Il visibile della memoria. Morfologie dell’immagine nell’estetica contemporanea

1. Premessa

Un’area cospicua dell’ormai amplissima letteratura sulle metamorfosi del concetto di immagine nell’età mediatica non si stanca da anni di celebrare un dirimente mutamento di paradigma estetico: l’età della comunicazione globale avrebbe comportato tra i suoi innumerevoli effetti anche quello di uno venir meno della millenaria facoltà mimetica che la tradizione occidentale ha attribuito alla nozione di immagine. La proliferazione dell’universo digitale, la rapida obsolescenza delle tecnologie legate all’analogicità, gli studi e le applicazioni del virtuale (in specie nel cinema, ma anche nelle altre arti) segnerebbero l’avvento di una dimensione assolutamente inedita grazie alla quale l’immagine sembra finalmente celebrarsi nella sua stessa immanenza, liberandosi d’ogni retaggio del tradizionale concetto di mimesi. Si tratta, come noto, di un orizzonte teorico in fermento e denso di sviluppi possibili nonostante risulti ancora in parte segnato da confini metodologici imprecisi (anche testi specifici oscillano tra l’estetica, la psicologia della percezione, la sociologia dell’immaginario, la critica d’arte, i media studies in genere1). Scopo del presente contributo non è dunque quello di analizzare direttamente il multiforme quadro culturale in cui si muovono o da cui provengono i cosiddetti teorici della dissoluzione mediatico-immaginale della società contemporanea (penso ad autori come J. Baudrillard, P. Virilio, P. Qéau, R. Bérger, J. L. Weissberg, distanti nella valutazione degli effetti di tale dissoluzione, ma ampiamente concordi sulla diagnosi) quanto piuttosto — facendo un passo indietro di tipo genealogico — quello di individuare alcuni paradigmi o nodi epistemici di base attorno ai quali si è mossa e si muove la riflessione recente sullo statuto dell’immagine estetica. Il centro della costellazione attorno cui graviterà la nostra ricognizione è costituito infatti dal problema del rapporto tra immagine, rappresentazione e mimesi — lo stesso che inesauribilmente domina, spesso non tematizzato a fondo, ogni dibattito sulla presunta novità epocale dell’età digitale. In questo senso da un lato ho tentato di praticare nella parte iniziale di questo lavoro una sorta di breve di sintesi filosofica del concetto di immagine volta proprio ad illuminare la protostoria concettuale dell’attuale orizzonte teorico sui nuovi media; dall’altro ho deciso di interrogare le posizioni di due autori come Barthes e Nancy, che pur provenendo da aree differenti della cultura contemporanea e pur interessandosi a fenomenologie diverse del fenomeno in questione mi sembrano tuttavia convergere nell’esibire la perspicuità di una riformulazione del ‘senso’ della nozione di immagine nell’epoca stessa dell’immagine del mondo.

2. Ontologie dell’immagine. Alcune linee per una ricostruzione

Il rapporto tra immagine e realtà sorregge una questione notoriamente centrale dell’intera storia culturale occidentale. Già nel Cratilo Platone si chiedeva cosa distinguesse un’immagine dalla realtà: se la sua essenza consiste nell’essere anzitutto simile, l’immagine sarà sempre di conseguenza, allo stesso tempo, qualcosa di superiore o di inferiore rispetto alla realtà ma in ogni caso mai identica ad essa (Cratilo 432b-e: «Socrate: “bisogna cercare un’altra correttezza dell’immagine […] e non si deve pretendere che se si toglie o aggiunge qualcosa, l’immagine non sia più tale”»). Si tratta di uno scarto che ha subìto, come è altrettanto noto, infinite variazioni nel corso della riflessione estetica europea e che del Novecento, in modo assolutamente trasversale alle varie scuole di provenienza, in qualche modo è giunto ad esplodere.

Pensiamo ad esempio alle estetiche di derivazione ontologica: per sua natura, l’opera d’arte — persino un tempio greco — «non riproduce nulla» scriveva Heidegger nell’Origine dell’opera d’arte (1936). L’opera non rappresenta, non somiglia. È piuttosto una sorta di presentazione, di inaugurale esibizione di senso — anche se sulla qualità o consistenza di questo ‘senso’ dell’arte in Heidegger si potrebbe discutere illimitatamente. È certo però che nella prospettiva heideggeriana l’oggetto dell’opera coincide sempre in qualche modo con l’opera stessa: l’elemento raffigurato — le scarpe di Van Gogh secondo il famoso esempio — viene in effetti ad esporre una sorta di tríton génos, di intreccio singolarissimo tra creazione e imitazione, idealità e materialità, logica ed estetica.2

Un intreccio, a ben vedere, il cui misconoscimento sembra all’origine stessa di tutte le infinite opposizioni tra reale e immaginario di cui è permeata la coscienza estetica contemporanea. Non è un caso da questo punto prospettico che, molti anni dopo Heidegger e all’interno di una tradizione di pensiero assai diversa, un pensatore come Foucault estremamente interessato alle mutazioni di episteme, alle grandi scissure della cultura, riflettendo sul problema del ready-made di Duchamp ne indicasse il valore complessivo in riferimento all’arte occidentale proprio in termini di messa in luce del problema stesso della rappresentazione, e anzi, nello specifico, della questione della separazione logico/storica tra enunciato e somiglianza, tra forma ed eidos. Scriveva Foucault in un passo assai citato: «Che una figura assomigli a una cosa (o a qualche altra figura) o che ci sia tra di esse una qualche relazione di analogia, ciò è sufficiente perché si infili nel gioco della pittura un enunciato evidente, banale, mille volte ripetuto e, tuttavia, quasi sempre silenzioso […]: “ciò che vedete, è questo”».3 Ma appunto, l’intreccio tra somiglianza e rappresentazione (cioè, a ben vedere, il senso stesso di quella «mimesi icastica» che risale al Fedro platonico4) costituisce ciò che l’arte del secolo appena trascorso ha esplicitamente revocato. Aggiunge infatti Foucault, poche righe dopo:

Poco importa, anche qui, in che senso è stabilito il rapporto di rappresentazione, se la pittura sia rimandata al visibile che la circonda o se essa crei da sola un invisibile che le somiglia. L’essenziale è che non si può dissociare somiglianza e affermazione. La rottura di questo principio è collocabile sotto il segno di Kandinskij: duplice cancellazione simultanea della somiglianza e del legame rappresentativo.5

Proprio da questo punto di vista Duchamp, lontanissimo per altri versi da Kandinskij, segnerebbe il passo finale della parabola ‘mimetica’ dell’arte occidentale: cos’altro infatti sarebbero i suoi ready-made se non procedimenti di totale ostensione della crisi di cui parla Foucault?

