vailati quello della progressiva deformazione o meglio del deciso «capovolgimento» che dell’originario impulso aristotelico è stato fatto da parte dei moderni scienziati e delle conseguenze che esso ha comportato. Un sovvertimento e una mislettura che significativamente Vailati riferisce non ad una contrapposizione tra singole ideologie o atteggiamenti scientifici ma all’esistenza di situazioni storico-culturali complessive profondamente diverse. Il metodo deduttivo non viene infatti da Vailati considerato in alcun modo come una autonoma creazione di Aristotele, ma come un procedimento, un campo di applicazione metodologica generale già circolante prima di Aristotele e da lui soltanto formalizzato e sistemato. In un passaggio molto significativo, Vailati scorge dietro l’uso aristotelico del metodo deduttivo già uno specifico anche se limitato orizzonte concreto di sue applicazioni: «Le convinzioni di Aristotele su questo argomento sembrano essere state soprattutto determinate dall’osservazione del modo di funzionare della deduzione nei due soli campi nei quali gli scienziati suoi predecessori e contemporanei erano riusciti a servirsene con vantaggio, cioè da una parte la geometria, e dall’altra la retorica, intendendo questa nel senso antico, cioè come arte di modificare le opinioni altrui per mezzo della parola» (SF: 64). L’accento posto sull’origine retorico-geometrica dell’induzione ha la funzione di mostrare come ancora una volta persino una metodologia squisitamente logica possa avere un’origine nettamente pragmatico-applicativa, e cioè come il suo utilizzo sia sostanzialmente legato ad una dimensione di «funzione» e di «utilità». In Aristotele, scrive Vailati, la deduzione è

anzitutto uno strumento che serve a garantire la verità di proposizioni solo probabili o plausibili, ricollegandole ad altre più sicure e rendendole in certo modo partecipi della loro saldezza ed evidenza, come si fa appunto nelle dimostrazioni geometriche o nelle discussioni forensi, nelle quali ognuno cerca di corroborare le proprie asserzioni appoggiandole a degli assiomi o a delle disposizioni di legge sulle quali non si discute (SF: 64).

Da questo punto di vista si capisce come secondo Vailati anche questa forma di «strumentalismo» presente nella riflessione aristotelica vada intesa come espressione di una situazione culturale in cui egli opera in primo luogo come codificatore-sistematore, ma non certo come creatore ex nihilo di un metodo o di un procedimento. Quest’insistenza sull’importanza conferita ai fattori storico-concreti nella genesi di una teoria si chiarisce poi ulteriormente quando Vailati procede all’analisi dell’universo scientifico della modernità. Il profondo rinnovamento della metodologia scientifica moderna sarebbe infatti stato determinato non tanto da un rifiuto in sé della deduzione aristotelica, quanto da una trasformazione delluso della stessa metodologia deduttiva e cioè in primis del sillogismo. In altre parole secondo Vailati il radicale impulso anti-aristotelico dei maggiori sperimentatori e teorici della scienza moderna non comportò di necessità un conseguente abbandono della pratica deduttiva — se non a rischio di incorrere in una sorta di autofraintendimento da parte degli stessi sperimentatori. Quel che è infatti passato alla storia come superamento della deduzione, altro non è, ad uno sguardo più approfondito, che una discutibile interpretazione storiografica articolatasi nei secoli e derivata dell’eccesso di polemiche anti-tradizionali che si venne sviluppando tra la seconda metà del ’500 e gli inizi del ’600, un eccesso a sua volta scaturito da una serie molto complessa di intrecci socio-culturali e in quanto tale irriducibile ad una specifica battaglia ideologica sulla scientificità o meno del metodo in oggetto.6 Scrive Vailati:

Le declamazioni di Bacone sulla sterilità della dialettica e contro la sillogistica di Aristotele sarebbero state assai meno violente e accanite se […] avesse potuto scindere completamente le sue obbiezioni contro l’abuso del sillogismo dalle sue critiche contro l’insieme di pregiudizi ed errori che per mezzo della deduzione erano resi atti a organizzarsi in formidabile falange contro qualunque tentativo di progresso e di avanzamento delle scienze al di là delle colonne d’Ercole segnate da autorità incompetenti (SF: 74).

Si capisce in questo senso come l’ipotesi di Vailati possa dimostrare che le critiche galileiane e baconiane alla tradizione — nelle quali si scorge generalmente l’atto inaugurale della scienza moderna, quasi un mutamento di episteme o comunque l’instaurazione di nuovi paradigmi — non abbiano in realtà avuto quasi alcun effetto pratico sull’incremento concreto della scienza occidentale. Da questo punto prospettico la critica «interna» rivolta ad Aristotele non riguarderebbe affatto la deduzione in sé, ma una certa interpretazione ed una certa trasformazione, oltre che un ampliamento, del suo concetto. La deduzione da un lato infatti cessa di venir intesa come «spiegazione» e «anticipazione» dell’esperienza ma dall’altro viene produttivamente riutilizzata e riattualizzata come «mezzo di prova e accertamento» e quindi come potente stimolo ad interrogare, a provocare, a stimolare la natura stessa a dar risposte. L’origine del metodo sperimentale moderno non va così ricercata in una sorta di «rimozione» del sillogismo aristotelico e delle sue conseguenze, ma semmai in un suo uso più esteso e complesso. In gioco è addirittura il passaggio epocale da una concezione passiva ad una attiva dei processi conoscitivi: «tra le cause che hanno condotto gradualmente alla sostituzione dei moderni metodi sperimentali al posto degli antichi metodi di semplice osservazione passiva, va annoverata […] l’applicazione della deduzione anche a quei casi nei quali le proposizioni prese come punto di partenza erano considerate come più bisognevoli di prova […]» (SF: 66). In un passo ulteriore poi, ancor più chiaramente, Vailati punta l’accento proprio sul mutamento storico-culturale complessivo che portò ad una nuova idea dell’interrogazione della natura, quel che Galilei chiamo il «cimento» con essa, la sfida che le si porta per farla rispondere «diversamente da quello che essa avrebbe dovuto» (SF: 67). Ecco il passo:

L’impossibilità di trovare, nei fatti spontaneamente presentantisi all’osservazione, il materiale adeguato per la verifica delle conclusioni a cui spingevano deduzioni che, per quanto corrette e rigorose, non erano basate su premesse riconosciute per se stesse meritevoli di fiducia incondizionata, come quelle dei matematici, fece nascere il desiderio e il bisogno di allargare con artifici la sfera dei fatti da utilizzare per controllo delle teorie, e contribuì, più di qualunque altra circostanza, a portare all’impiego sistematico di quell’osservazione di fatti artificialmente provocati allo scopo di osservarli, che costituisce l’esperimento propriamente detto (SF: 66).

Dunque il desiderio e il bisogno di allargamento della sfera dei «fatti», l’introduzione dell’artificio e del cimento sono all’origine della visione scientifica sperimentale, più che l’invenzione o la teorizzazione del metodo induttivo. Il passaggio dalla concezione scientifica classica a quella moderna — sembra alla fine voler sostenere Vailati — appare in fondo proprio un passaggio dalla certezza degli antichi, evidenziata dalla saldezza delle premesse, all’incertezza dei moderni, incarnata nel bisogno di un costante processo di tentativi ed errori.7

2. Verso la linguistica: le Osservazioni sulle questioni di parole

La necessità di adottare un paradigma epistemologico ed ermeneutico aperto ed in qualche modo addirittura «eretico», nella considerazione delle grandi questioni del progresso scientifico o nel giudizio stesso sulla validità delle diverse teorie, emerge con molta chiarezza nella terza prolusione vailatiana il cui titolo esatto suona Alcune osservazioni sulle questioni di parole nella storia delle scienza e della cultura e che fu pronunciata del 1898. Abbiamo già visto come ad una visione puramente cumulativa, enumerativa dei fatti storici, Vailati opponesse una interpretazione quasi genealogica delle teorie scientifiche, una «comparazione tipologica» capace di dar vita ad un produttivo confronto, ad un’interazione non scontata tra le diverse strutture epistemologiche di un dato periodo storico. Con questa terza prolusione, il punto di vista di Vailati sembra accentuare questa tendenza ad una considerazione più aperta, prospettica, pragmatica della storia della scienza — una storia al cui centro viene posta significativamente, e per la prima volta con nettezza, la questione del linguaggio.8

Il problema è infatti ora quello di stabilire in che senso la dimensione linguistica interagisca o interferisca con le teorie o i paradigmi scientifici. A tal scopo, ciò che nei precedenti lavori di Vailati era ancora in qualche modo un semplice auspicio (la collaborazione tra le varie discipline, la duttilità metodologica, l’inscindibilità di scienza e filosofia) diventa pratica interpretativa effettiva in questo suo terzo scritto: la semplice comparazione tipologica tende infatti qui concretamente a farsi comparazione semiologica generale. Emerge in questo senso una modernissima concezione di testo: una teoria e un modello epistemologico, ma anche una semplice elaborazione materialmente scritta, vengono esplicitamente considerati non soltanto dal punto di vista, come dire, del contenuto reale, referenziale, presunto oggettivo, ma anche e soprattutto come un campo linguistico complesso nel quale gli elementi espressivi o cosiddetti «esteriori» — le norme, gli usi linguistici, le convenzioni — ma anche i significati arbitrariamente aggiunti nel tempo, le miseltture, le difficoltà di ordine storico-filologico, vengono ad assumere un peso determinante.

L’invenzione di nuovi modi di formulare e di esprimere ciò che già si conosce è da riguardare talvolta come un contributo non meno importante, all’avanzamento delle scienze, di quanto non sia l’acquisto di nuove cognizioni di fatto o la scoperta di nuove leggi. Ed è per la stessa ragione che spesso gravissimi ostacoli al progresso delle scienze sono stati opposti dal fatto che le cognizioni già acquistate su un dato oggetto furono prematuramente schematizzate e rappresentate in modo da pregiudicare i risultati di ulteriori indagini, o da creare prevenzioni atte a spingere queste su false tracce e ad impedire che una dose sufficiente di attenzione fosse rivolta nella direzione opportuna (SF: 115-116).

Come vedremo meglio più avanti, analizzando nello specifico alcuni nodi epistemici esemplari esaminati da Vailati in questa prolusione, la forma espressiva stessa, la «configurazione» testuale di un modello teorico è strettamente legata alle trasformazioni del modello stesso. Persino al livello dell’utopia di linguaggi fortemente formalizzati o oggettivi come quello logico/matematico o artificiale/tecnico va postulato un livello interno di connotazione (uso di metafore e/o di convenzioni, abbiamo detto, e quindi esteriorità, espressività generale del linguaggio stesso) assolutamente ineliminabile. Scrive Vailati in un passo centrale:

Il linguaggio tecnico-scientifico non meno del linguaggio volgare è pieno di frasi ed espressioni metaforiche che, pur avendo cessato, pel lungo uso, di richiamare l’immagine che suggerivano originariamente, non hanno perduto la capacità di indurci ad attribuire ai fattori che esse descrivono tutte le proprietà dell’immagine a cui esse si riferiscono. Lo stesso carattere poetico ed immaginoso che ci impressiona in linguaggi molto differenti dal nostro (per esempio nei linguaggi orientali), noi lo riconosceremmo pure nel nostro, ed in quelli ad esso affine, se una lunga abitudine non ci avesse […] messi in grado di giovarci delle immagini a cui il nostro linguaggio ricorre e delle metafore che esso contiene, senza riconoscerle come tali (SF: 116).