È altrettanto esplicito però che la crisi dell’arte come imitazione o come rappresentazione non ha significato soltanto un declino del livello significativo o simbolico/allusivo dell’immagine. Infatti allo spazio tradizionale della rappresentazione sembra sostituirsi — proprio a partire dagli esiti della rivoluzione estetica operata dalle avanguardie del Novecento — una certa inedita attenzione rivolta alla dimensione, per così dire, più interna dell’immagine: alla millenaria tradizione platonica dell’arte come somiglianza (in tutte le varianti possibili) si sostituisce infatti nel Novecento una dimensione di analisi volta ad indagare come la stessa ostensione della presenza manifesti una sorta di sostrato, di non-detto, di implicitezza, di ritrazione terrestre nel senso di Heidegger o di «invisibile» nel senso di Merleau-Ponty (ma ci torneremo più avanti) situato alla base del visibile dato, della presunta pienezza o totalità dell’immagine. In un certo senso gran parte del pensiero estetico contemporaneo converge nell’ipotizzare una zona dell’immagine oscura al vedere stesso: l’occhio, per così dire, avrebbe un suo inconscio.6 Il lavoro dell’immagine, la sua potenza, la sua capacità d’attrazione si concretizzano in una esibizione che al suo interno nasconde una alterità, una differenza. Questa alterità costituirebbe la curva stessa dell’apparenza estetica: esibire nella sensazione, nella presenza, nella corposità (nella chimica della foto, come vedremo tra poco in Roland Barthes) il ‘senso’ non mostrandone l’origine. L’immagine infatti non rappresenta la realtà proprio perché in fondo in qualche modo ne produce torsi e frammenti (non siamo lontani, a questo livello, dal condensato della proposta ermeneutica di Gadamer7).

Da un certo punto di vista poi questi problemi risalgono addirittura a Kant: l’idea estetica che esibisce il senso secondo la facoltà del «giudizio riflettente» ci fa sostare indefinitamente sul nostro oggetto di indagine tanto da sfuggire a qualunque determinazione logica (Critica del Giudizio, § 49). Il ‘di più’, l’eccedenza di pensiero cui le immagini danno luogo è in Kant già del tutto interna al loro carattere di immagini: l’oltrepassamento della discorsività razionale mira ad esprimere una soglia in cui pensiero logico e sentire estetico sembrano intrecciarsi indissolubilmente.8 Questo elemento letteralmente indicibile, o meglio non articolabile esclusivamente su un piano logico/discorsivo, schiude in Kant da un lato una sorta di tensionalità costitutiva della riflessione, dall’altro una specie di pulsione a trascendere la dimensione esclusivamente ‘naturale’ del sentire: sulla scia di questo coappartenersi di pensare e sentire Deleuze — che della rilettura di un Kant ‘inquieto’ è stato nel Novecento forse il principale sostenitore9 — teorizzerà che persino le idee possono essere pensate soltanto nel loro incrocio col sensibile: come l’arte è un «percetto», cioè un linguaggio e una lavoro della sensazione, così la filosofia sarà una sorta di inaugurale «creazione» di concetti.10

Questo pensiero delle immagini non sarebbe infine che la forma, la logica interna dell’immagine, la sua originaria nudità, potremmo anche dire richiamandoci ad una metafora assai presente in diverse pubblicazioni recenti.11 Non è un caso da questo punto di vista che il passaggio ad una concezione produttiva dell’immagine, contemporaneamente fenomenologica e ontologica, sia stata estremizzata da un autore come Merleau-Ponty, nella cui tarda opera l’immagine assume un rilievo assolutamente decisivo. Il problema diventa infatti quello dell’identità stessa di essere ed apparire, di una coappartenenza che Merleau-Ponty ha fascinosamente definito «reversibilità dell’essere»: l’ipotesi è quella di una visibilità in sé che toglie al soggetto ogni identità con la propria coscienza e che riformula radicalmente la stessa nozione tradizionale della realtà esterna come fenomeno frontale/oggettivo. L’immagine in questo senso prima che al soggetto apparterrebbe propriamente all’essere: ne costituirebbe la «membratura», la «giuntura», la determinazione corporea. Le potenti metafore dello specchio e del chiasma come figure retorico/immaginali del ribaltarsi inesauribile di visibile e invisibile assumono un valore esemplare: vi è una «visibilità in sé» che si forma nello stesso modo in cui due specchi posti di fronte generano infinite immagini racchiuse l’una nell’altra e irriducibili ad alcuna delle due superfici. È così, simmetricamente, che ogni teoria dell’immagine andrebbe formulata a partire dallo spazio di reversibilità che nomina l’ambivalenza dell’essere ed è così che la coincidenza di specchio e pittura non significherà mai più perfezione mimetica o primato della fedeltà ma esibizione estetica dell’’invisibile’ radice del senso in genere.12 Termino qui il brevissimo excursus storiografico, perché questo luogo o livello paradossale in cui la presenza esclusiva dell’immagine nella sua antimimeticità si intreccia con un’enigmatica fonte di senso, è esplicitamente oggetto di una notevole riflessione del tardo Barthes su cui mi sembra utile sostare a lungo.

3. Barthes e il tempo dell’immagine: il «punto» e il passato

In un passo de La camera chiara [CC], il suo ultimo testo (1980), Roland Barthes suggeriva infatti che l’essenza dell’immagine fotografica (o ciò che egli preferiva chiamare, con lessico mutuato dalla fenomenologia, il suo noema) non fosse tanto da censire al livello della presunta dicotomia tra illusione e realismo, tra codice e mimesis, quanto piuttosto a quello della forza documentale, cioè della sua capacità di fissare la dimensione temporale del passato: l’immagine fotografica sarebbe più affine alla «magia» (CC: 89) che ad una sorta di analogon del reale. Essa costituirebbe propriamente una sorta di emanazione del trascorso, un riemergere dal tempo anteriore, un reperto visibile: il segno di ciò che certamente è stato lì. Il fotografo, prima che operatore di mimesis, sarebbe una sorta di testimone:

Domandarsi se la fotografia sia analogica oppure codificata non è un buon criterio di analisi. L’importanza è che la foto possieda una forza documentativa, e che la documentatività della Fotografia verta non sull’oggetto, ma sul tempo. Da un punto di vista fenomenologico, nella fotografia il potere di autentificazione supera il potere di raffigurazione (CC: 90).