Quasi come nel famoso detto nietzscheano sulla verità come antichissima metafora di cui si è dimenticato il senso, la centralità del processo metaforico reperibile in ogni tipo di linguaggio spinge Vailati a ritenere in un certo senso che qualsiasi tipo di codificazione linguistica, anche la più pura, non può essere pensata al di fuori di una più generale «mediazione creativa»9 e quindi in quanto tale costitutivamente esposta ad un complicato processo di codifica e decodifica, di errore e correzione, un processo contemporaneamente storico, psicologico, sociale e culturale. Vediamo nello specifico i «nodi» o passaggi che spingono Vailati ad ipotizzare questa radicale interazione pragmatica tra linguaggio e «costruzione» della realtà, tra la logica linguistica e i modelli (teorici) di interpretazione del reale. Il progetto del saggio — piuttosto ambizioso10 — è duplice: da un lato studiare la struttura interna del linguaggio, dall’altro risalire alle ragioni del suo cattivo uso e in un certo modo proporre una genealogia (e una correzione) delle «illusioni» linguistiche. Molte controversie scientifiche sembrano secondo Vailati in effetti derivare da una mancata analisi preliminare del senso di certi termini e, di seguito, di certi enunciati.11 Il punto di partenza è l’analisi delle differenze esistenti tra linguaggio tecnico-scientifico e linguaggio ordinario. Una differenza estremamente rilevante secondo Vailati proprio quando si prenda in esame il significato di un determinato termine, quando cioè si tenti di analizzare la spinosa e antichissima questione del nome. Nel linguaggio comune, il nome attraverso cui si indica un certo oggetto è in ultima analisi l’esito di una sorta di «impressione» generale di rassomiglianza tra quello specifico oggetto ed una serie di altri oggetti — già noti e «nominati» in precedenza — ritenuti ad esso simili: tale «impressione» fa sì che il significato (inteso in senso strettamente referenziale) di quel nome specifico resti sempre sostanzialmente ambiguo e non del tutto chiarificabile, dunque potenzialmente foriero di illusioni e inganni linguistici. Al contrario, in una dimensione che si pretendesse puramente (e, come vedremo, utopicamente) scientifica, il linguaggio funzionerebbe come se tendesse a designare una molteplicità, una costellazione, un ordine più ampio di oggetti mediante uno stesso nome soltanto dopo aver pre-determinato — analizzando la relazioni che legano tra di loro i vari oggetti in esame — una serie di caratteri comuni che verrebbero così in maniera meno oscillante a costituirne effettivamente il significato. Linguaggio «corretto» e privo di equivoci sarebbe in questo senso soltanto quello che dichiara anticipatamente i propri limiti, un po’ come per Popper la qualifica di scientificità può essere concessa ad una teoria soltanto quando essa faccia costitutivamente i conti con la possibilità della propria falsificazione. Scrive Vailati:

Noi esprimiamo solo il nostro deliberato proposito di usare una data parola in un dato senso e il nostro desiderio di portare tale nostra intenzione a cognizione altrui: con esse cioè enunciamo semplicemente delle norme alle quali dichiariamo di volerci attenere nell’esprimere le nostre opinioni per mezzo del linguaggio, norme che possono essere reputate né vere né false, ma solo opportune o non opportune adatte o non adatte al particolare scopo che ci prefiggiamo (SF: 97).

Da ciò emerge ancora una volta come la questione del «corretto» uso linguistico, cioè del linguaggio come terapia, sia molto lontana dalle grandi analisi sulla portata logica e ontologica della «verità» del linguaggio che hanno segnato la prima parte del Novecento filosofico. Il ricorso alla filosofia greca ed all’euristica socratica è in questo senso ancora più significativo.12 In Socrate, Vailati scorge infatti il primo tentativo sistematico di far uso di quel metodo definitorio mirante all’indicazione ed al reperimento delle caratteristiche comuni agli oggetti tipico del linguaggio delle scienze. Socrate in altre parole fu secondo Vailati il primo ad applicare criteri scientifici al discorso propriamente filosofico, anzi a far uso di una vera e propria metodologia di indagine linguistica. Il ragionamento induttivo, il ricorso ai casi particolari che porta alla definizione universale — il «cos’è?» socratico — la ricerca cioè non di un oggetto particolare, di una qualità, ma sempre e soltanto del significato complessivo di una certa realtà e non soltanto la sua mera denotazione, funziona come paradigma scientifico di utilizzo dell’osservazione al fine di estrarre una serie di caratteri comuni in grado di definire il nome dell’oggetto. La rivoluzione socratica è secondo Vailati principalmente una rivoluzione di metodo, di procedimento pragmatico-operativo attivo sul livello semantico e lessicale del linguaggio. La ricerca della «definizione» ottenuta attraverso il dialogo, vale in altre parole solo come ricerca dell’uso corretto di un certo termine.13 Non è un caso che in questo senso Vailati legga il contenuto di verità più profondo dei dialoghi platonici non tanto «nelle definizioni che si trovano ma nelle operazioni che bisogna fare per trovarle, e che il frutto di tali discussioni non sta nelle conclusioni alle quali esse portano, ma nelle ragioni che occorre scoprire e addurre per giustificarle» (SF: 100).

Come abbiamo anticipato, anche la più alta accortezza metodologica nell’uso e nelle determinazione a priori dei limiti del linguaggio si è sempre scontrata, storicamente, con un meccanismo metaforico profondamente interno al funzionamento del linguaggio stesso. Il fatto centrale è secondo Vailati che le due tipologie fondamentali di proposizioni (quella naturalmente vaga e imprecisa del linguaggio comune e quella cosciente e formalizzata del linguaggio scientifico) non sono mai «ordinariamente distinte le une dalle altre da alcun segno esteriore verbale» — cioè, aggiungiamo, che mai si dà una possibilità, una chiave interna al linguaggio per poter determinare quale sia la proposizione ambigua e quale quella corretta. È questa l’origine, la «fecondissima sorgente di ambiguità e di argomentazioni illusorie» di cui abbiamo sin qui detto. Scrive Vailati:

Basta talvolta la più piccola incertezza sul significato di una parola per rendere assolutamente impossibile decidere se una data proposizione […] ci dia qualche informazione, vera o falsa, sui fatti ai quali si riferisce o non sia invece destinata che ad indicarci quale relazione passi tra il significato che vogliamo dare alla parola stessa e quello che […] si dà ad altre parole (SF: 100).

Dal cospicuo numero di esempi che con la solita preziosa erudizione Vailati trae dalla storia della meccanica e della scienza in generale (l’uso dei termini «momento» e «forza» in Galileo, il concetto di «calor latente» e le difficoltà di Carnot, il problema della «forza morta» ai tempi di Cartesio e molti altri) emergono sostanzialmente due questioni filosofiche centrali, da cui poi Vailati dedurrà quelle conclusioni sulla inesorabilità dell’ambiguità linguistica di cui abbiamo detto all’inizio. La prima questione implica una incisiva critica della concezione referenziale-denotativa (anche se Vailati non usa questa definizione) del linguaggio; la seconda comporta una radicale messa in questione di una delle più classiche contrapposizioni metodologiche nelle scienze umane: la dicotomia tra spiegare e descrivere. La critica al livello referenziale del linguaggio viene effettuata partendo dal fatto che l’ambiguità linguistica non attiene soltanto ad un uso scorretto o oscillante di certi termini utilizzati per indicare certi fenomeni fisici (nel caso di Galileo, l’ambiguità della parola «forza»). Essa è più generale: ha a che fare infatti con il nesso tra lingua, cose e concetti. La tesi di Vailati è che la presunta purezza dei principi matematici e geometrici — una presunzione che origina, come abbiamo visto, le più durature illusioni epistemologiche — non prende in considerazione il fatto che «in geometria, come in qualunque altra scienza a tipo deduttivo, noi siamo costretti a prendere per punto di partenza delle supposizioni che non possono trovare la loro perfetta realizzazione in alcun caso concreto, ma rappresentano in un certo modo delle semplificazioni ideali delle forme che l’esperienza ci presenta» (SF: 102). Ciò significa che uno sfondo esteriore, pragmatico, «convenzionale» è già attivo a livello delle ipotesi-base del testo scientifico, a livello degli assiomi. Secondo Vailati infatti le «proposizioni fondamentali della scienza assumono l’aspetto non tanto di asserzioni relative alle proprietà che possiedono, o sono supposte possedere, le cose di cui parliamo, quanto piuttosto di convenzioni mediante le quali noi precisiamo dei concetti» (SF: 103). Le supposizioni fondamentali delle teorie scientifiche non andranno dunque intese come una qualche espressione diretta di «verità superiori e indipendenti da ogni esperienza»: esse potranno dirsi definizioni soltanto qualora vengano accompagnate da postulati che indichino come gli enti riferibili a tali definizioni di partenza sono essi stessi «possibili o costruibili» (SF: 193). Tutto lo sforzo del linguaggio scientifico in altre parole è costantemente rivolto secondo Vailati al tentativo di raggiungere delle definizioni valide anzitutto dal punto di vista della «costruibilità di enti soddisfacenti alle condizioni enunciate nelle definizioni stesse» (SF: 103). Diventa in questo senso anche più facile contestare la banalità dell’osservazione positivistica (Vailati cita i nomi di Spencer, Taine e Wundt) secondo cui il progresso scientifico sarebbe una mera questione di progressive scoperte o illuminazioni del tutto svincolate dalla loro formalizzazione o «testualizzazione»:

Se gli antichi si fossero fatti della «forza» un concetto analogo a quello che tale parola esprime nella meccanica moderna, essi non avrebbero potuto fare a meno di credere alla verità della legge d’inerzia. Ma che cosa prova ciò se non che per arrivare a farsi della «forza» un tale concetto è necessario essere già prima in possesso delle cognizioni che portarono ad ammettere la legge d’inerzia? Fu il possesso di queste cognizioni che condusse a dare al nome «forza» il significato che esso ha attualmente, e non questo nuovo significato che condusse all’acquisto di quelle cognizioni (SF: 104).

È come dunque se il linguaggio in qualche modo portasse sempre dentro di sé la storia concettuale (e quindi anche la storia delle convezioni attraverso cui si indicano i concetti) che lo precede. I mutamenti linguistici non sono mai del tutto arbitrari e svincolati dalla serie delle nozioni che esprimono: le parole non cambiano «senso» casualmente ma raccontano in qualche modo la storia stessa di quel senso.

Il secondo ordine di considerazioni filosofiche di portata generale che emerge da questa terza prolusione è poi appunto la questione della falsa alternativa tra spiegazione e descrizione di un fenomeno: la prima, come noto, sarebbe compito della scienza (della meccanica, nel caso specifico preso ad esame da Vailati) la seconda alla filosofia ed alle cosiddette scienze umane. È a questo livello che si esprime più compiutamente l’orizzonte già compiutamente pragmatico della posizione vailatiana. Vailati parte dall’analisi humeana del concetto di causa, attraverso cui uno dei pilastri concettuali dell’episteme occidentale, il concetto di causa appunto, viene ricondotto a null’altro che all’«insieme delle circostanze la cui presenza è necessaria e sufficiente perché il fenomeno abbia luogo» (SF: 105).14 Il fatto che questa posizione venga letta come una negazione della conoscibilità del concetto di causa, costituisce un altro di quegli equivoci in cui incorrono sistematicamente tutti i modelli teorici ingenuamente positivistici e in qualche misura metafisici o «essenzialisti», quelli cioè interessati al reperimento di supposte «leggi» eterne della natura. In realtà da un punto di vista pragmatico-operativo «scoprire le cause di un fenomeno» altro non è appunto, come sosteneva Hume, che descrivere a fondo la serie di connessioni che rendono possibile il fenomeno in oggetto:

lo spiegare non è in fondo che uno speciale modo di descrivere, caratterizzato salo da ciò, che in esso noi facciamo più largamente uso, da una parte, di processi di comparazione, e, dall’altra di argomentazioni deduttive mediante le quali riusciamo a far entrare in una stessa categoria, e a considerare come casi particolari di una stessa legge, fenomeni che, a chi li esamini superficialmente, appariscono come affatto diversi e non aventi tra loro alcun legame (SF: 196).