Naturalmente, un’idea di immagine come testimonianza pura del tempo passato, o come ostensione di un attimo afferrato e immobilizzato nella sua irrevocabilità, evoca immediatamente una delle più ossessive attrazioni di buona parte delle forme artistiche del secolo scorso: ad esempio la messa in scena dell’insostenibilità della nozione di temporalità cumulativa, lineare, evolutiva.13 Precisamente in questo senso infatti, nel proseguimento del discorso di Barthes, e all’interno di una comparazione assai significativa, il noema fotografico si contrapporrebbe a quello cinematografico come la ‘fissità’ della morte alla dynamis della vita, come l’irrigidirsi al movimento. A motivo infatti di un singolare paradosso fenomenologico — su cui torneremo più avanti — quanto più la fotografia sembra appartenere al regno dell’emanazione magica, cioè della promessa di una ‘riemersione’ del tempo anteriore, quanto più cioè essa sembra funzionare come una sorta di immagine dialettica del ritorno dai morti, tanto più il suo influsso su di noi (quel che in tutto il saggio Barthes chiama efficacemente il punctum: «puntura, piccolo buco, macchiolina, piccolo taglio — e anche impresa aleatoria. Il punctum di una fotografia è quella fatalità che, in essa, mi punge» [CC: 28]) appare lontanissimo da qualsiasi forma di vivificazione del nostro singolo vissuto. L’imago fotografica importerebbe infatti piuttosto una certa interruzione nell’esperienza del ricordo, uno straniamento delle sue qualità rammemorative o presentificanti, svelando così una problematicità, una crisi interna a quello stesso potere autentificante che in prima istanza sembrerebbe consegnarla alla diretta eredità del mito. È come se l’emozione fotografica, da un certo punto di vista almeno, fosse descrivibile come una passività radicale del nostro sentire. O meglio: come una sua passivazione. Più l’immobilità fotografica magicamente offre un torso intatto del passato (una sua diretta emanazione appunto) più sfugge al potere del codice, a ciò che Barthes chiama, altrettanto efficacemente, lo studium nella foto — e cioè la normatività, l’elemento esteriore/formale, lo stile in ultima analisi. Probabilmente proprio in questa singolare antidialettica tra «punctum» — ciò che mi tocca, il tatto, la presenza, la corposità della foto, la sua «posa» irripetibile — e «studium», il patrimonio estetico di essa, la «convenzione» formale (CC: 29), il suo «interesse storico» (CC. 58) si snoda il centro dinamico più affascinante del saggio. Ci torneremo più avanti.

Ma con ciò essa — sia pur per un attimo, o meglio, per il tempo della sua infrazione all’Erlebnis, all’esperienza vissuta di chi la guarda — si sottrae al potere, al primato, della lettera, alla volontà di illusione o di forma, aggirando il dominio della finzione e quindi in primis proprio il linguaggio e senz’altro ogni «letteratura» o letterarietà. Riformuliamo il problema ancora diversamente: più l’inequivoco potere magicamente sospensivo della tecnica fotografica si riversa sul fenomeno-tempo, più essa sembra esprimere senza mediazioni di codice la condizione, interamente non mitica, della nostra stessa presenza: l’intentio operis della foto, potremmo persino dire, è la certificazione di un certo destino spettrale della presenza in genere: «È proprio perché in essa c’è sempre questo segno imperioso della mia morte futura, che ogni foto, fosse anche apparentemente la più aderente al mondo eccitato dei vivi, viene a interpellare ciascuno di noi, uno per uno, al di fuori di qualsiasi generalità» (CC: 98).14

Torniamo però all’esempio più paradigmatico, al contrasto con l’immagine filmica. Scrive Barthes:

Nel cinema, ove il materiale è fotografico, la foto non ha però questa completezza […]. Perché? Perché la foto, presa in un flusso, è sospinta, trascinata verso altre visioni; […]. Come il mondo reale, anche il mondo il mondo filmico è sorretto dalla presunzione «che l’esperienza continuerà costantemente a fluire nello stesso stile costitutivo»; la Fotografia, invece, spezza «lo stile costitutivo» (questo è il suo stupore); essa è senza avvenire (questo è il suo lato patetico, il suo lato malinconico) (CC: 90).

Il cinema consentirebbe invece proprio una rappresentazione dell’essenza della memoria (e quindi il suo «flusso», il codice del suo senso, la direzione, la sintassi del futuro) nella misura in cui costituisce una riproduzione dell’esperienza presa nel suo tratto vitale per eccellenza: il continuum temporale. (Simmetricamente: da quest’angolatura è forse davvero reperibile nel cinema, persino nel più calligrafico, qualcosa come una radicale evidenza dell’elemento vivente — e non sarebbe forse che questa sua potenza analogica rispetto alla realtà, a farne probabilmente il più autentico deposito dell’immaginario collettivo delle nostre società).

All’inverso, abbiamo detto, la Fotografia avrebbe piuttosto a che fare con un «blocco» della dialettica e della sua naturale tensionalità (o anche della sua metaforicità, in un senso implicito ma non tematizzato nel discorso di Barthes). Tale blocco dell’immagine (non lontano dalla dialettica sospesa, «im Stillstand», in cui Benjamin scorgeva la stessa natura estetica della modernità15) sottende appunto l’apparizione di un totalità dell’immagine fotografica, una pienezza senza residui, la sua immanenza, ciò che Barthes chiama con forza il «tutto-immagine». Ecco un passo chiave:

Se la dialettica è quell’idea che domina il corruttibile e converte la negazione della morte in potenza di lavoro, allora la Fotografia è indialettica: è un teatro snaturato in cui la morte non può «contemplarsi», rispecchiarsi o interiorizzarsi; o anche: è il teatro morto della Morte, l’impedimento del Tragico (CC: 91).

Questo irrigidirsi della tensionalità sembra generato dunque proprio da un rapporto peculiare col tempo, da una sua singolare, violenta, contrazione:

Nella Fotografia […] il Tempo è ostruito […]. Non solo la Foto non è mai, in essenza un ricordo […], ma per di più essa blocca il ricordo […]. La Fotografia è violenta: non perché mostra delle violenze, ma perché ogni volta riempie di forza la vista, e perché in essa niente può sottrarsi e neppure trasformarsi (CC: 92).