Il procedimento epistemologico della spiegazione tende quindi a configurarsi (ancora una volta in maniera affine Wittgenstein) come capacità di cogliere somiglianze nelle differenza, quasi come «visione perspicua» (übersichtliche Darstellung la definiva appunto Wittgenstein) sinottica, trasversale ai fenomeni e non come accesso diretto a non meglio precisate «leggi» del funzionamento dei fenomeni. Ecco un altro passo estremamente significativo da questo punto di vista:

Ogni allargamento delle nostre cognizioni, si dice, non fa che allargare e rendere più estesa, per dir così, la nostra superficie di contatto con l’ignoto e con l’inesplicabile, e le nostre spiegazioni non fanno che sostituire un «mistero» ad un altro. Quanto più vero, e anche più utile, sarebbe invece l’osservare che la distinzione tra «cose spiegate» e cose «non spiegate» non si riferisce ad alcuna intrinseca differenza nella loro certezza o «conoscibilità», ma solo alla nostra capacità di dedurre le nostre cognizioni le une dalle altre, di ordinarle cioè in modo che parte di esse compaiano come conseguenze delle rimanenti (SF: 107).

Spiegazione come regolazione, codifica successiva, scoperta creativa di connessioni impreviste, di somiglianze di famiglia, ricerca di analogie tanto più mutevoli e soggette a revisione o a reinterpretazione quanto più mutevole appare il nostro stesso orizzonte d’indagine, il nostro punto prospettico.15 Non siamo lontani dalla teorizzazione di un pervasivo circolo ermeneutico attivo in ogni processo conoscitivo:

Il dire una cosa o l’altra dipende dal punto di vista in cui ci collochiamo, o, per parlare più propriamente, dipende dalla circostanza che i fatti dell’una classe sono per noi più famigliari di quelli dell’altra, a che fu l’osservazione di essi che ci condusse per la prima volta alla cognizione di quelle leggi che in seguito, per ulteriori indagini, siamo venuti a riconoscere come applicabili anche a quelli dell’altra classe (SF: 107).16

Carattere internamente metaforico del linguaggio, necessità di porre anticipatamente limiti alle teorie scientifiche, conoscenza come capacità di cogliere e descrivere somiglianze tra fenomeni, auspicio di una semantica del discorso epistemologico: con la terza prolusione, Vailati è ormai in possesso di tutti gli strumenti metodologici per approfondire quell’originale percorso che lo porterà, come stiamo per vedere, ad indagare proprio i più intimi meccanismi che legano logica e lingua.

3. Paradigmi e illusioni: Il Ruolo dei paradossi e la Caccia alle antitesi

I lavori principali nei quali si compendia questo tentativo di approfondire la base pragmatico-linguistica delle teorie scientifiche e, più nello specifico, l’intreccio profondo che lega strutture linguistiche e strutture concettuali, sono sostanzialmente tre saggi brevi redatti attorno al 1905: Il ruolo dei paradossi in filosofia, La caccia alle antitesi e il più celebre I tropi della logica. I primi due rappresentano una notevole analisi, per così dire, immanente e interna del nesso esistente tra il livello teorico di un paradigma epistemologico e il livello della sua codificazione linguistica; il terzo dà vita invece ad un’originale «fenomenologia», se possiamo usare questo termine, delle strutture metaforiche attive in uno dei principali procedimenti di inferenza, la deduzione.

Il punto di partenza del primo testo è l’indagine su alcuni termini classici della storia della filosofia come «tempo, spazio, sostanza, causa, attività, attitudine, legge, spiegazione» (SF: 189). Secondo Vailati, nessun grande filosofo (vengono citati Platone, Aristotele, Locke, Leibniz, Descartes, Pascal, e tra i moderni Comte e Stuart Mill) si è sottratto all’esame dei rapporti che sussistono tra concezioni del mondo e uso di tali termini: profilando qui chiaramente un’idea di filosofia come analisi linguistica,17 Vailati ritiene infatti che la funzione storica della filosofia sia consistita proprio nel tentare di rintracciare l’origine, la giustificazione, il chiarimento del «ruolo» giocato di tali espressioni nei processi di scoperta e dimostrazione scientifica. E infatti proprio a questo livello, cioè proprio nel tentativo di proporre distinzioni sempre più raffinate nell’uso dei termini, la filosofia secondo Vailati ha originato — talora in maniera produttiva, talora in maniera ingannevole — dei veri e propri paradossi logico-linguistici. In realtà, dalla solita accuratissima ricostruzione storiografica di casi esemplari tratti dalla storia della scienza (ad es. il problema del rapporto tra parti e insiemi in matematica; il concetto di causa in Bolzano; lo studio dei paralogismi in Saccheri) Vailati deduce ancora una volta come dietro i paradossi delle più innovative tesi filosofiche o delle più originali ipotesi scientifiche e dietro la loro caratteristica di «urto» o sovvertimento dl senso comune, altro non vi è che la messa in discussione di argomentazioni ormai cristallizzate e sedimentate nel tempo, sia concettualmente che linguisticamente e l’instaurazione di nuovi paradigmi capaci di mettere in crisi le più logore distinzioni e differenze tra concetti. (A questo punto siamo in grado chiaramente di comprendere come per Vailati la coppia concettuale/linguistico costituisca quasi addirittura un pleonasmo: i meccanismi e le forme del linguaggio interagiscono costitutivamente, come abbiamo notato spesso, con il contenuto storico-concettuale di una data teoria scientifica18). Vailati cita il caso esemplare della distinzione tra realtà e illusione, data per ovvia al senso comune, ma in realtà bisognosa più di altre di indagine analitica:

Non è sempre facile accorgersi di essere vittime di un pregiudizio affatto simile a quello che in altri tempi faceva considerare i ragionamenti in favore degli antipodi come tendenti a mettere in discussione la differenza tra la condizione di un uomo che quella di un altro che si trova sospeso con la testa in basso. È inutile che Berkeley si sforzi di persuadere i suoi avversari che è la loro teoria e non la sua a lasciar buon gioco alle obbiezioni degli scettici contro la realtà del mondo esterno: è inutile che egli dichiari fino alla sazietà che si propone semplicemente di chiarire e determinare cosa si intende dire affermando che le cose materiali esistono […]. Si continuerà ugualmente a rimproverargli di aver voluto abolire la distinzione da tutti riconosciuta tra le cose «reali» e le illusioni della nostra fantasia, come si rimprovera a Hume di aver voluto abolire la distinzione tra le cause di un fenomeno e si suoi antecedenti, invece di attribuirgli il merito di aver approfondito la nozione di causa e di aver apportato un contributo importante allo studio del suo sviluppo (SF: 192).19

È come se la tendenza del linguaggio a cristallizzare i propri contenuti (a fissare un referente, potremmo anche dire) influenzasse proprio la percezione di quel contenuto, al punto che una diversa formulazione linguistica è quasi sempre direttamente confusa tout-court con una diversa interpretazione della realtà cui si riferisce. Da questo punto di vista è esemplare il secondo caso analizzato qui da Vailati, che riguarda il fatto che gli stessi iniziatori di una qualche teoria filosofica tendono ad interpretare la loro analisi in primo luogo come un sovvertimento effettivo di tutte le precedenti teorie piuttosto che come ridescrizione terminologica di un identico problema. L’esempio qui riportato da Vailati è ancora una volta quello della presunta differenza tra spiegare e descrivere e quello della altrettanto presunta dicotomia tra un sapere rivolto all’indagine della cosiddetta «natura delle cose» e un sapere «minore» (quello della scienza e della filosofia) che si limiterebbe alla mera «determinazione delle leggi di successione e coesistenza». L’obiezione di Vailati riguarda l’insensatezza della decisione di innalzare arbitrariamente il concetto di «causa» o di «natura delle cose» al rango di una dimensione misteriosa/trascendentale, dal momento che questi stessi concetti possono tranquillamente essere riformulati proprio ricorrendo a quella terminologia che si ritiene implichi una loro negazione:

L’esempio ci è offerto dai filosofo o scienziati i quali dichiarano che la scienza o la filosofia non possono pretendere di conoscere nulla intorno alla «natura delle cose» o alle «vere cause» dell’universo […]. Come se, tra i [precedenti] problemi [formulati] con frasi composte con parole quali «causa» e «natura delle cose» non se ne potesse trovare anche uno solo non suscettibile di esser tradotto nella nuova nomenclatura; e come se la risoluzione di occuparsi solo delle questioni che è possibile formulare in termini di coesistenza e di successione implicasse di per se stessa la rinuncia ad occuparsi di qualsiasi problema (SF: 193).

Nell’altro scritto dedicato ai medesimi temi, cioè l’articolo la Caccia alle antitesi (1905) — concettualmente tra i più arditi della sua produzione — Vailati procede ad una interessante metacritica, potremmo dire, dell’attività filosofica, indagata qui sia dal punto di vista della sua capacità di cogliere distinzioni e somiglianze20 inedite tra fenomeni, sia soprattutto dal punto di vista di ingannarsi credendo che attraverso una riformulazione di tali distinzioni sia possibile svolgere un’attività unificatrice nei confronti della conoscenza umana. Criticare infatti la presunta forza «unificante» della filosofia significa ancora una volta per Vailati evitare quelle semplificazioni che in realtà lasciano del tutto immutati dal punto di vista del paradigma epistemologico i problemi di partenza, ma soprattutto serve a stimolare un uso più accorto e «operativo» del linguaggio scientifico.

Tra i vari tentativi di semplificare i fenomeni antitetici che si presentano alla riflessione umana, Vailati ne cita sostanzialmente tre: quelli rivolti a dimostrare l’inesistenza di una «demarcazione» chiara e precisa tra fatti diversi e quindi a suggerire l’idea che tra fenomeni diversi si passi solo per «gradazioni intermedie e sfumature» (SF: 211); quelli che tentano di dimostrare come le proprietà di base che dovrebbero far differire due tipi di fenomeni in realtà appartengono ad entrambi; e quelli infine secondo i quali l’antitesi stessa si elimina nel momento in cui si considera che «le proprietà la cui presenza o assenza è presa come criterio della distinzione sono tali da poter essere nello stesso tempo possedute e non possedute da uno qualsiasi degli oggetti in questione» (SF: 211). Dallo stile di interrogazione e di messa in discussione di queste ingenue pretese della terminologia filosofica, è possibile notare ancora una volta l’estrema attenzione che Vailati presta al processo di smantellamento e ridefinizione della tradizionale contrapposizione metodologico-ermeneutica tra descrivere un fenomeno e comprenderlo. Il primo gruppo di tentativi è ad esempio facilmente criticabile nella misura in cui ritenere il concetto di «gradazione» in grado di eliminare una antitesi come quella, poniamo, tra unità e pluralità è una chiara ingenuità concettuale: se si sostiene che non c’è antitesi ma solo passaggio addizionale (dall’uno ai molti) non solo non si elimina in realtà quell’antitesi, ma anzi la si moltiplica all’infinito: «a chi credesse di distruggere l’antitesi tra “unità” e “pluralità” col dire che dall’uno si passa ai molti con successive addizioni, si potrebbe far osservare che ciò equivale a riconoscere che vi sono tante specie di pluralità, che cioè oltre alla distinzione tra l’uno e i molti ve ne sono dei diversi molti tra loro, e che quindi egli, tentando di distruggere la distinzione in questione, se ne tira addosso addirittura un vespaio» (SF: 211-212) dilatando così all’estremo la contrapposizione che si voleva sopprimere. È questo un esempio abbastanza esplicativo della radicale diffidenza mostrata da Vailati per l’astrattezza delle semplificazioni linguistiche oltre che per la loro debolezza teorica. Nel caso del secondo tipo di ‘caccia alle antitesi’ — che è possibile sintetizzare ripercorrendo la storia del tentativo di colmare la distinzione tra fenomeno e cosa in sé — la metacritica di Vailati va anche oltre: la ricerca di una sintesi in questo campo, non fa altro che produrre un effetto di «spostamento», di shifting dice Vailati, su altri livelli dei medesimi problemi, senza tuttavia produrre alcun incremento conoscitivo, anzi limitando le nostre capacità concettuali. Dopo aver ripercorso la storia concettuale della dicotomia tra fenomeno e realtà, criticando esplicitamente le conclusioni kantiane sulla questione e le loro conseguenze epistemologiche, Vailati scrive:

Dall’ammissione che tutte le proprietà conosciute, o conoscibili, dei corpi fossero ugualmente «apparenti» si arrivò senz’altro alla conclusione che il domandarsi che cosa essi sono «realmente» fosse sollevare una questione oltrepassante i limiti di competenza della mente umana, fosse toccare uno degli «enigmi» insolubili dell’universo. Con quest’ultima evoluzione la parola «fenomeno» finì per designare qualunque cosa di cui si possa parlare sapendo di cosa si parla, e il suo contrapposto (noumeno, cosa in sé) per non significar altro che il nostro desiderio di avere a disposizione una parola che non significhi nulla (SF: 214).

Le conseguenze di questo approccio ai problemi di terminologia filosofica non sono affatto irrilevanti, se si pensa che da un passo come il precedente è proprio l’intero impianto del criticismo kantiano ad essere messo in discussione.21 Senza soffermaci sulla critica del terzo tentativo di operare sintesi artificiose (che si fonda ancora una volta su un’interpretazione radicalmente pragmatico-empirista del concetto di causa da parte di Vailati22) appare chiaro che la posta in gioco in questi scritti riguarda un’idea della conoscenza scientifica, e del linguaggio che le dovrebbe esser proprio, come instancabile attenzione agli aspetti problematici dei fenomeni piuttosto che come ricerca di impraticabili soluzioni univoche dei problemi: un’attenzione ad indagare le antitesi appunto, le dissimiglianze, gli scarti, le distinzioni logiche più che non a scovare presunte armonie o leggi nascoste soggiacenti ai fenomeni stessi. Non è un caso che in uno scritto più tardo, Il linguaggio come ostacolo alla eliminazione dei contrasti illusori, del 1908, Vailati prendendo spunto dal dialogo platonico che più lo affascinò, il Teeteto, fornisca quasi una formulazione implicita del suo stesso modo di intendere la filosofia come analisi spregiudicata dei problemi logici, come sgretolamento delle convenzioni e cristallizzazioni linguistico-concettuali, come un’attività per nulla attratta da consolanti spiegazioni metafisiche o certezze ultimative:23

L’impressione che si ha frequentemente alla lettura dei migliori e più elaborati tra i dialoghi di Platone (per esempio del Teeteto), di trovarsi quasi defraudati di una conclusione o di una risposta definitiva alle questioni sollevate, mentre l’intera esposizione non sembra mirare ad altro che ad eccitare il desiderio di averne una, e a persuadere dell’insufficienza di quelle successivamente prese in considerazione, è dovuta appunto a ciò che l’intento principale dell’autore non è di guidare a definitive soluzioni dei problemi da lui trattati, ma piuttosto di mettere in grado chi legge di ricercare tali soluzioni per proprio conto e «spregiudicatamente», dopo essersi liberato di tutti gli impacci provenienti da un eccessivo rispetto per le formule sancite da linguaggio ordinario, e dopo avere risolte le difficoltà dovute alla imprecisione dei termini che in tali formule sono adoperati (SF: 327).

4. Abbozzo di una semeiotica: i Tropi della logica (1905)

I tropi della logica — un testo la cui brevità non ha impedito che venisse di lì a poco riconosciuto come tra i più acuti ed originali dell’intera produzione vailatiana — costituisce un esempio molto chiaro del principio-base della metodologia pragmatica, vale a dire il riconoscimento dell’esistenza di un principio di funzionalità delle teorie che esige sempre un processo di successive verificazioni sul piano pratico delle stesse affinché possano poi costituire un autentico progresso scientifico. Profondamente restio ad ogni analisi astratta, Vailati interroga infatti in questo saggio le metafore dominanti del procedimento epistemologico a lui più caro, quello della deduzione, scovandone il riflesso squisitamente operativo, effettuale. La scelta non è affatto casuale. Come abbiamo già avuto modo di notare analizzando la seconda prolusione accademica, la deduzione, agli occhi di Vailati, costituisce uno strumento di ricerca fondamentale per l’incremento della conoscenza umana, nonché uno snodo epistemico di notevole portata storica. Procediamo dunque con ordine.

Vailati rintraccia tre gruppi principali di immagini figurate (di «tropi» appunto) tra quelle generalmente utilizzate per alludere al processo deduttivo: 1) le metafore in cui si fa uso del concetto di appoggio o sostegno (es. «la tal conclusione b si basa o regge o fonda sulla premessa a o dipende da essa»); 2) i tropi che alludono alle dimensioni del contenere e dell’inclusione e che mirano a fornire un’immagine della deduzione nel senso dell’analisi o della riduzione (si può pensare alla figura del chimico che scompone le sostanze in elementi24); infine la coppia metaforica salire/scendere (il cui l’esempio classico è reperibile a livello del linguaggio matematico: «dalla premessa a discende la conclusione b»).

Ora, grazie all’uso del primo gruppo di metafore è possibile formulare una delle più notevoli critiche alla validità euristica e conoscitiva della deduzione, una critica già ipotizzata da Leibniz e che allude all’impossibilità di dimostrare esattamente i fondamenti, i principi primi, le basi di una teoria differendone in infinitum il rinvenimento.25 Tuttavia secondo Vailati tale confutazione è resa possibile proprio grazie all’inganno della formulazione linguistica del processo deduttivo: si tratta di un’obiezione apparente destinata a sciogliersi non appena il rapporto tra premesse e conclusioni venga riformulato con maggiore esattezza terminologica. Una tale relazione infatti

non è correttamente descritta col dire che queste [le conclusioni] si appoggiano su quelle [le premesse], a meno che, all’immagine volgare di un oggetto appoggiato ad un altro, si sostituisca l’altra, più generale e scientificamente precisa, di due corpi che si attraggono e dai quindi ciascuno, quando sia a contatto con l’altro in modo che si eserciti pressione tra di loro, può essere riguardato come sostegno dell’altro (SF: 199).

Anche da questa osservazione emerge la concezione fluida e anti-dogmatica di Vailati nel considerare la natura squisitamente «logica» dei procedimenti e delle operazioni scientifiche, in questa caso della deduzione: ciò significa che il traslato, il metaforico, l’uso dei tropi può rendere sì più incisiva un’idea, ma può anche mancare il bersaglio, originare paradigmi illusori. La certezza delle conclusioni, da questo punto di vista, andrebbe intesa più come un rafforzamento delle premesse che non come una loro derivazione. In gioco è in realtà ancora una volta un effetto circolare tra di esse: la credibilità delle premesse aumenta tanto più quanto ci si avvicina alla loro verificazione. Il processo deduttivo, come è stato giustamente notato, è in questo senso radicalmente biunivoco, circolare, più sfumato ed complesso dal punto di vista epistemologico di quanto non sembri all’apparenza.26

La seconda tipologia di metafore, quelle che, come abbiamo anticipato, configura la deduzione come un processo di astrazione delle premesse, consisterebbe, diversamente da quelle del primo gruppo, nel ridimensionare l’importanza del processo deduttivo stesso. Le premesse in questo senso andrebbero considerate come gli elementi-base di cui si compone la conclusione. Diventa così possibile ipotizzare una distinzione di fondo tra verità semplici e verità complesse, scrive Vailati, cioè tra verità atomiche, originarie e verità dedotte, successive, derivate e in quanto tali scomponibili. Questo tropismo ci conduce direttamente al problema della «definizione»: se la deduzione è un’analisi essa avrà una struttura affine a quella della definizione. Scrive in passo centrale Vailati:

Il domandare se una data proposizione è dimostrabile o no, se un dato concetto e definibile o no, senza indicare nel primo caso quali sono le premesse che si accettano, o, nel secondo, quali sono i concetti che si presuppongono dati, non ha maggior senso del domandarsi se un dato corpo si muove o sta fermo, senza indicare quali sono gli altri corpi dai quali intendiamo considerare le successive distanze (SF: 202).

Si comprende così come l’impulso ad un uso il più possibile preciso del linguaggio possieda proprio il valore di illuminare meglio il concetto di verità come verificazione costante, come «validità nell’ambito del contesto proposizionale»:27 la verità è sempre costitutivamente verità di qualcosa in relazione a qualcos’altro, vale a dire che da una prospettiva ormai pienamente pragmatica come è quella qui prospettata da Vailati, la verità è soltanto il processo progressivo di giustificazione e verifica logico-linguistica di una data asserzione. In questo senso l’utilizzo di tipologie metaforiche come quelle esaminate può anche portare ad inganni linguistici, per esempio potrebbe far immaginare il processo deduttivo come una sorta di climax, di gradazione, di passaggio dal generale al particolare. È questo per Vailati un tipico caso di errore linguistico: le premesse di un’asserzione — e a maggior ragione i suoi assiomi, le basi razionali di partenza — altro non sono che punti di riferimento, luoghi di orientamento generale per l’attività dei nostri strumenti logici. Apro però qui una breve parentesi e segnalo un problema di interpretazione generale sul procedimento analitico di Vailati: il ritenere infatti che linguaggio possieda sia la capacità di strutturare il pensiero a livello logico, sia quella di indurlo in errore spingendolo a paralogismi di varia natura, costituisce nelle argomentazioni vailatiane una costante tipica che talora sembra originare una dicotomia non risolta tra una concezione critica, negativa, riduttivista del linguaggio ed una operativa, pragmatica, creativa.28 Nel primo tipo di concezioni trovano spazio le sue critiche all’illusorietà del linguaggio, agli indurimenti e cristallizzazioni che bloccano il pensiero ed alle false antitesi che ne derivano, ai paralogismi insomma che contaminano la logica e il pensiero stessi. Ed è il livello in cui, potremmo dire, la filosofia come analisi del linguaggio tende ad assumere in Vailati davvero un ruolo e una funzione terapeutica, cioè di rischiaramento logico. Ma è anche il livello in cui Vailati da un lato rischia effettivamente di lasciar trapelare una qualche inaspettata eco positivistica (evidente ad esempio nel suo impulso a voler ridurre appunto a premesse chiare e inconfutabili le teorie scientifiche, a volerle insomma rimettere alla prova dei fatti liberando il pensiero dalla schiavitù delle parole); dall’altro sembra avvicinarsi o anticipare gran parte di quel neopositivismo logico novecentesco che riteneva autentica e praticabile soltanto un’attività filosofica intesa come pratica di smascheramento linguistico volta all’eliminazione radicale degli elementi spuri, metaforici, allusivi, oscuri e metafisici del tradizionale lessico filosofico, così mirando al reperimento di una sorta di linguaggio puro e ideale (si pensi al caso esemplare di Carnap). Il secondo tipo di concezione è quella invece in cui probabilmente Vailati dà in meglio di sé riuscendo non di rado a colmare anche questa sua apparente duplicità di posizioni. Mi riferisco ovviamente a tutta l’interpretazione «pragmatica» dell’universo linguistico, a quella dimensione cioè, come abbiamo notato varie volte, che lo spinge a ipotizzare il potere non soltanto negativo degli elementi «illusori» del linguaggio o la funzione non solo poetica ma creativa tout-court delle metafore nella scienza. Fatte salve cioè le esigenze generali di chiarezza — che vanno considerate come base stessa dell’analisi filosofica — la visione operativa tende a non soffermarsi esclusivamente sulla fallacia epistemologica di certe formulazioni imprecise, né sulla loro pseudo-problematicità, quanto piuttosto ad aprirsi alla «fertilità di ogni formulazione problematica, alla molteplicità dei significati caratterizzati dagli usi, alla germinale equivocità del linguaggio comune non più svalutato di fronte a un modello di linguaggio scientifico».29 Non è un caso quindi, per chiudere la parentesi e tornare ai Tropi della logica che l’elemento decisivo della comprensione tenda poi sempre di più a configurarsi in Vailati come capacità generale di muoversi all’interno di costellazioni semantiche coerenti e correlate. In altre parole — al di là di certe ricadute positiviste o delle seduzioni rappresentate dall’esigenza di far uso esclusivo di un linguaggio ideale e formalizzato — se non si presuppone, come ipotesi operativa fondamentale, un livello di interazione tra le singole asserzioni scientifiche e il sistema terminologico complessivo in cui si muovono, nessuna comprensione logica sarà mai realmente possibile.