Siamo al primo punto decisivo. La violenza dell’immagine (non solo di quella esibita in misura immanente dalla Fotografia) non è dunque nella sua dialetticità — nell’allusione, nel rimando, nel simbolo; non in una sorta di negativo hegeliano che implicherebbe un certo lavoro del lutto o una qualche forma di esercizio ermeneutico di decifrazione (da quest’angolatura la certezza della foto instaura persino una specie di «sospensione» dell’interpretazione: «io mi consumo nel constatare che ciò è stato» [CC: 107]). Da un lato infatti sarebbe la sua definitività, la certificazione immodificabile; ma dall’altro, e in misura più densa, sembra essere quasi la sua stessa monadicità — la chiusura alla relazione, il venir meno del simbolico in genere. L’essenza dell’immagine sottratta alla continuità, si direbbe, fa segno in Barthes piuttosto verso il mortuum, la negazione (l’ostruzione ripetiamo) dell’elemento vivente, e quindi verso l’allegoresi, la discontinuità, l’interruzione dell’organico. L’allusione della Foto a qualcosa d’altro da sé non si misura in altre parole sul terreno della polisemia, della stratificazione dei significati o sulla presenza di contenuti più o meno compressi in essa, ma su quello del rimando ad una dimensione che si nega all’articolazione linguistica, ad una zona ‘altra’ tout-court: la metafora dell’immobilizzazione del passato funziona probabilmente come indicazione indiretta di ciò che dona senso ad un’immagine e di ciò che ne segna il vero punto di specificazione rispetto alla mera raffigurazione. Fermare il passato non significa infatti salvarlo in una presenza vitale ed omogenea né, attivando dispositivi simbolici o metaforici, presentificarlo, rimemorarlo, riattivarlo in vista del futuro. Significa piuttosto cogliervi ciò in cui il senso stesso dell’immagine dimora: una sorta di fondo, di abisso (forse ancora in direzione del «chiasma» dell’ultimo Merleau-Ponty: l’abbraccio di visibile e invisibile), di negativo impresso, stagliato, innervato nel meccanismo stesso della sua autentificazione. Il punctum attesta infatti, come abbiamo già accennato, una sorta di irrimediabile infrazione al codice mimetico: è un «oggetto-feticcio» (CC: 44) la cui espansione in termini di senso è esclusivamente «metonimica» (CC: 49), scissoria — non più metaforica, non più riappropriativa: il punctum è un «particolare», una «striatura» sottratta all’insieme e in quanto tale segna una parzialità o finitezza rispetto all’organicità di una presunta visione perspicua. In un’altra prospettiva ancora: che la Foto rimandi sostanzialmente il punctum di un passato, e cioè la certificazione di una mortalità in genere, questo sarebbe in altre parole il senso e la «spettralità» che la contraddistingue. (Così l’accecante foto del condannato a morte pochi minuti prima dell’esecuzione sulla quale si sofferma Barthes, esibisce esemplarmente questo tratto spettrale della fotografia: di essere un’«immagine viva di una cosa morta» [CC: 80]). In termini assai diversi da quello letterario, il linguaggio fotografico è infatti significativo quanto più esibisce i limiti della rappresentazione e della significazione. Quando cioè, come abbiamo visto, interviene sul tempo, sul suo nucleo altrimenti imprendibile, sulla sua stessa implicitezza. Per ottenere un risultato affine il linguaggio — «fittizio» per sua natura (CC: 87) — dovrebbe costringersi invece ad un gigantesco surplus di lavoro: è come se dovesse sottoporsi ad un doppio sforzo per produrre l’effetto che la foto genera in un istante; è come se dovesse prima inscenare l’immane armamentario che mira a renderlo «infittizio», realistico, denotativo (ad esempio appellandosi alla mimesi, alla logica e, in senso estremo, alla dimensione del «giuramento» [CC: 87]) per poi dall’interno (come in ogni grande letteratura) operarne una decostruzione, e quindi smontare, sovvertire lo stesso castello mimetico sui cui s’è edificato. (Così «il non poter autentificarsi da sé» costituisce la dannazione, la «sventura» del linguaggio — ma forse anche, allo stesso tempo, «la sua «voluttà» [CC: 86]).

Il punctum che si offre allo sguardo dota invece sempre la Fotografia di un «campo cieco», di una ‘esteriorità’ intensamente effrattiva. La differenza tra foto erotica e pornografica di cui discute a un certo punto Barthes, ad esempio, andrebbe così ricercata proprio nell’assenza di punctum della seconda: e cioè nella sua totale omogeneità. Ma l’eccesso, il ‘di più’ di immaginazione richiesto dalla fotografia autentica, funziona soltanto nella misura in cui il suo punctum verte alla fine sempre in qualche modo sull’elemento temporale: l’ostruzione dello sguardo del fruitore nel momento in cui l’immagine fotografica gli si mostra stipata, piena, integrale (il «tutto-immagine» di cui dicevamo prima) può intagliare la presenza più che compattarla proprio in quanto mette in moto un rapporto singolare tra l’osservatore e la temporalità puntuale còlta nella fotografia. Nell’immagine erotica viene oltrepassata nettamente la falsa totalità di quella pornografica in quanto in essa il punctum agisce come una sotterranea diversione, come un paradossale punto di fuga: «una specie di sottile fuori-campo, come se l’immagine proiettasse il desiderio al di là di ciò che essa dà a vedere: non solo verso il “resto” della nudità, non solo verso il fantasma di una pratica, ma anche verso l’eccellenza assoluta di un essere, anima e corpo confusi insieme» (CC: 60). Ma tale diversione è in ultima analisi proprio legata alla capacità del fotografo ‘erotico’ di cogliere un istante privilegiato del tempo del desiderio: «Il fotografo ha colto il momento giusto, il Kairos del desiderio». (CC: 60). Un Kairos, vale a dire il tempo debito, l’antica Occasio: l’esibizione unica dell’emanazione di un trascorso che interrompe il reticolo temporale evolutivo della nostra presenza, smontandone la tenuta stessa, la vivificazione. La stessa immanenza della Foto mostra in altre parole una ‘differenza’ di fondo attiva nell’intérieur di certe immagini esemplari: e cioè la violenza che esplode nell’impatto tra la loro capacità di autentificare torsi reali del tempo, segni di morte o attimi di desiderio sottratti al flusso quotidiano, e la presunta integrità della nostra soggettività; tra la loro natura effrattiva e l’apparente continuità della nostra coscienza percettiva.

4. Immagine, idolo, absenso: la prospettiva di Nancy

Il complesso rapporto tra la pienezza, l’immanenza, la stabilità dell’immagine e il suo fondo implicito, il punto di fuga, tra l’apparenza perfetta e totale e la sua violenza nascosta è anche al centro di una notevole riflessione che Jean-Luc Nancy conduce da anni e che ha trovato una affascinante formulazione in una serie di saggi recenti, tra i quali in particolare la conferenza su La rappresentazione interdetta [RI]. Oggetto (a molti livelli) dell’interrogazione di Nancy è in questo saggio proprio il rapporto tra immagine e violenza, tra forma e violazione: è possibile rappresentare e comunicare l’irrappresentabile, ciò che si sottrae naturalmente alla mimesi, e cioè la violenza assoluta — ad esempio l’olocausto? Su questo spunto egli costruisce un’acuta prospettiva ermeneutica fornendo al contempo un’originale ricostruzione sulla storia concettuale dell’immagine estetica. Non potendo ovviamente riassumere se non indirettamente il complesso percorso filosofico di Nancy (che risente da un lato degli influssi della decostruzione di Derrida — di cui è stato allievo — e dall’altro di originali innesti tratti dalla psicoanalisi di Lacan e dalla teoria della differenza di Deleuze) ci limiteremo, nel corso dell’esposizione, a fissare solo alcune linee di base.16

L’assunto di Nancy è che la cultura occidentale sia stata segnata da due fenomeni complementari e parimenti decisivi: per un verso da una scissione di fondo nell’interpretazione del fenomeno dell’immagine che trova il suo atto d’origine nel fenomeno dell’iconoclastia, e che si esprime nella dualità ontologica idolo/immagine; per l’altro, dall’alleanza intervenuta successivamente proprio tra la tradizione ebraico-cristiana della censura delle immagini e la cultura greca, cioè dalla «saldatura» tra il divieto della rappresentazione divina e la condanna platonica dell’arte e della scrittura. Attraverso una perspicua reinterpretazione del divieto di farsi immagine (l’iconoclastia appunto) di derivazione biblica e un riesame della dottrina platonica della mimesis, Nancy sostiene infatti che ciò che unisce il divieto di raffigurare il divino e la condanna platonica delle arti imitative sia ravvisabile in una medesima ostilità nei confronti di un certo tipo di immagine, e non dell’immagine tout-court. L’immagine oggetto della proscrizione è infatti quella che si fa «idolo» (eidolon), immagine falsa. E cos’è un idolo, per la coscienza filosofico-religiosa dell’Occidente greco-ebraico-cristiano? Scrive Nancy:

Ciò che viene condannato è ciò che non è «immagine di», ma presenza affermata, presenza pura in qualche modo, presenza massiccia che si riduce al suo esser-là […]. L’idolo non viene condannato perché copia o immagine che imita, ma perché è presenza piena, spessa, presenza di o in un’immanenza in cui nulla si apre […] e da cui nulla si separa (RI: 60).17

Ciò significa che il precetto del divieto di rappresentare il divino (che va appunto considerato come uno degli atti fondativi della cultura visiva dell’Occidente) dal punto di vista dell’interpretazione iconoclasta implica un rifiuto delle immagini solo in quanto ne implica allo stesso tempo una certa interpretazione: ciò che diviene oggetto di interdizione, di negazione, di ostruzione è infatti soltanto l’immagine priva di senso, di tensione, di allusione: la forma da cui non traluce mai più il ‘riflesso’ dell’oggetto imitato. Nella «stupidità dell’idolo» di cui dice Nancy, non parla affatto il divino (contrariamente a quanto invece è lecito supporre in tutta una concezione dell’arte classica come espressione simbolica: la scultura attica — secondo una linea interpretativa che copre l’intera estetica romantica — sembra esibire proprio una sorta di raccoglimento, di simbolo, di riunificazione del divino nelle forme: l’immagine di un dio in un involucro sensibile è sempre anche la presenza di quel dio in esso18). Scrive ancora Nancy:

L’immagine svilita in quanto seconda, imitatrice e quindi inessenziale, derivata e inanimata, inconsistente e ingannevole: niente ci è più familiare di questo tema. Per tutta la storia dell’Occidente, esso risulta dall’alleanza che è avvenuta (e che, probabilmente, ha suggellato l’Occidente in quanto tale) tra il precetto monoteista e il tema greco della copia e della simulazione, dell’artificio e dell’assenza dell’originale. È evidentemente da quest’alleanza che derivano, fino a noi, una diffidenza verso le immagini, anche in seno ad una cultura che ne produce a profusione, il sospetti nei confronti delle «apparenze», o dello «spettacolo» e una certa critica compiacente della «civiltà delle immagini». Così come ne derivano, a contrario, tutte le operazioni di difesa e di celebrazione delle arti, e tutte le fenomenologie (RI: 61).

Se dunque il peccato originale dell’Occidente si oblia in una ambiguità che accompagna la sua storia dall’inizio, bisognerà comprendere come tale ambiguità sia in realtà legata proprio alla natura dell’immagine autentica, al potere di ciò che non potrà confondersi con l’idolo. L’apparenza non idolatrica è infatti secondo Nancy proprio quella in cui il senso prospetta un «absenso», un’implicitezza, una inesauribilità di fondo: il termine «absens» in latino significa infatti anche ‘morto’, ‘trapassato’: l’autenticità dell’immagine sembrerebbe dunque ancora una volta legarsi inscindibilmente ad una certa ritrazione della presenza, ad una sua costitutiva mortalità/invisibilità. (Da questo punto prospettico peraltro la paradossale ‘donazione’ di senso che proviene dall’immagine non idolatrica non è affatto lontana dallo specifico che Barthes amava nella fotografia: il suo essere propriamente un «certificato di morte»). Scrive Nancy: «Se l’absenso condanna la presenza che si dà come completezza di senso, l’idea svilisce l’immagine sensibile che non è altro che il suo riflesso, e il riflesso degradato di un’immagine più alta. L’absenso apre il suo ritrarsi nel mondo stesso, e l’immagine sensibile indica l’idea o ne è l’indice» (RI: 62). Secondo una prospettiva già per certi versi magistralmente delineata da Panofsky in un celebre saggio,19 la tradizione visiva occidentale è profondamente doppia, ambivalente: stupidità d’idolo, simulacro, mera riproduzione da un lato; absenso, inesauribilità, metamorfosi, eccedenza del sensibile dall’altro:

se può essere la preda di operazioni d’intimidazione idolatrica […] è anche vero che ciò che è stata chiamata arte è stata il contrario di una fabbricazione di idoli e tutto il contrario di un impoverimento del sensibile: non una presenza massiccia e tautologica al cui cospetto prosternarsi, ma la presentazione di un’assenza aperta nel dato stesso, sensibile della cosiddetta opera d’arte. E questa presentazione si è chiamata rappresentazione. La rappresentazione non è un simulacro: non è la sostituzione della cosa originale — in verità non si riferisce a una cosa: è la presentazione di ciò che non si riduce a una presenza data e compiuta (o data come compiuta), oppure è la messa in presenza di una realtà (o di una forma) intelligibile attraverso la mediazione formale di una realtà sensibile (RI: 63).

Qualche pagina più avanti, questo nesso tra l’apertura di significati e la natura assente, mortale, ritraente ma proprio in ciò profondamente creativa dell’immagine come absenso (un nesso in cui non è difficile scorgere un’estrema variante del conflitto mondo/terra teorizzato da Heidegger20) viene addirittura messo in relazione alla totalità di atteggiamenti della nostra cultura nei confronti dell’immagine:

Tutta la storia della rappresentazione — tutta la febbrile storia delle gigantomachie della mimesi, dell’immagine, della percezione, dell’oggetto e della legge scientifica, dello spettacolo, dell’arte, della rappresentazione politica — è attraversata quindi dalla divisione dell’assenza, che si scinde tra l’assenza della cosa (questione della sua ri-produzione) e l’absenso nella cosa (questione della sua rap-presentazione) (RI: 69).

A questo livello di riconsiderazione genealogica della nostra tradizione visiva, assume una luce nuova proprio il problema della rappresentazione della violenza: il campo di sterminio — l’oggetto della seconda parte del saggio di Nancy — costituirebbe letteralmente l’irrappresentabile, l’inestraibile dal senso, proprio nella misura in cui esso ha storicamente esemplificato un impulso a non lasciare resti, né mai più segni o simboli di alcun genere: ad Auschwitz l’Occidente, lascia intendere Nancy, è infatti probabilmente giunto a toccare una sua specifica estremità logico-storica: «la volontà di una rappresentazione senza resti, senza scavo o senza ritrarsi, senza linee di fuga. […]. Ciò significa che è proprio in seno alla nostra storia occidentale che è sorto […] e si è scatenato questo “stretto contrario”, questa contrazione stravolta e rivoltante di noi stessi» (RI: 79). Non ci è possibile osservare l’orrore dei campi e trasporli in immagine, cioè rappresentarli senza che la loro realtà sfugga nel momento stesso in cui la si cerca di fissare: l’effettività dello sterminio è infatti tutta compresa nella sua stessa esecuzione, in quell’unità tra gesto ed evento che è poi uno dei più accecanti impulsi dei totalitarismi di ogni sorta: «Non c’è immagine possibile perché non c’è cancellazione reale e non ce n’è perché mondo che ha fatto Auschwitz è ancora il nostro mondo, è ancora la storia terminale, forse interminabile, dell’Occidente» (RI: 86).