5. L’esempio di Peirce

Benché i contributi critici più accurati tendano in gran parte a ridimensionare l’effettivo influsso delle opere di Peirce sulla formazione e sullo sviluppo del pensiero di Vailati, è tuttavia indubbio che nel gruppo dei tardi scritti di quest’ultimo la presenza dei concetti-guida della dottrina pragmatista elaborati dal filosofo americano sia abbastanza riconoscibile.30 Non sarà inutile pertanto chiarire alcuni luoghi centrali dell’originale tentativo di dar vita ad una epistemologia pragmaticista da parte di Peirce e di seguito volgerci ad analizzare proprio i più importanti tra gli scritti vailatiani dell’ultimo periodo: mi riferisco soprattutto ai due densi saggi Pragmatismo e logica matematica (1906) e Le origini e l’idea fondamentale del pragmatismo (1909) più che a quello specificamente tecnico dedicato all’Analisi pragmatista della nomenclatura filosofica (1906) o a quello redatto assieme all’amico Calderoni, Il pragmatismo e i vari modi di dir niente, pubblicato nel 1909 sulla «Rivista di psicologia applicata» (la collaborazione con «Leonardo» s’era già infatti irrimediabilmente interrotta), un articolo che assieme al succitato Le origini e l’idea fondamentale del pragmatismo avrebbe dovuto costituire i capitoli iniziali di un volume dedicato agli sviluppi del pragmatismo31 ma che non offre nulla più che una precisa ricapitolazione delle tesi generali dei due studiosi.

Tra i saggi di Peirce esplicitamente richiamati da Vailati — oltre ai classici The Fixation of Belief (1978) e How to Make Clear Our Ideas entrambi del 1878 — va annoverato sicuramente il famoso What Pragmatism is.32 Si tratta del testo in cui, assieme ai più tardi Issues of Pragmatism e The Logic of abduction, Peirce oltre ad offrire una riformulazione dei suoi principi epistemologici, si sofferma sull’aspetto che, come vedremo e come in parte abbiamo già osservato analizzando gli scritti precedenti, più stava a cuore a Vailati: vale a dire l’analisi del momento pratico-creativo-operativo del pensiero umano, identificabile con la dottrina dell’ipotesi o appunto — per dirla con Peirce — con la «logica dell’abduzione».33 Dopo aver proceduto ad alcune importanti identificazioni e assimilazioni logiche sulla natura pragmatica del pensiero umano — l’identità di «cognizione» e «scopo», la «credenza» (Belief) come «abito» (Habit), cioè come convenzione mentale, abitudine, azione del pensiero messa in moto dal dubbio,34 ma soprattutto la natura, la «vita» linguistica del pensiero — Peirce nella parte centrale del saggio afferma:

Il significato razionale di ogni proposizione sta nel futuro. In quale modo? Il significato di una proposizione è esso stesso una proposizione. A dire il vero, non è altro che la proposizione stessa di cui è significato: è una sua traduzione. Ma delle miriadi di forme in cui si può tradurre una proposizione, qual è quella che deve essere detta il suo stesso significato? Secondo il pragmatista, è quella forma in cui la proposizione diviene applicabile alla condotta umana, in queste o in quelle circostanze speciali, né quando si considera questo o quello speciale disegno, ma quella forma che è più direttamente applicabile all’autocontrollo in ogni situazione, ed ad ogni scopo. […] Ma affinché quella forma della proposizione che deve essere considerata suo significato sia applicabile ad ogni situazione ed ad ogni scopo per cui la proposizione abbia qualche rilievo, esse deve essere semplicemente la descrizione generale di tutti i fenomeni sperimentali che l’asserzione della proposizione virtualmente predice.35

Ciò significa, come vedremo subito analizzando la questione della logica abduttiva o ipotetica, che il significato non solo è connesso con l’uso,36 ma anche con quell’insieme di operazioni di verifica sperimentale che hanno bisogno costitutivamente di un livello di ipotesi creativa. Il punto centrale della dottrina peirciana — in ciò, come vedremo, effettivamente vicino alle più ardite analisi di Vailati — è infatti riassumibile nell’idea che ogni possibile incremento delle nostre conoscenze sia dovuto quasi esclusivamente all’emergere di una dimensione di inferenza abduttiva la cui caratteristica principale consiste nel predisporre sempre nuove riformulazioni e comprensioni dei fenomeni che alla fine risultano a loro volta produttive di nuove idee (o ipotesi o abduzioni) e nuovi paradigmi scientifici rispetto ai quali i tradizionali procedimenti di inferenza — l’induzione e la deduzione — assumono soltanto un ruolo di mera sistemazione o razionalizzazione. La natura ipotetica della conoscenza, il suo strutturale essere-in-relazione con l’operatività, cioè con il futuro o eventuale effetto pratico, il suo determinarsi come ‘orizzonte d’attesa’ per nuove inferenze, ma soprattutto il suo stimolare ulteriori ipotesi e visioni del mondo è infatti ciò che precisamente Peirce definisce come logica dell’abduzione e che accuratamente distingue dall’induzione e dalla deduzione:

La posizione iniziale di una ipotesi e la sua considerazione, sia come semplice interrogativo sia con qualunque grado di fiducia, è un passo inferenziale che propongo di chiamare abduzione. […] Induzione deve significare l’operazione che induce un assenso, con o senza modificazione quantitativa, ad una proposizione giù avanzata, questo assenso od assenso modificato essendo considerato come il risultato provvisorio di un metodo che deve, alla fine, portar alla luce la verità; mentre l’Abduzione deve coprire tutte le operazioni per mezzo delle quali si generano teorie e concezioni.37

Dunque il principio evolutivo della scienza, il potere di rottura dei nuovi paradigmi scientifici è dovuto principalmente alla capacità di instaurare dei mutamenti di prospettiva che non si esprimono solo o in primo luogo nell’incremento quantitativo degli esperimenti, ma proprio nel «proiettare le precedenti raffigurazioni della realtà — le “leggi note” — in ulteriori proposizioni che le spostano verso “fatti non ancora osservati” provocando nuovi esperimenti e quindi quello stesso sviluppo “quantitativo” delle osservazioni empiriche per cui di fatto la scienza riesce a scoprire nuovi aspetti della realtà».38 Vediamo come su questi fondamenti si innesta l’ultima, rigorosissima, produzione vailatiana.

6. L’intreccio tra logica e pragmatica

Il significato di una proposizione come suo uso e impiego per la «deduzione e la costruzione di determinate conseguenze o gruppi di conseguenze» (SF: 237): è questo il primo punto di contatto tra pragmatismo e logica matematica secondo Vailati. L’esempio che spinge Vailati alla conclusione per cui esiste una certa affinità di fondo tra i metodi di notazione logica (non a caso questo è uno degli scritti in cui è più frequente il richiamo a Peano da parte di Vailati) è — come già nella terza Prolusione accademica — la questione dei postulati e il profondo anti-essenzialismo che vi sta sotteso.39 Scrive Vaiati, in un passo spesso citato dai suoi interpreti:

Invece di concepire la differenza tra i postulati e le altre proposizioni che per mezzo loro si dimostrano, come consistente nel possesso, da parte dei primi, di qualche speciale carattere che lo renda «per se stessi» più accettabili, più evidenti, meno discutibili, ecc., i logici matematici vedono, nei postulati, delle proposizioni come tutte le altre, la cui scelta può essere diversa a seconda degli scopi ai quali la trattazione mira, e deve dipendere, in ogni modo, dall’esame delle relazioni di dipendenza o di connessione che sussistono, o si possono stabilire, tra esse e le rimanenti proposizioni di una data teoria, e dal confronto della forma che verrebbe ad assumere l’insieme della trattazione in corrispondenza a scelte diverse (SF: 238).

Se questo è forse il luogo di più estrema negazione da parte di Vailati di un presunto «diritto divino» dei postulati, vale a dire di una loro interna cogenza, di un loro privilegio logico, il secondo tratto di affinità che egli ravvisa tra logica e epistemologia, e cioè il riconoscimento del «carattere ipotetico delle proposizioni» rappresenta la più coerente esposizione del suo pragmatismo inteso, potremmo dire, come teoria generale delle connessioni e delle differenze tra fenomeni. Con un procedimento inverso rispetto a quello critico/negativo utilizzato nel saggio sulla Caccia alle antitesi, nel quale in fondo si affermava che l’inesausta lotta contro le distinzioni e le differenze tende spesso a risolversi in pura ciarla moltiplicatrice di differenze, in questo saggio mirando allo stesso scopo Vailati scorge un legame tra logica e pragmatismo proprio nella costante preoccupazione di «decomporre ogni asserzione nei suoi termini più semplici: quelli che si riferiscono direttamente a dei fatti, o a delle connessioni tra fatti» (SF: 238). Ovviamente qui il ricorso al potere dei fatti non possiede nulla di quei rari residui positivistici che talvolta rischiano di intaccare il pensiero di Vailati, non ha cioè nulla di ultimativo: la ricerca delle connessioni tra fatti significa infatti proprio — come già nella prima Prolusione accademica — che il concetto di fatto va allargato nel senso di ammettere una struttura «relazionale» tra fenomeni senza la quale non sarebbe nemmeno ipotizzabile procedere a delle asserzioni scientifiche. Riconoscere l’insensatezza o l’«insussistenza» di molte distinzioni che per esempio ancora ereditiamo dalla Scolastica, non significa affatto secondo Vailati restringere il campo di indagine dei fenomeni, ma anzi, al contrario, significa proprio sottoporre quelle vecchie distinzioni al vaglio di «altre analisi critiche dalla quali esse escono in certo modo trasfigurate, restaurate, arricchite di nuovi e più importanti significati» (SF: 239). Non è un caso che con il solito gusto del paradosso nella ricerca storico-concettuale dei mutamenti di paradigmi scientifici, Vailati ricordi come l’introduzione del concetto di «definizione possibile» abbia di colpo relativizzato l’antica distinzione — metafisica ed essenzialista — tra «proprietà essenziali» di un ente e ogni sua altra proprietà. Questo è un tipico caso in cui lo scioglimento di una falsa antitesi rende ricca e complessa la realtà dei fenomeni più di quanto non la semplifichi. La battaglia è ancora una volta diretta contro le generalizzazioni e le semplificazioni e non mai aprioristicamente contro un tipo di procedimento scientifico o un altro: sia che si tratti di contrapporsi alle false antitesi sia che si tratti di ipotizzarne di nuove, l’incremento di conoscenze proviene sempre in ultima analisi dal riconoscimento della complessità dei fenomeni, delle loro interazioni.40 In questo stesso senso, un ulteriore punto di contatto tra logica e pragmatismo è riconosciuto da Vailati nella comune tendenza alla distruzione dei «pregiudizi riferentisi a supposti contrasti tre le teorie oggi correnti e le vedute dei grandi scienziati o pensatori dell’antichità» (SF: 239) e dunque in qualche modo nel concedere un notevole risalto agli studi storici sui vari sviluppi delle teorie scientifiche. Non è privo di valore che Vailati renda merito proprio al Formulario del suo maestro Peano di non essersi mai limitato ad una esposizione per così dire «statica» delle sue nuove teorie sulla denotazione logica del linguaggio matematico, ma ne abbia bensì sempre tentato una formulazione sotto l’aspetto del «moto» e dello «sviluppo» storico: «non come degli animali impagliati nelle vetrine di un museo, in atteggiamenti convenzionali e con gli occhi di vetro, ma come organismi che vivono, si nutrono, lottano, procreano, o almeno come delle figure in un cinematografo svolgentisi e trasformandosi naturalmente e logicamente le une nelle altre» (SF: 240). È chiaro che un passo del genere — insolito in Vailati nella sua colorita ma efficace metaforica — in cui la successione delle teorie e dei modelli epistemologici viene per così dire drammatizzata, immaginata come una lotta costante o meglio come una metamorfosi continua di paradigmi mai statici, lascia poco spazio all’ingenua pretesa positivistica di un progresso storico-scientifico cumulativo e telelogicamente diretto verso la verità.