Non sfugge come il senso di queste riflessioni di Nancy, solo apparentemente marginali rispetto alla questione stricto sensu estetica dell’immagine, sia direttamente collegato a questioni assai rilevanti per un’ermeneutica dell’attuale proliferazione mediatica, e costituiscono una presa di posizione interessante anche nei confronti della tanto celebrata erosione del principio di realtà operata dalle nuove tecnologie. La questione potrebbe infatti formularsi in questi termini: il declino della dimensione ‘ab-sente’ dell’immagine che sembra segnare il più tardo tratto della storia estetica dell’Occidente ci sospinge oggi soltanto dinanzi alla banalità dell’idolo, al trionfo del simulacro, della apparenza nuda — a quell’eccesso di foto senza punctum, di immagini stereotipate di cui diceva Barthes, e quindi all’arresto di qualsivoglia punto di fuga, di qualsivoglia ulteriorità? Gli esiti della civiltà dell’immagine stanno introducendo fenomeni di chiusura della rappresentazione e di esaurimento dell’interpretazione? Oppure al contrario potrebbero costituire una dimensione nuova in grado finalmente di ospitare una ‘visibilità’ totale, immanente e liberata — cioè sottratta alla necessità del simbolo, del senso, dell’ulteriorità? Può in altre parole l’attuale società mediale sviluppare ancora un rapporto in qualche misura ‘squilibrante’ (e quindi, seguendo tutta la tradizione che abbiamo esaminato, implicitamente liberatorio) con l’immagine — sia nel senso di Barthes (immagine come messa in mostra della crisi stessa della nostra presenza) che in quello di Nancy (immagine come esibizione dell’apertura all’abisso del senso, e quindi alla potenza inesauribile del sensibile)? O in altri termini ancora: possono le immagini ancora, etimologicamente, commuoverci?21

5. Al di là dell’immagine? Conclusioni sull’arte digitale

Sono temi su cui si discute da tempo e che si offrono alle più diverse e non di rado dicotomiche interpretazioni. Da parte di una certa estetica militante22 viene dato estremo risalto all’aspetto radicalmente innovativo, alla svolta epistemica e antropologica rappresentata dal dominio delle nuove tecnologie. L’immagine digitale sembra caratterizzata da una facoltà di «autogenesi» assolutamente innovativa nonché da una «immaterialità» che la sottrarrebbe definitivamente alla tradizionale questione della sua riproducibilità, inaugurando un rapporto assolutamente inedito e potenzialmente sovversivo sia con la temporalità che con l’universo cognitivo del soggetto. Nel passaggio logico-storico dalla fotografia al cinema tradizionale all’immagine digitale/numerica (post-filmica e/o post-fotografica) si sarebbe compiuto un processo di «smaterializzazione» che incrinerebbe ogni vecchia e nuova ontologia: «le immagini numeriche sono, ancora più che immateriali, mentali nella loro essenza risultando esse da un trattamento logico/matematico delle informazioni di partenza; l’immagine digitale è nient’altro che la visualizzazione di un lavoro logico/matematico, qui l’energia e la luce cessano di appartenere al mondo fisico e vengono assimilate all’universo mentale delle procedure logiche e dei modelli linguistici».23 Di qui al profilarsi di una mutazione antropologica in cui la stessa liberazione ‘luminosa’ dell’immagine diventa metafora di un diverso rapporto fenomenologico con la realtà esterna il passo è breve: le nuove immagini sarebbero delle «entità assolutamente nuove la cui dimensione ontologica sembra essere colta dalla definizione […] di epifanie ritratte in sé»,24 cioè di celebrazione della loro stessa proliferazione, dal trionfo di una specie di ‘sensibile’ di secondo grado, da un’eccedenza non più simbolica di cui sarebbe ancora difficile cogliere i tratti dominanti: «Le “nuove immagini” sconvolgono gli equilibri e i piani dell’ontologia: con esse l’oggetto dell’intuizione intellettuale si lascia cogliere nelle forme sensibili dell’apparire e per la prima volta si offre allo sguardo risplendendo nel modo più puro».25

Va da sé che in queste celebrazioni della luce digitale come pura immanenza sembra trovare una difficile collocazione proprio il problema della spettralità dell’immagine (cioè del suo spazio invisibile, del punto di fuga, dell’absenso) che abbiamo trattato sinora. Da un lato non è certo escluso che una genealogia del rapporto, tutt’altro che ovvio, tra l’attuale proliferazione di presunti tracciati immateriali e la dimensione (quasi rimossa) della loro potenziale materialità, una genealogia quindi del concetto assai problematico di ‘spazio’ digitale, possa rivelare comunque la persistenza di una soglia di intreccio tra visibile e invisibile che ridurrebbe il gran mondo mediatico ad una ennesima variante della nostra lunghissima storia di opposizioni concettuali (lo schermo digitale, sia pur con modalità nuove, segnerebbe ancora uno spazio dell’incisione, dell’esteriorità e della scrittura in cui poter inserire il tradizionale gioco di presenza e assenza, di fissazione e scomparsa che caratterizza, ad esempio da un punto di vista grammatologico, l’instaurarsi stesso del ‘senso’).26 Dall’altro, e al di là del tono talora eccessivamente «tecnoutopistico»27 di tante celebrazioni affini, questa terminale ipotesi sul ribaltamento del destino dell’immagine nell’universo mediale potrebbe collocarsi invece a livello della necessità di accettare come definitiva proprio la ‘chiusura’ logico-storica delle coppie antinomiche che hanno originato tutte le inquietudini del nostro rapporto con l’immagine (copia/realtà, sensibile/soprasensibile, simbolo/simulacro, allegoria/stereotipo e così via). Da questo punto di vista forse il lento ma inequivocabile dileguare del senso dell’immagine estetica, la caduta interminabile della sua stessa esemplarità, potrebbero spingere ad una a sua volta interminabile rielaborazione, anche in termini artistici, dell’impulso che per millenni ha condotto a postulare — di quel senso — l’indiretta necessità.