Ad un livello metodologico più specifico, le vicinanze tra logica moderna e pragmatismo sono secondo Vailati da ricercarsi soprattutto nell’approccio alla «teoria della definizione» (SF: 240). L’affinità tocca principalmente l’allargamento della nozione stessa di definizione: in un’ottica logico-pragmatista secondo Vailati non è più possibile ridurre la definizione alla ricerca del «genere» e delle «differenze specifiche»: cioè non è più praticabile una visione di derivazione scolastica (atomistica la potremmo anche definire se pensiamo al primo Wittgenstein), del processo definitorio come se si dovesse applicare ad un fenomeno isolato e specifico, poniamo ad un termine, ad una parola singola: «Gli schemi scolastici della definizione — scrive infatti Vailati — sono stati allargati col prendere in considerazione i casi in cui ciò che si definisce non è una parola isolata ma un gruppo di parole o una frase in cui essa compaia» (SF: 240). Torna chiaramente in queste pagine il problema già affrontato nel saggio sui Tropi della logica: il significato di un termine è dato solo dalla costellazione complessiva in cui esso si trova ad «operare», a «funzionare»: «Definire un nome A non significa altro che indicare il senso che si vorrebbe attribuito alla frase: “la tale o la tal altra cosa è un A”». In gioco è ancora il problema della presa di coscienza di una relazionalità di fondo che agisce come regola dei fenomeni linguistici. Richiamandosi infatti ancora una volta ai lavori di Peano, Vailati dichiara insussistente la questione in sé della «definibilità» o ‘non definibilità’ di una parola «fintantoché non si indichi precisamente di quali altre parole o concetti di conceda di far uso nella definizione cercata» (SF: 241) con la conseguenza che appare del tutto fuorviante la ricerca del significato di un termine senza considerare le circostanze del suo utilizzo. Da un punto di vista logico-pragmatico è infatti del tutto impossibile stabilire un enunciato che indichi direttamente il carattere dell’oggetto cui il termine di cui si ricerca la definizione si riferisce. Il saggio si chiude con un’ultima critica alle ingenue pretese dell’astrazione logica pura: proprio l’astrazione non dovrebbe infatti mai dimenticare la necessità fondamentale di far «convivere» e «cooperare» le premesse sui cui si basa, pena la perdita di contatto con ciò che Vailati chiama il «contatto periodico con la terra, con quella corrispondenza segreta, o misteriosa alleanza, tra gli “estremi dell’attività teorica”» (SF: 242) vale a dire tra l’intuizione del particolare (l’attenzione alle differenze, la pars destruens) e l’impulso alla generalizzazione (l’analisi delle connessioni, la pars construens potremmo dire). La chiusa stessa è, nello stesso senso, un colorito elogio della forza creativa dell’indagine:

il pragmatismo rappresenta un’energica reazione, con l’insistere sul carattere strumentale delle teorie, coll’affermare cioè che esse non sono scopo a se stesse, ma dei mezzi e degli «organismo» la cui efficacia e potenza è strettamente connessa alla loro agilità, all’assenza di ingombri, d’impacci ai loro movimenti, al loro somigliare piuttosto a dei leoni o delle tigri che non a degli ippopotami o dei mastodonti (SF: 243).

7. Sintesi sul pragmatismo

Il saggio su Le origini e l’idea fondamentale del pragmatismo ci offre una preziosa seppur breve riconsiderazione conclusiva dei principali problemi epistemologici cui si interessò Vailati in tutta la sua vita di studioso, e dà forse la misura del livello verso cui — dal punto di vista di una elaborazione concettuale finalmente sistematica delle questioni-base del pragmatismo — si sarebbe indirizzata la sua riflessione se la morte non lo avesse colto prematuramente. Il nodo concettuale del saggio è costituito dalla ripresa e in qualche modo dall’ampliamento dell’ipotesi centrale di Peirce (nei confronti del quale tutto il saggio costituisce una sorta di cauto omaggio) riassumibile secondo Vailati nell’idea che «il solo mezzo di determinare e chiarire il senso di un’asserzione consista nell’indicare quali esperienze particolari si intenda con essa affermare che si produrranno, o si produrrebbero date certe circostanze» (SF: 331). Siamo dunque alla ripresa della dottrina dell’abduzione: qualunque asserto è sempre in qualche modo connesso con la sua futura applicazione, e quindi sempre in qualche modo soggetto ad un’inferenza ipotetica. In questo senso Vailati mira da subito ad eliminare il diffuso fraintendimento secondo il quale il pragmatismo sarebbe una sorta di «utilitarismo applicato alla logica» (SF: 332) oltre che un metodo di indagine sostanzialmente relativistico. In realtà infatti secondo Vailati dalla «regola metodica» fondamentale di Peirce dovrebbe dedursi al contrario proprio «un invito a tradurre le nostre affermazioni in una forma nella quale ad esse possano venire più direttamente e agevolmente applicati quei criteri appunto di verità e falsità che sono più “oggettivi”, meno dipendenti cioè, da ogni impressione o preferenza individuale» (SF: 332). I termini «verità» e «falsità» a loro volta, come si dice qualche pagina più avanti, per Vailati (ma già per Peirce) non vanno in nessun senso intesi alla stregua di determinazioni ontologiche. Risalendo ancora una volta al Teeteto platonico e alla critica «pragmatista» ante litteram condotta da Socrate nei confronti del relativismo della dottrina protagorea dell’homo mensura, Vailati sostiene che tali termini fondamentali (verità e falsità appunto) sono discutibili sempre e soltanto all’interno di certi effetti dell’esperienza, all’interno cioè di procedimenti in cui un dato asserto possa essere di volta in volta affermato o infirmato esclusivamente in base a ulteriori esperienze. È da questo punto di vista, cioè da quello della possibilità di verifica (la stessa secondo Vailati utilizzata contro i sofisti nella diairesi platonica41) che assume il giusto rilievo il rimando decisivo alla dimensione del futuro: «Per ogni nostro atto di pensiero che non contenga od implichi alcun riferimento al futuro, cioè alcuna previsione o aspettazione, il parere di ciascuno di noi non è soggetto ad alcuna contestazione». L’esemplificazione pratica di come agisca a livello dell’interpretazione in senso pragmatico degli enunciati questo ricorso al futuro, viene offerta da Vailati discutendo una delle più classiche e problematiche questioni della filosofia occidentale: il problema della natura dell’intersoggettività o meglio della percezione dell’esistenza di una realtà esterna oltre a quella soggettiva. L’argomentazione è sostanzialmente la seguente. Da un punto di vista pragmatico la convinzione dell’esistenza di altre coscienze oltre la nostra non può costituire mai un dato, ma sempre e soltanto un’ipotesi:

Se ci viene domandato quali siano le ragioni per cui crediamo, per esempio, che un bambino soffra quando piange, non possiamo rispondere in altro modo se non col segnalare la somiglianza tra questo suo atto e certi atti nostri che sappiamo connessi con la presenza «in noi» di qualche dolore. In altre parole l’esistenza di coscienze «altrui» ci risulta da un certo numero di sintomi, rappresentati da speciali modi di comportarsi di certi «oggetti» (i corpi «animati») in certe circostanze (SF: 342-342).

È dunque ancora una volta, potremmo dire, la natura internamente semiosica dei fenomeni che spinge all’ipotesi, all’abduzione e quindi alla verifica empirica che sola permette la discussione e il confronto tra paradigmi.42 La prospettiva pragmatista è qui però così estesa da Vailati che in un certo senso finisce con l’identificarsi con la stessa struttura logica di proposizioni sensate dal punto di vista di enunciati coerenti — come abbiamo rilevato molte volte — col proprio più generale sistema di significazione o costellazione semantica. Non è un caso che proprio da questo punto di vista Vailati qualche riga più avanti discuta la famosa teoria cartesiana degli animali-automi e non la ritenga contestabile a priori o in base a qualche punto di vista da privilegiare, ma soltanto dal punto di vista della sua interna coerenza argomentativa. In un passo più preciso Vailati arriva infatti a sostenere che

quando asseriamo l’esistenza di altri esseri «coscienti» non diciamo niente di diverso di quanto asseriremmo dicendo invece che tali esseri coscienti non esistono, fintantoché almeno con quest’ultima asserzione non intendessimo di negare alcuno di quei particolari modi di comportarsi o di reagire che contraddistinguono quei corpi che ricusiamo di supporre dotati di coscienza (SF: 343).

Ancora una volta l’ipotesi di fondo che sembra segnare sempre più chiaramente il pensiero maturo di Vailati è che quanto più si usa correttamente il linguaggio, cioè quanto più si rende coerente un enunciato con la totalità degli altri enunciati cui si connette eliminando così le fonti iniziali degli infiniti pseudo-problemi della nostra tradizione filosofica, tanto più si stimola la discussione e quindi potenzialmente anche l’apertura e la creatività, la capacità di configurare mondi (’logici’) possibili da parte degli enunciati stessi. Posto che il contenuto delle nostre credenze è impossibile da descrivere nella sua totalità, l’analisi linguistico-pragmatica tenderà sempre ad evidenziare la parte che di tale contenuto «si presta a proficua discussione» (SF: 343). Contro ogni convenzionale psicologismo, la parte finale del saggio — come perfetto suggello di tutta la speculazione vailatiana — conferma dunque l’importanza della struttura abduttiva del nostro intelletto, recuperando addirittura la più antica lezione aristotelica sul rapporto tra potenza e atto: «Il mondo “interiore” non meno che il mondo “esteriore” si compone non soltanto di ciò che ad un dato momento vi si trova “in atto”, ma anche di ciò che vi si trova “in potenza”» (SF: 345). Possedere in potenza la capacità di astrarre, di mettere in relazione ogni fenomeno con il suo stato futuro, di ipotizzare e formalizzare le nostre credenze, di «testualizzare» la logica che ci guida: tutto ciò lascia forse intendere come il campo di indagine del tardo Vailati stesse evolvendo verso la costruzione di una possibile quanto originale fenomenologia logico-retorica delle nostre attività cognitive: «qui non si tratta tanto di un’analisi dei processi coscienti con cui ragioniamo o pensiamo, quanto piuttosto di stabilire un criterio per la validità del nostro ragionare e del nostro pensare» (SF: 346).