6. Nota bibliografica

  • AA.VV., La scena immateriale. Linguaggi elettronici e mondi virtuali, Costa & Nolan, Roma 2000.
  • R. Ascott, De l’apparence à l’apparition: communication et coscience dans la cybersphère, in «terminal», Paris, L’Hrmattan, 1994 (63).
  • R. Barthes (1980), La camera chiara, Einaudi, Torino 1980.
  • W. Benjamin, Parigi capitale del XX secolo, Einaudi, Torino 1985.
  • R. Berger (1991), Il nuovo golem. Televisione e media tra simulacri e simulazione, Raffaello Cortina Editore, Milano 1992.
  • M. Carboni, Il sublime è ora. Saggio sulle estetiche contemporanee, Cooper & Castelvecchi, Roma 2003.
  • G. Carchia, L’estetica antica, Bari, Laterza 2000.
  • —, Arte e bellezza. Saggio sull’estetica della pittura, Il Mulino, Bologna 1995.
  • A. Compagnon (1990), I cinque paradossi della modernità, Il Mulino, Bologna 1993.
  • M. Costa, Della fotografia senza soggetto. Per una teoria dell’oggetto tecnologico, Costa & Nolan, Roma 1997.
  • P. D’Angelo, L’estetica del romanticismo, Il mulino, Bologna 1997.
  • G. Deleuze, La filosofia critica di Kant, Cronopio, Napoli, 1997.
  • G. Deleuze — F. Guattari (1991), Che cos’è la filosofia?, Einaudi, Torino 2002.
  • G. Didi-Hubermann, Ouvrir Venus. Nudité, rêve, cruauté, Gallimard, Paris 1999.
  • M. Foucault, Dits et écrits 1954-1988, vol. I, Gallimard, Paris 1994, trad. it. Questo non è una pipa, SE, Milano 1980.
  • P. Fresnault-Deruelle, L’éloquence des images, PUF, Paris 1993.
  • H.-G. Gadamer (1960), Verità e metodo, Bompiani, Milano 1992.
  • P. Gambazzi, Monadi, pieghe e specchi. Sul leibnizianesimo di Merleau-Ponty e Deleuze, in «Chiasmi», pubblicazione della Società di studi su Maurice Merleau-Ponty, n. 2, Mimesis, Milano 1997.
  • —, Introduzione a Hegel, Arte e morte dell’arte, Bruno Mondadori, Milano, 1997.
  • —, L’occhio e il suo inconscio, Raffaello Cortina, Milano 2003.
  • E. Garroni, Estetica ed epistemologia. Riflessioni sulla Critica del giudizio, Bulzoni, Roma 1977.
  • —, Estetica. Uno sguardo attraverso, Garzanti, Milano 1992.
  • M. Heidegger (1936), Origine dell’opera d’arte, in Sentieri interrotti, La Nuova Italia, Firenze, 1989.
  • R. Kevin (1996), Oltre l’immagine. Politiche culturali nei territori visivi, Costa & Nolan, Roma 1999.
  • M. Iversen, What is a photograh?, in «Art History» (17) 1994.
  • P. Le/vy (1994), L’intelligenza collettiva, Feltrinelli, Milano 2002.
  • — (1996), Cybercultura. Gli usi sociali dei nuovi media, Feltrinelli, Milano 2001.
  • J.-L. Marion, L’essere, l’idolo, il concetto in AA.VV., Di-segno. La giustizia nel discorso, Jaca Book, Milano 1984.
  • G. Marramao, Potere e secolarizzazione. Le categorie del tempo, Editori Riuniti, Roma 1985.
  • M. Merleau-Ponty (1964), Il visibile e l’invisibile, Bompiani, Milano 2002.
  • J.-L. Nancy — F. Ferrari, La pelle delle immagini, Boringhieri, Torino 2003.
  • J.-L. Nancy (2002), La rappresentazione interdetta in Tre saggi sull’immagine, Cronopio, Napoli 2003.
  • E. Panofsky (1924), Idea. Contributo alla storia dell’estetica, La Nuova Italia, Firenze 1989.
  • G. Quinto, Differenza della retorica. Un confronto tra ontologia e decostruzione, Morlacchi, Perugia 2003.
  • —, Altre totalità. Linee per una genealogia concettuale di Internet in «Dialegesthai. Rivista telematica di filosofia» [in linea], anno 5 (2003), disponibile sul Web: <https://mondodomani.org/dialegesthai/&gt;.
  • R. Ronchi, La scrittura della verità. Per una genealogia della teoria, Jaca Book, Milano 1997.
  • D. Tarizzo, Il pensiero libero. La filosofia francese dopo lo strutturalismo, Raffaello Cortina Editore, Milano 2003.
  • G. Vattimo, La fine della modernità, Garzanti, Milano 1985.
  • H.O. Wendell (1994), Il mondo fatto immagine. Origini fotografiche del virtuale, Costa & Nolan, Roma 1995.

  1. Per un primo approccio alla letteratura critica sull’argomento mi limito a indicare solo i seguenti contributi (quasi tutti facilmente reperibili in lingua italiana): AA.VV., La scena immateriale. Linguaggi elettronici e mondi virtuali, Costa & Nolan, Roma 2000; M. Carboni, Il sublime è ora. Saggio sulle estetiche contemporanee, Cooper & Castelvecchi, Roma 2003; M. Costa, L’estetica dei media. Avanguardie e tecnologia, Castelvecchi, Roma 1999; Id., Della fotografia senza soggetto. Per una teoria dell’oggetto tecnologico, Costa & Nolan, Roma 1997; R. Kevin, Oltre l’immagine. Politiche culturali nei territori visivi, Costa & Nolan, Roma 1999; P. Fresnault-Deruelle, L’éloquence des images, PUF, Paris 1993; P. Lévy, L’intelligenza collettiva. Per un’antropologia del cyberspazio, Feltrinelli, Milano 2002; H.O. Wendell, Il mondo fatto immagine. Origini fotografiche del virtuale, Costa & Nolan, Roma 1995.. ↩︎

  2. Sulla questione del ‘terzo genere’ nelle sue diramazioni dal Timeo platonico alle fenomenologie novecentesche, rimando allo studio di E. Ferrario, Il lavoro del tempo, Guerini Studio, Milano 1997, pp. 47-104. ↩︎

  3. Cfr. M. Foucault, Questo non è una pipa, SE, Milano 1988, pp. 46-47. ↩︎

  4. Per una accurata ricostruzione del problema della mimesis in Platone, specie in rapporto alla questione dell’immagine, rimando a G. Carchia, L’estetica antica, Bari, Laterza 2000, pp. 59-101. ↩︎

  5. Cfr. M. Foucault, Questo non è una pipa, op. cit., p. 47. ↩︎

  6. Su questo tema cfr. l’articolata ricostruzione di P. Gambazzi, L’occhio e il suo inconscio, Raffaello Cortina, Milano 2003, che è anche alla base di queste nostre considerazioni iniziali. ↩︎

  7. «Che l’immagine abbia una sua realtà significa, per l’originale, che proprio nella rappresentazione esso si presenta. Nell’immagine, l’originale presenta se stesso. […] Ogni rappresentazione di questo tipo è un evento ontologico, e entra a costituire lo stato ontologico del rappresentato. Nella rappresentazione, questo subisce una crescita nell’essere, un aumento d’essere». Cfr. H.-G. Gadamer (1960) Verità e metodo, Bompiani, Milano 1992, p. 175. ↩︎

  8. Sul legame tra la dimensione epistemologica e quella estetica nella terza critica kantiana, cfr. gli ormai classici studi di E. Garroni tra cui Estetica ed epistemologia. Riflessioni sulla Critica del giudizio, Bulzoni, Roma 1977 e il più recente Estetica. Uno sguardo attraverso, Garzanti, Milano 1992. ↩︎

  9. Per la lettura deleuziana di Kant il testo di riferimento è G. Deleuze, La filosofia critica di Kant, Cronopio, Napoli, 1997. ↩︎

  10. Sono temi ampiamente trattati nella produzione più recente di Deleuze. Cfr. G. Deleuze — F. Guattari, Che cos’è la filosofia? (1991) Einaudi, Torino 2002. Sul problema dell’immagine in Deleuze — anche in relazione alle teorie dell’immagine filmica — cfr. il recente volume di D. Tarizzo, Il pensiero libero. La filosofia francese dopo lo strutturalismo, Raffaello Cortina Editore, Milano 2003, pp. 27-55. ↩︎

  11. Penso ad esempio al lavoro di G. Didi-Hubermann, Ouvrir Venus. Nudité, rêve, cruauté, Gallimard, Paris 1999 ed a quello di L. Nancy-F. Ferrari, La pelle delle immagini, Boringhieri, Torino 2003. ↩︎

  12. Sul significato ontologico della metafora del chiasma (che occupa tutta la quarta sezione de Il visibile e l’invisibile) cfr. le importanti considerazioni di G. Carchia, specie in riferimento all’immagine pittorica: «L’esperienza artistica è una destrutturazione delle costruzioni metafisiche, in quanto individuazione dell’ambito di senso dove vengono meno le contrapposizioni fra io e mondo, fra soggetto e oggetto. Più del linguaggio, la pittura ha il privilegio di poter affermare questa “sorgività”. È nel suo spazio che, soprattutto, si rivela l’intreccio ontologico di visibile e invisibile, il fatto che il senso sorga sempre come un “incavo”, come una “faglia” dell’essere». G. Carchia, Arte e bellezza, Il mulino, Bologna 1995, p. 120. ↩︎

  13. Che peraltro la nozione di modernità tout-court (non solo dunque la modernità ‘estetica’) tenda spesso ad autodefinirsi come presa d’atto di una specifica rottura della temporalità tradizionale è un tema largamente diffuso nell’ermeneutica contemporanea. Mi limito a citare, per ciò che attiene a questo lavoro, il volume di A. Compagnon, I cinque paradossi della modernità (1990) Il Mulino, Bologna 1993 (vedi in particolare le pp. 125-153) e, per una sintesi più filosofica, G. Marramao, Potere e secolarizzazione. Le categorie del tempo, Editori Riuniti, Roma 1985 oltre ai classici studi di G. Vattimo, tra cui La fine della modernità, Garzanti, Milano 1985. ↩︎

  14. È appena il caso di ricordare che questo fortunato motivo della presenza ‘spettrale’, della struttura naturalmente postuma o moritura della soggettività, appartiene ad una più ampia costellazione concettuale molto diffusa nel pensiero francese contemporaneo, specie nell’area post-strutturalista. Si tratta di un plesso tematico sviluppatosi all’incrocio tra la fenomenologia di Husserl, l’ontologia del tardo Heidegger e la psicoanalisi di Lacan, e risulta centrale in autori come Derrida, Lyotard, Lacoue-Labarth, Nancy, oltre naturalmente allo stesso Barthes. Su questi temi mi permetto di rimandare al mio volume: Differenza della retorica. Un confronto tra ontologia e decostruzione, Morlacchi, Perugia 2003. Per quanto riguarda invece nello specifico il testo di Barthes, cfr. il lavoro di M. Iversen, What is a photograh? , in «Art History» (17) 1994. ↩︎

  15. «Non è che il passato getti la sua luce sul presente o il presente la sua luce sul passato, ma immagine è ciò in cui quel che è stato si unisce fulmineamente con l’ora in una costellazione. In altre parole, immagine è la dialettica nell’immobilità». È la più nota definizione benjaminiana dell’immagine dialettica. Cfr. W. Benjamin, Parigi capitale del XIX secolo, Einaudi, Torino 1986, p. 599. ↩︎

  16. Gli altri lavori di Nancy direttamente legati alle tematiche qui affrontate sono: Immagine e violenza e L’immagine — Il distinto, entrambi raccolti, assieme a La rappresentazione interdetta, in un trittico apparso in italiano con il titolo: Tre saggi sull’immagine, Cronopio, Napoli 2002. ↩︎

  17. Per un’interpretazione più specificamente ‘teologica’ del rapporto tra idolo e immagine rimando al denso studio di J. L. Marion, L’essere, l’idolo, il concetto in AA.VV., Di-segno. La giustizia nel discorso, Jaca Book, Milano 1984, pp. 169-219. ↩︎

  18. Su questi temi, sul rapporto simbolo/allegoria nell’estetica romantica, cfr. P. D’angelo, L’estetica del romanticismo, Il mulino, Bologna 1997, pp. 135-137. ↩︎

  19. Mi riferisco a E. Panofsky (1924), Idea. Contributo alla storia dell’estetica, La Nuova Italia, Firenze 1989. ↩︎

  20. Sul carattere chiuso, riposto, ctonio della nozione di «terra» (Erde), rispetto a quello inaugurale, produttivo ed espositivo del «mondo» (Welt) in Heidegger, il riferimento non può che essere alle note definizioni: «Il mondo è l’autoaprentesi apertura delle ampie vie delle opzioni semplici e decisive nel destino di un popolo storico. La terra è la non costretta apparizione del costantemente autochiudentesi, cioè del coprente-custodente». Cfr. M. Heidegger, Origine dell’opera d’arte, in Sentieri interrotti, La Nuova Italia, Firenze, 1989, pp. 33. 34. ↩︎

  21. È questo anche il titolo di un saggio di Kevin Robins (in Oltre l’immagine. Cultura e politica della visione, op. cit., pp. 201-229) tra i più autorevoli studiosi delle metamorfosi dei nuovi media e su posizioni di esplicita contrapposizione all’utopismo tecnologico che accompagna spesso, talora assai ingenuamente, l’acceso dibattito sulla natura e sui destini della tecnologia contemporanea. ↩︎

  22. Penso soprattutto al lavoro di M. Costa, L’estetica dei media, op. cit. (di cui cfr. soprattutto le pp. 272-296) ed a quello di R. Ascott, De l’apparence à l’apparition: communication et coscience dans la cybersphère, in «terminal», Paris, L’Harmattan, 1994 (63), pp. 27-36. ↩︎

  23. M. Costa, L’estetica dei media, op. cit., p. 277. ↩︎

  24. Ibidem, p. 279. ↩︎

  25. Ibidem., p. 280. ↩︎

  26. Alla sospetta continuità, ancora tutta da esplorare, tra testo classico e testo virtuale — sostenuta da una comune aspirazione all’«oggettività ideale» della presentazione del ‘senso’ — sembra accennare R. Ronchi in un lavoro assai suggestivo: La scrittura della verità. Per una genealogia della teoria, Jaca Book, Milano 1997, specie alla nota 1 delle pp. 46-47. ↩︎

  27. La definizione è di K. Robins, Oltre l’immagine, op. cit., p. 20. ↩︎