  1. Tutte le citazioni in sigla [SF] utilizzate in questo lavoro sono tratte da G. Vailati, Scritti filosofici, a cura di G. Lanaro, Nuova Italia, Firenze 1980. ↩︎

  2. Cfr. A. Quarta: «L’indagine su una dottrina scientifica si identifica con la ricerca storica della sua genesi e dei suoi termini costitutivi». A. Quarta, «Valore della scienza e compiti della filosofia secondo Vailati», in Giovanni Vailati nella cultura del ’900, a cura di M. Quaranta, Forni, Bologna 1990, p. 38 e sg. ↩︎

  3. Già in alcune recensioni precedenti, Vailati ebbe modo di prendere posizione molto criticamente nei confronti del positivismo, specie quello di ascendenza spenceriana. Su questo aspetti, cfr. F. Restaino, «Di alcune tesi storico-metodologiche nelle due prolusioni del 1896 e 1897», in Rivista Critica di Storia della filosofia, 1963, p. 363, alla cui chiara ricostruzione rimandiamo anche per quel che segue. ↩︎

  4. Per l’interpretazione della metodologia di Vailati in senso «strumentalistico», cfr. ancora F. Restaino, «Di alcune tesi storico-metodologiche nelle due prolusioni del 1896 e 1897», op. cit., p. 366. ↩︎

  5. Scrive in questo senso Restaino, osservando l’atteggiamento di estrema attenzione, quasi filologica, dimostrato da Vailati verso i contributi effettivi della storia della scienza: «Potrebbe definirsi, questo atteggiamento vailatiano, più che pragmatismo, positivismo storicistico, o storicismo positivo, data la stretta unione tra l’istanza positivitica di tenere sempre presente i “fatti” (intesi in un’accezione più larga di quella diffusa tra i positivisti) e di rifiutare pregiudizialmente le generalizzazioni metafisiche, e l’istanza storicistica di considerare i “fatti” nella loro storicità concreta» F. Restaino, «Di alcune tesi…», op. cit., p 368. ↩︎

  6. «Il senso della storicità dell’impresa scientifica si connette ormai alla messa in evidenza del punto di incrocio di una serie di rapporti, la cui importanza teorica e metodologica è fondamentale, tra scienza, filosofia, buon senso, pregiudizio». E. Di Stefano, M. Fresca Spada, P. Freguglia, «Vailati e la storia della scienza: questioni metodologiche», in Giovanni Vailati nella cultura del ’900, op. cit., p. 29. Sulla reciproca interazione tra discorso epistemologico e ricerca storica — a livello specifico dell’indagine sul significato del processo deduttivo, cfr. anche G. Lanaro: «Il discorso storico si innesta su quello storico e la rivendicazione della funzione esercitata dalla deduzione nell’accrescere la conoscenza dei fenomeni naturali funge da premessa per la determinazione delle condizioni da cui dipende la diversa applicabilità e fecondità delle tecniche deduttive nei vari campi d’indagine». G. Lanaro, Introduzione, op. cit., p. 15. ↩︎

  7. Su questa «apertura» metodologica, per come si delinea complessivamente in questa seconda Prolusione, cfr. ancora le considerazioni di Lanaro: «Accanto al distacco da molti luoghi comuni dell’epistemologia positivista e al rilievo attribuito alle funzioni costruttive e anticipatrici dell’intelletto che unificano e organizzano l’esperienza, selezionano ed elaborano i dato dell’osservazione, emerge in questo scritto l’esigenza di una autentica integrazione interdisciplinare, l’urgenza di sottrarsi alle tradizionali restrizioni specialistiche». G. Lanaro, Introduzione, op. cit., pp-15-16. ↩︎

  8. Anticipiamo subito che è proprio in questo senso che viene esplicitata una dura critica all’ingenuità ed alle «illusioni», di una visione puramente positivista della scienza, che trascurando proprio il nesso tra linguaggio e teoria si lascia inesorabilmente sfuggire la complessità della distinzioni questioni «scientifiche» e ‘non scientifiche’: «Non bisogna dimenticare che, se noi ci possiamo considerare immuni da molte delle illusioni che talvolta hanno ritardato […] il cammino della scienza antica, ciò dipende […] dal fatto che noi abbiamo rinunciato ad occuparci scientificamente di una gran parte delle questioni la cui trattazione è atta ad esporre maggiormente ai pericoli che da quelle provengono. Questa tattica prudente, alla quale nel nostro secolo non è mancato neppure l’onore di essere elevata alla dignità di sistema filosofico sotto il nome di positivismo […] è soggetta a gravi obbiezioni, specialmente in quanto pretenda basarsi sopra una distinzione netta, e stabilita una volta per tutte, tra la questioni che possono formare oggetto di ricerca scientifica ed altre alle quali tal privilegio non compete» (SF: 94). ↩︎

  9. L’espressione è di C. Caputo, in «Note in margine ad Alcune osservazioni sulle questioni di parole di Giovanni Vailati», in Giovanni Vailati nella cultura del ’900, op. cit., p. 82. Ecco un passo molto esplicito di Vailati sulla costitutiva presenza di una metaforicità «creativa» anche all’interno di linguaggi fortemente referenziali, come quello della Scolastica: «Leibniz ha notato a ragione come persino la terminologia degli scolastici, che passa per essere tipicamente arida e il più possibile sfrondata da ogni lenocinio retorico […] sia interamente improntata alle più grossolane analogie tra i fenomeni mentali e quelli del mondo fisico. Si rifletta per esempio, sull’importanza che assumono in essa vocaboli come i seguenti: “impressio”, “dependere”, “emanare”, “influere”, “fundamentum”, “infundere”, “transmittere”, ecc., ai quali tutti l’avere assunto un nuovo senso astratto non impedisce di suggerire idee che si riferiscono solo al loro senso concreto e materiale, e di provocare o dar forza persuasiva a ragionamenti che, indipendentemente da questa loro primitiva interpretazione, non avrebbero forza o plausibilità alcuna» (SF: 116-117). Sono i temi su cui Vailati tornerà più approfonditamente nel decisivo saggio del 1905 su I tropi della logica↩︎

  10. Ecco uno dei passi più espliciti: «Mi propongo di far rilevare, ricorrendo in particolar modo ad illustrazioni tolte dalla storia della Meccanica, di quanto aiuto possa essere l’esame dei fatti di questo genere (cioè le questioni di parole), non solo per darci lume sul meccanismo intimo del linguaggio e del suo modo di funzionare, sia come mezzo di rappresentazione che di trasmissione delle idee e delle conoscenze, ma anche per guidarci ad istituire una corretta diagnosi e caratterizzazione delle illusioni e dei sofismi a cui le imperfezioni sue possono dar luogo, e per suggerirci i mezzi più atti a por rimedio a tali imperfezioni, o almeno ad attenuarne gli effetti e a premunirci contro le loro influenze» (SF: 94). ↩︎

  11. Sul chiaro carattere wittgensteiniano ante litteram di questa visione del linguaggio come «terapia» gnoseologica, hanno richiamato l’attenzione, oltre a Lanaro nella più volte citata Introduzione agli scritti filosofici di Vailati, anche A. Brancaforte, «Ipotesi per una lettura di Vailati: dal pragmatismo logico ad una fenomenologia pragmatistica», in M. Quaranta (a cura di), Giovanni Vailati nella cultura del ’900, op. cit., pp. 71-77. ↩︎

  12. Sulla figura di Socrate in Vailati, cfr. la ricostruzione di S. Marini, Socrate nel ’900: Vailati, Schlick, Morris, Vita e Pensiero, Molano 1994, pp. 9-44, alla cui analisi rimando anche per quel che segue. ↩︎

  13. Scrive Vailati in un passo centrale: «Socrate si associava al suo interlocutore onde giungere insieme a determinare, nel miglior modo possibile, le delimitazioni a cui era necessario assoggettare il campo di applicazione del nome onde riuscisse possibile adoperarlo con un significato unico e determinato, corrispondente cioè effettivamente a dei caratteri comuni a cui esso si applicasse, e solo ad essi» (SF: 99). Questa riduzione alla pura «semantica» della dialettica socratica operata da Vailati è l’aspetto su cui giustamente insiste di più S. Marini in Socrate nel Novecento, op. cit., p. 30. ↩︎

  14. È un tema, questo della critica al concetto di causa proposto da Hume, sui cui Vailati tornerà più volte nei suoi scritti successivi anche in relazione a diversi contesti epistemologici. Cfr. in particolare il breve articolo Sull’applicabilità dei concetti di ed effetto nelle scienze del 1903, soprattutto alle pp. 176-177 e 180, da cui citiamo questo passo molto esplicito nelle sue implicazioni pragmatiste, quasi letteralmente peirciane: «La distinzione tra causa ed effetto, e questo è vero ancora di più per le scienze sociali e storiche che non per le scienze fisiche, è una distinzione essenzialmente di indole pratica, e che si rapporta, in un grado più o meno diretto, alla rappresentazione che noi ci facciamo del mondo e dell’ordine in cui dovremmo, o vorremmo, procedere per modificare ai nostri fini dei fatti di cui si tratta, e adattarli ai nostri desideri» (SF: 180). Ancora nel saggio Sull’arte di interrogare (1905) Vailati insisterà sulla necessità di fornire sempre una spiegazione pragmatico-applicativa delle teorie scientifiche: «Il non saper applicare un concetto, il non saper distinguere i fatti, che in esso rientrano, dagli altri che a questi si oppongono, equivale a non possedere affatto il concetto stesso e a non averlo ancora acquistato […] Estendendo questa considerazione oltreché all’acquisto dei concetti, anche a quello di qualsiasi cognizione o dottrina astratta […] non solo l’utilità ma anche il significato stesso che si può attribuire ad una ipotesi o ad una teoria, non consiste in altro che nelle conoscenze di fatto (“pragmatiche”) che si è capaci di trarne in confronto a quelle che deriverebbe invece dalla sua negazione» (SF: 205). Non a caso qualche pagina dopo — lamentando la scarsa penetrazione di una metodologia operativa e non nozionistica nei sistemi didattici — Vailati cita l’esempio riportato da James dello scolaro che rimase attonito dinanzi ad una domanda «pragmatica» («Al centro della terra si sta più al caldo o al freddo che qui?») e rispose invece trionfale quando gli si pose l’identico interrogativo in forma astratta e scolastica («In che stato di temperatura si trova il centro del nostro globo?» — «In stato di ignea fusione!») (SF: 207). ↩︎

  15. Su questi aspetti delle teorie vailatiane, anche in riferimento polemico a Brentano, cfr. A. Santucci, Eredi del positivismo, Il Mulino, Bologna 1996 (in part. Cap. IV, «I pragmatisti e Franz Brentano», pp. 157-189). ↩︎

  16. Su questi aspetti cfr. anche F. Barone «Vailati e l’analisi del linguaggio», in Riv. Crit., op. cit., alle pp. 380-383. ↩︎

  17. Sulla filosofia come analisi linguistica, cfr. ancora soprattutto F. Barone, «Vailati e l’analisi del linguaggio», in Riv. Crit., op. cit., pp. 374-378. ↩︎

  18. Scrive in questo senso giustamente S. Cecchinel («La semeiotica generale di Vailati», in Riv. Crit. op. cit., p. 394): «La formulazione di una teoria ne costituisce, per così dire, la forma: si tratta di trovare quella più adatta a un determinato contenuto di pensiero. A ragione Vailati definisce “invenzione” nuove formulazioni di teorie già conosciute, di modo che queste riescano ad aderire totalmente e ad esprimerle nella maniera più chiara e vitale, indicando la direzione verso cui operare. Si tratta di un’attività in profondità: rivedere, analizzare, ridire il già detto introducendo, se è il caso, nuovi segni. Un lavoro di lima e di scavo, paziente quanto poco riconosciuto». ↩︎

  19. Vailati tornerà più approfonditamente sulla teoria dell’esse est percipi di Berkeley nel saggio su Le origini e l’idea fondamentale del pragmatismo del 1909 sostenendone una interpretazione integralmente pragmatista: «Meglio che con la frase “esse est percipi”, adoperata dal Berkeley per riassumere la conclusione da lui raggiunta, questa potrebbe venire formulata dicendo: “esse est posse percipi”. Ben lungi infatti dal distruggere la distinzione fra “esistere” e “essere percepito”, il Berkeley ne chiariva precisamente il fondamento e il significato mostrando che l’essere o l’esistere di una cosa non è che il “potere essere di determinate esperienze”» (SF: 336). Su questa lettura pragmatista della filosofia berkeleyana e sul legame con Peirce che sottende, cfr. H. S. Harris, «Logical pragmatis and the task of Philosophy in Peirce and Vailati», in Riv. Crit., op. cit., pp. 311-321, che scrive testualmente: «This interpretation of Berkely’s esse est percipi can certainly be regarded as a particular case of the application of the pragmatic maxim as stated by Peirce in How to make our ideas clear» (p. 314). ↩︎

  20. L’incipit è in questo senso quasi letteralmente wittgensteiniano: «Scoprire differenze e contrasti tra le cose che si somigliano, e rintracciare nessi di somiglianza tra le cose disparate, sono due specie di attività mentale che, per quanto appaiono opposte e contrastanti, si riscontrano sempre unite» (SF: 210). ↩︎

  21. Sull’interesse di Vailati per Kant, spesso critico e comunque non privo di ambiguità e oscillazioni, cfr. S. Marcucci, «Alcuni giudizi di Vailati su “classici” della filosofia», in Riv. Crit., op. cit., pp. 354-361. ↩︎

  22. Cfr. SF: 214-219. ↩︎

  23. Sul carattere non ultimativo dell’analisi filosofica quale emerge dal passo citato, così scrive Dal Pra nei suoi importanti Studi sul pragmatismo italiano, Bibliopolis, Napoli 1984, p. 52: «In quanto l’esame critico sistematico che nei dialoghi [platonici] viene condotto delle opinioni è basato sulla critica delle formule […] del linguaggio ordinario […] le soluzioni che vengono ricercate non si devono intendere come “definitive”, giacché compito essenziale della filosofia è per Vailati quello di disporre ad abbandonare con facilità le soluzioni altra volta accettate, per orientare a soluzioni nuove ed innovatrici». Nello stesso volume di Dal Pra, alle pp. 48-54, cfr. l’ampia disamina dedicata alla complessiva interpretazione vailatiana del pensiero platonico — oggetto di costanti e notevoli analisi, seppur non sistematiche — in cui si chiarisce come il nucleo centrale del pensiero platonico consista secondo Vailati nel progetto di una vera e propria teoria epistemologica generale della definizione e della classificazione. In questo senso il significato «ontologico» della dottrina delle idee — una volta depurato da ogni sfondo mistico o metafisico — assume nuova luce e può essere tradotto nel senso di un teoria delle «funzioni del significare e del classificare». Le idee platoniche, in altri termini, sono da Vailati interpretate alla stregua di «simboli di regolarità e di uniformità» o anche, più nello specifico, come entità squisitamente logico-linguistiche, come i nomi stessi delle «classi di cose». In questo senso è estremamente chiarificatore un passo del tardo scritto Per un’analisi pragmatistica della nomenclatura filosofica (1906) — uno dei più «tecnici» e rigorosi dal punto di vista della ricostruzione storico-concettuale che Vailati abbia mai portato a termine: «[La teoria platonica] si manifesta come un’affermazione della legittimità di quel processo di ricerca che, prendendo come punto di partenza concetti o ipotesi idealizzatrici e semplificatrici, non aventi alcun esatto riscontro in quella che si chiama la “realtà delle cose”, arriva per mezzo di deduzioni e per mezzo di quelli che sono stati recentemente chiamati (Mach) “esperimenti di pensiero” ad analizzare, a comprendere, a dominare questa e a scoprire in essa e al di sotto di essa, indipendentemente dal ricorso diretto all’esperienza, regolarità, leggi, norme che l’osservazione diretta e passiva sarebbe stata per sempre incapace a rivelare» (SF: 257). ↩︎

  24. È degno di nota che Vailati, a proposito del tipo di obiezioni da opporre a queste metafore, si richiami positivamente di nuovo ad Aristotele — definito «il primo gran teorico della deduzione» — ed alla sua teoria del synolon tra materia e forma. Cfr., SF p. 200. Sul costante interesse di Vailati per l’epistemologia aristotelica, rimando ancora al volume di Dal Pra, Studi sul pragmatismo italiano, op. cit., pp. 54-58. ↩︎

  25. «Una caratteristica delle metafore che rappresentano il dedurre come un “appoggiare” o un “appendere” un’affermazione ad un’altra, consiste in ciò che esse si presentano a dar corpo ad una delle più radicali obbiezioni che possano essere sollevate contro la deduzione come mezzo di prova, all’obbiezione cioè che Leibniz qualificava […] col nome di difficultas Pashaliana de resolutione continuata. Questa obbiezione […] consiste nell’osservare che tutti i processi, nei quali si cerca di provare qualche affermazione deducendola da altre, si devono basare in ultima analisi su delle affermazioni che, cioè, che non possono essere provate se non ricorrendo a qualche altro procedimento (induzione, intuizione, ecc.)» (SF: 197-198). Sul rapporto tra Vailati e Leibniz, cfr. M. Dal Pra, Studi sul pragmatismo italiano, op. cit., p. 59. ↩︎

  26. «Il processo deduttivo non si esplica affatto in una sola direzione, dalle premesse alle conclusioni, ma è bi-direzionale, dalle une alle altre e viceversa». S. Cecchinel, «La semeiotica generale di Vailati», in Riv. Crit., op. cit., p. 396. ↩︎

  27. L’espressione è ancora di S. Cecchinel, in «La semeiotica generale di Vailati», in Riv. Crit., op. cit., p. 397. ↩︎

  28. I termini di tale questione sono accuratamente proposti e discussi da F. Barone in «Vailati e l’analisi del linguaggio», in Riv. Crit., op. cit., pp. 380-386, cui rimando anche per quel che segue. ↩︎

  29. Ivi, p. 383. ↩︎

  30. Tra i molti contributi disponibili sui rapporti tra Vailati e Peirce, anche in lingua inglese, rimando anzitutto a: A. Pasquinelli, «Filosofia e scienza in Vailati e Peirce», in Riv. Crit., op. cit., pp. 322-331; al già citato H. S. Harris, «Logical pragmatism and the task of Philosophy in Peirce and Vailati», in Riv. Crit., op. cit., pp. 311-321; e soprattutto all’ampia ricostruzione fornita da A. Santucci in «Vailati e il pragmatismo americano», in Riv. Crit., op. cit., pp. 338-353. ↩︎

  31. Su questo progetto che come noto fu interrotto dalla prematura morte di Vailati e più in generale sul rapporto tra Vailati e Calderoni, cfr. G. Villa, «Alcuni aspetti del pragmatismo di Vailati», in Riv. Crit. Op. cit., pp. 294-310. ↩︎

  32. È anche il testo nel quale Peirce annuncia peraltro la nascita del neologismo «pragmaticismo», un termine volutamente sgradevole utilizzato proprio per evitare indebite appropriazioni. ↩︎

  33. Per le citazioni dalle opere di Peirce, faccio riferimento alle traduzioni italiane raccolte in C. S. Peirce, Scritti di filosofia, a c. di W. J. Callaghan, Cappelli, Bologna 1978. ↩︎

  34. Scrive Peirce: «La credenza non è un modo di coscienza momentaneo; è un abito mentale che dura essenzialmente per qualche tempo, per lo più (almeno) inconscio; e come altri abiti, è (fino a che non incontra qualche sorpresa che dia inizio alle sua dissoluzione) perfettamente soddisfatto di sé. Il dubbio è di genere completamente diverso. Non è un abito ma la privazione di un abito. Ora, una privazione di un abito, per essere qualcosa deve essere una condizione di attività erratica, che deve venir sostituita in qualche modo da un abito» (Peirce, Scritti di filosofia, op. cit., p. 260). Su questi temi, cfr. tutta l’ampia Introduzione di W. J. Callaghan al volume da cui citiamo, specie alle pp. 16-27, nonché la chiara Introduzione al pragmatismo americano di R. M. Calcaterra, Laterza, Bari 1997, pp. 3-35. ↩︎

  35. Peirce, Scritti di filosofia, op. cit., p. 264. ↩︎

  36. Il legame tra significato ed uso, anzi tra significato ed effetto pratico, aveva già ricevuto una formulazione canonica da Peirce nel succitato How to make our ideas clear: «La nostra idea di una qualunque cosa è l’idea dei suoi effetti sensibili, la nostra concezione di tali effetti è la totalità della nostra concezione dell’oggetto», in Ibid. p. 167. ↩︎

  37. Ibid., p. 290. ↩︎

  38. R. M. Calcaterra, Introduzione al pragmatismo americano, op. cit., pp. 32-33. ↩︎

  39. Questo radicato antiessenzialismo di Vailati, che talora rischia di sconfinare in un puro nominalismo, rappresenta certamente un elemento di contrasto rispetto alla semiotica di Peirce, almeno nel senso in cui l’americano si è sempre dichiarato profondamente ostile a derive nominalistiche. Non possiamo però soffermarci ovviamente sulla grande questione della ‘semiosi illimitata’ che trova proprio in altri aspetti del pensiero di Peirce il suo luogo d’origine, una questione che come noto attraversa a fondo tutta la storia della semiologia novecentesca. Sul problematico tentativo di un oltrepassamento operativo e pragmatico dalle implicazioni relativistiche della semiosi in Peirce, cfr. comunque P. Montani, Il debito del linguaggio, Marsilio, Venezia 1985: «In Peirce viene posta con forza l’esigenza di un’uscita pragmatica dall’orizzonte della semiosi, e precisamente con la nozione di “interpretante logico finale” o “abito”. Ma l’abito di cui parla Peirce non è soltanto il configurarsi di una disposizione a comportarsi in modo analogo in circostanze analoghe, ma anche una strutturazione di strategie operative, provvisoria e modificabile […] che in via di principio può (e di fatto lo fa) continuamente (illimitatamente) rifluire nella catena delle operazioni propriamente semiotiche». Ma su tutta la questione, rimando anche ovviamente a U. Eco, Lector in fabula, Bompiani, Milano 1979, pp. 27-49. Nello specifico, su questa divergenza Peirce/Vailati cfr. pure il contributo di G. Silvestri, «Peirce e il pragmatismo italiano: quale influenza», in Giovanni Vailati nella cultura del ’900, op. cit., pp. 149-163. ↩︎

  40. L’avversione per l’abuso delle astrazioni diventa esplicitamente «guerra» in un breve ma vivace articolo del 1907 — tra i più «militanti» e ironici del sempre sobrio Vailati — e che reca il significativo titolo Dal monismo al pragmatismo, un testo in cui tra l’altro si insiste appassionatamente sul valore rischiarante della dottrina pragmatista: «I pragmatisti sperano ad ogni modo di riuscire a risvegliare nei filosofi la coscienza che le esercitazioni intellettuali alle quali essi si dedicano di preferenza — quali l’astrazione, la identificazione dei contrari, la ricerca delle essenze, ecc. — tanto valgono quanto sono efficaci come mezzi per conoscere, per sapere, per prevedere, e che, indipendentemente dal raggiungimento di questi scopi, l’attitudine a fabbricare concetti generali, o universali, e a vedere in ogni cosa “l’uno” e il “generale” è così poco comoda e desiderabile quanto la facoltà, che fu concessa al re Mida, di trasformare in oro tutto quel che toccava» (SF: 303). ↩︎

  41. Di avviso diverso è la posizione di A. Brancaforte che a proposito della già rilevata tendenza vailatiana a fare degli eide platonici più un’espressione del lato «invariabile e permanente che si manifesta nei fenomeni» che un esempio di apertura metodologica, ha parlato addirittura, in maniera tuttavia discutibile a mio avviso, del profilarsi nel tardo Vailati di un «orientamento ben preciso verso un’ontologia fondamentale». Cfr. A. Brancaforte, «Ipotesi per una lettura di Vailati: dal pragmatismo logico ad una fenomenologia pragmatista», in Giovanni Vailati nella cultura del ’900, op. cit., p. 76. Sulla presunta presenza di un certo sfondo «ontologico» reperibile in tutta la riflessione di Vailati oltre che sull’impossibilità di assimilare il suo pensiero ai «verificationist neopositivists», cfr. anche il denso articolo di M. Brodbeck, «Vailati’s implicit Ontology», in Riv. Crit., op. cit., p. 333-337. ↩︎

  42. Su tutti questi problemi, ecco la sintesi di Santucci: «La questione di determinare cosa vogliamo dire quando enunciamo una proposizione non è soltanto diversa da quella concernente la sua verità o falsità: essa è una questione, avvertiva Vailati, che doveva essere decisa prima che la trattazione dell’altra fosse iniziata. Una proposizione poteva dirsi fornita di senso se traducibile in un asserto ipotetico ossia tale da rimandare a una serie di controlli sperimentali. […] Sulla scorta di queste premesse diventava chiaro, anzitutto il ricorso al futuro sottolineato da Peirce. […] Le divergenze e i dispareri intorno alle esperienze immediate che ciascuno di noi prova sono un fatto che potrà riguardarsi come un dato, non come un soggetto di controversia. […] Esso doveva, in altri termini, essere fissato nel suo significato, chiarito per mezzo delle operazioni di controllo intersoggettivo a cui si riferiva». A. Santucci, «Vailati e il pragmatismo americano», op. cit., p. 340-341. ↩︎